Microfictions, la consacrazione all’odio secondo Régis Jauffret

Autore: Régis Jauffret Titolo: Microfictions Traduzione: Tommaso Gurrieri Editore: Edizioni Clichy pp. 1016   Euro 25,00

Autore: Régis Jauffret
Titolo: Microfictions
Traduzione: Tommaso Gurrieri
Editore: Edizioni Clichy
pp. 1016 Euro 25,00


di Alice Pisu

Cioran sosteneva che ogni scoperta dell’essere umano sia da rintracciare nel debito che ognuno ha nei confronti delle proprie violenze. Sembra ricordarsene costantemente Régis Jauffret nel comporre i cinquecento racconti di Microfictions. Secondo Volume, ed. Clichy, traduzione Tommaso Gurrieri (con Anna Isabella Squarzina e Università LUMSA 2021). Ritenuto tra gli esponenti di maggior rilievo della letteratura francese contemporanea, Jauffret consegna un’opera colossale che rappresenta l’esito più alto della sua produzione. I lettori italiani scoprono i suoi microracconti con l’uscita nel 2019 per Clichy delle Microfictions uscite in Francia l’anno precedente. Quello che appare oggi come secondo volume racchiude in realtà i primi componimenti pubblicati nel 2007 col provocatorio sottotitolo di Romanzo.
Non esiste salvezza nei frammenti che compongono il mosaico in prosa, tutto sprofonda nel cinismo, nell’impossibilità di scorgere alcuna forma di partecipazione emotiva. Torturatori, assassini, terroristi occasionali, misogini, scrittori vagabondi come cani rognosi, pedofili, amanti rabbiosi che si rendono invalidi a vicenda, celebrità militanti, carcerieri e carcerati si avvicendano sulla pagina per dare forma alle innumerevoli immagini di un’umanità marcia.
Il prisma per osservarla è l’abominio, il metro per misurare ogni forma di pensiero e dolore sulla base di una deriva morale, intellettuale e fisica collocata all’interno di un allucinato inventario.

 

Chi odia, vede. Chi ama, sogna e si addormenta nel sonno dei vili. L’odio sacro, nobiltà dei popoli ridotti in schiavitù, odio dei ribelli, dei bambini umiliati, degli abitanti delle città bombardate, odio dei prigionieri, dei torturati, degli uomini messi in riga al sorgere del sole, odio salvifico, odio sussulto di vita.

La scrittura di Jauffret non conosce emersioni dalle tenebre che danno forma a scenari sordidi, dissolutezze, giochi sfrenati con la morte, efferatezze casuali. A subire un capovolgimento ogni principio etico e morale nell’abbozzo di vicende che non contemplano altra via che una triviale manifestazione di pulsioni e perversioni. La repulsione ostinata verso l’umanità elegge l’odio per improntare sulla logica della violenza la purificazione dalla sventura del vivere.
Neppure la più cruenta riproduzione dell’orrido pare sufficiente a saziare i protagonisti dei racconti: la ferocia entro cui Jauffret si insinua cela fugaci tentativi di assegnare eccitazione al vivere. Una ricerca inesorabilmente vana e frastornante nella constatazione della propria vacuità.
Il modello è la forma breve, che nel rigoroso limite delle due pagine immortala con sguardo cinico e imperturbabile un disfacimento talmente drammatico da assumere accenti farseschi. Jauffret allestisce il reale con toni che rasentano l’assurdo per amplificarne il tragico. L’analisi delle perversioni, delle manie e di ogni forma di ossessione si rinnova costantemente nel ridicolo che passa per una perdita di dignità e per l’annientamento di sé o del prossimo. Attraversa ogni classe sociale, identificando con pari scabrosità la grettezza e l’ipocrisia, la cupidigia, il parassitismo di chi vive di espedienti e la sfrenata gara di popolarità di attori francesi che si fingono attivisti per i profughi per non cadere nell’oblio.
In tale deriva solo l’annichilimento pare essere contemplato, forgiato su una dimensione sessuale che gravita costantemente tra la violenza e l’odio. È lo strumento attraverso cui perpetuare abusi, soppesare ogni relazione ed esercitarsi all’onnipotenza nell’umiliazione altrui.

 

“«La sessualità, sopra la tua culla, si china». È un’asse. Vivi la tua vita intorno a lei, come la tua carne e i tuoi organi avvolgono il tuo scheletro, simile a una cappa di tessuti e di sangue.
«Ti serve ad amare, a detestare, a vivere»”.

