Daddy, di Emma Cline

Autore: Emma Cline Titolo: La metà del doppio Traduzione: Giovanna Granato  Editore: Einaudi pp. 240  Euro 17,50

Autore: Emma Cline
Titolo: La metà del doppio
Traduzione: Giovanna Granato
Editore: Einaudi
pp. 240 Euro 17,50

di Debora Lambruschini

Emma Cline è una delle voci femminili più interessanti della sua generazione: lo sguardo lucido che rasenta la freddezza, coglie con chiarezza contraddizioni e zone d’ombra della realtà, la precarietà delle relazioni e, soprattutto, l’ambiguo confine tra potere e consenso. Ne sono intrisi entrambi i romanzi con cui ha catturato l’attenzione internazionale di pubblico e critica, Le ragazze, il suo esordio, e Harvey. Di questo mondo corrotto e corporeo, Cline racconta l’umanità dolente, le dipendenze, le ossessioni, gli abusi, la caduta degli dei, le colpe, le fascinazioni. Intrigante la sua capacità di calarsi dentro quelli che, a osservare con attenzione, sono i protagonisti di ogni sua pagina: i personaggi maschili. O, ancor meglio, un certo tipo di maschio: bianco, di mezza età, in un ruolo di potere. È stato così per l’oscuro e carismatico Russel intorno cui ruota la vicenda de Le ragazze, lo è ancora di più per il controverso protagonista di Harvey, in una novella-cronaca dei giorni che precedono il processo Weinstein – seppure non venga mai confermato, intuiamo tutti che è di quell’Harvey che si tratta – in cui Cline racconta la caduta di quest’uomo debole, impaurito, consapevole di avere perso ogni cosa. Un’umanità dolente, si diceva, protagonista anche nell’ultimo lavoro, sempre tradotto da Giovanna Granato per Einaudi: Daddy – titolo emblematico su cui torneremo. Una raccolta di racconti, finora inediti in Italia, molti dei quali apparsi sulle principali riviste letterarie statunitensi, che si inserisce bene nel continuum letterario di Cline. Una raccolta interessante in cui non mancano lampi di luce, resi abilmente dalla voce italiana dell’autrice, ma che purtroppo non mantiene tutte le promesse. Partiamo da qui, dalle mancanze, termine non casuale: se il racconto si nutre di sottrazioni, di spazi bianchi, le storie di Daddy hanno più a che fare con la troncatura e un certo grado di superficialità con cui talune immagini sono abbozzate, specie nei finali, che con la tecnica della sottrazione. È un meccanismo delicato che se abilmente maneggiato porta a risultati eccezionali come quelli che ci si aspettava appunto da Cline, ma che in questo caso, purtroppo, non funziona mai pienamente. Troppi i meccanismi avvertiti, le chiusure precipitose, la parte sommersa e i fuoriscena troppo ingombranti di spettri, ambiguità, spunti, che non riescono a stare in equilibrio con la delicata filigrana del racconto. Se però guardiamo con sguardo più indulgente a queste pagine restano storie ancora interessanti, che portano il lettore a una riflessione più ampia sulla precarietà del mondo entro cui si muovono i personaggi, il fallimento della vita adulta, il ritratto dolente di padri, ex mariti, compagni e figli che sono i protagonisti assoluti di ognuna di queste storie.
Ecco, le mancanze di cui si parlava, potrebbero essere interpretate come chiavi di lettura applicabili ai protagonisti delle storie: uomini inetti, inadeguati, manchevoli, traditi da una vita adulta che decisamente non è andata come si aspettavano o, per meglio dire, come era loro diritto credere sarebbe andata.

 

Era quasi imbarazzante il fervore con cui aveva creduto che tutto avrebbe continuato ad andare di bene in meglio, che la vita sarebbe stata un continuo accumularsi di successi, di momenti destinati a diventare più vividi e piacevoli. Poi aveva divorziato e si era trasferito a New Yorrk, e da allora la sua carriera aveva rallentato, dapprima poco per volta e poi di colpo.

(“Figlio di Friedman”, p. 76)

 

I divorzi e le relazioni fallimentari, il potere che scivola fra le dita, la precarietà della posizione sociale e dei rapporti, ogni cosa su cui si posa lo sguardo di Cline pare «sgretolarsi dall’interno»; la droga – una sorta di passatempo socialmente accettabile per uomini della loro posizione sociale – e l’alcol, o gli anestetici per sopravvivere al fallimento. Quel titolo, Daddy, inizialmente mi aveva portata fuori strada credendo fosse legato a un racconto omonimo; è qualcosa di più profondo e ambivalente, invece, un termine che richiama un ben definito ruolo – essere padre – ma anche un appellativo usato talvolta in modo un po’ volgare e che richiama ancora una volta il mondo corporeo di Cline, il ruolo che ricopre la sessualità – un certo tipo almeno – nei suoi scritti, riferendosi nello specifico alla società patriarcale in cui si muovono tutti gli Harvey della realtà.
Di padri veri è disseminata la raccolta, che si muove in continua tensione nello scandagliare relazioni genitori e figli, uomini e donne. Padri, ça va sans dire, difettosi, inadeguati, come quello di “What can you do with a general”, il racconto d’apertura:

 

Quant’era facile calare un velo tra lui e quel gruppo di persone che erano la sua famiglia. Sfocavano piacevolmente, diventavano indistinte quel tanto da riuscire ad amarle.

