Sacrifici umani, di María Fernanda Ampuero

Autore: María Fernanda Ampuero
Titolo: Sacrifici umani
Editore: gran vía
Traduzione: Francesca Lazzarato
pp. 148 Euro 14,00


di Beatrice La Tella

 

Che cos’è un sacrificio umano? Storicamente il termine fa riferimento all’atto di uccidere una o più persone, seguendo precise istruzioni rituali, in offerta propiziatoria a una o più divinità. Non c’è vendetta in un sacrificio umano, né giustizia, nessuna precisa espressione terrena riesce a contenerne la portata, nessuna legge può scandirlo al di là di un unico dogma: l’accettazione dell’ineluttabile. Forze terribili e potenti trascendono la comprensione e si può solo tentare di placarle, in una violenta ricerca di significato destinata a rimanere – almeno a livello razionale – insoddisfatta.
Che cos’è invece Sacrifici umani? Una raccolta di racconti della scrittrice ecuadoriana María Fernanda Ampuero, edita da gran via nella traduzione di Francesca Lazzarato, ma anche un piccolo, inquietante grimorio. Seconda incursione nella narrativa breve da parte di Ampuero dopo Pelea de gallos (2018) e i due libri di cronache non-fiction Lo que aprendí en la peluquería (2011) e Permiso de residencia (2013), Sacrifici umani è l’opera che la colloca in via definitiva tra le voci più importanti della narrativa latino-americana contemporanea.
Il volume è esile, si compone di dodici racconti che non superano il totale di centocinquanta pagine, ma sprigiona una grande potenza linguistica e narrativa. A farsene autentico proemio è la frase scelta come epigrafe: «Scrivere è anche benedire una vita che non è stata benedetta». La formula appartiene a Clarice Lispector, autrice che dell’assoluta intensità ha fatto la propria poetica, evocata in apertura da Ampuero come musa e nume tutelare.
I racconti di Sacrifici umani si concentrano su vite, appunto, tutt’altro che benedette. Protagoniste assolute sono figure che vivono ai termini ultimi della società: deboli, dimenticate, reiette, vittime per definizione e per definizione condannate al silenzio. È l’autrice a interrompere la maledizione e a restituire ai suoi personaggi la voce, la possibilità di esistere nel raccontarsi, sopravvivere osando pronunciarsi e così cercare forme inedite di riscatto. Le storie sono tutte vicende di marginalizzazione, spesso strutturata su più livelli. Per la protagonista del racconto Biografia, il torto da subire è doppio, in una dimensione di orrore crescente in cui può solo fatalmente avanzare:


Noi donne disperate siamo carne per il macinato. Noi immigrate, poi, siamo l’osso che si tritura per nutrire gli animali. La cartilagine del mondo. Nient’altro che cartilagine.

 

Altro riverbero del rifiuto investe le ragazze di Prescelte, giovani e libere ma non belle, non interessanti, non giuste, ragazze che sono soltanto esclusione e struggimento.


Volevamo, volevamo, volevamo. Eravamo puro desiderio. E pura collera. Sarebbe arrivato il giorno, sissignore, in cui tutti si sarebbero accorti di noi e avrebbero detto a chiunque fosse in grado di ascoltare: amatele. Amatele, l’ordine avrebbe percorso la terra» – in cui l’unica speranza di riscatto passa da un terrificante sabba necrofilo. O ancora le protagoniste di Sorellina, ciascuna con la sua condanna da scontare: «Le ragazzine grasse si nutrono di delusioni. Le ragazzine affamate si nutrono di impotenza. Le ragazzine solitarie si nutrono di dolore. E sempre, sempre, le ragazzine mangiano abissi.

 

L’abisso è un regno da incubo, humus fertile su cui germoglia ciascun racconto. Il culmine di ogni storia è in effetti una sorta di buia illuminazione, ascritta a differenti gradi di realismo: concreta come in Pietà, Edith, Lorena, in cui è più semplice trovare l’origine dell’oscurità (spesso incarnata da una figura maschile violenta o da una relazione malsana), o dall’impostazione più allegorica, in cui la narrazione si ibrida di elementi surreali costruendo una propria mostruosa mitologia popolare (come in Fischia) o si innesta su leggende ancestrali (come in Sacrifici). Ogni volta l’impatto è deflagrante, distruttivo, un’autentica riscrittura del mondo che si risemantizza alla luce della scoperta, di nuove indesiderate consapevolezze:

 

«In ogni vita ci sono momenti in cui si capisce tutto a un livello più profondo della propria capacità di comprensione. Le ossa capiscono, il grasso capisce, l’hamburger mezzo digerito capisce, il pancreas capisce, la bile capisce, le mucose, le membrane, i peli le unghie e ogni goccia di sangue capiscono. Capii che sotto certi aspetti i sentimenti sono simili alle infezioni: capaci di mandarti in cancrena da capo a piedi in pochi secondi, con una bocca grottesca che ti divora, un bagno interiore di mercurio, una palla di cannone. Se fossi morta me ne sarei andata sapendo che l’esistenza è puro orrore e che essere viva è puro orrore. E che quando lo sai, non puoi più non saperlo.

 

 Scoprire la tossicità dell’emozione, del relazionarsi all’altro – il sentimento come vox media, quel pharmakon che è rimedio e veleno al contempo –, scoprire l’orrore al cuore della vita si rivela l’unica epifania possibile.
In un mondo in cui «l’età dell’innocenza è l’età della violenza», i personaggi si muovono come vittime designate verso finali scritti da sempre, forse ancora prima che l’autrice li pensasse, perché la caratteristica cruciale della vittima è per definizione l’impossibilità di opporsi, avere come unico predicato possibile l’immolazione. A partire da questi presupposti Ampuero compone dodici racconti spietati, incastri di parole che non temono l’eccesso né l’anatema. È senza paura infatti che afferma, con tutta la lucida rabbia che serve: «Dio non ama, gli uomini uccidono, la natura fa piovere acqua pulita sui corpi insanguinati, il sole sbianca le ossa, un albero lascia cadere una foglia o due sul visetto irriconoscibile della figlia di qualcuno, la terra fa crescere robusti girasoli che si nutrono della carne livida delle scomparse». Eppure, ogni tanto, qualcosa accade, l’ingranaggio della sacertà e della condanna si inceppa. L’inatteso si insinua a scompaginare il designato, perché è questa una delle facoltà ultraterrene della narrazione: muri ciechi che diventano finestre, spalancare universi dove era possibile solo la fine, accogliere ciò che è terribile e incantarlo a nuovi significati.  

L’autrice realizza una raccolta composita, unita negli intenti e nelle tematiche ma variegata nella forma, nel genere, nel linguaggio. La prosa è attraversata da uno sperimentalismo vivo, ne è un esempio Biografia, col ritornello cadenzato che scandisce la storia «Guardatemi, guardatemi», in una continua richiesta di essere visti mentre si va incontro al più nero dei destini, in quello che è a tutti gli effetti un racconto di matrice horror; o ancora Sacrifici, composto soltanto da incalzanti linee di dialogo, mentre la coppia protagonista non riesce a smettere di litigare ignara di ciò che incombe su di loro; o Freak, in cui il pensiero spasmodico di due solitudini assolute che si uniscono in un ultimo gesto definitivo è scandito da soli verbi all’infinito, come un ossessivo elenco-componimento.
La vita si mescola a un paesaggio strabordante che, insieme ai personaggi, inghiotte la lingua per restituirla ora ricca ora scarna, a seconda di come l’autrice preferisce assestare il colpo, quanto vuole renderlo imprevedibile, quanto duro.
Cos’è dunque un sacrificio umano per María Fernanda Ampuero? È un momento selvaggio di scrittura – e, invocando ancora Clarice Lispector come sacerdotessa, apprendiamo che la scrittura è una maledizione, ma una maledizione che salva. È l’occasione di guardare fisso il buio lasciandosi trasformare, talvolta trovando insperate possibilità di consolazione nella ferocia.
«Splendevamo e ora siamo pieni di sangue», scrive Ampuero in un lampo di sintesi crudele.
Solo quando chiudiamo il libro ci rendiamo conto di quanto è accaduto: anche la scrittrice ha compiuto il suo rituale
.

 

Cane da petrolio, di Rick Bass

Autore: Rick Bass
Titolo: Cane da petrolio
Editore: Mattioli 1885
Traduzione: Silvia Lumaca
pp. 230 Euro 16,00

di Debora Lambruschini

E molti anni dopo, quando le loro vite erano già separate, aveva creduto che ci fosse qualcosa nel suono, negli armonici di quel fiume devastato, che si legava all’abilità che aveva Annie di amare e di provare piacere nel farlo, che liberasse qualcosa dentro di lei, trasformando, grazie a un’antica alchimia, la bellezza invisibile in bellezza manifesta.
(“Pagani”, p. 15)

 

Disclaimer o dichiarazione d’intenti: se è vero che una riflessione critica deve essere svincolata dallo sguardo soggettivo e dal sentire personale di chi la sviluppa, in certi casi ancorarsi al dato oggettivo diviene pressoché impossibile. Ecco, quindi, che non tenterò nemmeno di fingere: la mia lettura di Rick Bass si poggia su una stratificazione di letture, ricerche, studi accademici in area americanista, ma è soprattutto saldamente personale, emotiva. Perché proprio con i racconti di Bass? Che cosa c’è di diverso dalle altre innumerevoli letture e riflessioni sulla narrativa nordamericana? Le ragioni sono tutte nei luoghi evocati in questi dodici magistrali racconti, tradotti da Silvia Lumaca per Mattioli 1885 – che sta arricchendo il proprio catalogo con vere gemme letterarie di autori statunitensi, e in quella netta, seppur arbitraria, divisione che da sempre caratterizza la narrativa d’oltreoceano: lo spazio urbano, la città e, all’opposto, le piccole comunità, le terre selvagge, la natura. È nell’America rurale, nelle storie di provincia, nelle piccole città o nelle terre selvagge, che personalmente credo si muovano le voci più interessanti e oneste. Rick Bass è un autore dell’Ovest e, come tale, questo preciso ambiente ne pervade ogni pagina; l’ambiente in cui si muovono i suoi personaggi – città fantasma, il bayou, terre selvagge, piccoli centri – è parte integrante non della storia ma delle persone stesse, nella finzione quanto nella realtà. È in base all’ambiente che gli uomini e le donne di Bass – che costituiscono il vero centro nevralgico della riflessione letteraria – compiono le proprie scelte e vivono un certo tipo di vita, un quotidiano che talvolta appare lontanissimo per il lettore da questa parte del mondo, ma che diviene, nelle mani del narratore, così tangibile e vero da riuscire a percepirne gli odori, il ghiaccio o l’aria satura di umidità, le tradizioni, la vita tutta. Tra il Texas, Mississipi, Utah, Montana, le foreste e i laghi ghiacciati, il bayou e i serpenti, Bass dispiega le storie di questi uomini e di queste donne le cui vite sono tanto profondamente intrecciate allo spazio entro cui si compiono, in modi che altrove è difficile immaginare. Luoghi attraversati nella prima vita di Bass, ex geologo petrolifero, al centro oggi della sua riflessione ambientale e autoriale, membro di una piccolissima comunità con meno di quattrocento anime.

Cane da petrolio è composto da dodici storie fissate in un tempo dai contorni quasi sempre sfumati, un Novecento pretecnologico che contribuisce a creare l’epica della narrazione. Un’epica quotidiana, costruita mediante una narrazione in equilibrio tra l’asprezza del lavoro, delle condizioni ambientali, i silenzi, le profonde solitudini, e la parola che si fa ora lirica ed evocativa, ora asciutta e ruvida. È qui, nella stratificazione del testo, nei contrasti perfettamente intrecciati, che si compie il miracolo della scrittura, lo sguardo del narratore a raccontare uomini e donne a un passo da un cambiamento, da una svolta possibile, di cui non ci mostrerà gli effetti, perché non è quello che conta. Ciò che importa è raccontare quell’istante, il dubbio, il mutamento. Nel farlo, Bass tratteggia personaggi umanissimi e dolenti, tormentati dall’incertezza, talvolta dalla malinconia e dalla solitudine. In città semi deserte, in condizioni ambientali difficili, nel pericolo, nelle attese, nell’asprezza del quotidiano, sono le connessioni umane mancate o perdute a creare lo smarrimento più doloroso e tragico e quando le distanze sono colmate, ecco che per un breve attimo un lampo di luce irradia la pagina, la vita.
Centro nevralgico della narrazione, quindi, sono le relazioni umane, con le loro complessità, le attese e le mancanze. Spesso sono connessioni mancate, vite che si sfiorano appena ma non riescono davvero a intrecciarsi: la maratoneta e l’uomo ingaggiato per proteggerla dagli orsi durante gli allenamenti, l’intimità che si crea attraverso i corpi, i fuochi controllati, come loro (“Fuochi”); tre ragazzini, l’età incerta tra infanzia e adolescenza, la scoperta dei sentimenti e del corpo, con il timore del cambiamento, inevitabile

 

“Possiamo… si può…?” Restare gli stessi, voleva dire, ma non lo fece. […] E per un po’ furono tanto sciocchi, e tanto ottimisti, da credere che quella cosa non avesse importanza, che sarebbero potuti tornare nel vecchio posto, persino che il vecchio posto sarebbe stato meglio di qualsiasi altro nuovo posto futuro. (“Pagani”, p. 30)

 

O, ancora, storie del passato evocate durante un blackout, e l’attesa di un ritorno (“La storia di Rodney”); una comunità a prevalenza mormone, la nascita del sentimento, lo spazio ristretto delle possibilità e desideri futuri, la rinuncia (“Nel paese di Ruth”).
Il misticismo di cui sono intrise certe storie assume contorni onirici, sospese tra realtà e fiaba, a sostegno di una narrazione fatta di contrasti, dove talvolta è uno sguardo esterno a interrogarsi sul mistero delle relazioni:

 

C’era una completezza in lui che non si vede in giro molto spesso. Era amorevole e gentile con Amy, e io mi sono spesso meravigliato, nel corso degli anni in cui ci siamo frequentati, di come sembrava sempre pensare a lei, di come ogni suo gesto sembrasse sempre essere dettato da ciò che pensava avrebbe potuto farle piacere. Ed ero impressionato anche dai modi semplici e rilassati che aveva con lei. Quand’erano insieme sembravano sempre una giovane coppia: inviolati dal mondo,
e freschi come quel pane.
(“Cigni”, p. 199)

 

Ma il mondo, la vita, questo spazio lo viola, si insinua nelle esistenze di Amy e Billy, rompe l’equilibrio costruito e si insinua nella loro casa ai margini del bosco, pervasa dal calore dei tanti focolari accesi, dalle note del piano costruito per lei sulle sponde del lago dei cigni e che attraversano il bosco, fino ad altre case, altre vite, più solitarie, meno esposte al dolore. Anche stavolta, Bass ci mostra la frattura, l’attimo che precede il cambiamento, di cui intuiremo forse le conseguenze, le scelte da compiere; ma è tutto in quell’istante il fulcro della narrazione, la sua stessa esistenza. “Cigni” ha i contorni della fiaba, sospesa in un tempo antico, ma è la vita reale, come il matrimonio, a essere evocata. Della realtà del matrimonio, delle pieghe dei giorni, degli spazi delle relazioni, Bass indaga le fragilità, in “Cigni” come, per vie diverse, nella storia di un vigile del fuoco volontario che solo nelle pause dalla vita quotidiana ritrova sé stesso e le ragioni per non arrendersi:

 

Sembrerebbe il racconto di una fiaba: un matrimonio felice. […] Uno di quei rari matrimoni, più raro di un gioiello o di un bosco, che veniva salvato da una combinazione di forza interiore e di grazia e da una serie di coincidenze esterne e fortuite – il mondo che va a fuoco.
(“Il vigile del fuoco”, p. 173)

 

C’è dentro questa storia uno spazio di riflessione che in apparenza svicola dal tema cardine del racconto – la storia di un matrimonio – ma che scava dentro il lettore: è il cuore diviso del protagonista e il fragile equilibrio su cui costruisce il rapporto con la figlia avuta da una prima relazione; un fuoco che divampa dentro di lui, lo strazio delle ripetute separazioni dopo ogni visita concordata, la paziente attesa, il cuore a pezzi da tenere celato.
Sono le parole non dette, in molti casi, a costruire la narrazione, a creare solitudini o proteggere chi amiamo; nelle terre selvagge, tra città che stanno scomparendo, il passato che si incastra al presente, entro gli spazi ristretti di piccole comunità di provincia, Bass costruisce la sua epica quotidiana con dodici storie che si collocano perfettamente in una tradizione di cantori dell’America rurale: Kent Haruf, Larry McMurtry, Lorrie Moore o, ancora e di diversa natura, Chris Offutt, Annie Proulx, Eudora Welty, per citarne alcuni. È qui che affonda le radici la voce letteraria, unica e possente, di Bass, che accoglie la tradizione e la rinnova. Le sue storie non sono immediate e come ogni forma breve richiedono uno sforzo a noi lettori, un’immersione totale, emotiva anche, per accoglierne la polifonia, le occorrenze, i contrasti, gli spunti. Ne riconosciamo la bellezza, il valore letterario, appena fatto un passo indietro, qualche momento dopo la lettura. Ed è proprio da qui che ci appaiono in tutta la loro straordinaria quotidianità.

Io, lui e Muhammad Ali, di Randa Jarrar

Autore: Randa Jarrar
Titolo: Io, lui e Muhammad Ali
Editore: Racconti Edizioni
Traduzione: Giorgia Sallusti
pp. 211 Euro 16,00

di Anna Lo Piano

 

C’è una cosa che mi preme dire sulla scrittura di Randa Jarrar, prima di ogni altra cosa: è incredibilmente divertente.
Se leggerete i racconti contenuti in Io, lui e Muhammed Ali, pubblicati da Racconti edizioni con la traduzione di Giorgia Sallusti, ve ne accorgerete subito.  C’è una voce narrante che ti aggancia a ogni frase, incipit fulminanti e battute che ribaltano i momenti di massimo sconforto.

 

Il vicinato si beccò la sua prima dose di Qamar nell’estate del suo nono compleanno, quando decise di restare seduta sul tetto del suo appartamento di Alessandria per dieci giorni aspettando che la luna scendesse da lei.

 

Le macchine schizzavano via sotto di loro, e Hilal ebbe l’impulso di saltare, per creare un grazioso motivo sull’asfalto di sotto.

(da L’Eclisse dei lunatici)

 

Ma c’è soprattutto il gusto della narrazione, di trame costruite, di elementi che ritornano e fanno da impalcatura, di intrecci e sospensioni che ti spingono ad andare avanti per sapere cosa succederà.  E no, non tirerò fuori il paragone con Sharazade, anche se l’identità araba è al cuore di tutti i racconti, e Jarrar evoca esplicitamente, per poi sovvertirla, la tradizione letteraria alla quale appartiene.
Non è un caso, quindi, che il riferimento a Le Mille e una Notte apra la raccolta, con l’atmosfera a metà tra favola e iperrealismo del già citato Eclisse dei lunatici, i cui protagonisti, in una storia che parla di luna, non possono che avere i nomi di Qamar (luna, che in arabo è maschile ma è dato alla ragazza, in un rovesciamento di generi) e Hilal (spicchio di luna).
In Persa nella maledetta Yonkers, che ha un ritmo da hard-boiled, la protagonista deve fare i conti con le reazioni della famiglia alla notizia che è rimasta incinta fuori dal matrimonio. Tutta l’americanità conquistata va in frantumi, e il padre, che da bravo stereotipo ha “citato poesie in ogni singola occasione speciale”, decide di farlo anche stavolta, e invece di affrontarla in modo diretto le manda un biglietto con dei versi di Mahmoud Darwish.

 

«Mi hai mandato una poesia?» ho detto. «Io sono incinta e tu mi citi Darwish?» Stavo tremando.

«Sei tu quella incinta, che cazzo. Chi ha il diritto di essere furioso? Non tu, mia cara.»

Era definitivo. Bambino = niente famiglia = niente soldi per il college = sono morta. Niente bambino = di nuovo in famiglia. Non mi è mai piaciuta questa famiglia, comunque, perciò scelgo il bambino.

 

Ma la suggestione letteraria che più mi ha colpito si trova in Ragazze in costruzione quando la protagonista, che ha sempre vissuto nello stesso vecchio palazzo sul mare, vicino ad Alessandria, si reca al mercato per conto dei vari inquilini, e passa davanti al banco dei libri.

 

Ho pedalato davanti al libraio esaminando velocemente copertine e titoli; tutti i libri erano su un uomo che viaggia molto lontano per studiare, torna in patria e decide che è quello il posto a cui appartiene. Durante l’inverno li leggo per noia e in tutta onestà devo dire che preferisco piantare fiori o annaffiare il banano o perfino farmi fischiare dietro da uomini sdentati invece che leggere quella roba.

