Le piramidi di giorni, di Daina Opolskaitè

Autore: Daina Opolskaitè
Titolo: Le piramidi di giorni
Editore: Iperborea
pp. 256 Euro 17,00

di Debora Lambruschini

Una raccolta pura, slegata dalle mode letterarie, composta da dodici racconti perfettamente autonomi e legati fra loro dal rincorrersi di alcune tematiche e spunti: Le piramidi di giorni, della premiata autrice lituana Daina Opolskaité e pubblicato in Italia da Iperborea, è un gioiello capace di coniugare padronanza tecnica del genere (le scelte efficaci dei titoli, l’accento su incipit e finali, le epifanie…) e costruzione di una propria voce autoriale, in italiano resa dalla traduzione di Adriano Cerri, che ringraziamo molto anche per aver tradotto per noi alcune domande rivolte all’autrice.

Nelle storie di Opolskaité tutto si incastra precisamente, scrittura e storia diventano l’una dipendente dall’altra, la capacità di maneggiare la materia si sposa al grado di intimità che riesce a costruire con il lettore.


Daina Opolskaité: Sono convinta che, in un buon testo, struttura e contenuto debbano comporsi in un’unità. Inizio a scrivere una storia nelle circostanze più diverse: a volte può capitare che mi balzi davanti agli occhi, o nell’immaginazione, un luogo particolare, per esempio una casa o una stanza dove potrebbe abitare qualcuno. Altre volte sono dei semplici oggetti a ispirarmi, piccole cose viste casualmente o ricordati: un paio di scarpe, un maglione, una bambola o una tazza da caffè. Inizio a domandarmi a chi potrebbero appartenere, e da lì comincia una storia. Ma la situazione più intrigante è quando all’improvviso mi si presenta un personaggio: vedo subito il suo carattere definito, sento quello che dice, che cosa ha in mente di fare, che cosa lo opprime. Mi dedico alla stesura di ogni racconto senza fretta, tornando un’infinità di volte sulle stesse frasi. Cerco le parole più adatte per quello che voglio raccontare. Faccio come un po’ come un orefice: limo il testo, lo lucido come una pietra preziosa fino a che non raggiunge un aspetto che non voglio più modificare.


Sono racconti dal gusto classico, immersi in un tempo e un luogo non particolarmente definiti di cui ne avvertiamo i contorni (la Lituania rurale, gli anni Novanta, il presente) ma che restano elementi di secondo piano, perché ciò che conta, ciò che rappresenta il cuore nevralgico della narrazione sono i movimenti minimi delle persone raccontate, le epifanie, i rapporti umani, il quotidiano. Uomini e donne di cui Opolskaité talvolta attraversa una vita intera ma, molto più spesso ed efficacemente, ne fotografa un istante denso di significato, ci mostra lo scarto dalla quotidianità, ci lascia intuire gli abissi; e tutto ciò che resta fuori dal racconto scritto è uno spazio vuoto che possiamo riempire.

 

D.O. : Scelgo di proposito di scrivere dei racconti che spingano il lettore a riflettere in maniera più ampia, a considerare che non è tutto così semplice come appare. E poi l’anima dell’uomo è davvero un mistero irrisolto. Che cosa nasconde, quante cose diverse può contenere dentro di sé? Questa indagine mi ha sempre affascinata. Sono convinta che ci sia dato qualcosa di molto speciale: viaggiare nel tempo, tornare al passato, immedesimarsi in un’altra persona e in tal modo vivere una trasformazione... ma i modi in cui questo avviene sono imprevedibili. Devo confessare che il superamento dei confini spaziali e temporali nei miei racconti non ha sorpreso solo i lettori, ma anche me stessa; mi sono stupita di come sono riuscita a rappresentare tutto questo. È qualcosa che dona al testo maggiore ampiezza, gli permette di evolversi, di respirare, di meravigliare.

Storie autonome l’una dall’altra come nella più pura tradizione di una raccolta di racconti, accomunate dalla ricorrenza di un tema, un simbolo, un motivo e a quel «momento di verità», per dirla come Nadine Gordimer, che costituisce l’anima della forma breve.
I rapporti umani e il senso di solitudine e mancanza, si rincorrono in molti di questi racconti e si fanno particolarmente interessanti quando implicano la riflessione – non stereotipata – sulla maternità, come evidente già dalla storia d’apertura, “Inferriate”, fra le più significative della raccolta:

 

Tra loro due si ergeva qualcosa di non oltrepassabile, qualcosa di più forte di loro. Come una solida inferriata impossibile da abbattere.
(“Inferriate”, p. 25)

 

Sono una madre single con i figli lontani e l’orfano che, tanti anni prima, aveva accolto, non per particolare slancio affettivo quanto per l’urgenza di trovare una piccola ulteriore forma di reddito che li aiutasse a tirare avanti; un legame sempre più debole con i propri figli, che si va allentando, e il senso di estraneità mai superato nei confronti di quel bambino inselvatichito, rude, che pare incapace di affetto. Ma non c’è cura da parte della donna che vada oltre le semplici questioni pratiche del quotidiano – un riparo, del cibo, dei vestiti – e non c’è desiderio di creare un legame, non c’è affetto. Tanto dalla parte di lei, focalizzata sui propri figli e sul legame sempre più debole con loro, quanto da parte di lui, bambino e poi ragazzo che non ha mai conosciuto affetto, calore umano.

