L’uomo che vendeva aria in Terrasanta, di Omer Friedlander

Autore: Omer Friedlander
Editore: NN
Traduzione: Abigail Piccinini.

pp. 240 Euro 18

 
di Anna Lo Piano

Omer Friedlander L’uomo che vendeva aria in Terrasanta, NN, traduzione dall’inglese di Irene Abigail Piccinini.
Per iniziare a parlare della raccolta di racconti di Omer Friedlander L’uomo che vendeva aria in Terrasanta, da poco pubblicata in Italia da NN, e tradotto da Abigail Piccinini, vorrei partire dalla fine.
A pagina 231, dopo una doverosa lista di editor, mentori e amici, e una di libri, film e documentari sulla storia di Israele e della Palestina che sono serviti per le sue ricerche, Friedlander ringrazia David Grossmann. Lo fa inserendo fra le fonti “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, ma soprattutto riportando un brano di una sua intervista:

 

«Ciascuno di noi ha una specie di storia ufficiale che presenta agli altri[...] Ma se siamo abbastanza fortunati da trovare un buon ascoltatore, un testimone empatico, allora ci indurrà a raccontare non solo la nostra storia ufficiale, ma anche la storia sottostante. [...] Questo ci costringerà a rinunciare alla protezione della storia ufficiale che per noi è diventata una trappola e persino una prigione. [...] Il potere di una buona storia non è quello di proteggerci, ma di esporci e portarci a più stretto contatto con la nostra stessa vita»

 

Negli undici racconti che compongono la raccolta, la storia ufficiale è certamente presente, da “Le arance di Giaffa”, che attraverso la memoria di un anziano coltivatore ripercorre le vicissitudini della città dall’impero ottomano alla Nakba, fino al “Miniaturista”, dove la memoria si spinge fino alla Spagna Omayyade. Non mancano i check point, i campi profughi, le città del deserto e le tribù beduine, la guerra in Libano e nel Golan, i bombardamenti su Gaza e i tunnel per il contrabbando. Ma a raccontare sono voci che veicolano una propria versione dei fatti, molto poco ufficiale. E i personaggi nascondono, dietro la forma visibile che mostrano al mondo, dolori e desideri stratificati in segreto.
Nato a Gerusalemme nel 1994 e cresciuto a Tel Aviv, Omer Friedlander è nipote di Saul Friedlander, famosissimo in Francia come storico dell’Olocausto. In vari suoi interventi, c’è un ricordo del nonno che riporta spesso. Lui e il fratello, ancora bambini, erano andati a trovarlo a Parigi, con l’intenzione tra l’altro di registrare i suoi racconti. C’è molta aspettativa sull’incontro con questo avo dai capelli grigi e fluenti. Ma alla fine, seduti al ristorante insieme a lui, rimangono così affascinati dall’enorme piatto di patatine che troneggia sul tavolo che dimenticano di accendere il registratore.
Un’eco di questa figura si trova in “Il sopravvissuto sefardita”. “Sono sempre stato geloso dei miei compagni di classe ashkenaziti con i nonni sopravvissuti alla Shoah” spiega il giovane narratore “Mio fratello Zohar e io siamo sefarditi”. La loro missione è portare anche loro, come gli altri compagni di classe, un parente sopravvissuto per il Giorno della Memoria, che possa raccontare gesta epiche e terribili. E soprattutto battere il terribile e antipatico

 

Matan Mordechai Mendelbaum, che aveva sempre le storie migliori. Suo nonno non era solo un sopravvissuto, era anche uno storico stimato, uno specialista mondiale del settore, i cui libri sulla Shoah avevano vinto premi e riconoscimenti.”

 

I due fratelli trovano quindi un vecchio sefardita e gli chiedono di fare la parte del nonno. Per Yehuda inventano delle storie mirabolanti e avventurose, ma il vecchio, invece di limitarsi a ripeterle, si comporta in modo strano: cura il giardino, cucina, ha ribellioni adolescenti. La loro idea appare come un completo fallimento finché non decidono di ascoltare finalmente la vera storia del vecchio, che è bellissima, e malgrado non abbia niente a che fare con la Shoah, contiene il senso di tutte le stranezze che ha fatto sino a quel momento.
Se c’è una terra in cui a raccontare la propria storia si finisce sempre per pestare i confini di quella dell’altro è sicuramente Israele. Lo sa bene Grossman che ne ha fatto il cuore della sua narrativa, con la capacità di vedere attraverso altri occhi, anche quando sono quelli del nemico.
Nel racconto “Il collezionista di sabbia”, una ragazzina che abita nel deserto del Negev scopre che c’è un altro modo di guardare e nominare la terra su cui abita, ma soprattutto per la prima volta si rende conto che fa parte di un “voi”, che può essere vista come “altro”. Un bel colpo per la propria identità.