 

Azzardo, ma non credo di sbagliarmi trovando qui un riferimento a un caposaldo della letteratura araba del novecento, ovvero il romanzo Stagione della migrazione a nord del Sudanese Tayeb Salah. Uscito alla fine degli anni ’60 e tradotto in più di trenta lingue, questo libro - bellissimo - ha segnato una sorta di spartiacque nella auto-rappresentazione degli uomini arabi in relazione con l’occidente. Il protagonista è un viaggiatore, ma la storia, contrariamente alla tradizione della rihla, del resoconto di viaggio, si focalizza sul suo ritorno. Il villaggio è visto come il ventre materno in cui rientrare per ritrovare se stessi, in opposizione alla freddezza del nord. Ma questa polarizzazione semplicistica dei due mondi è messa in crisi da una figura misteriosa: Mustafa Said. Come il narratore, Mustafa ha vissuto diversi anni all’estero, durante i quali ha vissuto una doppia vita, trasformandosi da rispettato economista a sensuale e istintivo predatore di donne, che seduce al punto di portarle al suicidio. Tornato al villaggio, i fantasmi del passato continuano a tormentarlo, estendendo la propria ombra anche sul resto degli abitanti. È come se l’esperienza del nord gettasse una nuova luce anche sul sud, come se l’incontro tra i due mondi non potesse che risolversi in un gioco di potere e sottomissione tra colonizzatori e colonizzati, tra seduttori e sedotti. Ma appunto, sembra dirci Jarrar attraverso una protagonista che è solo nominata per procura come Mamma di Saida, e che è sempre rimasta nel luogo in cui è nata, qui non stiamo parlando di migrazione, o almeno non di quella migrazione che ha raccontato una letteratura scritta da certi uomini in un certo tempo. Qui, adesso, non c’è un paese a cui tornare, casomai vari paesi da portarsi dietro, proprio come fa l’autrice.

Randa Jarrar, nata a Chicago nel 1978 da madre egiziana e padre palestinese, fino ad ora ha pubblicato tre libri. Il primo romanzo, a Map of Home, del 2008, le è valso l’ Arab American Book Award. Uscito in italiano per Piemme nel 2010 con il discutibile titolo de La collezionista di storie, è il racconto in prima persona della ragazzina Nadali, (la lottatrice) che è costretta a cambiare ogni volta paese insieme alla sua famiglia, senza poterne mai chiamare uno veramente “casa”.  La raccolta Him, Me, Muhammad Ali è del 2016, mentre è dell’anno scorso Love Is an Ex-Country, ancora inedito in Italia. Sebbene solo quest’ultimo si dichiari esplicitamente un memoir, la componente autobiografica è fortissima in tutti i suoi scritti. Leggendola mi viene istintivo accomunarla a quella tendenza recente di autori e autrici arabi di graphic novel nati negli anni ‘70 e ‘80 di cui ho parlato già in questo articolo, di usare l’autobiografia come dispositivo per raccontare un’intera generazione di giovani stretti nelle maglie della storia, della guerra e dello scontro tra mondi. Jarrar usa le parole al posto delle immagini, ma ritrovo lo sguardo in soggettiva, il sarcasmo e anche una certa leggerezza nel trattare i temi più oscuri. Se la narrazione è quasi sempre in prima persona, le voci sono però diverse. Nei racconti di Io lui e Mohammed Ali appartengono per la maggior parte a donne, ma ci sono anche due uomini, un animale, e una creatura a metà: sopra donna, sotto stambecco.
Ai due uomini sono affidati i racconti più politici, che hanno a che fare con i recenti avvenimenti storici. In Storia del mio palazzo, la situazione di Gaza è affidata al racconto del ragazzino Muhannad, con un’altra evocazione letteraria non priva di implicazioni, visto che si tratta di Storia della mia colombaia di Isaak Babel, che parla di pogrom, di fughe e di rifugi. È il padre di Muhannad, traduttore dal russo, a leggere davanti a tutti la fine, e il racconto si chiude con una frase che è un calco esatto di quella, cambiano solo i nomi.

 

E così andai con zio Fawzi nel suo palazzo, dove i miei genitori, scappati dal bombardamento, avevano trovato rifugio.

 

In Una cornice per il cielo, le guerre a ripetizione che hanno devastato il Medio Oriente sono raccontate attraverso i giorni peggiori della vita del protagonista.

 

Il terzo peggior giorno della mia vita è stato il 21 luglio 1991: ero in una stanza d’albergo a New York, in attesa di una telefonata del mio vecchio capo in Kuwait. Mi ricordo che il sole stava calando nel cielo limpido d’estate, con i suoi raggi che si insinuavano attraverso le persiane. Avevo speso gli ultimi soldi per venire qui ad assicurarmi un discreto progetto per la nostra società di architettura in Kuwait, perché il Kuwait era stato appena «liberato» e gli iracheni erano stati cacciati via.

 

Le protagoniste, invece, che vivano in Egitto o negli Stati Uniti, rappresentano le diverse possibilità di incarnazione della stessa donna sarcastica, disincantata e molto sola, che sia o meno accompagnata. Anche quando sono madri, queste donne sono soprattutto figlie, perché i loro genitori sono un bagaglio che si portano dietro anche quando fuggono a chilometri di distanza. C’è tanta famiglia in questi racconti, con discussioni e delusioni e riappacificazioni. Ci sono abbandoni, madri che fuggono o vorrebbero cose impossibili dalle loro figlie, padri con i quali si continua a lottare fino alla fine. E sorelle/amiche che improvvisamente appaiono molto lontane.

 Dopo le stagioni delle migrazioni, in cui si abbandonava la propria patria e la propria famiglia per ritrovarsi soli in terra straniera, le seconde e terze generazioni vivono la stagione della migrazione interiore, da un paese all’altro della propria identità. Ci si porta dietro il passato, la genetica, le frasi pronunciate e installatesi in testa, i pregiudizi di ogni cultura o sottocultura con cui si ha a che fare. L’identità è un mosaico, o meglio un puzzle, in cui I pezzi non sempre si incastrano.
E forse per questo in molti racconti, come nel romanzo, ritorna il tema della bambola, alter ego compatto e inerte delle protagoniste.
Ci vuole una figura artefatta, composita, per raccontare un’identità multipla, e infatti l’ultimo racconto, che ha come protagonista Zelwa la mezza, per metà donna e per metà stambecco transgiordano, riesce a riassumere in maniera esemplare cosa vuol dire essere musulmana in un paese cristiano, non proprio nera ma neanche proprio bianca, troppo queer per gli etero, troppo blasfema per i musulmani,  troppo americana per gli arabi.

 

Quando ho chiamato mio padre per dirgli che mi piacevano gli uomini e le donne, ha attaccato a gridare così forte che sono stata mezza sorda per una settimana. «Non ti bastava essere una mezza? Devi pure essere mezza gay e mezza etero?»

 

Zelwa fin da piccola cerca di sovrapporre le sue foto a quelle della Barbie, e immagina un futuro di interezza, ma si deve scontrare con la realtà. Certo c’è un dottore che fa queste magiche operazioni che rendono totalmente umane, ma ne vale la pena? Non rischierebbe allora di perdere il suo sguardo unico sulle cose?
Non vi dico come va a finire, ma sappiate che il finale è uno dei più struggenti che abbia letto ultimamente. Quindi vi invito a leggere la storia di Zelwa la Mezza, e anche di tutte le altre.

Primo amore e altri affanni, di Harold Brodkey

Autore: Harold Brodkey
Titolo: Primo amore e altri affanni
Editore: Fandango
Traduzione: Grazia Rattazzi Gambelli
pp. 164 Euro 17,00


di Debora Lambruschini

«Dove sono le finestre? Da dove entra la luce?»

Lettori di racconti, riflettiamo su queste domande di Yates ogni volta che ci avventuriamo in una storia, cerchiamo la finestra da cui possa penetrare la luce a illuminare la stanza, a mostrarci la verità che contiene, la polvere, gli angoli rimasti in ombra. L’onestà con cui Yates scandagliava le relazioni e le vite dei suoi personaggi per restituirle sulla pagina in tutta la loro verità brutale, infilando un po’ di sé stesso e del proprio sentire fra le pieghe, mostrandoci quell’umanità dolente e ammaccata: è lì che nasce in noi l’ossessione per la prosa di Yates, è lì che modelliamo il nostro gusto, il metro con cui misuriamo tutte le altre storie, anche quando molto diverse e distanti. Un’onestà molto simile l’ho sempre trovata in un altro gigante della narrativa statunitense, Harold Brodkey, che a neanche trent’anni era già considerato la grande promessa della letteratura americana, caricato dal critico Harold Bloom del titolo di “Proust d’America”. Scomparso a poco più di sessant’anni, malato di Aids. Ma con una promessa mantenuta.

Quella pressione era arrivata con la prima, meravigliosa, raccolta di racconti, “Primo amore e altri affanni”, dieci storie di cui la maggior parte già apparse negli anni precedenti sulle pagine del New Yorker – di cui è stato oltre che autore anche redattore – e che gli avevano portato il successo di critica e pubblico tanto in patria quanto all’estero. La carriera letteraria avviata, la scrittura, l’insegnamento, il periodo in Italia in una residenza per artisti, i riconoscimenti. Poi, la vita era tornata a chiedergli il conto: nel 1993 la scoperta della malattia: l’Aids. che negli anni Novanta non era una malattia con cui si poteva convivere e nemmeno parlarne pubblicamente, specie se eri un personaggio di spicco nella scena culturale. Brodkey, non ascoltò i consigli di chi gli suggeriva il silenzio, lo dichiara pubblicamente, lo raccontò dalle pagine del New Yorker stesso: una lunga lettera ai lettori, che sarà poi quel libro meraviglioso, doloroso e pieno di luce che è This Wild Darkness, in italiano Questo buio feroce. Storia della mia morte, (Fandango), uscito postumo. Brodkey omaggiava la vita, pur ripercorrendo con limpida onestà momenti oscuri del proprio passato – gli abusi del patrigno, l’omosessualità irrisolta – per aprirsi alla grazia, alla bellezza di una vita piena, benedetta dalla scrittura e dall’amore. È il commiato di un uomo dalla vita, di uno scrittore dal suo pubblico, che apre uno squarcio su una malattia così profondamente equivocata, taciuta, intrisa di vergogna e senso di colpa. In mezzo, un corpus letterario composto di tre raccolte di racconti, due romanzi, quel memoir e poco altro, ma sufficiente a consacrarne il talento.

Non so se il nome di Harold Brodkey sia nel momento in cui scrivo, qui in Italia, realmente noto al grande pubblico, se circoli davvero fuori dal mondo accademico e letterario o se, come Yates, ci vorrà qualche anno ancora per farne una leggenda. In patria Brodkey è parte del canone fin dagli esordi, i suoi racconti presenti nelle antologie, nei corsi di studio e, soprattutto, negli scaffali dei lettori che continuano a leggere le sue storie, capaci di superare la distanza temporale grazie all’universalità di certi stati d’animo, la lingua tesa ora scarna ora ricchissima, le immagini vivide, le metafore, la fotografia di un momento preciso.


Pubblicata per la prima volta in Italia da Fandango – dopo una prima edizione Bompiani del 1962 e una rara Serra e Riva dell’88 – la raccolta Primo amore e altri affanni è tornata da poco in una nuova edizione per lo stesso editore, nella traduzione di Grazia Rattazzi Gambelli. È il punto di partenza naturale per scoprire Brodkey e bastano una manciata di pagine di questi dieci racconti per rendersi conto di quanto straordinario fosse il talento di questo autore, reso dalla traduzione di Rattazzi Gambelli attenta a preservarne l’immediatezza e la prosa asciutta contrastata dagli slanci lirici, dagli aggettivi e dalle metafore puntuali, in un equilibrio ideale.

 

Pensava a quel che doveva essere innamorarsi, adorare una ragazza e mettere la propria vita ai suoi piedi. […] il nocciolo degli eventi era una certa emozione che gli era estranea e verso la quale aveva, molto probabilmente, un atteggiamento troppo razionale. Perciò se ne stava sui gradini della biblioteca così sconvolto dall’inquietudine che soltanto la forza di gravità sembrava riuscisse a tenerlo insieme. (“Educazione sentimentale”, p. 91)

 

Verso la traduzione o meglio, a chi ne è l’artefice, Brodkey ha sempre avuto come altri un debito particolare ed è stato in passato grazie a Delfina Vezzoli – per non dire di Fernanda Pivano e altri contemporanei – che nel nostro Paese si è portata l’attenzione su questo americano dalla voce fresca, che rifiutava di adattarsi alla moda imperante di riscritture in stile Hemingway e a un certo tipo di minimalismo. Un debito ripagato dai lettori che una volta avvicinati alle storie di Brodkey ne restano ammaliati: dalla semplicità, dalla trama pressoché inconsistente, dalle inquietudini e dalla vulnerabilità dell’adolescenza, dalle difficoltà della vita famigliare e delle relazioni.

La finestra da cui entra la luce che illumina il quotidiano, le pressioni – matrimoniali per le donne, di carriera e successo per gli uomini – e le insicurezze in un continuo scambio fra invenzione letteraria e spunto autobiografico, mentre i personaggi si rincorrono da una storia all’altra pur mantenendo intatto il senso compositivo di ogni singolo racconto, fotografando per il lettore istanti diversi delle loro vite, dominati da inquietudini simili.

 

Guardando indietro, adesso, penso che fosse la loro veemente pressione a spaventarmi; dovevo diventare ricco e famoso e dare così significato e valore a tutte le loro tribolazioni. Ma io non volevo quella responsabilità. In ogni caso, se ero veramente destinato a diventare quello che volevano diventassi e se dovevo essere quello che ero, era aspettarsi troppo da me che li accettassi così com’erano. Dovevo superarli e disprezzarli, ma prima dovevo essere con loro e questo non era giusto.
 (“Lo stato di grazia” p. 13)

 

La responsabilità di concludere un buon matrimonio o avere successo, per risollevare le sorti della famiglia, garantire una posizione e un futuro e riuscire finalmente a soddisfare il «bruciante desiderio di risalire la cresta sottile del prestigio sociale» che consuma le madri di queste prime storie. Ma la pressione e le aspettative famigliari alimentano i dubbi, le insicurezze, la confusione di un’età già incerta, il dovere che si scontra con il desiderio di libertà; da un lato sfocia nella convinzione di non meritarsi l’amore senza il successo, dall’altro nella tensione fra identità e aspettative:

 

Nella primavera dei miei sedici anni, quello che più desideravo al mondo era di riuscire a essere qualcuno, da grande. Non sapevo che ci potesse essere altro modo per farsi amare.

(“Primo amore e altri affanni”, p. 33)

 

Il racconto Primo amore e altri affanni è un capolavoro, una storia densa di spunti ed efficacemente costruita, che si consuma per lo più fra le mura domestiche: tra le attese del telefono che suoni per la proposta di matrimonio che svolterà le vite di tutti, gli ammonimenti severi della madre, la sua freddezza e distanza, la resa e la rinuncia.

 

Giocando con la collana, ruppe il laccio e le perle rotolarono a terra spargendosi per tutto il pavimento; c’era qualcosa di folle nel modo in cui si diede a recuperare le piccole rotolanti gocce di luce. Capii che non sapeva quel che stava facendo; non era poi così sicura di tutto come sembrava. Fu difficile e penoso arrivare a questa conclusione, che si fissò in me profondamente.

(“Primo amore e altri affanni”, p. 50)

 

Ancora, nella confusa costruzione di un’identità emotiva, nei sentimenti difficili da comprendere quando mancano appigli. E allora non resta che rifiutarsi di amare, negare il sentimento a chi già ne possiede abbastanza insieme a tutto il resto. Per poi pentirsi e gridare al sé stesso di tanti anni prima «Amalo maledetto idiota! Amalo!» anche se forse è tardi e qualcosa si è spezzato.

Queste storie sono inquiete, attraversate dalle insicurezze di sentimenti nuovi che non si è capaci di affrontare, gli assoluti dell’adolescenza, i dubbi e le possibilità. L’amore, certo, ma anche l’amicizia, fra dipendenza e distacco, l’altro attraverso cui scoprire sé stessi. L’amicizia è totalizzante, è uno scudo grazie al quale affrontare il mondo e sentirsi finalmente riconosciuto, legittimato, un «esule meno a disagio». Lasciare tutto, per un’estate, deludere le aspettative famigliari e seguire l’amico per vagabondare nella vecchia Europa che porta ancora i segni della guerra, riempiersi di vita e di bellezza, per poi scoprirsi distanti, insofferenti l’uno all’altro. Una consapevolezza che pare annientare:

 

Le ombre, azzurre, liquide, si andavano addensando sulla spiaggia. E noi eravamo lì, noi due, con tutte le nostre paure e i nostri difetti, con tutte le speranze alle quali non credevamo realmente, e i nostri insuccessi; eccoci lì, diciannove e venti anni. […] Ascoltavo Duncan e il lontano grammofono e come in sogno lo scrosciare delle onde e sapevo che avrei superato la prova della mia giovinezza e sarei stato perdonato.

(“La lite”, p. 90)

 

È nel tratteggiare quel momento fra infanzia e adolescenza che la scrittura di Brodkey appare in stato di grazia, onesta e brutale nel raccontarne le pieghe, le increspature sulla superficie; ma forse basta anche osservare meglio i personaggi che gravitano intorno e condizionano le vite di questi bambini e ragazzi – le madri, le sorelle maggiori – per intuire quanto profonda sia la conoscenza del cuore umano, delle sue ambiguità e debolezze, della vulnerabilità che ci portiamo dentro. Che sia la madre che tenta disperatamente di risalire la scala sociale e assicurare a tutti loro un futuro dignitoso, algida e controllata all’esterno, ma nascondendo tumulti dentro lo sguardo; oppure la ragazza davanti allo specchio, divisa fra l’assecondare ciò che le è stato insegnato e conseguire un buon matrimonio celando sé stessa dentro un’apparenza di rispettabilità, o mostrarsi fasciata in un abito nero e rifiutare le convenzioni.

Ecco, forse Harold Bloom gli ha fatto un torto definendolo il Proust d’America, che certi paragoni soprattutto possono diventare una zavorra; quel che credo sia evidente, però, al di là dei paragoni, al di là dei riferimenti e della, forse, superflua definizione di canone, è  che se siamo bravi abbastanza possiamo «uccidere i maestri» e permetterci di essere solo noi stessi e la nostra voce. Se sei Harold Brodkey, almeno.

 

Gli occhi di mia madre erano incomprensibili: un palcoscenico buio sul quale venivano rappresentate indistinte scene di folla, e tutto quello che uno poteva percepire era tumulto e dramma, né aveva importanza quanto durasse l’attesa; le luci non si accendevano mai e la scena non veniva mai spiegata.

(“Lo stato di grazia” p. 16)

Chiamatemi Esteban, di Lejla Kalamujić

Autore: Lejla Kalamujić
Titolo: Chiamatemi Esteban
Editore: Nutrimenti
Traduzione: Elvira Mujčić
pp. 112Euro 16,00

di Giordana Restifo

«Non alla terra
né al volo delle foglie
somigliano i morti
in autunno
ma al dolce fallire dell’estate
».
Chandra Livia Candiani – Bevendo il tè con i morti

 

È paradossale che in alcuni scritti si possa trovare la locuzione “stagione di guerra”, come fosse un calendario di eventi al teatro e noi ce ne stessimo, comodi, sulle poltrone ad ammirare e seguire lo spettacolo. Non solo. È paradossale riferirsi in tal modo a conflitti che durano per mesi, anni, mentre le stagioni cambiano e si ripetono e intanto le città e gli esseri umani vanno a fondo senza avere la certezza di una risalita, come successe nei paesi appartenenti all’attuale ex-Jugoslavia in quei tragici anni tra il 1991 e il 1999.
Esistono almeno due generazioni di autrici e di autori (come anche di registe e registi), nati in quella che era la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, la cui vita è stata in qualche modo sconvolta dalla guerra. Bozidar Stanišić, Azra Nuhefendić, Miljenko Jergović, Dušan Šarotar, e ancora Marina Lalović, Tatjana Dordević Simić, Elvira Mujčić, Lejla Kalamujić, sono solo alcuni. La dissoluzione del grande Paese coeso, unificato dal governo di Josip Broz Tito, ha lasciato un solco profondo nella popolazione jugoslava (artisti inclusi); sia in chi, al tempo, era adulto sia in chi era adolescente, sia in chi è partito durante la guerra, o poco dopo, sia in chi è rimasto a convivere da vicino con i propri e altrui fantasmi. Non l’età anagrafica né il domicilio ma il confronto con le radici, l’identità e la disgregazione, dopo anni di elaborazione, ha influito sulla letteratura balcanica degli ultimi decenni.

