Serao, Negri, Messina: tre racconti sulla maestra

Matilde Serao

Matilde Serao

di Anna Lo Piano

Tra il 1886 e il 1887, un’Italia ancora fresca di unificazione si trova a seguire compatta un pietoso caso di cronaca: il suicidio di una giovane maestra.

 

Nei primi giorni di giugno 1886, giunse da Pistoja al nostro giornale la notizia secca secca che una maestra comunale in un paesetto di montagna, insidiata nell’onore, si era uccisa in un momento di disperazione. 
È noto che le povere maestre, nei piccoli comuni, sono spesso oggetto di indegne persecuzioni, che le pongono nell’alternativa di darsi al prepotente del luogo o di morire di fame. [...] A nostre spese, quindi, mandammo un nostro redattore, Carlo Paladini, in Toscana, ordinandogli di fare un’inchiesta diligente. Ne venne fuori una storia tanto piena di dolore che quanti la lessero, ne piansero.

(Da “Il processo per la morte di Italia Donati” dal Corriere della sera,
28 aprile 1887)

 

Agli articoli di Carlo Paladini ne seguono altri, si moltiplicano i dibattiti. La storia, alla quale in anni recenti Elena Gianini Belotti ha dedicato un libro dal titolo “Prima della quiete”, ha tutte le caratteristiche per appassionare i lettori.
Italia Donati, arrivata per lavorare come maestra rurale nel comune toscano di Porciano, è presa sotto l’ala protettrice dell’allora sindaco del paese, un tal Raffaele Torrigiani di cui si dice abbia due mogli con le quali vive sotto lo stesso tetto. La dubbia moralità dell’uomo si riversa anche su Italia. I pettegolezzi in paese non fanno che aumentare. I Porcianesi l’accusano addirittura di essere rimasta incinta del sindaco e di avere abortito. A nulla valgono i tentativi di difesa della ragazza, i suoi appelli disperati perché la sottomettano a una visita ginecologica per dimostrare la sua innocenza, ormai nessuno è disposto a credere alla sua versione dei fatti. Alla fine, disperata, si suicida gettandosi in un fosso.
Nel giugno dell’87, anche Matilde Serao scrive un accorato articolo sul “Risveglio educativo” dal titolo “Come muoiono le maestre”, e questo plurale, come quell’è noto in inizio di frase nell’articolo del Corriere, devono metterci in guardia: il caso di Italia Donati, all’epoca, non è isolato. In Italia, alla fine dell’800, le maestre sono vittime di una delle tante contraddizioni in cui incappa il Paese nel tentativo di modernizzarsi.
Nel 1861, con l’unificazione del Regno, è estesa a tutto il territorio la legge Casati, che ha già riformato l’istruzione in Piemonte. I primi due anni di scuola elementare diventano obbligatori e gratuiti sia per i bambini che per le bambine, e lo Stato si fa carico dell’istruzione a fianco e in sostituzione della chiesa cattolica. Dieci anni dopo, la legge Coppino eleva a tre anni la durata dell’istruzione elementare, e introduce sanzioni per le famiglie che disattendono a tale obbligo. La retorica nazionale è quella di portare l’istruzione ovunque, di formare le menti dei nuovi cittadini. Ma i comuni rurali devono provvedere in autonomia a finanziare le proprie scuole. Viene loro in aiuto il processo di emancipazione delle donne, che entrano nel mondo nel lavoro. Con l’Istituzione delle Scuole Normali, dopo un’infarinatura di argomenti soprattutto letterari e pedagogici, le ragazze ancora giovanissime, anche di sedici o diciassette anni, possono dedicarsi alle menti più acerbe degli alunni e delle alunne delle prime classi elementari con uno stipendio che per legge è pari ai due terzi di quello dei colleghi maschi. La Scuola Normale è dura, per molte finire è un miraggio, e lo è ancora di più vincere il concorso nazionale. Per fortuna nei comuni rurali è più facile trovare lavoro, e così tante ragazze, in un Paese che considera le donne solo sulla base della loro appartenenza a una famiglia di origine o a un marito, si trovano a vivere da sole, lontane da casa, senza nessuna protezione, con salari al limite della sopravvivenza. La vicenda di Italia Donati non solo scoperchia il vaso di Pandora di un’ingiustizia sociale, ma per le sue caratteristiche, la fanciulla fragile e innocente, l’uomo perverso e potente che la insidia, le accuse false, la disperata lettera d’addio, entra nell’immaginario popolare come un’eroina romanzesca.

Tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 sono molte le opere che trattano in un modo o nell’altro la figura  della maestra. Ma sull’argomento, in questa sede, ho voluto analizzare lo sguardo di tre scrittrici: Ada Negri, Maria Messina e la già citata Matilde Serao.

 

Gli occhi di Rosanna erano piccoli e trasparenti,
d’un azzurro d’aria, d’una limpida serenità
”.

 

Anima Bianca, uno dei racconti che fanno parte delle Solitarie di Ada Negri, si apre con la descrizione di un’innocenza placida come la superficie di un lago che nessun turbamento ha ancora scalfito. Giovanissima, con ancora addosso la “goffagine dell’adolescenza”, la maestra Rosanna non ha di bello che le trecce, “due inverosimili trecce di color rosso rame a striature d’oro”. Quando entra in classe, però si trasfigura. Svelta, agile, insegna con la stessa naturalezza con cui respira, perché è nel suo ambiente, lì dove ha sempre voluto essere.

 

Nella timida e goffa campagnola, zimbello delle normaliste di stile moderno, ma sana come il fieno, e fresca come le margherite dei prati, ardeva il religioso spirito della maestra rurale. Nel semplice cuore ella custodiva intatta la vocazione, portandola in sé come un bene che nessuno,

che nulla avrebbe potuto toglierle.

 

Le colleghe più giovani sdottoreggiano, ma soffrono il peso della classe. Per lei, invece, è tutto il contrario, è un’educatrice istintiva. “Fröbel, Pestalozzi, il metodo? Se lo creava lei come lo sentiva, il metodo”. Rosanna sa come attrarre l’attenzione dei bambini e farsi voler bene. C’è qualcosa di ascetico in lei, come fosse votata a un ordine laico. Se per le sue compagne “la scuola era il mezzo di guadagnarsi il pane; ma l’anima loro ne viveva lontana, come quella d’un incredulo dal raggio della grazia”, lei da questa grazia è stata invasa. Il suo cuore trabocca di un sentimento amoroso che può riversarsi solo sui bambini, mentre il matrimonio, l’amore per un uomo, non la interessano. Sola al mondo, si dedica interamente alla comunità; la scuola per lei non finisce al pomeriggio ma prosegue nelle case, in un prolungamento naturale tra il ruolo dell’insegnante e quello materno. In questo andare e venire tra le strade del paese, però, attira l’attenzione di Mariano Conti, fratello maggiore di uno dei suoi alunni, che ha una testa viperina, un collo tutto nodi, un corpo come una lama di coltello, una bocca che pare un taglio. Incarnazione della forza brutale, ferina, vorrebbe attirare Rosanna nella barca su cui trasporta il legname e tenerla lì, incantato da quella sua treccia bionda e rame che gli appare come un tesoro. Respinto dalla ragazza, si vendica tendendole un agguato nel bosco, e la violenta.

 

Urlare non poteva. Si dibatté, gorgogliò qualche mozza parola disperata, cacciò le unghie nel collo dell'assalitore, cieca, demente. Fu la lotta originaria – senza pietà nel forte, senza speranza pel debole – che forse, nei tempi dei tempi, quelle selvagge foreste avevan vista combattere fra il maschio avvolto di pelli caprine e la femmina solo coperta del manto de' suoi capelli. Tale si rivelò l'amore alla maestra di prima elementare, che aveva l'anima candida d'un bimbo appena nato, e non sapeva d'avere un corpo.

 

Come una moderna Persefone, questa creatura che porta fiori ed erbe in classe, azzurra e ariosa come una primavera, viene trascinata dal suo assalitore in un oltretomba dal quale nessuno riesce più a strapparla.

 

Al suo posto si moveva, parlava, insegnava l’abbaco e l’alfabeto un’altra donna, lontana, indifferente - inutile.

 

I bambini all’inizio sperano si tratti di un malessere temporaneo, ma poi sentono che qualcosa è successo. Rosanna si sente pesare addosso l’infamia come una veste che qualcuno le ha gettato addosso, si sente indegna di insegnare quella speranza, quella bellezza, in cui lei non crede più. Tra maestra e alunni si è spezzato il filo che li univa, e quel fascino assoluto che lei esercitava su di loro si sfalda. A poco a poco le sfuggono dalle mani.

 

Il fluido simpatico era svanito. Beppe Salvestri portò, un giorno, un rospo in classe. Punito, fece le corna dietro le spalle della maestra;
e tutti scoppiarono a ridere.
Un terrore folle gelò il sangue della disgraziata.
Sapevano, forse, la cosa tremenda: ed ecco, la schernivano, non avrebbero piú potuto rispettarla, lasciarle la loro piccola anima nelle mani: mai piú, mai piú.