«Mio padre mi ha insegnato tutti i vecchi nomi beduini dei luoghi del deserto» disse Salim. «Prima che arrivassero i sionisti e cambiassero tutti i nomi».
Non mi piacque come disse “sionisti”. Era come se avesse detto una parolaccia. Io non sapevo proprio di che cosa stesse parlando, ma non ero disposta ad ammetterlo.
«Non abbiamo cambiato nessun nome» dissi, provando a suonare sicura di me.
«Sì, invece. La mia famiglia è qui da moltissimo tempo. Io sono della tribù Al-Azazmeh. Avevamo i nostri nomi per tutti i posti e voi li avete cambiati tutti».
«Non è vero» dissi io. «Come abbiamo fatto a cambiare i nomi?».
«Il Comitato per la designazione dei toponimi nel Negev».
«Te lo sei appena inventato».

 

Per riuscire ad assumere la visione dell’altro bisogna spostare la propria prospettiva, conquistare una distanza necessaria a vedere le cose più chiaramente. In una intervista Friedlander fa riferimento alle lezioni americane di Calvino, quando affronta il mito di Perseo e Medusa per parlare della scrittura, della necessità di riflettere lo sguardo del mostro per non esserne inceneriti. Lui, dice, ha cercato sia lo sguardo di sbieco di Perseo che quello pietrificante di Medusa.
Dopo aver studiato in Inghilterra e negli Stati Uniti, Friedlander ha scelto di scrivere in inglese, e per sua stessa ammissione è una scelta che ha un preciso valore nel modo di rapportarsi a una materia tanto vicina a sé. Nella nota finale, la traduttrice Piccinini la commenta così:

 

Mi piace pensare che abbia scelto di scrivere in inglese perché aveva bisogno di staccarsi emotivamente almeno un po’ dai suoi personaggi per raccontarli vivi e autentici nel loro coacervo di contraddizioni surreali, tenere e crudeli, dolorose e immaginifiche, senza lasciarsene risucchiare troppo. Mi piace pensare che abbia avuto bisogno di tradurli in una lingua diversa dall’ebraico per poterli raccontare in modo più avvertito, più autentico e più vero.

 

Creare una distanza per raggiungere l’autentico, può sembrare una contraddizione, ma forse è necessario a liberarsi di quella narrazione fossilizzata di cui parla Grossman, dalle identità standardizzate. Al cuore di ogni racconto c’è una relazione conflittuale che mette a nudo le proprie molteplici identità.  Ognuno dei suoi personaggi fornisce una propria visione del mondo, maturata attraverso perdite e desideri, ma anche il modo di interpretarli. L’attivista di mezza età che ogni giorno si reca al check point fa continuamente riferimenti al teatro, a Kakfa, perché quel tipo di storie hanno formato il suo modo di leggere la vita, persino il proprio lutto. I bambini di “Meduse a Gaza” interpretano la tristezza del padre di ritorno dalla guerra attraverso le favole che lui raccontava. Nell’”Uomo che vendeva aria in Terrasanta”, l’accanimento a ribadire l’assurdo è tanto di Simcha quanto di sua figlia Lali, che finge di credere alle storie del padre per non ferirlo, per non togliergli il suo pezzo di realtà.
In “Sherazade”, un soldato israeliano è ben consapevole del potere delle storie della donna. Sa che il finale sarà tragico, e allora come in una battaglia sguaina il proprio, e racconta come un lupo, una volta, gli ha salvato la vita.