Sul filo di una dolorosa ricerca ontologica e genealogica («Tu chi sei? Di chi sei?»), provando a tracciare una linea netta tra Guerra e Pace, Dio e Tito, Estate, Autunno, Inverno e Primavera, si muove la protagonista di Chiamatemi Esteban di Lejla Kalamujić, edito nel 2015 da Dobra knjiga, Sarajevo, con il titolo Zovite me Esteban, finalmente tradotto in italiano da Elvira Mujčić e appena pubblicato da Nutrimenti.
I ventidue racconti che compongono l’opera sono inscindibili e tracciano un unico percorso narrativo legato alla figura eterea della madre morta prematuramente, quando la voce narrante, Lela o Leli, che si fonde verosimilmente con quella dell’autrice, aveva solo due anni, il 20 agosto 1982. Alcuni sono onirici, altri più realistici, in tutti è presente la traccia del genitore perduto, più lieve o più marcata: «Dentro di me non esiste il ricordo di mia madre, lei è soltanto il racconto sacro della genesi e del rifugio ancestrale».
Di lei sono rimasti solo alcuni oggetti (il diploma, un accappatoio, la fede nuziale, il libretto del partito e la macchina da scrivere), storie e aneddoti, ai quali si affida la memoria. E non importa se alle volte risultano incongruenti tra loro perché, come si legge nel racconto Cos’è per me la macchina da scrivere, «il sacro non si tocca, nel sacro si crede». 
Mentre la protagonista cresce, tra il vuoto abissale lasciato dalla scomparsa della madre e i ricordi alcolici del padre («Il nome di mia madre profuma di alcol», dal racconto Invano provi a svegliarla), il paese cade a pezzi, il mondo e i confini mutano; tutto, attorno e dentro di lei, si disgrega. Si ritrova ad affrontare grandi cambiamenti sociali e personali, come il “tradimento” nei confronti dei nonni che l’hanno cresciuta, Safeta e Nedzad, Boro e Brana, la loro perdita, gli spostamenti da Sarajevo, la sua città, a Šid, cittadina serba in Vojvodina, e viceversa (così accade anche di vedere la «prima neve di guerra lontano da casa», dal racconto Il deserto bianco).

 

Il tradimento è una ferita pericolosa. Difficilmente guaribile. Lo so oggi, dopo anni di terapie più o meno riuscite. Oggi, l’estate è mia. Pure l’autunno è mio. Dio e Tito sono miei. Guerra è mia. Anche Pace lo è. E miei sono l’inverno e la primavera. Tutto è mio. Ora che non ho più nulla.

 

Gli anni passano, la guerra è finita lasciando macerie e brandelli di esistenze scarne, e lei non smette di rievocare sua madre, nata Snezana (Biancaneve) e morta in estate. La incontra nei suoi sogni lucidi, in una dimensione così suggestiva e, insieme, ordinaria che sembra reale; fumano insieme, discutono, i loro sguardi e le loro mani si incrociano, si stringono. Annotare per non dimenticare, come la figlia di Dj. M. del racconto di Danilo Kiš (L’Enciclopedia dei morti, Adelphi, 1988).
La protagonista si cala nei panni di Esteban, defunto personaggio de L’annegato più bello del mondo di Gabriel García Márquez, immagina sua madre che la bacia e la accarezza mentre piange e veglia la sua morte in riva alla spiaggia; prova a immedesimarsi anche in Esteban, il figlio di Manuela (dal film di Pedro Almodóvar, Tutto su mia madre, del 1999), che avrebbe voluto scrivere un romanzo su sua madre e invece viene investito nel giorno del suo compleanno, fradicio a causa della pioggia e con il suo taccuino in mano. A lui sopravvive, devastata, Manuela. Ed è chiaro, in questo racconto (Chiamatemi Esteban, che dà il titolo all’intera opera) più che in altri, l’intento di chi narra, il gioco delle parti che produce domande ipotetiche esistenziali: e se invece di mia madre fossi morta io? Come sarebbe andata? Cosa sarebbe successo?
Al contrario di Esteban, però, lei è viva e, come suggerisce a Snezana alla fine del dolce e straziante Se t’avessi incontrata, forse un giorno scriverà un racconto sulla sua morte.

Nei racconti di Lejla Kalamujić non mancano, come si è potuto notare da quelli già citati in precedenza, diversi riferimenti mirati: cinematografici, dal regista Georges Méliès al bosniaco Hajrudin Krvavac; musicali, da Sofka Nikolić, «la più grande cantante del regno della Jugoslavia», a Laurie Anderson con la sua The beginning of Memory, dal musicista sarajevese Drazen Ričl a una significativa canzone dal titolo Nevica di nuovo, Snezana (Sneg je opet Snezana, del cantante serbo Šaban Šaulić). Abbondano anche i richiami letterari, come nelle conversazioni fantastiche con Kafka e con Elizabeth Bishop, o i richiami a William Faulkner («Fuori l’urlo e il furore. Lo scirocco è arrivato a Sarajevo») e a Il primo uomo di Albert Camus.
In Una preghiera per Elizabeth il lettore ha la conferma che per poter far fronte a dei grossi traumi, come quelli subiti, la protagonista ha bisogno di seguire una terapia e incontrare una dottoressa, la quale «A volte si fa trasportare e dice che dovrei pensare meno alle loro ossa che nutrono la terra e di più alle loro anime che sono in cielo. A lei non l’ho detto, ma a te lo dico, Elizabeth, ci ho riflettuto e sono giunta alla conclusione che le nostre anime sono troppo pesanti per il cielo», perché, e lo sostiene con il classico humor bosniaco, «Le nuvole non potrebbero reggere il peso dei loro piedi gonfi».
Così, senza accorgersene, o ben consapevole, si reca fin lassù, al cimitero di Bare, per ricongiungersi e riconciliarsi con sua madre, quella donna per la quale ha cercato di costruire una biografia che si incroci con la sua. Con lei c’è Naida (forse un’amica o la compagna che lei ha scelto di amare). Insieme dovranno ripetere scrupolosamente tutti i riti che celebrava con i nonni quando era piccola: strappare le erbacce, pulire il vialetto, lavare la lastra della tomba fino allo sfinimento, poi asciugare tutto, sistemare fiori e piante. In alto, alla fine della ripida salita, al numero 13, ci sono i lotti per gli atei, lì le aspetta Snezana. Come ci dice Miljenko Jergović nel suo Le Marlboro di Sarajevo (Bottega Errante Edizioni, 2020):

Ogni cimitero che si rispetti sta su un pendio … Da qui tu puoi scrutare tutta la sua vita. Solo i ladri, i bambini e quelli che hanno da nascondere qualcosa vengono seppelliti a valle. A valle di una vita non ti resta niente, perché da una valle non si vede nulla.

 

Tra una rakija e l’altra, sorseggiata insieme agli zii che non vedeva da anni[1], rigorosamente fatta in casa (punto di forte unione nei paesi dell’area balcanica), e alcuni ricordi della passione di suo padre per colombe, passerotti e fottuti uccelli [in corsivo nel testo], si arriva alla fine della raccolta di racconti, dove troviamo tre inediti che sono stati aggiunti nelle edizioni successive alla prima e nelle traduzioni. In uno di questi, L’Atlante delle cose morenti, c’è la frase rivelatrice: «Sul non avere una madre ho scritto un libro…». Vien da pensare che sia proprio questo il libro promesso alla sua amata Biancaneve, solo poche pagine prima. Un libro per lei e per noi, che ci esorta a credere come dopo la morte, anche senza dover chiamare per forza in ballo la religione, ci possa essere qualcosa di trascendentale, di ultraterreno.

 

 


[1] Il 13 dicembre del 2009 è stata ripristinata la tratta ferroviaria Sarajevo – Belgrado e la protagonista, il 22 dicembre, parte da Sarajevo per andare a trovare gli zii a Šid, con un treno che ha ripreso a viaggiare dopo diciotto anni di stasi. Per un approfondimento sulle linee ferroviarie e le rotte più remote dei Balcani e dell’Europa orientale si consiglia Binario Est di Marco Carlone, appena pubblicato da Bottega Errante Edizioni.

Il miraggio del reale per rifondare l’immaginario. I microracconti di Manuel Moyano

Autore: Manuel Moyano
Titolo: Teatro di cenere
Editore: Del vecchio Editore
pp. 160 Euro 17,00

di Alice Pisu

Si interroga sulla vacuità del vivere, Manuel Moyano, nel costruire attraverso componimenti fulminanti dello spazio anche di una sola frase la sua personale visione del mondo tra continui rimaneggiamenti del reale inteso come abbaglio, inganno. Che si tratti di visioni allo specchio o di avventure mirabolanti in luoghi immaginati in giardino e distrutti poco dopo, con Teatro di cenere (trad. Antonio Candeloro, Del Vecchio editore) l’autore ritorna costantemente all’effimero, per eleggerlo come mezzo primario di misurazione della miseria umana.
Sfilano sulla pagina killer seriali, fan di Elvis in incognito disposti a sacrifici estremi, guru che propongono pozioni per incontrare Dio, uccelli intrappolati in una stanza, mercanti, esseri alieni, paracadutisti atterrati in giardino che si insediano in casa, illusionisti.
Nel raffigurare un mondo degradato e violento ogni figura è concepita come una maschera e l’esistenza stessa una farsa. Il titolo è un omaggio a César Gavela – “Le persone, le case e il tempo erano soltanto un teatro di cenere” – che a sua volta richiama un passaggio della Genesi per raffigurare la morte come pena e il ritorno alla polvere.
Moyano immortala l’istante che precede una dispersione inesorabile, si sofferma sulla descrizione di pulsioni senza nome, tra lamenti e silenzi. Tra i più alti esempi di micronarrazioni spagnole contemporanee, i suoi racconti custodiscono allegorie che nella misura breve si rivelano parabole.
L’attenzione estrema nei confronti della parola esatta, con slanci lirici e immersioni, cela l’intento di alternare registri diversi, dalla riscrittura del genere favolistico all’horror, al fine di compiere un’indagine anzitutto sulla lingua, ancor prima che tematica. L’esasperazione del reale nell’assurdo permette a Moyano di sollevare interrogativi esistenziali sul sotterraneo male del tempo, rintracciabili tra i sottili riferimenti interni ai racconti.
Arriva a riscrivere l’origine del mito per narrare la vendetta adulta di un neonato dalla testa di vitello e connetterla al presente riconoscendo negli atti puerili di un maggiordomo il peso della mancata ribellione come preludio al dramma. Perennemente in bilico sulle infinite possibilità di un presente cristallizzato, i racconti di Teatro di cenere svelano l’esatta raffigurazione della transitorietà di ogni cosa. L’indagine sull’identità trova nel rapporto tra l’individuo e l’ambiente intorno, destinato inesorabilmente alla distruzione, la misura dello straniamento, comune a ogni vicenda narrata.
Affascinato dall’ambiguità, Moyano mostra le anomalie che albergano in ogni scena immaginata anche attraverso il ricorso a rimandi letterari, allusioni cinematografiche e opere musicali come contrappunto alla narrazione. Identifica ogni figura come dominata in egual misura da tenerezza e ferocia. Nel racconto Luna pallida assegna all’inchiostro il simbolo di un contrasto straniante, il suo uso, da parte dell’imperatore, per comporre una lirica notturna ispirata dall’osservazione celeste e per la stesura, pochi istanti dopo, di una condanna a morte per un gruppo di contadini che chiedevano una riduzione dei tributi.
Ogni immagine è solo una delle raffigurazioni possibili del tempo, tra flashback, allucinazioni sull’orlo di un baratro e spiragli nel terreno che moltiplicano ciò che vi cade dentro rendendo eterna un’ossessione. I mostri, le paure oscure, ancor prima che nelle scene che evocano torture fisiche o psicologiche, prendono forma nella raffigurazione di una prigione interiore, nella definizione del terrore della propria invisibilità agli occhi degli altri. È quel che accade al clone di Beethoven, sottoposto agli stessi traumi infantili del grande compositore per costringerlo a completare al posto suo la decima sinfonia, o all’uomo intrappolato da oltre dieci giorni in ascensore con le buste della spesa che impazzisce nel chiedersi se nel frattempo l’umanità si sia estinta, se il suo palazzo sia stato fatto sgombrare per pericolo crollo o se ci sia un complotto nei suoi confronti per farlo morire d’inedia.
Gli scenari apocalittici, i sacrifici umani, le meschinità di vite mediocri, lo smarrimento nella follia, concorrono alla fondazione di un nuovo immaginario che trova, anche nella personale visione della geografia, una fusione tra il reale e la sua contraffazione. La danza macabra a cui i personaggi prendono parte richiama un gusto per il fantascientifico che sfocia nel grottesco. Moyano si interroga sul legame originario con la morte, si insinua sul significato della perdita e sulla necessità umana di trovare un senso a quel che accade per non prendere atto della propria inutilità. L’uso sapiente dell’elemento ironico e della satira per narrare il dramma – tra bare dalle fauci aperte che aspettano la razione quotidiana e morti che fanno telefonate – connota il ridicolo che caratterizza l’esistenza e la sua fine.

 

La mano mozza che giace sull’asfalto indossa il braccialetto della fortuna

 

Oggetti-simbolo assumono il valore di una premonizione o di una evidenza, tra ampolle etichettate con dentro lacrime sparse per animali e persone morte, e palline di plastica che sbucano da sotto il letto dopo decenni, a sancire l’irreversibilità della malattia. Quest’ultimo aspetto ritorna a più riprese nei racconti di Teatro di cenere, esplorato come agente di una trasfigurazione che annulla il noto e rende concreti gli abbagli.
Pur con debiti indiscussi – da Jonathan Swift a Jorge Luis Borges a H. P. Lovecraft a Franz Kafka, a Francis Scott Fitzgerald e Dylan Thomas – a rendere inconfondibile la voce di Moyano nel panorama letterario contemporaneo è la capacità di fondare un immaginario nella coesistenza di spunti favolosi, fantastici e realistici per innescare interrogativi legati ai grandi temi dell’esistenzialismo anche attraverso un particolare accento riservato al tempo, al suo scorrere angoscioso. Il culmine di tale esplorazione è raggiunto nel racconto Ritorno, una potente e visionaria interpretazione del ciclo ininterrotto di morte e vita.
Il tempo diventa lo spazio delle riflessioni sul possibile, sul peso di variabili all’apparenza minime nel tracciare esiti opposti nell’esistenza degli individui che richiama l’indagine di Krzysztof Kieslowski sulle vite ipotetiche che possono aprirsi all’essere umano. Può allora succedere di immaginare Dante sposato con Beatrice condurre una vita ordinaria con i loro sei figli. Sollecitato da Dio si interroga su quale sorte avrebbe preferito per scrivere o meno la Divina commedia. Passaggi memorabili richiamano le immagini di H.G. Wells; le suggestioni di Dino Buzzati nella capacità di Moyano di allestire di significati simbolici mondi fantastici al contempo realistici e favolosi; riportano a Nikolaj Gogol’ nell’assegnare al gioco letterario una valenza politica per compiere un feroce ritratto sociale con ingrandimenti sulla matrice corrotta celata in ogni individuo.
Tra i motivi ricorrenti non a caso ritorna a più riprese quello del clone, che richiama la riflessione sulla riproducibilità e la serialità di temi e motivi esplorati dai grandi filosofi classici. In Teatro di cenere è proprio l’osservazione degli esiti di deliri privati a misurare la segreta convinzione di immortalità, come accade all’uomo che scopre di avere un clone e si convince che, uccidendolo, farà credere di essere morto e potrà iniziare una nuova vita altrove.
I racconti di Manuel Moyano sono inviti ad abbandonare ogni logica per lasciarsi confondere dalla realtà in un mondo concepito – come sosteneva Vladimir Nabokov in Lezioni di letteratura – come una creazione artistica inconsistente e illusoria.

 

La porta funziona in entrambi i sensi, – ruggì la Voce. Volevate affacciarvi sull’Altro Lato, ma non avete calcolato che anch’Io avrei potuto entrare nel vostro mondo. Ora è troppo tardi per provare a richiuderla.

Le piramidi di giorni, di Daina Opolskaitè

Autore: Daina Opolskaitè
Titolo: Le piramidi di giorni
Editore: Iperborea
pp. 256 Euro 17,00

di Debora Lambruschini

Una raccolta pura, slegata dalle mode letterarie, composta da dodici racconti perfettamente autonomi e legati fra loro dal rincorrersi di alcune tematiche e spunti: Le piramidi di giorni, della premiata autrice lituana Daina Opolskaité e pubblicato in Italia da Iperborea, è un gioiello capace di coniugare padronanza tecnica del genere (le scelte efficaci dei titoli, l’accento su incipit e finali, le epifanie…) e costruzione di una propria voce autoriale, in italiano resa dalla traduzione di Adriano Cerri, che ringraziamo molto anche per aver tradotto per noi alcune domande rivolte all’autrice.

Nelle storie di Opolskaité tutto si incastra precisamente, scrittura e storia diventano l’una dipendente dall’altra, la capacità di maneggiare la materia si sposa al grado di intimità che riesce a costruire con il lettore.


Daina Opolskaité: Sono convinta che, in un buon testo, struttura e contenuto debbano comporsi in un’unità. Inizio a scrivere una storia nelle circostanze più diverse: a volte può capitare che mi balzi davanti agli occhi, o nell’immaginazione, un luogo particolare, per esempio una casa o una stanza dove potrebbe abitare qualcuno. Altre volte sono dei semplici oggetti a ispirarmi, piccole cose viste casualmente o ricordati: un paio di scarpe, un maglione, una bambola o una tazza da caffè. Inizio a domandarmi a chi potrebbero appartenere, e da lì comincia una storia. Ma la situazione più intrigante è quando all’improvviso mi si presenta un personaggio: vedo subito il suo carattere definito, sento quello che dice, che cosa ha in mente di fare, che cosa lo opprime. Mi dedico alla stesura di ogni racconto senza fretta, tornando un’infinità di volte sulle stesse frasi. Cerco le parole più adatte per quello che voglio raccontare. Faccio come un po’ come un orefice: limo il testo, lo lucido come una pietra preziosa fino a che non raggiunge un aspetto che non voglio più modificare.


Sono racconti dal gusto classico, immersi in un tempo e un luogo non particolarmente definiti di cui ne avvertiamo i contorni (la Lituania rurale, gli anni Novanta, il presente) ma che restano elementi di secondo piano, perché ciò che conta, ciò che rappresenta il cuore nevralgico della narrazione sono i movimenti minimi delle persone raccontate, le epifanie, i rapporti umani, il quotidiano. Uomini e donne di cui Opolskaité talvolta attraversa una vita intera ma, molto più spesso ed efficacemente, ne fotografa un istante denso di significato, ci mostra lo scarto dalla quotidianità, ci lascia intuire gli abissi; e tutto ciò che resta fuori dal racconto scritto è uno spazio vuoto che possiamo riempire.

 

D.O. : Scelgo di proposito di scrivere dei racconti che spingano il lettore a riflettere in maniera più ampia, a considerare che non è tutto così semplice come appare. E poi l’anima dell’uomo è davvero un mistero irrisolto. Che cosa nasconde, quante cose diverse può contenere dentro di sé? Questa indagine mi ha sempre affascinata. Sono convinta che ci sia dato qualcosa di molto speciale: viaggiare nel tempo, tornare al passato, immedesimarsi in un’altra persona e in tal modo vivere una trasformazione... ma i modi in cui questo avviene sono imprevedibili. Devo confessare che il superamento dei confini spaziali e temporali nei miei racconti non ha sorpreso solo i lettori, ma anche me stessa; mi sono stupita di come sono riuscita a rappresentare tutto questo. È qualcosa che dona al testo maggiore ampiezza, gli permette di evolversi, di respirare, di meravigliare.

Storie autonome l’una dall’altra come nella più pura tradizione di una raccolta di racconti, accomunate dalla ricorrenza di un tema, un simbolo, un motivo e a quel «momento di verità», per dirla come Nadine Gordimer, che costituisce l’anima della forma breve.
I rapporti umani e il senso di solitudine e mancanza, si rincorrono in molti di questi racconti e si fanno particolarmente interessanti quando implicano la riflessione – non stereotipata – sulla maternità, come evidente già dalla storia d’apertura, “Inferriate”, fra le più significative della raccolta:

 

Tra loro due si ergeva qualcosa di non oltrepassabile, qualcosa di più forte di loro. Come una solida inferriata impossibile da abbattere.
(“Inferriate”, p. 25)

 

Sono una madre single con i figli lontani e l’orfano che, tanti anni prima, aveva accolto, non per particolare slancio affettivo quanto per l’urgenza di trovare una piccola ulteriore forma di reddito che li aiutasse a tirare avanti; un legame sempre più debole con i propri figli, che si va allentando, e il senso di estraneità mai superato nei confronti di quel bambino inselvatichito, rude, che pare incapace di affetto. Ma non c’è cura da parte della donna che vada oltre le semplici questioni pratiche del quotidiano – un riparo, del cibo, dei vestiti – e non c’è desiderio di creare un legame, non c’è affetto. Tanto dalla parte di lei, focalizzata sui propri figli e sul legame sempre più debole con loro, quanto da parte di lui, bambino e poi ragazzo che non ha mai conosciuto affetto, calore umano.