(“What can you do with a general”, p. 12)

 

Ma è appunto nell’ellissi, nel sommerso che si cela la parte più importante del racconto, in certe ambiguità non scandagliate, negli scambi al veleno poi prontamente troncati, nelle insinuazioni. O in quello che avviene fuoriscena, un incidente di cui osserviamo le conseguenze in un altro racconto. Un padre, anche qui, quasi sempre assente, chiamato a risolvere il guaio dentro cui si è cacciato il figlio. Ma in realtà non è nemmeno necessario fare o dire molto, di fronte al preside della scuola che decide di allontanarlo ma non di punirlo veramente, basta la posizione a garantirsi il futuro, intatto e immacolato.

 

L’episodio sarebbe stato sempre più lontano nella vita di Rowan, Frisch lo sapeva, un inconveniente che si calcifica facilmente. Quelli come Rowan e suo padre erano sempre protetti da sé stessi.

 (“Northeast Regional”, p. 160)

 

Un racconto tra i più interessanti della raccolta, che si schiude a molteplici sguardi e considerazioni, a partire dalle riflessioni sul potere e tutto ciò che può comprare, il privilegio, l’arroganza. Non sappiamo di preciso quale sia stato l’episodio cardine, ne intuiamo i contorni e la gravità, ma l’angoscia del lettore è tutta ripiegata sull’attonimento di un padre che coglie gli abissi di crudeltà di cui è capace il figlio. Ma per quelli come loro è solo un episodio. Non ci sono conseguenze, non ci sono macchie. C’è un noi e un loro intrinseco in queste storie, in queste parole:

 

I ricchi ti facevano sentire che tutto era possibile perché, per loro, tutto era veramente possibile. Se passi troppo tempo nel loro mondo cominci a credere nella bellezza intrinseca dell’esistenza, cominci a sentirti al sicuro, dispensato, convinto della tua fortuna.

(“Menlo Park”, p. 51)

 

Ma noi e loro è anche il mondo degli uomini e quello delle donne: il sessismo è il filtro con cui Cline osserva la realtà, la amplifica sulla pagina, ne mette in mostra le distorsioni.  

 

In negozio lavoravano solo femmine; i maschi stavano sul retro a piegare, spacchettare ed etichettare la merce arrivata dal magazzino, a gestire le scorte. Non avevano niente da offrire, loro, a parte il lavoro puro e semplice. Erano le ragazze che la direzione voleva in bella mostra, ragazze che sintetizzavano l’intero marchio.

(“Los Angeles”, p. 30)

 

Peccato che “Los Angeles” sia alla fine uno dei racconti meno riusciti della raccolta, poiché il potenziale di questa storia e la malleabilità della parola vengono traditi da quelle che nell’insieme risultano essere soltanto una serie di scenette, che scivolano in un finale abbozzato, frettoloso, lasciandoci frustrati per quello che Cline avrebbe potuto fare con questa storia.
Si badi bene, però, i personaggi femminili non sono immacolati, ma esseri umani e come tali capaci anche loro di meschinità, colpe o, più interessante, di sentimenti scomodi: la babysitter che seduce il divo del cinema, si rifugia in un angolo remoto in attesa che lo scandalo si plachi e ci lascia intravedere quanto le attenzioni sessuali la appaghino; le ragazzine che giocano alle adulte – e quale altro mezzo per farlo se non il corpo, sessualizzato, mostrato – fino a quando qualcuno non si fa male; la sposa infelice che nelle chat per adulti si finge adolescente, compiaciuta di tirare fuori da quegli uomini la parte peggiore, predatoria, volgare. Emma Cline non fa sconti a nessuno, non ci sono buoni o cattivi e non c’è spazio per la redenzione.
Imperfetti e manchevoli, questi racconti riescono di tanto in tanto ad aprire squarci laddove Cline si concede di andare a fondo, avventurarsi nell’abisso, lasciandoci intravedere la potenzialità della scrittura, quella stessa che i suoi lettori hanno conosciuto con i romanzi che precedono la raccolta. In quelle pieghe, nelle parole scelte – e tradotte – con precisione rigorosa, appare la scrittrice e certe sottrazioni ritrovano ragione d’essere. E il mondo di Cline, la parte meno edificante del nostro, si fa vivo sulla pagina, popolato di uomini e donne perduti, colpevoli, inadeguati a essere clementi, che bramano un’attenzione, il successo che gli spetta di diritto, la felicità, se solo sapessero che cosa sia.

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