C’è molta ironia, molta infanzia e molta immaginazione in queste storie, costruite in parte come favole, usando ripetizioni, ribaltamenti e strutture simmetriche, come nel racconto delle due donne, madre e figlia, che camminano sette giorni avanti e indietro (Walking Shiva), con un riferimento esplicito nella parte centrale a Cappuccetto Rosso.
E mi piace chiudere allora con un’ultima storia, che la traduttrice inserisce nella nota finale, come un’ennesima possibilità:

 

Quando Omer Friedlander aveva cinque anni, vivevo a Gerusalemme, studiavo l’ebraico grazie a una borsa di stu-dio e conoscevo e frequentavo i paesaggi e i personaggi dei racconti che lui avrebbe poi scritto in inglese una ventina d’anni dopo. Mi piace pensare che potremmo esserci incro- ciati per caso senza saperlo, per strada oppure sull’autobus, o magari sulla spiaggia a Tel Aviv. Se ci fossimo incontrati ci saremmo ignorati, non ci saremmo degnati di uno sguardo, chiusi nei rispettivi mondi delle rispettive età. Oppure sarei entrata anch’io in uno dei suoi racconti.

Forse quella bottiglia di aria della Terrasanta che tengo sul comodino non l’ho comprata invano.

Uno shock, di Keith Ridgway

Autore: Keith Ridgway
Editore: Sur
Traduzione: Federica Aceto
pp. 306 Euro 18,00

di Debora Lambruschini

 

Delle etichette editoriali che si applicano alle raccolte di racconti quella di “romanzo a racconti” è una delle più frequenti. Certo, continua a far storcere il naso a noi amanti della forma breve, convinti che la subordinazione al romanzo dovrebbe ormai da tempo essere finita e i racconti avere dignità di mercato propria. Ma la realtà la conosciamo bene e vendere una raccolta esattamente per quello che è può alienarsi per partito preso una fetta considerevole di lettori e  - la grande affluenza all’ultimo Salone del libro di Torino non ci inganni – il mercato editoriale nostrano non se la passa poi benissimo. L’etichetta di romanzi a racconti in effetti si adatta bene però a Uno shock, dello scrittore irlandese Keith Ridgway – magistralmente tradotto dalla sempre ottima Federica Aceto per Sur – come a suo tempo per Olive Kitteridge di Elizabeth Strout. O forse, ancor più specifica, potrebbe essere l’etichetta di short story cycle, per primo utilizzata dal critico statunitense Forrest Ingram a indicare quella forma intermedia tra racconto e romanzo in cui la struttura è retta da un pattern complessivo, centrale: una serie di racconti, quindi, in cui ognuno è legato all’altro in equilibrio tra autonomia e unità del tutto, dove temi e motivi si esplicano nell’unità complessiva in una relazione su vari livelli tra i racconti della sequenza. Le nove storie di Uno shock, pur mantenendo un certo grado minimo di autonomia – specie alcune – è nell’insieme infatti che rivelano il loro potenziale; l’architettura che tiene insieme le storie è data in questo caso dalla ricorrenza di alcuni temi, dall’ambientazione, dall’occorrenza di personaggi e, non da meno, dalla circolarità della trama. Se vogliamo apporgli un’etichetta, quindi, per me quella di short story cycle è la più adatta da applicare a questo testo: identifica le scelte formali di cui si compone, è parte integrante della sua struttura, ci aiuta in un certo modo a ragionare sul testo che abbiamo di fronte e tentare di penetrare il mistero della scrittura. In quest’ottica mi sembra che il discorso sull’etichetta appropriata abbia una sua funzione critica ed è quindi dagli elementi peculiari del short story cycle che voglio partire per riflettere sul testo di Ridgway, le sue stratificazioni, le circostanze, il ponte che crea fra tradizione letteraria e aderenza al contemporaneo.