 

Troppo tardi l’idea di una casa aveva bussato al suo mondo; le sue spalle tremanti, anziché percepire l’abbraccio accogliente di quel sentimento, si erano ritrovate gravate di un peso eccessivo. […]
Non era abituato a stare con qualcuno che si curasse di lui e che tutti i giorni gli insegnasse come vivere. (“Inferriate”, p. 25)

 

Le inferriate tra loro non possono essere abbattute, nemmeno col tempo, nemmeno quando restano soltanto loro in quella casa ormai vuota.
Della maternità Opolskaité racconta anche le ombre, le mancanze, la sensazione di essere sopraffatti; è la donna che cerca un attimo di libertà da un quotidiano difficile e fugge in piena notte, nel silenzio dell’auto ma sovraccarico di pensieri; è la madre andata via tanto tempo prima, senza dire una parola, il cui vuoto echeggia ancora in ogni stanza, nelle vite di chi ha lasciato; è, ancora, la madre che nelle scelte avventate della figlia teme di rivedere se stessa e la propria vita.
La maternità nei racconti di Opolskaité è anche rapporto simbiotico tra una donna e la figlia, in cui a tratti i confini fra l’una e l’altra paiono annullarsi: nei volti quasi identici riflessi nello specchio, nei cuori allineati, nella voce narrante. “Io e Madlena” è un racconto-mondo, teso fra istanze narrative divergenti che tuttavia riesce a reggersi e incatenare il lettore più che per lo scioglimento del “mistero” – il segreto sul passato della donna è chiaro quasi da principio – proprio per il gioco di specchi fra madre e figlia. E se c’è un mistero, quello è Madlena stessa: per quanto stretto sia il rapporto madre-figlia, per quanto i cuori seguano lo stesso ritmo, c’è una parte della donna per sempre inconoscibile.  

 

[…] capisco che c’è qualcosa che da sempre riguarda lei soltanto e che non conoscerò mai, e quel qualcosa è sempre stato ed è la sua vita, a me sconosciuta. Una campana di vetro di cui al massimo posso toccare la superficie con le dita.
 (“Io e Madlena”, p. 152)

 

Sono innumerevoli le declinazioni su questo tema, ma la prima e più immediata a cui la mia mente è tornata è nel romanzo di Zadie Smith “Swing time”: se Liucija accoglie quel mistero che è la vita di sua madre Madlena, qui la protagonista ne è sopraffatta, quasi offesa dal fatto che sua madre possa essere altro dal ruolo che ha nella sua vita; che possa essere una donna con un passato, una vita propria, dei desideri, delle esigenze. Un essere umano.
Tornando a “Io e Madlena”, è questo anche il racconto in cui maggiormente viene dato peso al tema del tempo, il fil rouge che non solo attraversa ma lega saldamente ogni storia di questa raccolta.


D.O. : Mi capita spesso di riflettere sul tempo, sento il suo pulsare, la sua provvisorietà. Guardo ogni cosa con la chiara consapevolezza che tutto cambia molto in fretta. Mi commuove la transitorietà dell’uomo in questo mondo, la sua innata fragilità. La protagonista del racconto “Io e Madlena” considera il tempo come una costruzione: la piramide dei giorni.
Ed è così, tutti noi costruiamo la piramide dei nostri giorni fino alla fine della vita. E ci chiediamo se dopo di noi resisterà nei ricordi di qualcuno o se invece crollerà e finirà in polvere.

La riflessione sul tempo è il centro da cui si dispiega ogni cosa, ed è fatta di innumerevoli sfumature, osservata da punti di vista differenti. Anche dal punto di vista della costruzione delle storie l’uso del tempo, in questo caso narrativo, è mutevole: talvolta tempo della storia e tempo dell’intreccio coincidono, altre volte la narrazione fa ampio uso di flashback e i piani temporali si intersecano fra loro. Anche queste scelte formali non fanno altro che confermare quanto detto in principio: scrittura e storia sono qui legate indissolubilmente, l’una al servizio dell’altra, ed ecco come la malleabilità del tempo – narrativo o meno – diventi fondamentale in questi racconti. 

Un tempo che si flette, che è mutevole, ora sfuggevole ora impercettibile; tempo che è memoria, nostalgia, che cambia il senso delle cose ma non le fa dimenticare; tempo che qualche volta pare tangibile, almeno nei suoi effetti, molte altre appare impossibile da comprendere.

 

Io la ascolto e penso che il tempo è un artigiano potente che crea le sue imponenti costruzioni con i secondi, i minuti e le ore. Sono delle vere e proprie piramidi di giorni che si stagliano sopra la mia testa e dalle quali non potrò mai uscire.

(“Io e Madlena”, p. 146)

Volevo essere Vincent Gallo, di Sergio Oricci

Autore: Sergio Oricci
Titolo: Volevo essere Vincent Gallo
Editore: Pidgin
pp. 156 Euro 14,00

di Fabrizia Gagliardi

Sono a letto e Clementine sostiene di essere un libro aperto, gli racconta anche le cose più insignificanti. Fino a quando Joel occhi chiusi, serafico, le dice che «Parlare in continuazione non significa comunicare».
È difficile assegnare un genere a The Eternal Sunshine of the Spotless Mind (in Italia meglio conosciuto come Se mi lasci ti cancello) perché è un film che all’impianto più classico di una commedia romantica affianca la science-fiction. E in una delle rare coincidenze in cui l’abilità registica e, soprattutto, la potenza della sceneggiatura innescano il potere trasfigurativo delle storie. Le scene del film diventano diapositive che fermano il tempo, così iconiche che la loro decontestualizzazione diventa più potente del significato originale.
A ricordarmi il sapore destabilizzante della pellicola è stata la lettura della raccolta di racconti di Sergio Oricci, Volevo essere Vincent Gallo, inclusa meritatamente nel lavoro di scoperta underground, di opere ruvide e sopra le righe di autori italiani di Pidgin edizioni.
In Ouă de gaşcă un uomo è convinto che il suo superpotere sia capire quando le persone attorno a lui hanno lavato i capelli l’ultima volta; il protagonista di Pesci di vetro vorrebbe rintanarsi nel mondo colorato e rassicurante di oggetti, come i pesci di vetro che colleziona; in Wolfie il ragazzo-cane un ragazzo viene cresciuto proprio come un animale da compagnia; un freak dalla peluria incontrollabile diventa arte contemporanea in IpertricoticofocomelicoTM.
È impossibile racchiudere in poche righe la varietà di storie e la versatilità immaginativa con cui i personaggi annodano pensieri, incomprensioni e desideri in grado di manifestarsi e di esaurirsi nel giro di poche pagine. A tenerli insieme è un impianto stilistico che ha il suo trucco nel dinamismo e nella semplicità.
Occorre grande abilità per controllare i confini precisi di un disagio crescente, il sussurro di un problema che forse non verrà mai affrontato, ma soprattutto dosare l’equilibrio tra solletico e frustrazione del lettore con ritmo e ironia. Le pagine di dialoghi fulminei abbondano in confronto alle parti descrittive e tutto crea la sensazione che la vicenda stia sfuggendo di mano: non c’è tempo per affrontare di petto un problema sopito che prima non era nemmeno lontanamente immaginato.
Si tratta di un esperimento interessante nella produzione di Sergio Oricci che con il romanzo Cereali al neon (pubblicato da effequ) si lasciava andare con frammenti epigrammatici, visioni fulminee che riproducevano in maniera sorprendente lo scarto magmatico tra realtà e astrazione. Se Cereali al neon era una sperimentazione ricca di ghirigori linguistici mai scontati, Volevo essere Vincent Gallo procede nella direzione opposta: persegue il tentativo di semplificare la complessità delle relazioni e l’inseguimento di una fine che potrebbe non rivelarsi così lieta.
Anche se uno degli interlocutori sembra riprodursi, unico e identificabile, nei botta e risposta di più racconti, la creatività nel tessere frammenti, uno diverso dall’altro, restituisce unità alla possibile dispersione. Lo si nota nelle conclusioni istantanee, di poche righe, a cui arrivano molte delle coppie che si confrontano: in Gucci Louis Vuitton il procedimento quasi metodico con cui i protagonisti divorano gli orsetti gommosi dà l’idea che ci sia lo stesso approccio per problemi ben più grandi: «Mastichiamo e inghiottiamo fino a quando gli orsetti sul tavolo non sono finiti. Proviamo a parlare ancora un po’, ma in fondo non ci diciamo più niente».
La scintilla che innesca un cratere di spiegazioni, passi falsi e chiarimenti è un dettaglio della quotidianità. Ne La marginalità del respiro l’annuncio dell’arrivo di una nuova collega genera un dialogo dai contorni amari:

Vorrei risponderle che non è vero, che parliamo sempre di qualcosa. Non ci riesco, in fondo ha ragione. Non è che me ne stia rendendo conto adesso, è solo che speravo di essere l’unico a essersene accorto. Pronunciamo tantissime parole ogni giorno, non smettiamo un attimo di parlare. A fine giornata quante ne restano? E il giorno dopo? Di cosa abbiamo parlato ieri a cena? E ieri mattina, il giorno prima?

I protagonisti affrontano inconsapevolmente uno spostamento di equilibrio (sentimentale, lavorativo, famigliare) che non riescono a padroneggiare. L’unica soluzione è sciorinare dialoghi che a tratti sfiorano il nonsense e altre volte svelano dettagli a intermittenza, piccole luci di emergenza che illuminano altrettanti possibili epiloghi mai svelati.
Oltre all’eccentricità delle vicende bisogna considerare anche il surrealismo che avvicina la presenza di un’anomalia. In molti racconti si percepisce tanta voglia di comunicare ma la voce è di qualcuno fuori dal coro, l’emarginato che ha intravisto tutto prima: una volta giunti all’incomprensione, la normalità come condizione precedente, diventa un punto di non ritorno simile all’oblio. Ne La parola con la effe, per esempio, una madre fatica ad ammettere di avere qualche problema affettivo nei confronti del figlio. La narrazione si sviluppa attraverso uno scambio di battute col padre del bambino, in un crescendo di tensione:

 Riesci a essere esattamente come tutti si aspettano che tu sia. Riesci a pensare e a provare tutto quello che gli altri danno per scontato che tu stia pensando e provando.

 

I sedici racconti di Volevo essere Vincet Gallo restano una lettura istantanea che smaschera l’incomunicabilità, il surrealismo e una quotidianità schiacciante e priva di causalità. Se a una prima impressione le vicende raccontate sembrano non avere alcuna conseguenza sul lettore, basterà pensare al primo dialogo in cui ci incaponiremo su un’ossessione schiacciante, una malinconia latente, una stranezza che ci rende unici.

 

Quattro nuovi messaggi, di Joshua Cohen

Autore: Joshua Cohen
Titolo: Quattro nuovi messaggi
Traduzione: Claudia Durastanti
Editore: Codice Edizioni
pp. 224 Euro 18,00


di Fabrizia Gagliardi

La storia di uno spacciatore finisce su un blog, in poco tempo diventa virale e la sua vita diventerà la disperata ricerca di un modo per cancellare l’identità online. Invece di insegnare scrittura creativa un professore chiede ai propri studenti di portare a termine la costruzione di un edificio nella città che lo ha ripudiato. La creatività frustrata di un copywriter che lavora per case farmaceutiche cerca di rivitalizzarsi con l’invenzione di una storia. Un aspirante giornalista conduce un’indagine per ricostruire i destini frammentati delle attrici di film porno.
I protagonisti di Quattro nuovi messaggi, raccolta di racconti di Joshua Cohen pubblicata nel 2012 e ora recuperata da Codice Edizioni (con la traduzione di Claudia Durastanti), sono alle prese con complessi stravolgimenti comportamentali e cognitivi provocati dalle nuove tecnologie.
Anche se la raccolta risale ad anni in cui la presenza virtuale non era così innervata nella vita di ognuno come oggi, si comprende come sia abilmente ricostruita l’origine di una metamorfosi: ogni storia è percorsa dal progressivo sgretolarsi dell’identità reale per l’affermazione di quella online, la scrittura dell’io è incerta, l’ansia, lo smarrimento e il senso d’impotenza percorrono ogni confronto con le briciole che sopravvivono o che non arrivano online.
Al contrario di quello che si possa pensare alle nuove tecnologie non è riservata un’attenzione privilegiata e quando vengono citati computer, caselle di posta, login, tecniche di hacking, non svolgono alcuna funzione futuristica. Joshua Cohen si allontana abilmente da ogni definizione di profeta della catastrofe per proporre una nuova prospettiva: fermare il tempo per sottoporre alla lente di ingrandimento alcune tendenze e pratiche linguistiche influenzate da velocità e consumo di pensieri come se fossero codice binario.
L’espediente più adatto a tale scopo è procedere con l’impostazione narrativa di parabole inusuali, perché il tipo di narrazione solenne amplifica il senso di un cambiamento epocale, una conversione universale irreversibile.
In Inviato, per esempio, il racconto si snoda dalla genesi della costruzione di un letto fino a un futuro in cui viene usato per girare un film porno:

Queste donne vivevano nella speranza, vivevano per il futuro come se ognuna di loro fosse già il personaggio di un film che si proiettava ben oltre la durata di un orgasmo, il film di un orgasmo costante che viene costantemente filmato: un biopic collettivista speranzoso che accumulava minuti filmati, accatastando incessantemente bobine e gigabyte di filmato, tutto quel lavoro sporco di montaggio per la coerenza e il lieto fine, da qualche parte tra molti anni e in molti paesi lontani. Vivevano come le aspiranti star dei film delle loro vite, che contenevano a loro volta i film degli altri (come i reattori nucleari contengono i loro nuclei).

«Ogni storia è connessa al tempo in cui viene scritta» affermerà l’autore in un’intervista su Rivista Studio, e in effetti basta guardare la sua opera successiva, Il libro dei numeri, romanzo mastodontico sull’avvento di Internet, per agevolare qualche parallelismo con le conseguenze dell’intrattenimento televisivo come aveva fatto David Foster Wallace in Infinite Jest. L’avvento della televisione aveva cambiato il modo di narrare nella letteratura americana. Il mondo culturale era profondamente segnato dalla cesura tra una generazione di scrittori americani «guardoni» e un esercito di letterati delle generazioni precedenti pronti a stabilire cosa fossero Classico e Letteratura, alla ricerca di “opere senza tempo dal momento della loro creazione”.
Posizioni e preoccupazioni della critica che oggi appaiono anacronistiche perché l’oggetto d’interesse è un quesito opposto: gli stravolgimenti che sfuggono al controllo umano (come una pandemia dilagante o la crisi climatica), il bombardamento informativo quotidiano e la conseguente tendenza a creare bolle ideologiche volte a proteggere una versione di noi stessi, non hanno fatto altro che creare megafoni di singolarità che si rivolgono a tante altre unità disconnesse tra loro.
Non è strano che per la fiction oggi ci s’interroghi sulla «trappola della riflessività» definita dal New Yorker come la modalità con cui alcuni scrittori contemporanei costruiscono una trama imperniata su loro stessi, un intreccio autoriferito che non diventa mai reale opportunità di riflessione oltre il proprio limite. «Come si scrive un romanzo che non diventi stantio alle prossime elezioni?» è l’altra domanda ironica di un articolo dal titolo emblematico: Are Novels Trapped by the Present? Il dubbio è lecito se pensiamo al flusso di messaggi, notifiche, idee, news che amplificano il senso di smarrimento: chi scrive è più orientato a rappresentare la realtà piuttosto che «rispondere ad essa, criticarla o impegnarsi. La rappresentazione – e la sua attraente controparte, la relatività – sono celebrate come conquiste piuttosto che riconosciute come la linea di base da cui un romanziere dovrebbe iniziare il suo lavoro».
Proprio perché ci capita di leggere e scrivere molto più rispetto al passato è inevitabile che ci sia una contaminazione tra i testi brevi e sintatticamente semplici e una semantica ridotta all’osso, ad alto grado di polarizzazione. Joshua Cohen si allontana dal pericolo di ogni riferimento autobiografico per recuperare la complessità di linguaggi e destini che l’identità virtuale, il riflesso dell’identità negli altri, si trova inevitabilmente a negoziare.
Ogni protagonista dei suoi racconti è un atomo in corrispondenza complementare con un altro. Così Mono, lo spacciatore di Emissione, è la versione tragica di Moc, la pornoattrice che si lascia sedurre da una carriera online in Inviato. Il professore del Quartiere universitario sceglie un mutismo artistico, mentre il copywriter di McDonald’s sente il bisogno di riappropriarsi della propria fantasia ormai distorta dalla lingua del marketing.
Per Cohen il decentramento del sé non è tanto una pratica empatica ma un vero e proprio esercizio di libertà di essere altro da sé. In questo modo evita ogni implicazione legata a uno sguardo che si lascia sedurre dalla centralità della propria esperienza individuale, un po’ come invece aveva fatto Jia Tolentino nella raccolta di saggi Trick Mirror. Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo ), in cui l’incursione autobiografica rendeva il personal essay una composizione ibrida tra la finzione dell’autore e la formulazione di un’ipotesi. Contrariamente a quanto fatto dall’autrice americana Cohen si apre a una provocazione: «Mi interessa la morte della terza persona: l’incertezza dello scrittore, l’incapacità di abitare la prospettiva altrui ma anche il dubbio profondo della nostra missione. La prima persona può sembrare più autentica, ma non lo è perché ogni prima persona è un personaggio». Più che avvicinarlo al tipo di riflessione filosofica di un saggio Cohen può essere accostato alla consapevolezza di Cory Doctorow): scrivere per alimentare il potere identificativo della fiction ed entrare nel lettore molto più di quanto non faccia la saggistica.

L’amore tra alieni, di Terézia Mora

Autore: Terézia Mora
Titolo: L’amore tra alieni
Traduzione: Daria Biagi
Editore: Keller
pp. 260 Euro 17,00

di Fabrizia Gagliardi

Se avete mai cambiato città o paese capirete che anche una semplice passeggiata alimenta l’illusione che lì dove arriva lo stupore dello sguardo, la libertà della scoperta con passi sempre più lontani da casa, forse arriverà un senso di appartenenza.
Se avete mai provato a stare lontani dal luogo d’origine avrete sperimentato la vertigine dello straniero: il potere di essere chiunque lontano dagli occhi indiscreti di chi vi conosce bene, con un sottofondo d’isolamento per la mancanza di un sostrato familiare che valida il vostro posto nel mondo.
Si fa in tempo a capire che la casa lontano da casa inizia ad assomigliare solo a una costruzione molto diversa dalle radici. La storia raccontata è sempre quella di qualcuno che arriva in un luogo e non che è partito da quello di prima. Sono le stesse condizioni in cui troviamo i personaggi di Terézia Mora nei racconti de L’amore tra alieni , pubblicato da Keller Editore con la traduzione di Daria Biagi.
Uomini e donne sono protagonisti “alieni” perché si muovono ai margini della storia e ogni tipo di straordinarietà nelle loro vicende si esaurisce in un bisogno di anonimato tra solitudine e felicità. L’emarginato ha fatto delle sue mancanze, tra delusioni d’amore e rimpianti del passato, una corazza che è diventata rifugio, perché è fatta di tracce uniche di familiarità con il sé precedente.
È facile inseguire il ritmo galoppante dell’anziano maratoneta in Pesce nuota, uccello vola, fino a quando la narrazione non si frammenta tra la consapevolezza del non avere niente di speciale e il disorientamento in un quartiere sconosciuto della città in cui vive.

 

Corrono fino alla fine della strada, laggiù c’è una galleria e dopo la galleria inizia ormai un altro quartiere, e a Maratoneta viene in mente che lui in realtà non si allontana mai dalla sua zona, a meno che non si trovi da qualche parte a correre una maratona internazionale. Nel quartiere vicino al suo invece non va mai.

In molti altri racconti i personaggi camminano senza sosta, percorrono chilometri a piedi, col treno o con la macchina, in un rito che fa sfiorare la convinzione di conquistare quelle mappe, esattamente come queste ultime hanno implicitamente prevaricato la vita di chi le attraversa.
In Autoritratto con strofinaccio un indizio di felicità come «il primo giorno con la bici è stato il primo giorno in cui sono stata euforica qui» è subito ritrattato dal monito che la città potrebbe dividere la coppia e per questo «uno deve sempre rimanere alla base, in modo che l’altro possa ritrovarlo». Persino il professore giapponese del racconto Il dono ovvero la dea della misericordia cambia casa scopre, nella città che non è la sua, una via parallela a quella dove abita. S’innamorerà di una divinità ma sorgerà il dubbio che il suo vagabondare possa essere travisato («quanti vanno a zonzo di continuo e senza uno scopo concreto vengano in genere considerati sospetti (vagabondi) o da compatire (senzatetto)»).
È proprio l’amore casuale e ramingo a offrire un appiglio dalla doppia personalità: da un lato è la lingua universale che salva i protagonisti nonostante tutto, dall’altra è il pericolo di una delusione che potrebbe portarli al punto di partenza, a sentirsi di nuovo stranieri in un posto più sconosciuto di prima. L’amore tra ragazzi che arrancano immersi nella miseria e nella passione del lavoro ne L’amore tra alieni, il custode notturno di un hotel segretamente innamorato della sorellastra in Hänsel e Gretel si perdono nel bosco, le passioni passeggere di un proprietario ne La pensione portoghese, non sono che squarci momentanei e fragilissimi in un mondo di cambiamenti repentini e casuali.