 

Privata della sua vocazione, che pure pensava nessuno avrebbe potuto portarle via, Rosanna non ha più ragione per andare avanti e si lascia morire tra i pettegolezzi delle donne del paese. Il suo funerale sarà un delirio di bianco e di palate di terra brutali come insulti, in un inverno che chiude il succedersi delle sue stagioni. All’affacciarsi della nuova primavera, di lei si sono già dimenticati.
Intriso di simboli, questo racconto di Ada Negri affonda le sue radici tanto nell’archetipo e nel mito, quanto nella cronaca. La sua intenzione, scrivendo Le solitarie, era infatti quella di tracciare un affresco della complicata situazione delle donne che non riescono a rientrare o rimanere nei ranghi del matrimonio, e si trovano ad affrontare la vita muovendosi sui margini, da sole, appunto.
Chi sa perché nelle campagne la maestrina è, il piú delle volte, una spostata? si chiede Ada Negri parlando di Rosanna e delle sue colleghe. Per queste giovani donne, al trasferimento per prendere servizio si aggiunge uno spostamento morale, perché escono dal percorso ordinario per addentrarsi su un sentiero che è appena tracciato, e nasconde molte insidie.
Nella mentalità di fine ottocento una donna può realizzarsi appieno solo come sposa e madre, tanto che il contratto matrimoniale obbliga a scindere quello lavorativo. Il mestiere, insomma, è un affare di giovinezza. Se si continua a esercitare una professione in età adulta, se diventa quindi una questione seria, quasi sempre non è per scelta ma per necessità di sopravvivenza, perché non è possibile una soluzione alternativa. Inseguire una passione, cercare una realizzazione personale, è affare di una sparuta élite.
Tra una vita di necessità e un matrimonio non desiderato si dibatte un’altra maestra, protagonista di un racconto di Maria Messina (che di Ada Negri era amica e ammiratrice) contenuto nella raccolta “Piccoli gorghi” del 1917.

Maria Messina

Maria Messina


L’ora che passa si apre e si chiude nel corridoio della scuola dove Rosalia insegna ai bambini della scuola elementare. In entrambe le scene troviamo la ragazza titubante tra porte che si aprono e si chiudono, incerta su quale direzione seguire. Da un lato c’è il direttore, suo padre, che le chiede, dopo le tante rinunce fatte negli anni, un ennesimo sacrificio per permettere ai fratelli di sistemarsi. Dall’altro c’è il collega Mirtoli, con il tondo faccione e la testa calva che non le desta particolari sentimenti ma ha un cuore fedele e soprattutto un pingue stipendio. Vediamo Rosalia concedere a Mirtoli un sì che accenna a una speranza, poi la seguiamo durante il ritorno a casa a braccetto del padre amorevole, in un dialogo che è un capolavoro di struggenti richieste a mezza voce e dignitosi piagnucolii perché  la ragazza metta ancora una volta in cima alle priorità della famiglia il futuro dei due figli maschi; infine l’accompagniamo in casa, dove, spogliata degli abiti esterni che mette a scuola (il cappotto, il boa, il cappello), assiste impotente all’annullamento servile della sorella, all’invalidità della madre, scivolando a poco a poco nella consapevolezza  che nessuna delle opzioni che ha di fronte è una scelta che può definirsi libera.

 

Sentiva un vuoto intorno a sé, come uno che ha perduto qualcosa di vitale. E quand’era chiusa nella scuola, fra le sue bambine, che fra una lezione e l’altra cinguettavano come cinciallegre, la prendeva con violenza un’ardente, insaziabile voglia dell’aria libera, del cielo aperto.

 

Stretta fra due suppliche mute e imperiose, Rosalia sente a poco a poco montare dentro di sé un’ostilità verso tutto e tutti, anche verso se stessa.

 

Fu ripresa dalla sorda irritazione contro tutti, contro se stessa specialmente; perché le parve di non essere proprio lei, con la sua volontà, a reclamare i diritti della vita, ma un’altra persona, fusa nella sua, che guardava con implacabile desiderio una via differente.

 

Ostilità, irritazione, ma mai rabbia, perché quest’ultimo è un sentimento attivo, che potrebbe suscitare una reazione, mentre in lei, così devota, così educata, questo confuso sentimento non trova sfogo se non in uno scatto, quando prima di ritrattare il sì a Mirtoli, nega lo sguardo al padre. E nel finale, mentre ancora una volta attraversa il corridoio della scuola, la vediamo rassegnarsi a non reclamarli mai più, questi diritti della vita, in una rinuncia definitiva non solo ai desideri, ma anche al proprio dolore.