Le nove storie di Uno shock si muovono tutte sul palcoscenico urbano, in un quartiere popolare e a rischio gentrificazione del sud di Londra (ecco qui la prima occorrenza tra i racconti) e, zoomando ancora, nello spazio specifico e quotidiano di case e stanze. Del quartiere, di Londra, cogliamo le difficoltà di una politica distante e inetta, il divario economico, il problema sempre più urgente della gentrificazione. Un tema quest’ultimo che oggi ha sempre meno i contorni del topos letterario fine a sé stesso per farsi invece fotografia di una criticità globale, ben inquadrata per esempio da autori come Zadie Smith (penso per esempio alla raccolta di racconti Grand Union), Jonathan Coe (nell’ultimo romanzo, Bourville), Bryan Washington (Lot), Scott McClanahan (Crapalachia), Kali Fajardo Anstine (Sabrina&Corina), Ron Rash, per citarne alcuni, narrazioni letterarie di un fenomeno pericolosamente reale e che sta già da tempo coinvolgendo anche le nostre realtà italiane.
Sono le persone, che quella città, quel quartiere, quelle stanze le popolano, il cuore pulsante dei racconti di Ridgway, di cui l’autore con impeccabile orecchio riproduce i dialoghi, nelle case, ai tavoli del pub e, soprattutto, ne rappresenta le fragilità, le piccole gioie e i dolori, il quotidiano scosso da un elemento disturbante, una battuta d’arresto, un errore. Uomini e donne, bianchi e neri, un microcosmo che prende vita grazie appunto all’attenzione ai dialoghi e a un uso ben calibrato del flusso di coscienza. La condanna per ogni autore irlandese è quell’inevitabile confronto – per similitudine o contrasto – con Joyce e nemmeno Ridgway si è sottratto al paragone, evidenziato dallo strillo in copertina preso da una recensione del Times: «come Finnegans Wake, ma leggibile», a sottolineare tanto l’appartenenza letteraria quanto il distacco dalla tradizione. Ma, come anche altri critici hanno notato, se al parallelo con Joyce non vogliamo sottrarci è forse quello con i Dubliners ad avere qualche punto di contatto in più, quantomeno nel desiderio di raccontare storie di vita quotidiana entro i confini della città – Dublino in quel caso, Londra in questo. L’uso del flusso di coscienza di reminiscenza modernista è efficacemente utilizzato da Ridgway nel suo significato primordiale e magari meno letterario, permettendo al lettore di avvicinarsi quanto più possibile ai personaggi, partecipare ai loro dubbi, alle epifanie, al quotidiano, esplorando varie sfumature della natura umana e dei sentimenti, in una narrazione mai appesantita. La sensazione è quella di un narratore che ha presa salda sulla materia letteraria e che in un certo senso gli preferisce la realtà, il contemporaneo, l’orecchio sempre teso ai dialoghi, l’occhio sul mondo che lo circonda. E che nel pub, luogo simbolo per eccellenza, ha il suo ritrovo ideale: di fronte al bancone di The Arms sfilano tutti i personaggi di queste storie, inquadrati da angolature diverse, si svelano piano piano al lettore, ma mai del tutto. Ecco, c’è una certa misura di mistero che pervade le storie, di non svelato, una serie di spazi bianchi della narrazione che Ridgway dosa sapientemente e con i quali noi lettori di racconti siamo abituati a confrontarci, andando a caccia di indizi, colmando fin dove possiamo i “vuoti”, ciò che resta laterale nella fotografia e che pure intuiamo essere importante quanto i soggetti in primo piano, perfettamente a fuoco. È, per esempio, l’etichetta con cui il ragazzo de “Il piccione” – soprannominato appunto Pidgeon dal verso che ogni tanto emette – è abituato a fare i conti, il fratello bello che sottintende un “ma stupido” e che apre mondi nella narrazione; è la crisi che colpisce Stan, uno dei personaggi più ricorrenti eppure per certi versi il più inafferrabile, quando scopre un ratto nella cucina di casa; sono le chiacchiere a una festa, in apparenza superficiali, effimere, nel racconto che chiude la raccolta e ne rivela pienamente la circolarità della struttura.
Il flusso di coscienza controllato e i dialoghi vividissimi, si intrecciano a formare una narrazione tesa tra reale ed elemento imprevedibile che talvolta supera i bordi del realismo stretto per aprire ad atmosfere dai contorni meno definiti, in racconti ove il senso di mistero che pervade la scrittura assume una connotazione ulteriormente significativa.