 L’origine e l’inesorabile esito di ogni narrazione è il valore della morte come l’unica via per riparare il danno iniziale della nascita, sulla base della costante meditazione sull’insensatezza dell’esistere. Condizione che lo sguardo dello scrittore intravede nel tracciare con i suoi racconti una cartografia della miseria umana, amplificata dalla pochezza dell’uomo che nel non avere consapevolezza dell’inutilità che lo caratterizza, si arrovella sul proprio decadimento.
Tra i grandi temi dell’intera produzione letteraria di Jauffret quello dell’ossessione nei confronti del corpo nel terrore di una caducità inesorabile. La mancata accettazione della metamorfosi generata dal passare del tempo fomenta odio nei confronti della giovinezza “radiosa e rivoltante” degli adolescenti e provoca perverse fantasie di distruzione, rese in egual misura dalla prospettiva di chi subisce tale condanna e di chi crede di esserne esente.
Jauffret si insinua nei meccanismi alla base di un crimine per scorgere nell’urgenza di chi compie un’azione eclatante il tentativo di convincersi di avere importanza. Un desiderio che non è un piacere fine a sé stesso, ma un esercizio di godimento nell’abbattimento dell’inadeguato – che si tratti della condizione imposta dalla malattia, della mancata avvenenza fisica, dell’etnia, o del fallimento personale e professionale – che prescinde dai sentimenti perché ritenuti manie esposte alla debolezza, in grado di imputridire. Si cala nella mente di assassini sventurati, capaci di compiere stragi per noia e poi dimenticarsene e tornare a casa in tempo per cena, o di terroristi megalomani che fanno saltare in aria le persone per lasciare una traccia di sé nelle notizie di cronaca.
La mediocrità di esistenze comuni è l’oggetto primario delle insistenze dell’autore, che sembra scorgere attraverso la cornice asfittica di ogni realtà famigliare il sostrato fertile per invocare lo sterminio. Che si tratti di un ordinario esploso o di visioni sul futuro allestite per immaginare l’evoluzione della specie con il prototipo dell’umanità ventura, il personale ritratto del mondo di Jauffret si traduce anzitutto nella scelta stilistica e formale con un’architettura monologante, un’espressività minima e labili e inaspettati accenti lirici. Le descrizioni si fondono con finti dialoghi che sono periodi brevi virgolettati che fissano un assillo o attestano un dettaglio rivelatore. 

 

“Ho odiato troppo mia figlia, per troppo tempo. Mi impegnavo a renderla infelice più che potevo. «Le sue lacrime non mi consolavano completamente». Ma nonostante tutto colavano come un balsamo sul mio cuore di madre ferito per aver avuto una figlia che l’aveva tradita sin dall’origine”.