 

E seguì la curva persona del padre, tenendosi il boa sulla bocca serrata, perché, dopo lo sforzo fatto per sembrare calma, le lacrime trattenute le stringevano la gola. Pur nel suo cuore non restava più dolore ma solo una pacata melanconia.

 

Anche l’ultimo racconto di questa trilogia sulla maestra, a firma di Matilde Serao, si apre con una scena ambientata in un corridoio di scuola.
Pubblicato a puntate sulla rivista “Nuova antologia” nel 1885, proprio mentre a Porciano si consuma il dramma di Italia Donati, Scuola Normale femminile è un reportage narrativo, composto a bozzetti, com’era nello stile della giornalista che già nel Ventre di Napoli aveva fatto una simile operazione. Di famiglia aperta, con una cultura internazionale (la madre è una donna colta di origine greca, il padre egli stesso un giornalista) ma che versa in difficoltà economiche, Matilde Serao fin da ragazzina sperimenta sulla propria pelle cosa vuol dire dover lavorare per mantenersi. Frequenta la Scuola Normale “Eleonora Pimentel Fonseca” di Napoli per diventare maestra, ma poi preferisce diventare telegrafista. Convinta anti-femminista, è però consapevole che esiste una questione femminile tanto sociale quanto culturale, e la vuole raccontare, attingendo alle sue memorie, alla realtà che conosce. Nella prefazione al “Romanzo della fanciulla”, di cui fanno parte sia Scuola normale femminile che Telegrafi dello Stato, scrive:

 

Chiusa come un baco da seta in un bozzolo filato dal rispetto umano, dalla educazione strana e variabile, dalla modestia obbligatoria, dalla ignoranza imposta, dalla inconsapevolezza a ogni costo, e trascinata poi da una forza contraria d’impulsione a gravitare intorno al sole del matrimonio, la fanciulla si sviluppa in condizioni morali difficilissime.

 

È la lotta non di una sola ma di tante. Serao ci riempie di nomi, vola dall’una all’altra, le classifica in categorie mobili, intreccia i loro percorsi.

 

Vi do delle novelle senza protagonisti, o meglio, dove tutti sono protagonisti. …novelle corali, ove il movimento viene tutto dalla massa, ove l’anima è nella moltitudine: e non me ne pento. Invece di fabbricare una fanciulla, ho rievocato tutte le compagne della mia fanciullezza.

 

I vari bozzetti sono così densi che quasi confondono il lettore, ma quanti dettagli, quanto colore. Pare di vederle entrare in classe, queste ragazze, di udire le loro voci, di sentirsi addosso l’umido delle pareti, delle strade infangate, dell’acqua che inumidisce gli stivali e gli orli delle gonne. Percepiamo il freddo e anche la fame. Serao ci fa il conto dei centesimi che servono a comprare una colazione, di quale siano le aspettative di concorsi e stipendi, di cosa voglia dire concretamente essere riprovate, non passare l’esame, doverlo rifare.
Di passione per lo studio se ne vede poca. Le materie sono noiose, da ripetere a pappagallo, e volte così astruse da non capirne il senso e l’utilità, come la temibile macchina di Atwood di cui quasi nessuna riesce a venire a capo. Da parte dei professori si respira un sentimento di disprezzo per queste ragazze. Si dice di un insegnante:

 

Costretto dalla necessità a insegnare pedagogia alle ragazze del terzo corso egli disprezzava palesemente quell’incarico, e se stesso che lo compiva.

 

E di un altro:

 

Si fermò un poco a rovistare fra le sue carte, a leggere nel registro, sentendo e assaporando lo spavento che incuteva in quei poveri sorci, con cui felinamente si divertiva a giocare.

 

Anche due ispettrici, due ricche signore borghesi, avanti negli anni, che Serao definisce “inutili”, piombano in classe nel bel mezzo della lezione di ricamo, criticando ogni cosa e ricordando alle ragazze che la loro triste condizione le obbligava a fare le maestre, che non avessero la superbia di credersi indipendenti e libere.
Nell’epilogo, che elenca i destini delle ragazze a qualche anno dall’esame finale, questa illusione di libertà, se mai c’è stata, si è dissolta definitivamente.
Tra tutte, quelle che hanno una vita più o meno serena, o che hanno fatto un buon matrimonio, sono relativamente poche. Impressionante è il numero di quelle che si tolgono la vita o muoiono per le situazioni di estrema miseria e vessazione a cui sono sottoposte. Tra loro due maestre rurali, letteralmente morte di stenti. 
La passione, che sia fuori o dentro il matrimonio, non è contemplata. Carmela Fiorillo, maestra a Gragnano, è costretta a trasferirsi in un villaggio dell’Alta Savoia, con la retribuzione di 400 lire annue, perché il figlio di un ricco fabbricante di paste si è innamorato di lei. Un’altra ha fatto l’errore di scrivere una lettera d’amore a un noto uomo napoletano, ammogliato e con prole. Sebbene fra i due non sia successo niente, il gesto denotava nella Ponzio un colpevole traviamento, incompatibile con le sue delicate funzioni di educatrice. Ella è stata destituita.