La scrittura dell’autrice occupa narrazioni lunghe come profondi sospiri: si prendono tutto il tempo per costruire una vita anonima, con minuziosità e lirismo, per poi interrompersi e abbandonare il lettore in salita, a contemplare finali aperti. Lo smarrimento di un perpetuo camminare non è casuale, perché ritrae personalità nel grigiore del confine geografico e linguistico. D’altronde la stessa autrice è la voce emblematica che percorre la letteratura mitteleuropea: nata nel 1971 a Sopron, in Ungheria, cresce in una famiglia bilingue parlando anche il tedesco. Si trasferirà a Berlino poco dopo la caduta del muro e diventerà scrittrice e traduttrice ricevendo numerosi riconoscimenti, fra cui il Premio Ingeborg Bachmann con Seltsame Materie (“Materia strana”), la sua raccolta di racconti d’esordio, l’Adelbert von Chamisso Preis, il premio della fondazione Rowohlt per la traduzione di Harmonia Caelestis di Péter Esterházy.
Più che un esilio di uno scrittore migrante il suo sembra uno sguardo molto democratico che non ripiega sulla letteratura dell’uno o dell’altro paese, ma si rivolge al panorama internazionale. Partendo da inquietudini kafkiane le sue parole sono in grado di creare una narrazione claustrofobica e decentrata assieme: vite particolari ma altrettanto ordinarie e anonime, con un passato in fuga e un futuro non ben definito. Non ci sono grandi sogni o ambizioni, c’è la semplicità di anelare la routine e la noia degli autoctoni, c’è la voglia di fermare il tempo con un amore,  c’è tutta l’affanno di desideri molto più scarni rispetto a quelli di chi ha tutto:

 

Ma il tuo sogno qual è? Qual è la cosa che ti piacerebbe di più fare?
Niente di niente. Guardare il sole che sorge e tramonta. Oltre quei pochi minuti al giorno non vorrei proprio vivere. Non dover mangiare, nulla. Dormire, come una creatura delle fiabe. Che dorme, si sveglia per guardare il sole che sorge e tramonta, e poi si riaddormenta. Sempre così, in eterno.

La scoperta dell’assoluto e altre storie del mistero, di May Sinclair

Autore: May Sinclair
Titolo: La scoperta dell’assoluto e altre storie del mistero
Traduzione: Cristina Cigognini
Editore: 8Edizioni
pp. 288 Euro 19,00


di Debora Lambruschini

 

Voi pensate che il passato influenzi il futuro. Non vi è mai venuto in mente che il futuro possa influenzare il passato? Nella vostra innocenza c’era l’inizio del vostro peccato. Eravate ciò che sareste stata…
(“Dove il fuoco non è estinto” p. 44)

 

La prima volta che mi sono imbattuta in May Sinclair stavo svolgendo delle ricerche per la tesi di laurea magistrale: per ragioni che sul momento mi erano parse tanto acute e di cui nei mesi a venire mi sarei maledetta per le numerose difficoltà riscontrate nel reperire i testi, avevo scelto di dedicarmi alla short story inglese di fine Ottocento e a quattro scrittrici che avevano saputo imporre al genere una connotazione particolare; il nome di Sinclair non rientrava fra queste, ma qui e là nei saggi critici letti durante quel periodo tornava abbastanza di frequente, specie quando ci si avvicinava al discorso sul Modernismo inglese. A colpirmi, neanche a dirlo, alcuni racconti che ero riuscita a reperire: il soprannaturale che permeava le storie e, soprattutto, il discorso sul femminile velato ma presente, mi erano parsi molto interessanti, anche se non in linea con quanto andavo cercando nelle mie ricerche. Eppure Sinclair era rimasta lì, nella mia memoria. Romanziera prolifica, poetessa, filosofa, traduttrice, critica letteraria, Sinclair è stata anche un’attivista che si è molto spesa per la questione femminile, tanto sulle pagine quanto nella vita. Molto apprezzata dal pubblico e dalla critica del tempo, gli ultimi anni di inattività in seguito alla malattia e poi la scomparsa l’hanno condannata a un lento declino e oblio, fino alla riscoperta negli anni Ottanta del secolo scorso attraverso ristampe e saggi critici che hanno ristabilito il forte legame tra l’autrice e il movimento modernista; sua, per esempio, l’espressione “flusso di coscienza” che tanto caratterizzerà il romanzo del periodo, di cui lei stessa è stata fra le anticipatrici con il bildungsroman femminista e sperimentale Mary Olivier. In Italia sono apparsi negli anni alcuni romanzi e racconti di Sinclair, oggi di scarsa reperibilità, ma credo manchi al momento uno studio critico più sistematico sull’opera e l’influenza dell’autrice. L’ultima, interessante, pubblicazione riguarda le Uncanny stories, racconti di fantasmi e del mistero per la prima volta tradotti in italiano per 8tto edizioni: la scoperta dell’assoluto rappresenta un tassello davvero importante nella ricostruzione bibliografica del lavoro di Sinclair e non sorprende che ancora una volta sia un editore indipendente a occuparsi di salvare dall’oblio voci sommerse del passato, in quella che appare una fortunata tendenza consolidata. Penso, tra i casi più recenti, alla riscoperta di autrici della tradizione italiana di Otto e Novecento, schiacciate dal peso della censura, dal canone tradizionale, dalla peculiarità del loro sguardo, che in anni recenti sono tornate a circolare e di cui qui a Cattedrale stessa stiamo facendo un attento lavoro di ricerca e recupero, con gli approfondimenti a cura di Anna Lo Piano. La voce di May Sinclair merita sicuramente di farsi sentire anche dai lettori contemporanei e proprio questo nostro tempo sensibile alle tematiche femministe appare particolarmente adatto ad accogliere nuovamente l’opera dell’autrice britannica. L’appunto che mi sento di fare a questa bella pubblicazione è la mancanza di un apparato critico bibliografico – mia personale ossessione di cui lamento spesso l’assenza – necessario a inquadrare l’opera di un’autrice per lo più sconosciuta nel nostro Paese e che consentirebbe una ricezione più profonda dei suoi testi.
I racconti appena pubblicati da 8tto edizioni nella puntuale traduzione di Cristina Cigognini appaiono tanto più interessanti perché stratificati: se da una parte leggiamo con piacere queste storie intrise di soprannaturale, di mistero, immerse in un mondo assolutamente ordinario in cui ancor più forte appare il contrasto con tutto ciò che è intangibile, in una sorta di realtà aumentata, dall’altra scopriamo un sostrato di spunti e riflessioni intorno alla questione femminile, affrontata da Sinclair in modo peculiare e qui velato ma ben percepibile. L’ossessione amorosa, il patriarcato, le criticità del matrimonio, le presenze misteriose e l’invisibile che muta radicalmente l’idea di realtà, sono temi ricorrenti in questa raccolta che mantiene comunque una  certa varietà formale e contenutistica. Sette storie che scardinano l’idea dell’ordinario, pur restando ben ancorate a un quotidiano per lo più domestico, a sottolineare ancora una volta i confini del mondo femminile del periodo; confini che, se non superati, sono in qualche modo espansi da una realtà potenziata in cui l’intangibile appare a tratti ancora più concreto del tangibile stesso, e tutti i sensi conosciuti sono coinvolti nell’accettazione di ciò che non sempre vediamo. E dove un’assenza, per esempio, risulta tanto più concreta e forte di quanto ci si aspetterebbe:

 

Non osai mai chiedergli se a volte aveva la sensazione, come ce l’avevo io, che Cicely fosse presente in quella stanza in cui aveva tanto desiderato entrare, da cui era stata esclusa con tanta crudeltà. Non si capiva che cosa lui sentisse o non sentisse. Il volto di mio fratello era una maschera pesante, tetra; la schiena, ricurva sopra lo scrittoio, un muro dietro cui si nascondeva.

(“L’emblema”, p. 56)

 

La storia di Cicely, la sua ossessione che la spinge a tornare come un fantasma nella biblioteca del marito per tentare di comprendere ciò che in vita non le era stato possibile, è un racconto che apre a molteplici spunti di riflessione: la domesticità di cui prima è qui chiaramente espressa nell’ambientazione unica della storia, ma anche il rimando all’ossessione amorosa e la rappresentazione di una mascolinità fatta di silenzi, sentimenti repressi o comunque taciuti, di emozioni controllate, rappresenta un aspetto con cui continuiamo ad avere una certa familiarità. Nel caso di questa giovane moglie, il dubbio circa i sentimenti dell’uomo che ha sposato è qualcosa che non la abbandona neppure dopo la scomparsa ed è quello il vero mistero del racconto, più del velo che separa ciò che è corporeo e noto da ciò che non lo è. Ed è anche rappresentazione di una femminilità dominata dall’obbedienza e dal compiacimento, assertiva, dolente e da un bisogno portato all’estremo, certo, ma consapevole. 

 

Vedete, ora sapevo perché era tornata; era tornata per sapere se lui l’amava. Con un bisogno che la morte non aveva spento, era tornata per essere certa.

(“L’emblema”, p. 63)

 

Il velo si alza nei racconti di Sinclair e la realtà si mostra in tutto il suo potenziale. È lo stesso mondo, ma percepito in tutte le sue possibilità, che si mostra tanto chiaramente a chi predisposto ad accoglierlo:

 

Avrebbe detto che la terra sotto i suoi piedi fosse diventata intangibile, ma che in un lampo seppe che ciò che vedeva era l’essenza stessa del mondo visibile; viva e sottile come una fiamma; solida come il cristallo e altrettanto limpida. Era lo stesso mondo, campi pianeggianti dove c’erano campi pianeggianti, e colline dove c’erano colline; ma radioso, vibrante e, per così dire, infinitamente trasparente.

(“L’incrinatura nel cristallo”, p. 104)

 

Attraverso una lingua evocativa di cui Cigognini rende molto puntualmente ogni suggestione, il mondo di Sinclair appare amplificato e l’incorporeo non è relegato a uno spazio altro bensì esiste e si muove assieme a quello che conosciamo. La morte, quindi, e il legame con le persone amate, si carica di nuove complessità, in un rapporto che non viene mai del tutto meno e dove un certo grado di influenza è ancora possibile. Presenze venute a cercare risposte ai propri dubbi non soddisfatti, legami coniugali mai spezzati, desideri oscuri – inconsci, magari – che scatenano sensi di colpa impossibili da superare.

 

Un desiderio, persino un desiderio nascosto, poteva uccidere. Nei luoghi bui e reconditi della mente i pensieri correvano liberi senza che lo si sapesse, scavavano buche sotto i muri che separavano un essere da un altro; penetravano.

(“Se i morti sapessero”, p. 206)

 

Facendo leva sulla sensibilità e la predisposizione dell’epoca, Sinclair riesce in qualche modo a dialogare anche con il nostro razionale presente, più pronto magari ad accogliere le istanze femministe di cui questi racconti sono disseminati, rispetto al discorso sull’intangibile che tuttavia, una pagina dopo l’altra, si insinua nel nostro immaginario e apre a ulteriori suggestioni. È l’ignoto, che continua ad affascinarci, il desiderio di scardinare l’ordinario, indagare il mistero.

I colori dell'addio, di Bernhard Schlink

Autore: Bernhard Schlink
Titolo: I colori dell'addio
Traduzione: Susanne Kolb
Editore: Neri Pozza
pp. 240 Euro 18,00


di Fabrizia Gagliardi

C’è un dettaglio segreto nell’addio, una traccia indelebile che lo rende singolare proprio come ogni amore. Nessuno, però, ha mai avuto voglia di scoprirlo soprattutto in un anno in cui un saluto di circostanza è stato l’ultimo oppure si è trascinato per mesi senza la possibilità di risolversi. In realtà siamo avvezzi agli addii molto più spesso di quanto crediamo: ogni cambiamento determina uno spostamento che a sua volta genera onde concentriche di piccoli congedi.
Con I colori dell’addio Bernhard Schlink, pubblicato da Neri Pozza e tradotto da Susanne Kolb, analizza un caleidoscopio di commiati affascinante nella sua complessità. Nei nove racconti il significato dell’addio verrà sradicato dalla sua accezione negativa fino a fluttuare in un campo semantico in grado di contenere l’odio e l’affetto, la nostalgia e l’entusiasmo per il nuovo, un potenziale di dimenticanza che più in là sedimenterà in ricordi indelebili.
Nessun destino o carattere comune legherà i protagonisti della raccolta, eppure tutti percorreranno le fasi del lutto a ritroso. Il tempo di tale processo è dilatato in un dibattito interiore in cui ogni personalità trarrà conclusioni diverse.
Un musicista rivive le memorie di un passato sepolto dopo l’incontro con un grande amore mai vissuto in adolescenza in Triangolo musicale. In Picnic con Anna la vita riservata di un editor viene illuminata dalla possibilità di crescere e insegnare letteratura alla figlia del custode. Sarà solo uno spiraglio luminoso pronto a chiudersi a causa di un tragico evento che farà sprofondare il protagonista in un silenzio perenne.
Come una malattia misteriosa che contagia anche i più tenaci, tutte le voci sono coinvolte nell’arte più seducente della vita: quella di rinarrarsi nei ricordi e di guardarsi ogni volta da una prospettiva che muta con l’età, gli ideali e le idee abbandonate. L’intero processo è fondamentale per alimentare una fantasia o una giustificazione forte come un istinto di sopravvivenza: la difficoltà del ricordo è un meccanismo di difesa quando ci si è macchiati di fallimenti e manchevolezze, oppure quando si realizza che la felicità di quei momenti non potrà più tornare.
Come in Macchie senili dove l’arrivo del settantesimo compleanno porterà con sé consapevolezze riaffiorate dopo l’incontro con l’amante di un tempo:

 

Per lui era stata felicità pura. E per lei? Forse non si era nemmeno accorto delle sue aspettative. E delle sue delusioni? Lui sapeva che la sua compulsione a soddisfare le aspettative altrui non si fondava sull’altruismo, bensì sull’egoismo - dimostrando così di essere nel giusto. Forse allora, trovandosi al di fuori della sua dimensione quotidiana, professionale e matrimoniale, non aveva dovuto dimostrare niente e, chiuso nel proprio egoismo, era stato libero di passare come un panzer sopra i sentimenti di lei.

 
Per uno scrittore tedesco come Schlink diverso è anche il caso di addentrarsi nella memoria individuale e collettiva riguardo una verità nascosta, quasi volutamente non vista. Sono questi i casi in cui solo chi è in grado di rivolgersi al passato, senza distogliere lo sguardo, potrà intravedere libertà presenti e future. Lo notiamo in Intelligenza artificiale, la storia che apre la raccolta, in cui il protagonista ha difficoltà col prendere commiato dall’amico scomparso perché la figlia ha deciso di indagare sul loro passato nella DDR.
La traccia indelebile di ogni racconto ha a che fare con la solitudine della memoria in cui la verbalizzazione del pensiero è sgradita, surreale, quasi di cattivo gusto. Ecco perché Schlink popola di silenzi il mondo esteriore dei protagonisti, mentre li anima di monologhi sentiti e incredibilmente introspettivi nel profondo. L’autore sceglie di affinare un sottile chiaroscuro tra l’abilità d’identificare e ritrarre individui perfettamente inseriti nella normalità e l’imprevedibilità di un lavorìo mentale che spinge verso l’ignoto.
Così in Amata figlia il più naturale desiderio di avere figli di una coppia attraverserà una strana peripezia che condurrà al lieto fine; oppure la scoperta della storia extraconiugale della madre insegnerà a un figlio la libertà di conservare parti irrinunciabili di sé ne L’estate sull’isola.
Le voci non hanno niente di straordinario se non il tentativo di commemorare l’unicità di se stesse o degli altri, l’ultimo scampolo della speranza di essere ricordati proprio come si ha cura di ricordare chi o cosa non è più. Una speranza che spesso ha bisogno di attraversare il dolore per muovere passi avanti, perché l’addio e la memoria riguardano il perdono. «Oppure ti sei adagiata nel dolore tanto da non poter più vivere senza?», è la domanda che un’amica rivolge alla voce femminile de Il medaglione, alle prese con l’ultimo saluto a un ex marito in fin di vita che, anni prima, l’ha tradita con una ragazza alla pari.
L’idea dell’addio è equa e democratica, perché implica che la colpa non ricada solo sull’altro ma anche sulle inevitabili aspettative e speranze create da chi deve accettarlo.
Ne è consapevole il protagonista di Anniversario che osserva con fascino e timore la compagna molto più giovane di lui:

La vecchiaia di lui e la giovinezza di lei - se la prima arrivasse a raggiungere la seconda, la avvelenerebbe e basta, c’era solo da sperare che lui, l’uomo anziano, non avrebbe mai raggiunto lei, la donna giovane. Che cosa poteva darle oltre a ciò che, col passare degli anni, la vita le avrebbe dato comunque? Non poteva darle niente, poteva solo toglierle qualcosa.

 Vivere nel timore dell’abbandono e non osare sarebbe a sua volta una vigliaccheria ed è in momenti come questi che scatta il passaggio da un moto d’egoismo alla liberazione più completa: accettando la possibilità della perdita ogni azione perde il retrogusto della disperazione e si configura come atto d’amore incondizionato.
In un modo o nell’altro la raccolta di Bernhard Schlink è animata da una normalità schiacciante pronta a rivitalizzarsi e ad accettare il cambiamento a proprie spese, dopo il tempo del bilancio.

Essere un uomo, di Nicole Krauss

Autore: Nicole Krauss Titolo: Essere un uomo Traduzione: Maria Federica Oddera Editore: Guanda pp. 276   Euro 19,00

Autore: Nicole Krauss
Titolo: Essere un uomo
Traduzione: Maria Federica Oddera
Editore: Guanda
pp. 276 Euro 19,00



di Debora Lambruschini

 

Chi si trova a lavorare con i libri, nelle vesti di giornalista culturale, critico letterario, lettore professionista diciamo, sa bene quanto gli strumenti su cui si è formato a suo tempo siano importanti ma anche quanto esista una componente soggettiva data dalla situazione e da un apparato proprio di sentito e vissuto. Dal gusto. È una commistione di riflessioni oggettive, di studio, parametri letterari precisi e di un sentito appunto personale, soggettivo. Perché questo preambolo? Perché leggendo Essere un uomo, pubblicato da Guanda, la prima raccolta di racconti di Nicole Krauss, acclamata autrice di romanzi come La storia dell’amore e La casa grande, pubblicati sempre da Guanda, ho pensato molto all’approccio con cui ogni volta entriamo dentro un libro, lo scomponiamo, lo poniamo in dialogo con la letteratura entro cui si colloca, indaghiamo quali spunti e domande smuove; e a come possedere una tecnica, tanto nella lettura quanto nella scrittura, sia importante ma non sempre sufficiente. Nicole Krauss è senza dubbio scrittrice di talento ed è innegabile che questa raccolta si poggi su una conoscenza tecnica consolidata.

È qualcosa di più di una buona raccolta? Di una serie di racconti assolutamente godibili e ben confezionati, che seguono regole consolidate di scrittura? Che cosa resterà, alla fine, chiuso il libro e fra qualche tempo dopo che la lettura si sarà sedimentata? In parte temo la risposta. La temo perché ho grande stima del lavoro di Krauss e questi racconti – abilmente tradotti da Federica Oddero – sono davvero densi di spunti, con molta vita in subbuglio, ma talvolta la percezione è che molto sia rimasto incastrato dalla padronanza tecnica della forma, frenato. Ferma sulla superficie, Krauss sbircia l’abisso ma spesso si ritrae e l’increspatura non basta, non a una scrittrice del potenziale.

Se di questa raccolta guardiamo agli spunti, alle tematiche che germogliano dalle storie, Essere un uomo assume una forma ancora diversa e il dialogo con i lettori, la contemporaneità, la letteratura in cui affonda ne arricchisce e solleva la lettura rendendola viva e tangibile. Come un filo rosso che attraversa ogni racconto, vi è la riflessione sui legami che intercorrono tra un uomo e una donna, le diverse forme che assumono ma, soprattutto, sullo stesso essere donna. Amanti, padri, compagni, figli, rapporti complessi, uomini e donne imperfetti e proprio per questo vivi. Krauss ne rappresenta i dubbi e le fragilità, mettendone a nudo il loro – il nostro – essere vulnerabili, persi, sradicati. Colti in un momento decisivo delle loro esistenze, sono sospesi fra insicurezza e desiderio di libertà, come sospesi sono i limiti geografici di queste storie disseminate fra nord e sud America, Svizzera, Tel Aviv, città e luoghi dai contorni talvolta ben riconoscibili altre molto più sfumati.