 

Troppo tardi l’idea di una casa aveva bussato al suo mondo; le sue spalle tremanti, anziché percepire l’abbraccio accogliente di quel sentimento, si erano ritrovate gravate di un peso eccessivo. […]
Non era abituato a stare con qualcuno che si curasse di lui e che tutti i giorni gli insegnasse come vivere. (“Inferriate”, p. 25)

 

Le inferriate tra loro non possono essere abbattute, nemmeno col tempo, nemmeno quando restano soltanto loro in quella casa ormai vuota.
Della maternità Opolskaité racconta anche le ombre, le mancanze, la sensazione di essere sopraffatti; è la donna che cerca un attimo di libertà da un quotidiano difficile e fugge in piena notte, nel silenzio dell’auto ma sovraccarico di pensieri; è la madre andata via tanto tempo prima, senza dire una parola, il cui vuoto echeggia ancora in ogni stanza, nelle vite di chi ha lasciato; è, ancora, la madre che nelle scelte avventate della figlia teme di rivedere se stessa e la propria vita.
La maternità nei racconti di Opolskaité è anche rapporto simbiotico tra una donna e la figlia, in cui a tratti i confini fra l’una e l’altra paiono annullarsi: nei volti quasi identici riflessi nello specchio, nei cuori allineati, nella voce narrante. “Io e Madlena” è un racconto-mondo, teso fra istanze narrative divergenti che tuttavia riesce a reggersi e incatenare il lettore più che per lo scioglimento del “mistero” – il segreto sul passato della donna è chiaro quasi da principio – proprio per il gioco di specchi fra madre e figlia. E se c’è un mistero, quello è Madlena stessa: per quanto stretto sia il rapporto madre-figlia, per quanto i cuori seguano lo stesso ritmo, c’è una parte della donna per sempre inconoscibile.  

 

[…] capisco che c’è qualcosa che da sempre riguarda lei soltanto e che non conoscerò mai, e quel qualcosa è sempre stato ed è la sua vita, a me sconosciuta. Una campana di vetro di cui al massimo posso toccare la superficie con le dita.
 (“Io e Madlena”, p. 152)

 

Sono innumerevoli le declinazioni su questo tema, ma la prima e più immediata a cui la mia mente è tornata è nel romanzo di Zadie Smith “Swing time”: se Liucija accoglie quel mistero che è la vita di sua madre Madlena, qui la protagonista ne è sopraffatta, quasi offesa dal fatto che sua madre possa essere altro dal ruolo che ha nella sua vita; che possa essere una donna con un passato, una vita propria, dei desideri, delle esigenze. Un essere umano.
Tornando a “Io e Madlena”, è questo anche il racconto in cui maggiormente viene dato peso al tema del tempo, il fil rouge che non solo attraversa ma lega saldamente ogni storia di questa raccolta.


D.O. : Mi capita spesso di riflettere sul tempo, sento il suo pulsare, la sua provvisorietà. Guardo ogni cosa con la chiara consapevolezza che tutto cambia molto in fretta. Mi commuove la transitorietà dell’uomo in questo mondo, la sua innata fragilità. La protagonista del racconto “Io e Madlena” considera il tempo come una costruzione: la piramide dei giorni.
Ed è così, tutti noi costruiamo la piramide dei nostri giorni fino alla fine della vita. E ci chiediamo se dopo di noi resisterà nei ricordi di qualcuno o se invece crollerà e finirà in polvere.

La riflessione sul tempo è il centro da cui si dispiega ogni cosa, ed è fatta di innumerevoli sfumature, osservata da punti di vista differenti. Anche dal punto di vista della costruzione delle storie l’uso del tempo, in questo caso narrativo, è mutevole: talvolta tempo della storia e tempo dell’intreccio coincidono, altre volte la narrazione fa ampio uso di flashback e i piani temporali si intersecano fra loro. Anche queste scelte formali non fanno altro che confermare quanto detto in principio: scrittura e storia sono qui legate indissolubilmente, l’una al servizio dell’altra, ed ecco come la malleabilità del tempo – narrativo o meno – diventi fondamentale in questi racconti. 

Un tempo che si flette, che è mutevole, ora sfuggevole ora impercettibile; tempo che è memoria, nostalgia, che cambia il senso delle cose ma non le fa dimenticare; tempo che qualche volta pare tangibile, almeno nei suoi effetti, molte altre appare impossibile da comprendere.

 

Io la ascolto e penso che il tempo è un artigiano potente che crea le sue imponenti costruzioni con i secondi, i minuti e le ore. Sono delle vere e proprie piramidi di giorni che si stagliano sopra la mia testa e dalle quali non potrò mai uscire.

(“Io e Madlena”, p. 146)