 

Per un po’ non c’è niente. Cos’è un po’? Nessuno viene. Nessuno chiama. David non è in camera da letto. E nemmeno in bagno. L’ingresso è vuoto. Come anche il soggiorno e la cucina. Non è in queste stanze.

È nell’altra stanza, la quinta.

E a saperlo siamo solo io e voi.

(“L’appartamento”, p. 228, finale)

 

L’ambientazione – il quartiere popolare di Londra, il pub The Arms – , è il primo elemento di connessione, la postura autoriale, l’obiettivo puntato sulle persone, la circolarità della struttura. Ma è anche un inseguirsi di solitudini, un sentimento che pervade la raccolta tutta e lega in qualche modo ancor più degli incontri effettivi i personaggi che la compongono. Ne è esempio ideale il racconto di apertura – e a mio gusto il più riuscito della raccolta, che dialoga con l’ultimo – la cui eco continua oltre la fine della lettura. Ci aggiriamo tra le stanze di quella casa silenziosa insieme all’anziana protagonista e il suo gatto, la seguiamo nella routine di ogni giorno, tra i pasti semplici, la mente che vaga e indugia nei ricordi. Qualche giorno prima la coppia che si è da poco trasferita nell’appartamento accanto ha bussato alla sua porta, si è presentata con dei doni e delle scuse preventive per il disturbo che di lì a poco avrebbe causato la festa di inaugurazione della casa. Il punto di vista è quello della donna ed è da lì che ci aggiriamo in questa storia, è da lì che un pezzo dopo l’altro mettiamo insieme stralci di vite e di quotidianità, la narrazione che intreccia dialoghi e pensieri. L’occhio si posa sui dettagli delle stanze, dei gesti, e ognuno di loro è importante in qualche modo. Ognuno di loro, ogni parola – poche da parte dell’anziana – , ogni pensiero e sguardo è il modo dell’autore di dirci: guardate questa vita, l’ordinarietà del quotidiano, sentitela. La solitudine si fa tangibile, il ricordo del marito defunto da tempo pervade ogni cosa, ogni oggetto.

 

Le sembra assurdo. Cosa ci fa con tutto quel tempo? Eppure. Sembravano passati non più di due secondi da quando lui era morto, e solo uno o due minuti da quando si erano conosciuti, e forse mezz’ora da quando lei era piccola. Come la voltavi e la giravi era una cosa assurda. E quanto è banale, pensa, quanto è prevedibile e monotono pensare al tempo in genere.

(“La festa”, p. 22)

 

Il tempo, la solitudine, il ricordo. La festa pochi giorni dopo riempirà la casa dei vicini è l’elemento che modifica la routine e che porta la donna a un gesto inaspettato: incuriosita dalle voci che provengono dall’appartamento accanto, dalle risate, dalla musica, inizia a scavare un minuscolo foro nel cartongesso della parete, da cui poter osservare e osservando sentirsi parte della vita. Un foro sempre più grande, che diventa una nicchia nel muro entro la quale nascondersi e guardare. E da quella nicchia forse addirittura non riuscire più a venire fuori.
Nell’ultimo racconto siamo dall’altra parte del foro, nell’appartamento accanto, ed è lì che tutto si chiude o, come recita l’autore nelle ultimissime battute, è lì invece che tutto comincia:   

 

C’è un occhio nella parete, che luccica, stranissimo, in tutto e per tutto vivo. E sta guardando lei. Sembra impossibile da capire, ma Maria non ha paura, non grida. Per lei non è uno shock.

Forse la storia sarebbe dovuta cominciare così.

Forse è così che comincia.

(“La canzone”, finale del racconto e della raccolta, p. 303)

 

È anche un gioco metaletterario, è lo scarto improvviso del punto di vista come improvviso è l’elemento che scombina le cose, il quotidiano, le etichette che applichiamo alle storie. Ridgway utilizza sapientemente gli strumenti narrativi, sconfina da una forma all’altra, ma è l’equilibrio della prosa a rendere la raccolta tanto riuscita dal punto di vista formale, e la resa di una traduttrice esperta come Aceto senza dubbio fa la differenza. Un grado di sperimentazione minimo, ma ben evidente.
Messi da parte i confronti cui appunto un autore irlandese pare impossibile da sottrarre, quello che resta è una raccolta vibrante e viva, la sensazione di essere seduti al bancone di The Arms e osservare la vita che si muove intorno a noi, le sue storie inventate, quelle vissute e celate. Camminiamo non tra le vie di Dublino ma dentro le stanze e le vite di quel quartiere popolare di Londra, dove ognuno è intento a combattere la sua personale lotta contro la solitudine, la disuguaglianza, le mancanze. E dove le parole non sempre escono o sono quelle giuste per farci comprendere dagli altri, per comprenderli a nostra volta.
Ma qui, tra le pagine, le parole scelte sono sicuramente quelle più giuste.

