Dolce casa, di Wendy Erskine

Autore: Wendy Erskine Titolo: Dolce casa Traduzione: Federica Bigotti Editore: Atlantide pp. 224   Euro 24,00


Autore: Wendy Erskine
Titolo: Dolce casa
Traduzione: Federica Bigotti
Editore: Atlantide
pp. 224 Euro 24,00


di Anna Lo Piano

Il mondo ti spiega le cose, nei racconti di Wendy Erskine. Se vuoi aprire un salone di bellezza, per esempio, bisogna che tu abbia ben chiaro un “concetto totale”: clinica svizzera, lusso damascato o salottino retrò. Se costruisci un centro polifunzionale, devi fare attenzione a come lo definisci. Centro di comunità ha troppe connotazioni ideologiche, mentre centro popolare è più inclusivo. Una volta chiusa la porta, però, il mondo non ha più niente di utile da dirti. Nemmeno quando l’acqua si infiltra nelle pareti, le erbe riprendono potere sul cemento, un sasso rompe la vetrina del salone di bellezza e si presenta un certo Kyle, che con un dito ti rovescia tutte le bottigliette dello smalto per terra.

Sweet home, ovvero Dolce Casa, è la prima raccolta di racconti di Erskine. Classe ’69, insegnante di inglese a Belfast, sua città natale, l’autrice ha ricominciato a scrivere quasi per caso, dopo qualche tentativo fallito fatto molti anni prima. È cominciato tutto nel 2015, con l’iscrizione a un corso di scrittura di sei mesi della rivista Stinging Fly, al quale si poteva accedere tramite selezione, mandando un racconto. Il suo si chiamava “Fabbri” ed ora fa parte della raccolta, uscita in Gran Bretagna nel 2019, e tradotta in italiano da Federica Bigotti per Edizioni Atlantide. 

Il titolo, Sweet home, è quello di uno dei racconti, ma le case - proprie, di infanzia, nuove, dei vicini, delle amiche – sono un elemento simbolico fortissimo che attraversa tutte le dieci storie.
I personaggi che le abitano sono dei naufraghi, sopravvissuti a qualche tipo di perdita, che hanno costruito una zattera di salvataggio tra le mura domestiche o nel luogo di lavoro. Il loro modo di andare avanti è aggrapparsi alle abitudini e a qualche ossessione. Mo di “A ciascuno il suo”, Andy di “Ultima cena” e Barry di “Anima senza pelle” hanno tabelle di marcia precise, curano tutto fino all’ultimo dettaglio, sono maniaci della pulizia. L’insegnante Olga McClure di “Donna e cane” tutte le mattine tempera scrupolosamente le matite della sua classe. La coppia di Sweet Home investe tutta se stessa nella costruzione di una nuova abitazione a Belfast, nel tentativo di creare un guscio in cui dimenticare la perdita della figlia, e ricominciare una vita.
Ma per quanto ognuno di loro cerchi di resistere c’è sempre un momento in cui la realtà irrompe all’interno. Il mondo ti spiega le cose e ti ricorda che ci sono, là fuori, questioni irrisolte che continuano ad agire come cerchi concentrici -  immigrazione, criminalità, lavoro, guerra, malattie - e che prima o poi un’onda arriverà addosso anche a te. C’è sempre qualcuno che bussa alla porta, che si mostra in televisione, che lancia un sasso sulla vetrina, che viene ad abitare nella casa di fronte o chiede di perquisire la tua stanza, portandoti dentro qualcosa da cui credevi di essere sfuggito. Alla fine l’unica cosa ragionevole da fare, come capisce il protagonista di “Fabbri”, è cambiare la serratura e chiudere fuori la sua scombussolatissima madre.
C’è in questo finale un humour nero che pervade tutta la raccolta. Il senso dell’umorismo è una delle cose più difficili da trasmettere da una cultura all’altra, ma provate a guardare uno dei video in cui Erskine legge in pubblico i suoi racconti per coglierlo in pieno e affrontare la lettura con uno spirito più consapevole. Humour nero, dicevo, che viene fuori dallo sguardo che i protagonisti dei racconti posano sugli altri, come Mo nel salone di bellezza di “ A ciascuno il suo”.

 

Oh ce n’erano di domande da fare se volevi, corpi che imploravano che qualcuno chiedesse perché, cos’è che non va. Quel lungo taglio sottile che si allunga verso l’interno coscia, signora in cashmere grigio, che cosa l’ha provocato? Quelle braccia segnate come una scatola di After Eight aperta, sfoglia sfoglia sfoglia, perché lo stai facendo, tu con il tuo sorriso storto, perché? La donna con i lividi attorno al collo, la sua mano che si affretta a nasconderli. Accidenti signora, il suo uomo la strangola forse?
Ma non glielo chiedi. Perché dovresti?