Il tono monocorde e il difetto emotivo generano straniamento, stridono con l’efferatezza esibita sulla pagina: l’unica sensazione contemplata in modo autentico è la ripugnanza verso il genere umano, reso ancor prima che nella profonda varietà degli scenari narrati, nell’inesorabile pena alla regressione ferina.
La costellazione di racconti diventa un colossale e frantumato preludio, un’epifania del male. La forma frammento condensa i motivi dell’intera produzione letteraria di Jauffret: celebra il castigo attraverso la lugubre danza a cui i personaggi dei racconti sono chiamati a prendere parte. Nel costante passaggio tra passato e presente ritrae filosofi, politici, vescovi, apolidi, ferventi stalinisti, trafigge mode e tendenze letterarie, mostra il lato volgare di ogni epoca dissotterrandone la radice corrotta.
Pur cambiando i contesti e le dinamiche, la costante che accomuna le storie è il modo maniacale di usare l’iterazione con volti intercambiabili per svuotare di logica qualsiasi misfatto mostrandone l’insensatezza. Persino chi subisce le più atroci sevizie nasconde un’abulia emblematica: l’annullamento della volontà e l’impossibilità di ribellione sono l’implicita accettazione di una miseria condivisa. Per rintracciarne l’origine, Jauffret impronta le sue narrazioni su un’infanzia costantemente profanata. La stessa immagine di assoggettamento e di uso del corpo di un bambino per soddisfare perversioni inesauribili si ritrova nelle storie che hanno come protagonisti invalidi o persone finite in rovina e abbandonate per questo dal coniuge.
Quando si cala nella visione di una vittima di torture e abusi ricalca lo stesso slancio distruttivo reso nel descrivere le azioni di un assassino: un’idea di devastazione che sembra legittimare la violenza per riassegnare un equilibrio attraverso la memoria dei corpi straziati. L’indagine sul dolore prende forma a partire da quel che rimane di un corpo nell’esercizio del sadismo o del masochismo – “Maneggiata con discernimento, la crudeltà è un diritto dell’uomo” –; nella sublimazione della sofferenza di chi vive per strada; nella mancata percezione di sé che porta a perdere coscienza del proprio passato e sviluppare uno stupore per l’ordinario –“Mi verso nell’assenza come in uno stampo” –.
La peggiore condanna per l’essere umano, annunciano le Microfictions, pare essere l’oblio, condizione che persino gli scrittori falliti che passano il tempo a bere e bighellonare nei metrò cercano di scongiurare. Davanti a un terrore simile, non rimane che la maschera, l’artificio dell’apparenza. La figura dello scrittore è l’apice del grottesco, dell’infimo e del patetico tra i casi che compongono l’inventario umano di Jauffret. Lo si può scorgere tra le pagine nelle vesti di un cane randagio accalappiato per preservare l’ordine pubblico, di un finto anarchico, o in quelle dello scribacchino frustrato che finisce per aprire una pizzeria.
“Non sono ridicolo, sono scrittore”. Le contraddizioni e le mitomanie di chi non riesce ad accettare il proprio fallimento, avverte implicitamente l’autore, non sono che l’esito di un sistema editoriale descritto nelle sue storture. L’adozione di angolazioni diverse – dal lettore professionale al direttore editoriale al finto scrittore – espone le regole di un mercato a cui i “burattini a gettone” devono attenersi per scrivere libri convincenti sulla bellezza e sulla felicità. Travalica epoche, immagina Gabriel Méhat vivere al posto di Balzac quando egli è stanco e scrivere i libri al posto suo, per poi intrattenersi con una scapigliata George Sand a sparlare di Flaubert e Turgenev ed essere interrotto da Proust che aveva sbagliato secolo “come altri sbagliano strada”.
Tra scrittori tossici che con le loro pagine uccidono esplodendo nei crani dei lettori dalla cultura antiquata e letterati crocifissi dalle proprie frasi, non poteva essere certo esente da tale strambo campionario l’autore stesso. Jauffret si affaccia provocatoriamente a più riprese nei racconti. Si identifica come una grottesca nullità. Fantastica di morire cadendo da un dizionario su cui si era arrampicato per cucinare. Si trasforma in una bambola assurda, Régissette Jaujau, un travestito “con la faccia a uovo e un enorme coglione al posto del cuore” che passa le giornate a prostituirsi. Arriva anche a celebrarsi ponendosi come contemporaneo di Kakfa solo per il gusto di immortalarlo corroso dall’invidia per il suo talento.
La narrazione della sopravvivenza alla vita si lega costantemente all’iniquità. All’origine del rovesciamento dei valori su cui si regge l’intera opera c’è la concezione di Dio: le sue incarnazioni disparate esulano persino dalla mera blasfemia o dal sarcasmo dissacrante. Usa le immagini cristiane di peccato e di colpa originaria per riscrivere una personale sacra scrittura con Adolf Hitler che siede alla destra del Padre e trama un colpo di Stato per “esercitare la magistratura suprema”. L’inferno è una città dell’estremo Sud dove si parla solo del vento, dove la gente non muore e la sorte è l’eternità. Attraverso gli attori della commedia allestita sulla pagina, Jauffret non si limita a un’invettiva nei confronti della società ecclesiale. Usa l’assurdo per tributare la totale assenza di purezza e innocenza e scorgere, così, la matrice infetta che accompagna sin dalla nascita la specie umana.
Ogni pagina è un elogio all’infelicità resa come senso di ogni cosa, “apparenza e necessità” per tornare alle parole di Cioran, in grado di generare vincoli che equivalgono ad assoggettamenti. I personaggi compiuti e assoluti accertano l’incapacità di un cambiamento positivo. Soprattutto attraverso i più infimi e abbietti, Jauffret parla. La sua voce è ferma, annuncia un delirio che riconosce e osserva con sguardo distante, privo di qualsiasi coinvolgimento. Deride il reale, lo deforma e lo fagocita per mostrare nel disfacimento il solo esito prevedibile di fronte all’assurdità delle cose del mondo e dell’esistenza.


“Ne avevo abbastanza di assistere alla realtà come a uno spettacolo”.

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