Quando lo sguardo dell’autrice si addentra nelle zone buie dell’animo umano, quando affonda le mani in quella suscettibilità, scaturiscono sulla pagina storie potenti, come nel caso di “Svizzera”, il racconto d’apertura:

 

Colsi l’espressione dei suoi occhi e per la prima volta ebbi paura per lei. O forse di lei. Paura di ciò che le mancava (o di ciò che possedeva) e la spingeva a varcare il confine dove altri avrebbero posto il limite. (Svizzera, p. 23)

 

Scavando nella memoria, la narratrice osserva dalla giusta distanza nel tentativo di meglio comprendere le dinamiche distorte di tanto tempo prima, la relazione di una compagna di collegio con un uomo molto più grande, la violenza. E ciò che l’ingenuità, l’inesperienza, non permettevano di comprendere allora, appare ora molto più chiaro, in tutta la sua stortura:

 

Non dubitai mai che avesse la situazione sotto controllo e stesse facendo ciò che voleva. Che stesse giocando in base a regole che aveva accettato, se non stabilito lei stessa.
Solo rievocando quel periodo capisco quanto intensamente volessi vederla in quel modo: determinata e libera, invulnerabile e padrona di sé.
(Svizzera, p. 24)

 

Invulnerabile, invece, non era stata mai, né mai lo sarà, lei o nessuno degli esseri umani di questa raccolta. Uno smarrimento ancora più totale quando si lega alla perdita di una persona amatissima, un padre di cui credevamo conoscere ogni piega, ogni sentimento, per scoprire quanti abissi nascosti, quanta vita ci sia stata oltre ciò che pensiamo di sapere delle persone che abbiamo accanto. In un appartamento a Tel Aviv, per fare i conti con una mancanza che si fa vuoto totale e assoluto, Krauss condensa in poche essenziali frasi il peso della perdita:

 

Mi avvicino all’orecchio l’orologio di mio padre. Continuerà a ticchettare solo fino a un certo punto, e tra poco l’eccedenza di tempo che mi ha lasciato si esaurirà.
Ma per il momento non ha ancora smesso di funzionare.
(Io dormo ma il mio cuore è sveglio, p. 63)

 

Essere padri, essere figli: quell’ «eccedenza di tempo» con cui imparare a vivere senza. È in questi confini che si muovono i racconti più potenti della raccolta, negli equilibri fragili, nei gesti incomprensibili, nel senso di colpa, nella solitudine. Nella rabbia, perfino, quella che bisogna imparare a mettere da parte per riuscire a sopravvivere:

 

Li guarda anche mio padre, oggi insolitamente silenzioso, con un cappello di paglia in testa per proteggersi dal sole. Non è ancora vecchio, ma in questo momento non riesco a ricordare quanti anni abbia esattamente. Se la sua vita mi sembra lunga, è perché è cambiato più di chiunque altro io conosca. Un giorno, dopo molti anni – non saprei come altro dirlo – ha portato in alto mare tutta la grande rabbia che provava, ha svuotato del vento le sue vele, ed è tornato senza. È rientrato a casa con l’animo colmo di pace e pazienza là dove un tempo c’era solo un furore sconvolgente.

(Essere un uomo, p. 239)

 

Sono – come da miglior tradizione – racconti di istanti decisivi, di crisi, di increspature sulla superficie dell’acqua, di profondità dentro cui Krauss non sempre è disposta a calarsi ma quando lo fa esplodono sulla pagina. Ne resteranno forse solo alcuni di fronte alla prova del tempo, altri scivoleranno via poco dopo aver girato l’ultima pagina: ma quelli rimasti si insinueranno sottopelle e a incidere la carne non sarà stata la tecnica narrativa maneggiata con tanta precisione quanto la capacità di affrontare l’abisso.

Scusate il disturbo, di Richard Ford

Autore: Richard Ford Titolo: Scusate il disturbo Traduzione: Vincenzo Mantovani Editore: Feltrinelli pp. 288   Euro 18,00

Autore: Richard Ford
Titolo: Scusate il disturbo
Traduzione: Vincenzo Mantovani
Editore: Feltrinelli
pp. 288 Euro 18,00

Di Debora Lambruschini

 

Armonia. Cura artigiana. Vita. Sono le parole che più di tutte descrivono la scrittura di Richard Ford, un gigante della letteratura statunitense contemporanea, e che trovano forse maggior compimento nei suoi racconti. La precisione, la cura della parola, la cesellatura delle frasi, sono proprie della forma breve e Ford con la sua scrittura scarna e minuziosa crea sulla pagina storie di rara bellezza che si inseriscono nel solco di quella tradizione che l’ha preceduto e di cui egli stesso è diventato negli anni uno dei capisaldi. Leggo Ford da molto tempo e in occasione della recente pubblicazione di Scusate il disturbo (Feltrinelli, traduzione di Vincenzo Mantovani) ho iniziato a riflettere su quali siano le ragioni di tale incanto, quel patto fra me lettore e lui scrittore che non possono spiegarsi solo con considerazioni critiche sull’opera. Ciò che personalmente mi lega al mondo di Ford è il suo sguardo sul mondo e le persone, la straordinaria capacità di osservare dettagli all’apparenza insignificanti e lì dentro vedere la vita; di guardare le fragilità e le debolezze dell’uomo e mostrarle al lettore senza falsi moralismi; di fotografare un luogo, un ambiente, con assoluta precisione. E ora, con Scusate il disturbo – ma in fondo già con gli ultimi libri pubblicati – è la certezza che Ford sappia vivere e scrivere le età della vita, ogni volta nuova, ogni volta diversa, anche dove riappare il suo personaggio più celebre, Frank Bascombe. Un piccolo miracolo già questo, riuscire a non restare incastrato in un personaggio: la quadrilogia su Frank, di cui il secondo romanzo (Il giorno dell’Indipendenza) valse a Ford il PEN e il Pulitzer, ha accompagnato autore e lettori per diversi anni divenendo uno dei più importanti cicli letterari, ma intervallato dalla scrittura di altri romanzi e storie di pari valore in cui salda e ben riconoscibile la voce di Ford si presta ai cambi di narrazione, fino al racconto intimo e privato dei genitori (Tra loro) e della perdita dell’amato padre.
Continuando a indagare le personali ragioni che fanno di Ford uno dei miei autori contemporanei di riferimento c’è, quindi, il riconoscimento di uno sguardo sulle cose, la capacità di cogliere un certo tipo di dettagli, l’equilibrio della scrittura sempre misurata e straordinariamente resa dalla sua voce italiana, Vincenzo Mantovani, e un fil rouge che possiamo rintracciare in ogni narrazione. Ford è, infatti, uno scrittore molto fedele a se stesso che riesce tuttavia a non ripetersi, bensì ad aggiungere sfumature e sguardi nuovi sul mondo che ha scelto di ritrarre. La middle class nordamericana, la precarietà delle relazioni, le fragilità dell’uomo, i luoghi con cui le storie si intersecano; il velo della nostalgia e della perdita che molto spesso attraversa le pagine: sono i perni dell’universo fordiano, riconoscibili anche nelle dieci storie che compongono questa raccolta, ma in qualche modo sempre nuovi. Lo sguardo questa volta è tutto rivolto verso uomini di mezza età, appartenenti alla classe media – quando non molto agiata – e colti l’attimo dopo in cui qualcosa si è incrinato. Alle prese con divorzi, con il lutto, con la perdita, a fare i conti con il passato e le proprie scelte. Con le conseguenze, quindi, della vita. I piani temporali si alternano, mentre mutevoli sono anche i luoghi in cui le storie non sono semplicemente ambientate ma ne diventano parte, dal Maine al Canada, passando per New York, la Louisiana, fino all’Europa. E l’Irlanda, un sentimento e uno stato d’animo prima ancora che un luogo fisico. Dieci racconti di cui due hanno l’ampiezza – di sguardo ancor più che di spazio – della novella, perfettamente organizzati in una raccolta organica, dal piacevole stampo tradizionale. Mutano le situazioni, i protagonisti, i luoghi si diceva, ma l’impianto della raccolta è ben riconoscibile e anche per questo capace forse di avvicinare il lettore meno avvezzo alla forma breve.
A pervadere le storie un senso di profonda malinconia, la memoria che si fa nostalgia, la perdita di qualcuno molto amato e che segna uno spartiacque nella propria vita; è l’uomo che fa i conti con la propria caducità, con l’imperfezione degli affetti, con tutto ciò che viene dopo un certo punto di rottura.

 

Esiste un’infelicità così grande che la sola paura di provarla fa lega con la felicità.” Significava, si chiese, che la felicità non sarebbe mai più stata alla sua portata? Oppure, che col dolore come sua lega, la felicità sarebbe tornata più intensa di prima? Una lega. Due sentimenti che si combattono tra loro. Ecco quale sarebbe stata la sfida della sua perdita: imparare da questo.
(“Mantenere il controllo”)


È il confronto con il lutto, il dolore di chi resta che si intreccia a sentimenti complessi: la vedovanza complicata dal suicidio con cui la moglie ha deciso di mettere fine alla propria vita e alla malattia, in una casa che non è la propria ma quella scelta ogni anno per le vacanze, un gesto, questo, che in qualche modo voleva essere premuroso ma che in realtà non sembra aver sortito l’effetto immaginato. In una nuova casa, a un anno dalla scomparsa, l’uomo affronta il proprio dolore, la solitudine, il rapporto con il mondo e la mutevolezza delle persone. Il ricordo, il passato, si arpiona alla realtà presente ma è soprattutto la riflessione sul dolore, su come viene percepito all’esterno a rendere particolarmente interessante la storia.

 

Voleva farle capire che non era inconoscibile, ma solo una persona riservata, a molti strati, come aveva detto sua madre. Cosa c’era di male, in questo? Il dolore non doveva essere per forza più naturale per lui che per lei. Possibile che tutto dovesse succedere soltanto sulla superficie visibile?
(“Mantenere il controllo”)


Poche righe, uno squarcio. Un dolore che indaga anche il rapporto complesso con la figlia, che la perdita non ha mutato ma, al contrario, ha forse acuito le distanze, tanto con il padre quanto con la madre scomparsa. Il dolore non appiana le divergenze, non modifica il ricordo.
La vedovanza – o una forma simile di perdita – ritorna in altri racconti, un fantasma che ossessiona l’autore e gli permette di scrutare dentro il cuore di questi uomini, le loro paure, le miserie, le meschinità quotidiane, le molteplici forme del dolore, l’assenza. È la perdita improvvisa di una moglie amatissima e per il poco tempo che le è stato concesso, i desideri inespressi, la presenza fugace nel mondo. È un vecchio amante, da cui ci si è separati tanti anni prima e da cui tornare per un ultimo saluto, un viaggio che è inevitabilmente anche ripercorrere le scelte fatte, le attese, gli addii e tutta la vita che c’è stata in mezzo.
Il passato e le sue possibilità si insinuano in molte storie, talvolta con nostalgia, per qualcosa che è sfuggito e l’incontro casuale con una donna un tempo amata e poi lasciata andare fa riaffiorare il ricordo; un amore giovanile, un’avventura in Islanda, e ben presto sono già visibili le crepe nella loro relazione che immediatamente mutano l’immagine dell’altro:

 

Quel mattino avevano fatto l’amore, in un modo non proprio memorabile. Lei aveva cominciato a esprimersi con meno parole di quante fossero necessarie. Come se non ci fosse bisogno di dirsi granché, e questo fosse ovvio. Era, pensò lui, pretenziosa e infatuata di se stessa. Partire era una buona idea. Avrebbe perso quello che si poteva perdere. In quella luce cruda il viso di lei mostrava una grossolanità che lui non aveva notato, ma che – supponeva – avrebbe finito per detestare.
(“Niente da dichiarare”)


È il cuore degli uomini il vero centro nevralgico di queste storie, di cui Ford ci mostra mutevolezza, sentimenti, ambiguità. L’occhio dell’autore indaga con lucida perspicacia ciò che accade dopo un lutto, dopo la fine di una relazione e che si rivela mediante dettagli solo all’apparenza insignificanti, momenti minimi eppure densi di senso. Quei dettagli su cui si intreccia la scrittura sempre misurata, scarna, curatissima, di Ford.
E capace di creare la vita, ancora una volta, sulla pagina.

La vita era questo e solo questo. Una superficie. Era questo che potevi star certo che fosse. Che andava benissimo, perché in realtà non ci aveva mai pensato come a qualcosa di molto diverso, anche se si era sforzata di usare altre parole. “Qualcosa di solido”, ad esempio.
(“Seconda lingua”)

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Microfictions, la consacrazione all’odio secondo Régis Jauffret

Autore: Régis Jauffret Titolo: Microfictions Traduzione: Tommaso Gurrieri Editore: Edizioni Clichy pp. 1016   Euro 25,00

Autore: Régis Jauffret
Titolo: Microfictions
Traduzione: Tommaso Gurrieri
Editore: Edizioni Clichy
pp. 1016 Euro 25,00


di Alice Pisu

Cioran sosteneva che ogni scoperta dell’essere umano sia da rintracciare nel debito che ognuno ha nei confronti delle proprie violenze. Sembra ricordarsene costantemente Régis Jauffret nel comporre i cinquecento racconti di Microfictions. Secondo Volume, ed. Clichy, traduzione Tommaso Gurrieri (con Anna Isabella Squarzina e Università LUMSA 2021). Ritenuto tra gli esponenti di maggior rilievo della letteratura francese contemporanea, Jauffret consegna un’opera colossale che rappresenta l’esito più alto della sua produzione. I lettori italiani scoprono i suoi microracconti con l’uscita nel 2019 per Clichy delle Microfictions uscite in Francia l’anno precedente. Quello che appare oggi come secondo volume racchiude in realtà i primi componimenti pubblicati nel 2007 col provocatorio sottotitolo di Romanzo.
Non esiste salvezza nei frammenti che compongono il mosaico in prosa, tutto sprofonda nel cinismo, nell’impossibilità di scorgere alcuna forma di partecipazione emotiva. Torturatori, assassini, terroristi occasionali, misogini, scrittori vagabondi come cani rognosi, pedofili, amanti rabbiosi che si rendono invalidi a vicenda, celebrità militanti, carcerieri e carcerati si avvicendano sulla pagina per dare forma alle innumerevoli immagini di un’umanità marcia.
Il prisma per osservarla è l’abominio, il metro per misurare ogni forma di pensiero e dolore sulla base di una deriva morale, intellettuale e fisica collocata all’interno di un allucinato inventario.

 

Chi odia, vede. Chi ama, sogna e si addormenta nel sonno dei vili. L’odio sacro, nobiltà dei popoli ridotti in schiavitù, odio dei ribelli, dei bambini umiliati, degli abitanti delle città bombardate, odio dei prigionieri, dei torturati, degli uomini messi in riga al sorgere del sole, odio salvifico, odio sussulto di vita.

La scrittura di Jauffret non conosce emersioni dalle tenebre che danno forma a scenari sordidi, dissolutezze, giochi sfrenati con la morte, efferatezze casuali. A subire un capovolgimento ogni principio etico e morale nell’abbozzo di vicende che non contemplano altra via che una triviale manifestazione di pulsioni e perversioni. La repulsione ostinata verso l’umanità elegge l’odio per improntare sulla logica della violenza la purificazione dalla sventura del vivere.
Neppure la più cruenta riproduzione dell’orrido pare sufficiente a saziare i protagonisti dei racconti: la ferocia entro cui Jauffret si insinua cela fugaci tentativi di assegnare eccitazione al vivere. Una ricerca inesorabilmente vana e frastornante nella constatazione della propria vacuità.
Il modello è la forma breve, che nel rigoroso limite delle due pagine immortala con sguardo cinico e imperturbabile un disfacimento talmente drammatico da assumere accenti farseschi. Jauffret allestisce il reale con toni che rasentano l’assurdo per amplificarne il tragico. L’analisi delle perversioni, delle manie e di ogni forma di ossessione si rinnova costantemente nel ridicolo che passa per una perdita di dignità e per l’annientamento di sé o del prossimo. Attraversa ogni classe sociale, identificando con pari scabrosità la grettezza e l’ipocrisia, la cupidigia, il parassitismo di chi vive di espedienti e la sfrenata gara di popolarità di attori francesi che si fingono attivisti per i profughi per non cadere nell’oblio.
In tale deriva solo l’annichilimento pare essere contemplato, forgiato su una dimensione sessuale che gravita costantemente tra la violenza e l’odio. È lo strumento attraverso cui perpetuare abusi, soppesare ogni relazione ed esercitarsi all’onnipotenza nell’umiliazione altrui.

 

“«La sessualità, sopra la tua culla, si china». È un’asse. Vivi la tua vita intorno a lei, come la tua carne e i tuoi organi avvolgono il tuo scheletro, simile a una cappa di tessuti e di sangue.
«Ti serve ad amare, a detestare, a vivere»”.

 L’origine e l’inesorabile esito di ogni narrazione è il valore della morte come l’unica via per riparare il danno iniziale della nascita, sulla base della costante meditazione sull’insensatezza dell’esistere. Condizione che lo sguardo dello scrittore intravede nel tracciare con i suoi racconti una cartografia della miseria umana, amplificata dalla pochezza dell’uomo che nel non avere consapevolezza dell’inutilità che lo caratterizza, si arrovella sul proprio decadimento.
Tra i grandi temi dell’intera produzione letteraria di Jauffret quello dell’ossessione nei confronti del corpo nel terrore di una caducità inesorabile. La mancata accettazione della metamorfosi generata dal passare del tempo fomenta odio nei confronti della giovinezza “radiosa e rivoltante” degli adolescenti e provoca perverse fantasie di distruzione, rese in egual misura dalla prospettiva di chi subisce tale condanna e di chi crede di esserne esente.
Jauffret si insinua nei meccanismi alla base di un crimine per scorgere nell’urgenza di chi compie un’azione eclatante il tentativo di convincersi di avere importanza. Un desiderio che non è un piacere fine a sé stesso, ma un esercizio di godimento nell’abbattimento dell’inadeguato – che si tratti della condizione imposta dalla malattia, della mancata avvenenza fisica, dell’etnia, o del fallimento personale e professionale – che prescinde dai sentimenti perché ritenuti manie esposte alla debolezza, in grado di imputridire. Si cala nella mente di assassini sventurati, capaci di compiere stragi per noia e poi dimenticarsene e tornare a casa in tempo per cena, o di terroristi megalomani che fanno saltare in aria le persone per lasciare una traccia di sé nelle notizie di cronaca.
La mediocrità di esistenze comuni è l’oggetto primario delle insistenze dell’autore, che sembra scorgere attraverso la cornice asfittica di ogni realtà famigliare il sostrato fertile per invocare lo sterminio. Che si tratti di un ordinario esploso o di visioni sul futuro allestite per immaginare l’evoluzione della specie con il prototipo dell’umanità ventura, il personale ritratto del mondo di Jauffret si traduce anzitutto nella scelta stilistica e formale con un’architettura monologante, un’espressività minima e labili e inaspettati accenti lirici. Le descrizioni si fondono con finti dialoghi che sono periodi brevi virgolettati che fissano un assillo o attestano un dettaglio rivelatore. 

 

“Ho odiato troppo mia figlia, per troppo tempo. Mi impegnavo a renderla infelice più che potevo. «Le sue lacrime non mi consolavano completamente». Ma nonostante tutto colavano come un balsamo sul mio cuore di madre ferito per aver avuto una figlia che l’aveva tradita sin dall’origine”.