 

 Oppure lo sguardo che gli altri posano su di loro. Come gli operai di “Sweet Home”, la “gente del posto” a cui Gavin è “felice di dare lavoro”:

 

Lo vedi quello? disse Colin, indicando l’ampliamento in vetro, manco se mi paghi lo vorrei. Senza personalità. Zero proprio. In effetti fa abbastanza schifo, confermò Bucky, il più giovane. Ernie osservò per un attimo tutto compreso, inclinando la testa prima da un lato e poi dall’altro. Proprio senza senso, disse. Comparve la donna con del tè dentro tazze dalle forme buffe. La guardarono tutti mentre riportava il vassoio in cucina. Un po’ andata, ma c’ha classe, disse Bucky. A me mi piacciono un po’ zozze, fece Ernie. A tutti piacciono un po’ zozze, disse Colin.

 

O ancora l’agguerritissima adolescente di “Osservazione”, che investe gli adulti con uno sguardo impietoso

 

Cath continuava a fissare suo padre lì seduto in poltrona; stava provando a guardarlo con occhi nuovi, domandandosi se qualcuna delle compagne di scuola lo avrebbe trovato attraente. Fosse stato milionario, miliardario magari, avrebbe fatto presa, ma senza l’esca del vile denaro non pensava che avrebbe potuto fare breccia con nessuna. Le sue basette scoloravano dal marrone al bianco, e i grigi mutandoni da jogging che aveva cominciato a indossare per casa avevano degli elastici stretti alle caviglie,
stile genio della lampada in abiti comodi.

 

 

“L’inferno sono gli altri” diceva Sartre, ma nel modo infernale di guardare dei personaggi di Erskine c’è molta umanità. Anche quando i commenti si fanno spietati,

 

Kim Cassels non disse niente e mise il resto della spesa sul na- stro scorrevole. La luce bianca e fredda non donava proprio a nessuno. Cath pensò a un ovetto della Kinder rotto quando si mise a osservare i capelli a due colori di Kim Cassels, marrone lucido alle radici, bianco sulle punte

 

non si scivola mai nel grottesco. La verità è che non si può non ridere degli esseri umani, di quel disperato tentativo di raccontarsela, anche allo specchio, perché forse da soli non riescono a vedersi, ma dietro lo specchio ci stanno gli altri che guardano e fanno commenti. È il pettegolezzo continuo e senza tregua di una comunità che non risparmia nessuno. E noi non possiamo fare a meno di ridere, e anche di prendere un po’ le parti di Kim Cassels e dei suoi capelli, della professoressa McClure che compra un cane per spiare il maestro di ginnastica senza dare nell’occhio, e Paula di “Stati arabi. Mente e narrazione” che si compra una crema illuminante sperando di ringiovanire, e appare pallida e spettrale. Ma anche di Kyle, che è violento da far paura ma che ha anche lui un’anima fragile.
La solitudine di questi personaggi è spesso dovuta a una perdita: di qualcuno, di un passato, di una possibilità. È una materia palpabile, vischiosa, che ti si attacca addosso mentre leggi. Sembra rallentarne i movimenti, a volte gli stessi pensieri; anche quando sono in famiglia, c’è come uno scarto continuo tra loro e gli altri. Raramente si è in casa nello stesso momento, e se capita, si occupano spazi diversi, o ci si incrocia per caso, sulle scale, come in “Osservazione”. Ma anche quando ci si ritrova nella stessa stanza, seduti a un tavolo o sul divano, i pensieri vagano in direzioni opposte, in una impossibilità di sintonizzarsi anche solo per un istante sull’altro. Come in “Inakeen”

 

Il figlio di Jean Malcolm aveva deciso di farle una delle sue rare visite. Si accomodò davanti al televisore e quando lo accese lei lo sentì emettere il solito sospiro per la scarsa scelta di canali. Jean era posizionata all’estremità del divano perché
da lì si vedeva meglio fuori dalla finestra
.

 

Jean Malcom vorrebbe che il figlio le chiedesse come sta, ma lui parla d’altro, e nei dialoghi le parole rimangono sospese, interrotte. I pensieri dell’uno si sovrappongono a quelli dell’altra. C’è un disperato bisogno di essere riconosciuti. Jean si iscrive a un concorso fotografico, ma non viene neanche selezionata. E una delle scene più terribili, nella sua banalità, è il momento in cui, sul sedile posteriore di una macchina, si rende conto che l’uomo che la sta accompagnando guarda nello specchietto retrovisore e vede solo la strada.
Non possiamo riconoscerci in tutta questa imperfezione, in questa solitudine. Non sono personaggi che ragionano su loro stessi, che riescono ad avare sulla vita e la propria esistenza uno sguardo aereo, in prospettiva. Parlano e pensano per brandelli, con i pensieri e i percorsi continuamente interrotti. E anche per questo ci affezioniamo, perché sentiamo che siamo arrivati in una zona di profonda verità, dove scopriamo qualcosa su di loro ma anche inevitabilmente su noi stessi. Senza quasi accorgercene. Non ci sono infatti in queste storie epifanie o impianti narrativi che tengono duro: entriamo nella vita dei personaggi in un momento qualunque e ci stacchiamo dal racconto sentendo che sono ancora lì a combattere, giorno per giorno, esattamente come noi.