 Come nella novella di Ada Negri Anima Bianca, la funzione di educatrice richiede una dedizione assoluta, quasi monacale. Tra le tante maestre che escono arrancando dall’esame, e che vanno a impiegarsi con alterne fortune, due soltanto sono quelle che si distinguono in ambito lavorativo, e sebbene siano una l’opposto dell’altra, hanno in comune il fatto di essere due emarginate, diverse dal resto delle studentesse. La prima è Giustina Marangio, una sorta di Franti in versione femminile,

 

con la sua faccetta livida di vecchietta diciottenne, quella testolina viperea che sapeva sempre tutte le lezioni, che non le spiegava mai a nessuna compagna, che non prestava mai i suoi quaderni e i suoi libri, che rideva quando le sue compagne erano sgridate, che i suoi professori adoravano, che non aveva amiche, e che rappresentava la perfidia somma,
l’immensa cattiveria giovanile, senza vena di bontà, senza luce di allegrezza.

 

È lei che mette in difficoltà le compagne, che non sa fare squadra. Intelligentissima, dimostra il meccanismo della fantomatica macchina di Atwood facendo risaltare la mediocrità delle altre, e dopo una discussione sui sentimenti le mette in ridicolo scrivendo sulla lavagna “l’amore è una bestialità”. 
Al concorso riesce una delle prime, e dopo essere stata assegnata alla scuola di Chiaia, riesce a far trasferire la direttrice, assume lei la direzione, inventa un nuovo metodo di punizione per le bambine così sadico che molte di loro decidono di andarsene.  
La seconda è Isabella Diaz, che arriva a scuola dopo le altre, non riesce a inserirsi, viene presa in giro per il suo aspetto dimesso, sofferente, come se fosse uscita da una lunga malattia. È la stessa Marongiu a darle il soprannome di Scimmia spelata a causa della parrucca che porta in testa, a orchestrare un sentimento generale di astio nei suoi confronti. Eppure tra uno scherno e un aperto disprezzo, capiamo a poco a poco che Isabella Diaz di misero ha solo l’aspetto. Dietro quei vestitucci appesi, le borsette sdrucite, i cappelli con i nastri di recupero, c’è uno spirito raffinato, in grado di dare vita anche alle materie più noiose, disprezzate dagli stessi professori che le insegnano:

 

Con la faccia devastata dalla malattia, con la parrucca roseo bruna, che discendeva sulla fronte, combatteva con estrada in nome della pedagogia; ella diceva la sua lezione con un senso così profondo di ragionamento, con tanta logica tranquilla(…) che egli finiva per lasciarla dire, ascoltandola pazientemente, con un sorriso beffardo, tanto quella brutta, orrenda ragazza gli pareva l’incarnazione della pedagogia.

Come la maestra Rosanna, anche Isabella è un’educatrice istintiva, ma coltissima. Lei i metodi educativi non li applica solo a senso, ma li studia e li rinnova: Semplificato il metodo di sillabazione, modificato l’insegnamento della geografia, in meglio. Arriva persino a vincere la medaglia d’oro nazionale all’esposizione pedagogica. È la nemesi di Giustina Marongiu. Se quella eccelleva nell’inventare nuove punizioni, lei è quella da cui parte l’abolizione dei metodi punitivi. Ma tanto successo si paga. La società non è pronta per una donna che sia in grado di eccellere nella sua professione, avere una famiglia e provare sentimenti. Isabella Diaz nella sua missione è sola, priva di passioni che non riguardino quella educativa, spogliata di ogni femminilità. Se ha qualcosa di bello, è tutto interiore.

Fondato un giardino d’infanzia a Portici e un asilo a Pozzuoli, riordinate le scuole a Sarno, ci dice la Serao, ma poi aggiunge, in un inciso ironico messo lì a ricordarci che non è concesso alle donne di aver tutto: Sempre orrenda.

Ada Negri

Ada Negri