Il tono monocorde e il difetto emotivo generano straniamento, stridono con l’efferatezza esibita sulla pagina: l’unica sensazione contemplata in modo autentico è la ripugnanza verso il genere umano, reso ancor prima che nella profonda varietà degli scenari narrati, nell’inesorabile pena alla regressione ferina.
La costellazione di racconti diventa un colossale e frantumato preludio, un’epifania del male. La forma frammento condensa i motivi dell’intera produzione letteraria di Jauffret: celebra il castigo attraverso la lugubre danza a cui i personaggi dei racconti sono chiamati a prendere parte. Nel costante passaggio tra passato e presente ritrae filosofi, politici, vescovi, apolidi, ferventi stalinisti, trafigge mode e tendenze letterarie, mostra il lato volgare di ogni epoca dissotterrandone la radice corrotta.
Pur cambiando i contesti e le dinamiche, la costante che accomuna le storie è il modo maniacale di usare l’iterazione con volti intercambiabili per svuotare di logica qualsiasi misfatto mostrandone l’insensatezza. Persino chi subisce le più atroci sevizie nasconde un’abulia emblematica: l’annullamento della volontà e l’impossibilità di ribellione sono l’implicita accettazione di una miseria condivisa. Per rintracciarne l’origine, Jauffret impronta le sue narrazioni su un’infanzia costantemente profanata. La stessa immagine di assoggettamento e di uso del corpo di un bambino per soddisfare perversioni inesauribili si ritrova nelle storie che hanno come protagonisti invalidi o persone finite in rovina e abbandonate per questo dal coniuge.
Quando si cala nella visione di una vittima di torture e abusi ricalca lo stesso slancio distruttivo reso nel descrivere le azioni di un assassino: un’idea di devastazione che sembra legittimare la violenza per riassegnare un equilibrio attraverso la memoria dei corpi straziati. L’indagine sul dolore prende forma a partire da quel che rimane di un corpo nell’esercizio del sadismo o del masochismo – “Maneggiata con discernimento, la crudeltà è un diritto dell’uomo” –; nella sublimazione della sofferenza di chi vive per strada; nella mancata percezione di sé che porta a perdere coscienza del proprio passato e sviluppare uno stupore per l’ordinario –“Mi verso nell’assenza come in uno stampo” –.
La peggiore condanna per l’essere umano, annunciano le Microfictions, pare essere l’oblio, condizione che persino gli scrittori falliti che passano il tempo a bere e bighellonare nei metrò cercano di scongiurare. Davanti a un terrore simile, non rimane che la maschera, l’artificio dell’apparenza. La figura dello scrittore è l’apice del grottesco, dell’infimo e del patetico tra i casi che compongono l’inventario umano di Jauffret. Lo si può scorgere tra le pagine nelle vesti di un cane randagio accalappiato per preservare l’ordine pubblico, di un finto anarchico, o in quelle dello scribacchino frustrato che finisce per aprire una pizzeria.
“Non sono ridicolo, sono scrittore”. Le contraddizioni e le mitomanie di chi non riesce ad accettare il proprio fallimento, avverte implicitamente l’autore, non sono che l’esito di un sistema editoriale descritto nelle sue storture. L’adozione di angolazioni diverse – dal lettore professionale al direttore editoriale al finto scrittore – espone le regole di un mercato a cui i “burattini a gettone” devono attenersi per scrivere libri convincenti sulla bellezza e sulla felicità. Travalica epoche, immagina Gabriel Méhat vivere al posto di Balzac quando egli è stanco e scrivere i libri al posto suo, per poi intrattenersi con una scapigliata George Sand a sparlare di Flaubert e Turgenev ed essere interrotto da Proust che aveva sbagliato secolo “come altri sbagliano strada”.
Tra scrittori tossici che con le loro pagine uccidono esplodendo nei crani dei lettori dalla cultura antiquata e letterati crocifissi dalle proprie frasi, non poteva essere certo esente da tale strambo campionario l’autore stesso. Jauffret si affaccia provocatoriamente a più riprese nei racconti. Si identifica come una grottesca nullità. Fantastica di morire cadendo da un dizionario su cui si era arrampicato per cucinare. Si trasforma in una bambola assurda, Régissette Jaujau, un travestito “con la faccia a uovo e un enorme coglione al posto del cuore” che passa le giornate a prostituirsi. Arriva anche a celebrarsi ponendosi come contemporaneo di Kakfa solo per il gusto di immortalarlo corroso dall’invidia per il suo talento.
La narrazione della sopravvivenza alla vita si lega costantemente all’iniquità. All’origine del rovesciamento dei valori su cui si regge l’intera opera c’è la concezione di Dio: le sue incarnazioni disparate esulano persino dalla mera blasfemia o dal sarcasmo dissacrante. Usa le immagini cristiane di peccato e di colpa originaria per riscrivere una personale sacra scrittura con Adolf Hitler che siede alla destra del Padre e trama un colpo di Stato per “esercitare la magistratura suprema”. L’inferno è una città dell’estremo Sud dove si parla solo del vento, dove la gente non muore e la sorte è l’eternità. Attraverso gli attori della commedia allestita sulla pagina, Jauffret non si limita a un’invettiva nei confronti della società ecclesiale. Usa l’assurdo per tributare la totale assenza di purezza e innocenza e scorgere, così, la matrice infetta che accompagna sin dalla nascita la specie umana.
Ogni pagina è un elogio all’infelicità resa come senso di ogni cosa, “apparenza e necessità” per tornare alle parole di Cioran, in grado di generare vincoli che equivalgono ad assoggettamenti. I personaggi compiuti e assoluti accertano l’incapacità di un cambiamento positivo. Soprattutto attraverso i più infimi e abbietti, Jauffret parla. La sua voce è ferma, annuncia un delirio che riconosce e osserva con sguardo distante, privo di qualsiasi coinvolgimento. Deride il reale, lo deforma e lo fagocita per mostrare nel disfacimento il solo esito prevedibile di fronte all’assurdità delle cose del mondo e dell’esistenza.


“Ne avevo abbastanza di assistere alla realtà come a uno spettacolo”.

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Dolce casa, di Wendy Erskine

Autore: Wendy Erskine Titolo: Dolce casa Traduzione: Federica Bigotti Editore: Atlantide pp. 224   Euro 24,00


Autore: Wendy Erskine
Titolo: Dolce casa
Traduzione: Federica Bigotti
Editore: Atlantide
pp. 224 Euro 24,00


di Anna Lo Piano

Il mondo ti spiega le cose, nei racconti di Wendy Erskine. Se vuoi aprire un salone di bellezza, per esempio, bisogna che tu abbia ben chiaro un “concetto totale”: clinica svizzera, lusso damascato o salottino retrò. Se costruisci un centro polifunzionale, devi fare attenzione a come lo definisci. Centro di comunità ha troppe connotazioni ideologiche, mentre centro popolare è più inclusivo. Una volta chiusa la porta, però, il mondo non ha più niente di utile da dirti. Nemmeno quando l’acqua si infiltra nelle pareti, le erbe riprendono potere sul cemento, un sasso rompe la vetrina del salone di bellezza e si presenta un certo Kyle, che con un dito ti rovescia tutte le bottigliette dello smalto per terra.

Sweet home, ovvero Dolce Casa, è la prima raccolta di racconti di Erskine. Classe ’69, insegnante di inglese a Belfast, sua città natale, l’autrice ha ricominciato a scrivere quasi per caso, dopo qualche tentativo fallito fatto molti anni prima. È cominciato tutto nel 2015, con l’iscrizione a un corso di scrittura di sei mesi della rivista Stinging Fly, al quale si poteva accedere tramite selezione, mandando un racconto. Il suo si chiamava “Fabbri” ed ora fa parte della raccolta, uscita in Gran Bretagna nel 2019, e tradotta in italiano da Federica Bigotti per Edizioni Atlantide. 

Il titolo, Sweet home, è quello di uno dei racconti, ma le case - proprie, di infanzia, nuove, dei vicini, delle amiche – sono un elemento simbolico fortissimo che attraversa tutte le dieci storie.
I personaggi che le abitano sono dei naufraghi, sopravvissuti a qualche tipo di perdita, che hanno costruito una zattera di salvataggio tra le mura domestiche o nel luogo di lavoro. Il loro modo di andare avanti è aggrapparsi alle abitudini e a qualche ossessione. Mo di “A ciascuno il suo”, Andy di “Ultima cena” e Barry di “Anima senza pelle” hanno tabelle di marcia precise, curano tutto fino all’ultimo dettaglio, sono maniaci della pulizia. L’insegnante Olga McClure di “Donna e cane” tutte le mattine tempera scrupolosamente le matite della sua classe. La coppia di Sweet Home investe tutta se stessa nella costruzione di una nuova abitazione a Belfast, nel tentativo di creare un guscio in cui dimenticare la perdita della figlia, e ricominciare una vita.
Ma per quanto ognuno di loro cerchi di resistere c’è sempre un momento in cui la realtà irrompe all’interno. Il mondo ti spiega le cose e ti ricorda che ci sono, là fuori, questioni irrisolte che continuano ad agire come cerchi concentrici -  immigrazione, criminalità, lavoro, guerra, malattie - e che prima o poi un’onda arriverà addosso anche a te. C’è sempre qualcuno che bussa alla porta, che si mostra in televisione, che lancia un sasso sulla vetrina, che viene ad abitare nella casa di fronte o chiede di perquisire la tua stanza, portandoti dentro qualcosa da cui credevi di essere sfuggito. Alla fine l’unica cosa ragionevole da fare, come capisce il protagonista di “Fabbri”, è cambiare la serratura e chiudere fuori la sua scombussolatissima madre.
C’è in questo finale un humour nero che pervade tutta la raccolta. Il senso dell’umorismo è una delle cose più difficili da trasmettere da una cultura all’altra, ma provate a guardare uno dei video in cui Erskine legge in pubblico i suoi racconti per coglierlo in pieno e affrontare la lettura con uno spirito più consapevole. Humour nero, dicevo, che viene fuori dallo sguardo che i protagonisti dei racconti posano sugli altri, come Mo nel salone di bellezza di “ A ciascuno il suo”.

 

Oh ce n’erano di domande da fare se volevi, corpi che imploravano che qualcuno chiedesse perché, cos’è che non va. Quel lungo taglio sottile che si allunga verso l’interno coscia, signora in cashmere grigio, che cosa l’ha provocato? Quelle braccia segnate come una scatola di After Eight aperta, sfoglia sfoglia sfoglia, perché lo stai facendo, tu con il tuo sorriso storto, perché? La donna con i lividi attorno al collo, la sua mano che si affretta a nasconderli. Accidenti signora, il suo uomo la strangola forse?
Ma non glielo chiedi. Perché dovresti?

 

 Oppure lo sguardo che gli altri posano su di loro. Come gli operai di “Sweet Home”, la “gente del posto” a cui Gavin è “felice di dare lavoro”:

 

Lo vedi quello? disse Colin, indicando l’ampliamento in vetro, manco se mi paghi lo vorrei. Senza personalità. Zero proprio. In effetti fa abbastanza schifo, confermò Bucky, il più giovane. Ernie osservò per un attimo tutto compreso, inclinando la testa prima da un lato e poi dall’altro. Proprio senza senso, disse. Comparve la donna con del tè dentro tazze dalle forme buffe. La guardarono tutti mentre riportava il vassoio in cucina. Un po’ andata, ma c’ha classe, disse Bucky. A me mi piacciono un po’ zozze, fece Ernie. A tutti piacciono un po’ zozze, disse Colin.

 

O ancora l’agguerritissima adolescente di “Osservazione”, che investe gli adulti con uno sguardo impietoso

 

Cath continuava a fissare suo padre lì seduto in poltrona; stava provando a guardarlo con occhi nuovi, domandandosi se qualcuna delle compagne di scuola lo avrebbe trovato attraente. Fosse stato milionario, miliardario magari, avrebbe fatto presa, ma senza l’esca del vile denaro non pensava che avrebbe potuto fare breccia con nessuna. Le sue basette scoloravano dal marrone al bianco, e i grigi mutandoni da jogging che aveva cominciato a indossare per casa avevano degli elastici stretti alle caviglie,
stile genio della lampada in abiti comodi.

 

 

“L’inferno sono gli altri” diceva Sartre, ma nel modo infernale di guardare dei personaggi di Erskine c’è molta umanità. Anche quando i commenti si fanno spietati,

 

Kim Cassels non disse niente e mise il resto della spesa sul na- stro scorrevole. La luce bianca e fredda non donava proprio a nessuno. Cath pensò a un ovetto della Kinder rotto quando si mise a osservare i capelli a due colori di Kim Cassels, marrone lucido alle radici, bianco sulle punte

 

non si scivola mai nel grottesco. La verità è che non si può non ridere degli esseri umani, di quel disperato tentativo di raccontarsela, anche allo specchio, perché forse da soli non riescono a vedersi, ma dietro lo specchio ci stanno gli altri che guardano e fanno commenti. È il pettegolezzo continuo e senza tregua di una comunità che non risparmia nessuno. E noi non possiamo fare a meno di ridere, e anche di prendere un po’ le parti di Kim Cassels e dei suoi capelli, della professoressa McClure che compra un cane per spiare il maestro di ginnastica senza dare nell’occhio, e Paula di “Stati arabi. Mente e narrazione” che si compra una crema illuminante sperando di ringiovanire, e appare pallida e spettrale. Ma anche di Kyle, che è violento da far paura ma che ha anche lui un’anima fragile.
La solitudine di questi personaggi è spesso dovuta a una perdita: di qualcuno, di un passato, di una possibilità. È una materia palpabile, vischiosa, che ti si attacca addosso mentre leggi. Sembra rallentarne i movimenti, a volte gli stessi pensieri; anche quando sono in famiglia, c’è come uno scarto continuo tra loro e gli altri. Raramente si è in casa nello stesso momento, e se capita, si occupano spazi diversi, o ci si incrocia per caso, sulle scale, come in “Osservazione”. Ma anche quando ci si ritrova nella stessa stanza, seduti a un tavolo o sul divano, i pensieri vagano in direzioni opposte, in una impossibilità di sintonizzarsi anche solo per un istante sull’altro. Come in “Inakeen”

 

Il figlio di Jean Malcolm aveva deciso di farle una delle sue rare visite. Si accomodò davanti al televisore e quando lo accese lei lo sentì emettere il solito sospiro per la scarsa scelta di canali. Jean era posizionata all’estremità del divano perché
da lì si vedeva meglio fuori dalla finestra
.

 

Jean Malcom vorrebbe che il figlio le chiedesse come sta, ma lui parla d’altro, e nei dialoghi le parole rimangono sospese, interrotte. I pensieri dell’uno si sovrappongono a quelli dell’altra. C’è un disperato bisogno di essere riconosciuti. Jean si iscrive a un concorso fotografico, ma non viene neanche selezionata. E una delle scene più terribili, nella sua banalità, è il momento in cui, sul sedile posteriore di una macchina, si rende conto che l’uomo che la sta accompagnando guarda nello specchietto retrovisore e vede solo la strada.
Non possiamo riconoscerci in tutta questa imperfezione, in questa solitudine. Non sono personaggi che ragionano su loro stessi, che riescono ad avare sulla vita e la propria esistenza uno sguardo aereo, in prospettiva. Parlano e pensano per brandelli, con i pensieri e i percorsi continuamente interrotti. E anche per questo ci affezioniamo, perché sentiamo che siamo arrivati in una zona di profonda verità, dove scopriamo qualcosa su di loro ma anche inevitabilmente su noi stessi. Senza quasi accorgercene. Non ci sono infatti in queste storie epifanie o impianti narrativi che tengono duro: entriamo nella vita dei personaggi in un momento qualunque e ci stacchiamo dal racconto sentendo che sono ancora lì a combattere, giorno per giorno, esattamente come noi.

Il treno notturno, di Thom Jones

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Autore: Thom Jones
Titolo: Il treno notturno
Traduzione: Martina Testa
Editore: minimum fax
pp. 483 Euro 19,00

di Fabrizia Gagliardi


«E ricordati sempre: sei tu il centro dell’universo e loro sono i tuoi satelliti. Se questo lo tieni bene a mente, ogni traguardo è alla tua portata.» Sembra quasi il consiglio di uno di quei manuali di auto-aiuto: un inno al benessere interiore per sprigionare la propria energia. Solo che il cambiamento richiede una buona dose di fortuna insieme alla sanità mentale minima per aprirsi a nuovi mondi. Non ci vuole molto per scoprire che la legge di gravità che attrae i personaggi di Thom Jones alla vita può solo risolversi nello spettacolo di una supernova che ingloba se stessa nello spazio più profondo.

Non si salverà neanche l’autore delle righe iniziali: un artistoide, aspirante sceneggiatore e scrittore, alle prese con un’inconscia dipendenza affettiva. In Passa un buon Natale leggeremo solo la sequenza di mail il cui destinatario sarà oscuro, ma che rendono al meglio la parabola discendente descritta quasi sempre dalle figure delle storie di Thom Jones. L’impatto è simile a una landa desolata dimenticata da dio in cui visitare la speranza a intermittenza, mentre s’innalza un coro allucinatorio di Dramamina, Valium, Xanax, Stelazina, Librium, Tuinal, una sequela di anestetizzanti della realtà. 
Il viaggio nelle debolezze umane e della loro umile ammissione attraversa l’intera opera di Jones che ora è possibile recuperare grazie a Il treno notturno, preziosa raccolta tradotta da Martina Testa. Minimum fax ha ripubblicato in un’unica antologia i migliori racconti dell’autore americano (Il pugile a riposo, Sonny Liston era mio amico e Ondata di freddo) aggiungendovi sette inediti.
L’animo umano non è mai monolitico nella disperazione e passa per uno spettro visibile di peripezie fisiche e mentali che lo fanno confrontare sempre col proprio corpo, con le aspettative, le speranze pregresse e la disillusione per quelle che si rivelano le reali possibilità. Iniziando proprio da Il pugile a riposo, la storia più celebre che apre la raccolta, ci renderemo conto che la cronaca di un veterano del Vietnam non rispetta nessuna delle regole tipiche di un racconto. Il sismografo temporale che muove passato e presente aderisce perfettamente all’instabilità mentale in cui un eterno qui e ora ha tracciato ferite più profonde di ricordi piacevoli («Nella mia anima c’era un serbatoio di malizia, veleno e perverso sadismo che nelle giungle e nelle risaie del Vietnam si riversarono all’esterno liberamente»). Anche Joyce Carol Oates sul New Yorker aveva ricordato che Thom Jones «fa cose audaci con una struttura narrativa che i corsi di scrittura insegnano a evitare».

L’estrema aderenza al reale combacia con l’incoerenza di una narrazione determinata da psicofarmaci o dal ritmo di un’associazione di pensieri. Tutto colloca i protagonisti in una precisione letterale spietata che però rivela tutta l’umiltà di chi ha imparato a convivere con i propri demoni. In poche pagine leggeremo di una clinica psichiatrica militare per reduci con i suoi personaggi allucinatori ne Le luci nere; ci lasceremo andare alla terrificante tenerezza di Voglio vivere, il racconto in prima persona della malattia terminale di una donna e del suo rapporto col genero; in Cavallo bianco recupereremo la memoria con Ad Magic, un pubblicitario di successo, che si ritrova a Bombay mentre si preoccupa di curare un cavallo avvistato sulla spiaggia.
I personaggi di Thom Jones sono il negativo della norma: i momenti di blackout sono quelli più dolorosi e lucidi, i muscoli emotivi tornano al loro posto e il torpore che li aveva isolati dalla realtà sparisce. In Voglio un uomo che mi ami tutta la forza di una donna costretta a vita sulla sedia a rotelle si disintegra dopo il racconto di una relazione clandestina:


Lei sapeva cosa voleva dire cadere nell’oscurità interiore della coscienza. Implodere ogni notte e tornare a esistere ogni mattina come un’infelicità ricostruita pezzo per pezzo. Tornare strisciando nella cella diurna di quel corpo minuscolo e sempre più appassito. Sapeva tutto dei buchi neri dell’anima. Conosceva bene le prigioni, gli orologi e i calendari. Conosceva singoli secondi strazianti che duravano come mesi interi di domeniche.

La corruzione è l’unico modo per conoscere il mondo ed esula da ogni divisione tra giusto o sbagliato. Persino i riferimenti alla religione, più volte citata nei racconti, sono una dichiarazione ideologica e non una mera casualità esistenziale («Ci si poteva comportare in un certo modo per il semplice motivo che era umano farlo, che l’amore era una tendenza più nobilitante dell’odio»). Appare chiaro che ogni possibile controllo morale dell’autore è annullato dal naturale susseguirsi delle vicende. Non ha senso chiedersi dove stanno andando gli uomini e le donne di Jones, ma come riusciranno ad arrivare ai barlumi di giustizia che solo l’esperienza più cruda è in grado di dargli.

Conoscendo la vita di Thom Jones riesce difficile pensare che il suo intento fosse impartire lezioni. Solo da una storia personale vissuta altrettanto intensamente scaturisce una conoscenza viscerale del fondo e dei modi per risalire.
Durante l’infanzia suo padre viene internato in un istituto psichiatrico dove morirà impiccandosi senza più vedere il figlio. Avrà fatto in tempo a trasmettergli la passione per la boxe, ma la carriera di Jones tra i pesi medi non dura molto: arruolato come marine per il Vietnam subisce un trauma cranico durante un incontro dilettantistico a Camp Pendleton. Non andrà mai in guerra perché un danno al lobo temporale gli causerà schizofrenia ed epilessia. Dopo il ritorno a casa e un Master in Fine Arts all’Università dell’Iowa diventerà copywriter pubblicitario. Sarà dopo una disintossicazione da alcolismo e abuso di farmaci che intraprenderà la carriera di bidello e la sua formazione letteraria potrà compiersi.
«Non ero bravo in niente, non ho mai avuto un lavoro che mi piacesse, ma c'erano libri e scrittori che essenzialmente mi hanno salvato la vita, mi hanno fatto andare avanti». Diecimila libri gli sono sufficienti per sviluppare «una sorta di integrazione psicologica insieme a una forma di pace». Così, per credere davvero alla missione salvifica della letteratura abbiamo bisogno di sapere che quel miracolo si è compiuto prima col suo autore. Solo a quel punto reduci in crisi, personalità borderline, malati e schizofrenici ci sembreranno gli unici a far intravedere la speranza anche dove non c’era.