Temevo dicessi l'amore, di Mattia Grigolo

Autore: Mattia Grigolo
Titolo: Temevo dicessi l’amore
Editore: Terrarossa edizioni
pp. 140 Euro 15,00

di Fabrizia Gagliardi

Leggere e scrivere di racconti sono pratiche che accumulano un bagaglio di domande primordiali, quasi infantili. Perché leggere racconti? Perché, a volte, assistiamo a schieramenti nettamente opposti tra la fascinazione e l’indifferenza per la narrazione breve?
Si tratta di interrogativi che sfumano i confini dello spazio tra critica e soggettività, le cui risposte si schierano a favore di una brevità come limite e stimolo per la creatività dell’autore; il modo più immediato per registrare i cambiamenti, molto vicino a come vengono vissuti nella realtà (il qui e ora dei personaggi); la cura fotografica dei dettagli o l’omissione dal carattere epifanico.
È il terreno ideale per la sperimentazione linguistica e ritmica, per ibridare generi e stili, e per lasciare una sensazione di libertà equamente spartita tra autore e lettore: da una parte, una libertà obbligata nel dosare i particolari, passare sopra la definizione netta della parabola esistenziale del personaggio; dall’altra pensare a personali sviluppi e appropriarsi di aspetti sempre nuovi a ogni rilettura.

Temevo dicessi l’amore di Mattia Grigolo, pubblicato da Terrarossa edizioni, riesce a rispettare tale promessa. L’autore ha alle spalle un fruttuoso apprendistato su riviste letterarie e, dopo aver esordito con La raggia (Pidgin edizioni, 2022), raccoglie le tracce della palestra della forma breve, edite e inedite, per riunirle in un’unica raccolta, con effetto che ne moltiplica la cura e le influenze.
Le «cinque storie racchiuse in quattordici racconti» ricostruiscono le diverse fasi dell’esistenza, un processo di crescita dall’infanzia alla vecchiaia, di Ofelia. Ogni racconto potrebbe esistere singolarmente grazie all’adozione di voci e prospettive differenti che s’incontrano e si amalgamano per restituire il significato dell’amore, o della fine dell’amore, della solitudine, del cambiamento, dell’annientamento dell’individuo tra nascita e morte.
La lettura scivola velocemente in una staffetta di emozioni che chiedono attenzione, rapporti umani alla ricerca di vicinanza, strade intraprese senza la consapevolezza della loro definizione. Ofelia affida a chi le sta accanto la propria noncuranza, ama, ferisce, usa per ricucire ferite o per percorrere cicatrici mai risolte.
In Inseparabili la voce narrante appartiene alla sorella di Ofelia che ricorda con tenerezza la loro infanzia, ma rimane delusa quando troverà una casa vuota e abbandonata dopo la partenza improvvisa. In Ecco qualcosa di riduttivo una Ofelia ormai quarantenne inizierà una relazione con Maddalena, condividerà con lei la passione per il lavoro di scultrice di cavalli per caroselli, ma ci sarà sempre uno scoglio oscuro e insormontabile, il tipo di muro di chi è ammutolito dalla propria solitudine.

«Perché i cavalli?» Chiede Maddalena.
«La domanda giusta credo sia: “Perché i cavalli da carosello?”.»
«Ok.»
«Guardali. Sono sempre al galoppo ma in realtà sono immobili, non vanno da nessuna parte, non possono. Gli si crea un’illusione di correre facendoli girare intorno a una pedana, cavalcati da bambini. Girano all’infinito senza mai muoversi. Non ho mai visto niente di più rassegnato e inconsapevole.»
«Sono come te?»
«No, io posso andare dove voglio. Loro no.»
Maddalena si avvicina di un passo. Si spostano dalle ombre e con le ombre gli equilibri.
«Loro sono delle cose, Ofelia. Cose che non decidono.»
«Noi decidiamo? Possiamo davvero farlo? Allora questi cavalli sono meglio di me,
perché non riescono a sbagliare.»

