Volevo essere Vincent Gallo, di Sergio Oricci

Autore: Sergio Oricci
Titolo: Volevo essere Vincent Gallo
Editore: Pidgin
pp. 156 Euro 14,00

di Fabrizia Gagliardi

Sono a letto e Clementine sostiene di essere un libro aperto, gli racconta anche le cose più insignificanti. Fino a quando Joel occhi chiusi, serafico, le dice che «Parlare in continuazione non significa comunicare».
È difficile assegnare un genere a The Eternal Sunshine of the Spotless Mind (in Italia meglio conosciuto come Se mi lasci ti cancello) perché è un film che all’impianto più classico di una commedia romantica affianca la science-fiction. E in una delle rare coincidenze in cui l’abilità registica e, soprattutto, la potenza della sceneggiatura innescano il potere trasfigurativo delle storie. Le scene del film diventano diapositive che fermano il tempo, così iconiche che la loro decontestualizzazione diventa più potente del significato originale.
A ricordarmi il sapore destabilizzante della pellicola è stata la lettura della raccolta di racconti di Sergio Oricci, Volevo essere Vincent Gallo, inclusa meritatamente nel lavoro di scoperta underground, di opere ruvide e sopra le righe di autori italiani di Pidgin edizioni.
In Ouă de gaşcă un uomo è convinto che il suo superpotere sia capire quando le persone attorno a lui hanno lavato i capelli l’ultima volta; il protagonista di Pesci di vetro vorrebbe rintanarsi nel mondo colorato e rassicurante di oggetti, come i pesci di vetro che colleziona; in Wolfie il ragazzo-cane un ragazzo viene cresciuto proprio come un animale da compagnia; un freak dalla peluria incontrollabile diventa arte contemporanea in IpertricoticofocomelicoTM.
È impossibile racchiudere in poche righe la varietà di storie e la versatilità immaginativa con cui i personaggi annodano pensieri, incomprensioni e desideri in grado di manifestarsi e di esaurirsi nel giro di poche pagine. A tenerli insieme è un impianto stilistico che ha il suo trucco nel dinamismo e nella semplicità.
Occorre grande abilità per controllare i confini precisi di un disagio crescente, il sussurro di un problema che forse non verrà mai affrontato, ma soprattutto dosare l’equilibrio tra solletico e frustrazione del lettore con ritmo e ironia. Le pagine di dialoghi fulminei abbondano in confronto alle parti descrittive e tutto crea la sensazione che la vicenda stia sfuggendo di mano: non c’è tempo per affrontare di petto un problema sopito che prima non era nemmeno lontanamente immaginato.
Si tratta di un esperimento interessante nella produzione di Sergio Oricci che con il romanzo Cereali al neon (pubblicato da effequ) si lasciava andare con frammenti epigrammatici, visioni fulminee che riproducevano in maniera sorprendente lo scarto magmatico tra realtà e astrazione. Se Cereali al neon era una sperimentazione ricca di ghirigori linguistici mai scontati, Volevo essere Vincent Gallo procede nella direzione opposta: persegue il tentativo di semplificare la complessità delle relazioni e l’inseguimento di una fine che potrebbe non rivelarsi così lieta.
Anche se uno degli interlocutori sembra riprodursi, unico e identificabile, nei botta e risposta di più racconti, la creatività nel tessere frammenti, uno diverso dall’altro, restituisce unità alla possibile dispersione. Lo si nota nelle conclusioni istantanee, di poche righe, a cui arrivano molte delle coppie che si confrontano: in Gucci Louis Vuitton il procedimento quasi metodico con cui i protagonisti divorano gli orsetti gommosi dà l’idea che ci sia lo stesso approccio per problemi ben più grandi: «Mastichiamo e inghiottiamo fino a quando gli orsetti sul tavolo non sono finiti. Proviamo a parlare ancora un po’, ma in fondo non ci diciamo più niente».
La scintilla che innesca un cratere di spiegazioni, passi falsi e chiarimenti è un dettaglio della quotidianità. Ne La marginalità del respiro l’annuncio dell’arrivo di una nuova collega genera un dialogo dai contorni amari:

Vorrei risponderle che non è vero, che parliamo sempre di qualcosa. Non ci riesco, in fondo ha ragione. Non è che me ne stia rendendo conto adesso, è solo che speravo di essere l’unico a essersene accorto. Pronunciamo tantissime parole ogni giorno, non smettiamo un attimo di parlare. A fine giornata quante ne restano? E il giorno dopo? Di cosa abbiamo parlato ieri a cena? E ieri mattina, il giorno prima?

I protagonisti affrontano inconsapevolmente uno spostamento di equilibrio (sentimentale, lavorativo, famigliare) che non riescono a padroneggiare. L’unica soluzione è sciorinare dialoghi che a tratti sfiorano il nonsense e altre volte svelano dettagli a intermittenza, piccole luci di emergenza che illuminano altrettanti possibili epiloghi mai svelati.
Oltre all’eccentricità delle vicende bisogna considerare anche il surrealismo che avvicina la presenza di un’anomalia. In molti racconti si percepisce tanta voglia di comunicare ma la voce è di qualcuno fuori dal coro, l’emarginato che ha intravisto tutto prima: una volta giunti all’incomprensione, la normalità come condizione precedente, diventa un punto di non ritorno simile all’oblio. Ne La parola con la effe, per esempio, una madre fatica ad ammettere di avere qualche problema affettivo nei confronti del figlio. La narrazione si sviluppa attraverso uno scambio di battute col padre del bambino, in un crescendo di tensione:

 Riesci a essere esattamente come tutti si aspettano che tu sia. Riesci a pensare e a provare tutto quello che gli altri danno per scontato che tu stia pensando e provando.

 

I sedici racconti di Volevo essere Vincet Gallo restano una lettura istantanea che smaschera l’incomunicabilità, il surrealismo e una quotidianità schiacciante e priva di causalità. Se a una prima impressione le vicende raccontate sembrano non avere alcuna conseguenza sul lettore, basterà pensare al primo dialogo in cui ci incaponiremo su un’ossessione schiacciante, una malinconia latente, una stranezza che ci rende unici.