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Daddy, di Emma Cline

Autore: Emma Cline Titolo: La metà del doppio Traduzione: Giovanna Granato  Editore: Einaudi pp. 240  Euro 17,50

Autore: Emma Cline
Titolo: La metà del doppio
Traduzione: Giovanna Granato
Editore: Einaudi
pp. 240 Euro 17,50

di Debora Lambruschini

Emma Cline è una delle voci femminili più interessanti della sua generazione: lo sguardo lucido che rasenta la freddezza, coglie con chiarezza contraddizioni e zone d’ombra della realtà, la precarietà delle relazioni e, soprattutto, l’ambiguo confine tra potere e consenso. Ne sono intrisi entrambi i romanzi con cui ha catturato l’attenzione internazionale di pubblico e critica, Le ragazze, il suo esordio, e Harvey. Di questo mondo corrotto e corporeo, Cline racconta l’umanità dolente, le dipendenze, le ossessioni, gli abusi, la caduta degli dei, le colpe, le fascinazioni. Intrigante la sua capacità di calarsi dentro quelli che, a osservare con attenzione, sono i protagonisti di ogni sua pagina: i personaggi maschili. O, ancor meglio, un certo tipo di maschio: bianco, di mezza età, in un ruolo di potere. È stato così per l’oscuro e carismatico Russel intorno cui ruota la vicenda de Le ragazze, lo è ancora di più per il controverso protagonista di Harvey, in una novella-cronaca dei giorni che precedono il processo Weinstein – seppure non venga mai confermato, intuiamo tutti che è di quell’Harvey che si tratta – in cui Cline racconta la caduta di quest’uomo debole, impaurito, consapevole di avere perso ogni cosa. Un’umanità dolente, si diceva, protagonista anche nell’ultimo lavoro, sempre tradotto da Giovanna Granato per Einaudi: Daddy – titolo emblematico su cui torneremo. Una raccolta di racconti, finora inediti in Italia, molti dei quali apparsi sulle principali riviste letterarie statunitensi, che si inserisce bene nel continuum letterario di Cline. Una raccolta interessante in cui non mancano lampi di luce, resi abilmente dalla voce italiana dell’autrice, ma che purtroppo non mantiene tutte le promesse. Partiamo da qui, dalle mancanze, termine non casuale: se il racconto si nutre di sottrazioni, di spazi bianchi, le storie di Daddy hanno più a che fare con la troncatura e un certo grado di superficialità con cui talune immagini sono abbozzate, specie nei finali, che con la tecnica della sottrazione. È un meccanismo delicato che se abilmente maneggiato porta a risultati eccezionali come quelli che ci si aspettava appunto da Cline, ma che in questo caso, purtroppo, non funziona mai pienamente. Troppi i meccanismi avvertiti, le chiusure precipitose, la parte sommersa e i fuoriscena troppo ingombranti di spettri, ambiguità, spunti, che non riescono a stare in equilibrio con la delicata filigrana del racconto. Se però guardiamo con sguardo più indulgente a queste pagine restano storie ancora interessanti, che portano il lettore a una riflessione più ampia sulla precarietà del mondo entro cui si muovono i personaggi, il fallimento della vita adulta, il ritratto dolente di padri, ex mariti, compagni e figli che sono i protagonisti assoluti di ognuna di queste storie.
Ecco, le mancanze di cui si parlava, potrebbero essere interpretate come chiavi di lettura applicabili ai protagonisti delle storie: uomini inetti, inadeguati, manchevoli, traditi da una vita adulta che decisamente non è andata come si aspettavano o, per meglio dire, come era loro diritto credere sarebbe andata.

 

Era quasi imbarazzante il fervore con cui aveva creduto che tutto avrebbe continuato ad andare di bene in meglio, che la vita sarebbe stata un continuo accumularsi di successi, di momenti destinati a diventare più vividi e piacevoli. Poi aveva divorziato e si era trasferito a New Yorrk, e da allora la sua carriera aveva rallentato, dapprima poco per volta e poi di colpo.

(“Figlio di Friedman”, p. 76)

 

I divorzi e le relazioni fallimentari, il potere che scivola fra le dita, la precarietà della posizione sociale e dei rapporti, ogni cosa su cui si posa lo sguardo di Cline pare «sgretolarsi dall’interno»; la droga – una sorta di passatempo socialmente accettabile per uomini della loro posizione sociale – e l’alcol, o gli anestetici per sopravvivere al fallimento. Quel titolo, Daddy, inizialmente mi aveva portata fuori strada credendo fosse legato a un racconto omonimo; è qualcosa di più profondo e ambivalente, invece, un termine che richiama un ben definito ruolo – essere padre – ma anche un appellativo usato talvolta in modo un po’ volgare e che richiama ancora una volta il mondo corporeo di Cline, il ruolo che ricopre la sessualità – un certo tipo almeno – nei suoi scritti, riferendosi nello specifico alla società patriarcale in cui si muovono tutti gli Harvey della realtà.
Di padri veri è disseminata la raccolta, che si muove in continua tensione nello scandagliare relazioni genitori e figli, uomini e donne. Padri, ça va sans dire, difettosi, inadeguati, come quello di “What can you do with a general”, il racconto d’apertura:

 

Quant’era facile calare un velo tra lui e quel gruppo di persone che erano la sua famiglia. Sfocavano piacevolmente, diventavano indistinte quel tanto da riuscire ad amarle.

(“What can you do with a general”, p. 12)

 

Ma è appunto nell’ellissi, nel sommerso che si cela la parte più importante del racconto, in certe ambiguità non scandagliate, negli scambi al veleno poi prontamente troncati, nelle insinuazioni. O in quello che avviene fuoriscena, un incidente di cui osserviamo le conseguenze in un altro racconto. Un padre, anche qui, quasi sempre assente, chiamato a risolvere il guaio dentro cui si è cacciato il figlio. Ma in realtà non è nemmeno necessario fare o dire molto, di fronte al preside della scuola che decide di allontanarlo ma non di punirlo veramente, basta la posizione a garantirsi il futuro, intatto e immacolato.

 

L’episodio sarebbe stato sempre più lontano nella vita di Rowan, Frisch lo sapeva, un inconveniente che si calcifica facilmente. Quelli come Rowan e suo padre erano sempre protetti da sé stessi.

 (“Northeast Regional”, p. 160)

 

Un racconto tra i più interessanti della raccolta, che si schiude a molteplici sguardi e considerazioni, a partire dalle riflessioni sul potere e tutto ciò che può comprare, il privilegio, l’arroganza. Non sappiamo di preciso quale sia stato l’episodio cardine, ne intuiamo i contorni e la gravità, ma l’angoscia del lettore è tutta ripiegata sull’attonimento di un padre che coglie gli abissi di crudeltà di cui è capace il figlio. Ma per quelli come loro è solo un episodio. Non ci sono conseguenze, non ci sono macchie. C’è un noi e un loro intrinseco in queste storie, in queste parole:

 

I ricchi ti facevano sentire che tutto era possibile perché, per loro, tutto era veramente possibile. Se passi troppo tempo nel loro mondo cominci a credere nella bellezza intrinseca dell’esistenza, cominci a sentirti al sicuro, dispensato, convinto della tua fortuna.

(“Menlo Park”, p. 51)

 

Ma noi e loro è anche il mondo degli uomini e quello delle donne: il sessismo è il filtro con cui Cline osserva la realtà, la amplifica sulla pagina, ne mette in mostra le distorsioni.  

 

In negozio lavoravano solo femmine; i maschi stavano sul retro a piegare, spacchettare ed etichettare la merce arrivata dal magazzino, a gestire le scorte. Non avevano niente da offrire, loro, a parte il lavoro puro e semplice. Erano le ragazze che la direzione voleva in bella mostra, ragazze che sintetizzavano l’intero marchio.

(“Los Angeles”, p. 30)

 

Peccato che “Los Angeles” sia alla fine uno dei racconti meno riusciti della raccolta, poiché il potenziale di questa storia e la malleabilità della parola vengono traditi da quelle che nell’insieme risultano essere soltanto una serie di scenette, che scivolano in un finale abbozzato, frettoloso, lasciandoci frustrati per quello che Cline avrebbe potuto fare con questa storia.
Si badi bene, però, i personaggi femminili non sono immacolati, ma esseri umani e come tali capaci anche loro di meschinità, colpe o, più interessante, di sentimenti scomodi: la babysitter che seduce il divo del cinema, si rifugia in un angolo remoto in attesa che lo scandalo si plachi e ci lascia intravedere quanto le attenzioni sessuali la appaghino; le ragazzine che giocano alle adulte – e quale altro mezzo per farlo se non il corpo, sessualizzato, mostrato – fino a quando qualcuno non si fa male; la sposa infelice che nelle chat per adulti si finge adolescente, compiaciuta di tirare fuori da quegli uomini la parte peggiore, predatoria, volgare. Emma Cline non fa sconti a nessuno, non ci sono buoni o cattivi e non c’è spazio per la redenzione.
Imperfetti e manchevoli, questi racconti riescono di tanto in tanto ad aprire squarci laddove Cline si concede di andare a fondo, avventurarsi nell’abisso, lasciandoci intravedere la potenzialità della scrittura, quella stessa che i suoi lettori hanno conosciuto con i romanzi che precedono la raccolta. In quelle pieghe, nelle parole scelte – e tradotte – con precisione rigorosa, appare la scrittrice e certe sottrazioni ritrovano ragione d’essere. E il mondo di Cline, la parte meno edificante del nostro, si fa vivo sulla pagina, popolato di uomini e donne perduti, colpevoli, inadeguati a essere clementi, che bramano un’attenzione, il successo che gli spetta di diritto, la felicità, se solo sapessero che cosa sia.

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La metà del doppio, di Fernando Bermùdez

Autore: Fernando Bermùdez Titolo: La metà del doppio Traduzione: Giovanni Barone  Editore: Spartaco edizioni pp. 140  Euro 14,00

Autore: Fernando Bermùdez
Titolo: La metà del doppio
Traduzione: Giovanni Barone
Editore: Spartaco edizioni
pp. 140 Euro 14,00

di Fabrizia Gagliardi

Per essere una eco originale dovresti restituire un suono simile, non proprio speculare, basterebbe aggiungere una flessione propria per inventare un nuovo modo di essere. Non è proprio così per la letteratura sudamericana, argentina in particolare. Peculiarità storiche – tra strascichi di colonizzazione, decolonizzazione e anni di dittatura – e linguistiche – come la miriade di dialetti che si discosta dalla lingua nazionale – hanno continuamente mosso il centro dell’identità letteraria senza creare un’unica tradizione. Si tratta di cambiamenti che hanno assecondato diverse spinte tematiche e stilistiche, frequenti sperimentazioni e hanno assicurato un buon grado di eccentricità ai loro protagonisti.

Ci vengono subito in mente, per citarne alcuni, i giochi labirintici di Borges, le componenti fantastiche e metafisiche di Cortazàr, il movimento linguistico di Arlt, l’arte del racconto di Horacio Quiroga, la poesia di Macedonio Fernandez, Silvina Ocampo, gli autori contemporanei come Manuel Puig e Alan Pauls. Una storia letteraria puntellata da generi diversi tutti caratterizzati da un approccio nuovo allo stile e uno studio sintattico e formale dai risultati inediti.

Tra questi annoveriamo La metà del doppio di Fernando Bermúdez, portato in Italia da Edizioni Spartaco con la traduzione di Giovanni Barone. Sette racconti che non s’immergono mai completamente nel realismo delle vicissitudini umane, offrendoci uno scavo psicologico approfondito in poche parole mentre preparano il terreno al visionario. La scrittura di Bermúdez sprigiona in poche righe la casualità e il nonsense dell’entropia umana, partendo da scenografie quotidiane la cui implosione è affidata a incursioni nel fantastico e nell’intervento metanarrativo controllatissimo.

In Blomma, come in un noir, inseguiremo un misterioso viaggiatore e ad accompagnarci sarà la consapevolezza crescente dello scambio tra scrittura eterodiegetica e omodiegetica: il pedinamento lascerà la libertà di giocare nello spazio concessoci dall’autore e, allo stesso tempo, traghetterà in confini sempre più aperti all’imprevedibilità. La predilezione per l’equivoco e il gioco pirandelliano sarà più evidente in Hugo Talmann, morto a New York con la presenza di più piani narrativi non esattamente allineati: da una parte assisteremo a uno scrittore affetto dalla strana malattia di pensare alle infinite possibilità che una narrazione può generare, dall’altra scopriremo l’esistenza di una sorella che lo sta raggiungendo per un ultimo saluto. Invece di affidare l’illusione di essere lettore a un trucco mimetico, Bermúdez preferisce prendersi cura della lingua per smascherare il narratore e i meccanismi della finzione.

Gli chiesi che provasse a immaginare qualcuno che soffrisse realmente di quel problema. Qualcuno che non poteva decidersi per una singola parola e non poteva continuare la frase senza sviluppare contemporaneamente tutte le possibilità e, logicamente, esprimerle tutte allo stesso tempo.

«Una storia è un atto di seduzione», scriverà in Blomma, «ma non esiste nessun atto possibile che possa chiuderla», e nella non conclusione ci sentiremo completi: tutta l’illusione del ciak d’inizio e della fine di ogni storia si volatilizzano lasciando strascichi più consapevoli. Il bianco e nero, insieme alla rassicurante regolarità umana, vireranno verso il grigio, nell’eterno ritorno di conoscenze mancate che chiederanno una decisione prima o poi.

Anche in racconti dove l’impianto realistico prevale, come Mezzanotte passata e Circostanziale del tempo, la ricerca della parola non è mai scontata, la metafora rivela confronti inaspettati, e si lascia andare a una dimensione poetica per creare labirinti temporali. Due fronti si amalgamano in maniera seducente: lo sdoppiamento dell’umano che guarda se stesso raccontando il mondo e la disciplina del narratore che ha sempre in mente dove condurrà il percorso. Ne La condizione genuina sorvoliamo angoli lirici e sentimentali con un narratore che si diletta nel piano sequenza. L’addio di due amanti non ha niente di visionario o fantastico, eppure la scrittura quasi cinematografica sprigionerà tutte le potenzialità di un incontro metafisico. La regia dell’autore è lessicalmente attenta e cambia codice visivo con la forza di quello linguistico.

Gli guarda gli occhi, stavolta con gli occhi aperti, lei. Dice che stanotte lui se ne andrà. Che prima dell’ora in cui entrambi dovrebbero alzarsi per continuare a vivere lui si alzerà per andarsene. Dice anche: «Per sempre». Lui ha gli occhi profondi. Con chilometri di pianto che spargerà in risate e in convinzioni e in contraddizioni. Lui crede che ormai non potrà fare altro che piangere in tutte le maniere.

Viene voglia di esplorare la promessa temporale di Bermúdez e una raccolta così curata garantisce un accesso a un genere tra l’onirico e la mistificazione della realtà del tutto inedito e personale.

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I poteri forti, di Giuseppe Zucco

Autore: Giuseppe Zucco Titolo: I poteri forti Editore: NN editore pp. 176  Euro 17,00

Autore: Giuseppe Zucco
Titolo: I poteri forti
Editore: NN editore
pp. 176 Euro 17,00

di Marina Bisogno

L’esistenza di ogni essere umano ha la sua dose di gioie e sgradevolezze, di euforia e bocconi amari. Giuseppe Zucco, classe 1981, autore di diversi racconti e del romanzo ll cuore è un cane senza nome, pubblicato qualche anno fa da minimum fax, lo sa bene e lo racconta con sfrontatezza e un sacco di metafore. Per Zucco ognuno di noi si imbatte in segnali, immagini, avvisaglie che alimentano un continuo parallelo tra intimità e esteriorità.
Quando in libreria è arrivato il primo romanzo di questo scrittore se ne è fatto un gran parlare: chi era questo giovane, che strizzando l’occhio a Kafka, trasformava un uomo sofferente per amore in un cane, mettendosi alla prova con la tenuta di un punto di vista insidioso, frattanto che ammantava di sarcasmo un evento doloroso come la fine di una relazione amorosa? Di questa stessa energia e passione per la vita, per la quotidianità, sono costellati i cinque racconti della raccolta I poteri forti NN editore. Sono storie che partono da eventi ordinari (il matrimonio, il compimento del quarantesimo anno d’età, l’adolescenza, per fare qualche esempio) e danno il via, nello stile dello scrittore, a paradossi, a una commedia umana che rievoca lo sguardo di Luigi Pirandello e di Woody Allen: se la vita è un teatro impermanente dove ognuno assume un ruolo diverso a seconda delle circostanze, tanto vale armarsi di ironia. Il linguaggio di Zucco è impastato di poesia, di riferimenti artistici: ciascun racconto, ad esempio, si accompagna a una citazione, cosicché, prima di entrare nel testo, il lettore incontra un poeta, un romanziere del passato a fargli da guida. Lo sguardo dell’autore persevera oltre la trama di ogni singolo scritto e propone il suo antidoto ai mali del vivere, a tutto ciò che è difficile arginare perché succede e basta, a tutto ciò che lasciamo accadere per pigrizia, ignoranza, sciatteria, pochezza. Le relazioni salvano, a patto che siano giuste, a patto che vi sia uno scambio; ma salva pure l’atteggiamento con cui si sta al mondo.
Il racconto che dà il titolo al libro è l’ultimo.  Seguiamo le vicende di un adolescente che si innamora di una coetanea: mentre i due ragazzi scoprono quello che l’intimità con un’altra persona può fare a un essere umano, il Mediterraneo ingoia uomini e donne disperati, che pur di sfuggire ai conflitti, alla povertà, sfidano il mare per approdare a nuove possibilità, mettendo in conto di poter morire. Frattanto che i ragazzi del racconto si legano, la loro preside prova a scuoterne la coscienza sociale e apre una breccia. Filtrano orrore, sgomento, disgusto, sentimenti ai quali si può rispondere con l’azione, con l’amore.

 

Per giorni i telegiornali non diedero altro che quella notizia. Il numero dei morti altissimo. Solo l’elicottero era riuscito a raggiungerlo sopra il mare grosso. E non ci fu pranzo o cena che non fosse funestata da quelle immagini. La gente annegava e non la finiva di annegare. E osservando il modo in cui lui fissava il barcone rovesciato, trattenendo la forchetta a mezz’aria, e da quel momento mangiando lentamente, o rifiutandosi proprio di continuare, la madre prendeva il telecomando e cambiava canale. Bisognerebbe appendere la preside per i piedi, diceva la madre
(da I poteri forti).

 

I riferimenti agli eventi della contemporaneità sono evidenti: lo scrittore costruisce intorno a questi fatti atroci una storia di formazione che, per contrapposizione, fa echeggiare il peggio dell’essere umano, un peggio che ci è rimasto addosso come un marchio. È un racconto intenso, doloroso, dove la consueta ironia dello scrittore si fa sarcasmo sottile al servizio di una causa precisa, ovvero denunciare. In una impalcatura che rispetta le sintonie, questo racconto dialoga col primo, Giuditta. Il carattere di questo scritto è più privato, esprime qualcosa che Yasmina Reza in Felici i felici ha investigato con ironia e consapevolezza: la vita di coppia è un mare calmo che un colpo di vento può increspare, portando in superficie non detti, bocconi mandati giù a stento; in questo modo un evento apparentemente insignificante si trasforma in uno determinante, definitivo. Zucco racconta il tormento di un uomo che, dopo anni e anni di matrimonio, scopre che sua moglie di notte sogghigna, tirando fuori una smorfia inquietante. Questo particolare apre una breccia e dà il via a una serie di aneddoti e situazioni strambe (il protagonista arriva persino a sentirsi in pericolo come Oloferne nel famoso quadro di Caravaggio Giuditta e Oloferne) che, tra risate e amarezza, evidenziano una relazione sfilacciata e piena di crepe.

 

Con timore infilò la fede all’anulare. Con timore aprì la porta chiudendola subito alle sue spalle. Entrò a casa, e fu tutto così definitivo, come il giorno delle nozze

(da Giuditta)

 

Straordinaria la citazione di Emily Dickinson in apertura del racconto Quarant’anni e che dice “Per richiudere un vuoto mettici la cosa che lo ha aperto”. Il vuoto è quello di un uomo che la mattina del suo quarantesimo compleanno esce di casa vestito di tutto punto per fare una passeggiata. La passeggiata si rivela un viaggio dentro se stesso, tanto più che un pappagallino gli si posa sulla spalla a fargli da coscienza (un grillo parlante di collodiana memoria).

 

Ma cosa avrebbe potuto dirgli? Che non sapeva bene com’era arrivato a quarant’anni? Che aveva lasciato il telefono a casa proprio perché nessuno lo avrebbe chiamato per gli auguri? Che i giorni si erano fatti lunghissimi e le notti così corte? Che la notte si svegliava di colpo senza più riprendere sonno, sentendosi così solo, ma in modo diverso e più atroce rispetto a un tempo?”

(da Quarant’anni).

 

Zucco è un esistenzialista caustico, approda al simbolismo per comunicare il punto di vista dei suoi personaggi che sono dei combattenti anonimi, alle prese con fragilità, ansie, spaventosi luoghi comuni. Come ci si relaziona con tutto quel che appare irrisolvibile, con tutto quel che appare lontanissimo dalla nostra portata e dalla nostra sfera di intervento? Zucco non propone ricette, ma un tratto fatto di coraggio, di capacità di analisi, autoironia, di impertinenza, di buone relazioni umane, di ascolto. A mio parere è uno dei narratori italiani più brillanti e va tenuto d’occhio.

 

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