La brevità e la semplicità delle storie fanno intuire un lavoro minuzioso di sottrazione con il risultato di una scrittura diretta che gioca molto sulla forma del dialogo. Le battute che si rintracciano nella narrazione non danno l’impressione di chiarire la comunicazione, ma amplificano il senso del non detto con l’effetto di cerchi concentrici che espandono le incomprensioni. I flashback aiuteranno a costruire il contesto di alcuni dettagli fino a comporre un puzzle di vicende sempre più variegato, ma mai chiarificatore.
L’eco dell’influenza delle short stories americane si percepisce forte e chiaro e lo si rintraccia nei dialoghi che aspirano all’incisività di Lorrie Moore; nel dolore e nella memoria del trauma come momenti irrimediabili che ricordano le storie disgraziate di Lucia Berlin; nel motivo insistente che resta nella testa dopo Perché non ballate di Raymond Carver.
Eravamo è uno dei racconti più toccanti di Temevo dicessi l’amore: in un crescendo di tensione delinea la vicenda in cui Ofelia, dopo un vuoto che verrà svelato gradualmente, si unisce a un gruppo di aspiranti suicidi legandosi inspiegabilmente a un ragazzo in un rapporto contraddittorio.
Tornando alla libertà nelle narrazioni brevi, per orientarsi il lettore ha a disposizione diversi tipi di mappe da rintracciare oltre la vicenda intera.
I simboli affidati ai titoli, per esempio, appaiano alternativamente alcuni racconti per comunicarci la memoria indelebile di Chiara (l’infinito, ∞), gli affetti e gli amori tangenti di Ofelia (l’insieme, o il simbolo dell’omega Ω), gli amori tormentati e altrettanto importanti di chi ha amato la protagonista (l’insieme vuoto, Ø), i finali quasi definitivi (†), l’incertezza degli uomini di Ofelia, la paura della perdita e dell’abbandono (il simbolo astronomico della terra, ♁).
Oppure come afferma Joy Williams in riferimento alla presenza di animali nei suoi racconti – in grado di conferire una sorta di benedizione alle vicende umane –, potremo rintracciare tutte le comparse animalesche che Grigolo inserisce nel corso della raccolta. La sensazione è simile a quella di essere al cospetto di costellazioni mute, un oroscopo che non aggiungerà niente agli snodi di trama, ma che completerà la percezione di essere testimoni inconsapevoli della casualità.
Il racconto che chiude la raccolta conclude in bellezza armonica l’operazione dell’autore che è stato in grado di orchestrare esistenze intere, di comporre un corollario di frammenti di vite parziali altrettanto significative, di dosare le emozioni e amplificarle per ricordare che i fantasmi restano e si fanno più vivi quando diventeremo le persone del futuro.

La cerimonia della vita, di Murata Sayaka

Autore: Murata Sayaka
Titolo: La cerimonia della vita
Editore: E/O
Traduzione: Gianluca Coci
pp. 256 Euro 18,00


di Fabrizia Gagliardi

Negli universi paralleli non siamo mai la versione migliore di noi stessi. Ci immaginiamo identici, ma adattati alle condizioni, plasmati da diverse vicissitudini. In molti casi, però, la personale visione alternativa legittima la stranezza e valorizza una condizione diversa dalla norma. Quanto siamo disposti a nuotare contro corrente, in solitudine, per vedere le nostre versioni applicate alla realtà?
A rispondere ci sono i personaggi di Murata Sayaka nella raccolta La cerimonia della vita (traduzione di Gianluca Coci, Edizioni e/o, 2023). Il potere dirompente dell’autrice è arrivato in Italia nel 2018, quando Edizioni e/o aveva pubblicato La ragazza del convenience store, storia di Keiko una ragazza single, di natura riservata, che ha abbandonato gli studi e le aspettative della famiglia per adattarsi ai ritmi ordinati e rassicuranti di un konbini. Nel 2021 era poi arrivato I terrestri, romanzo che, ancora una volta, insisteva sull’estrema emarginazione della protagonista Natsuki: alla disperata ricerca di un luogo in cui sentirsi casa, è convinta di essere stata contattata dagli alieni, una via di fuga da una borghesia sorda e spietata.
Non a caso nell’ordinatissima cultura giapponese uno sguardo blandamente rivoluzionario si unisce ad altre voci come Mieko Kawakami e Matsuda Aoko, facendosi notare per un anticonformismo pungente, al limite tra orrore e umorismo nero.
Nei dodici racconti de La cerimonia della vita l’autrice dimostra tutta la sua capacità immaginativa con una serie di frammenti, piccoli universi che ritraggono vite ordinarie, risucchiate nel vortice delle loro banalità, ma ambientate in un vero e proprio capovolgimento.
Nel racconto che dà il titolo alla raccolta è tradizione diffusa organizzare una cerimonia per degustare il corpo del defunto e, se accade, prendere parte all’inseminazione: un modo diverso di elaborare il lutto e connettere la morte al ciclo continuo della vita. Forse i protagonisti ricordano com’era prima, eppure tutto è inserito in una società che ha scelto una delle tante possibili versioni arbitrarie delle norme sociali.

 

«Tutti credono di essere nel giusto e che il diverso sia sbagliato, come se la loro posizione sia l’unica valida da milioni di anni. Se tutto cambia e si trasforma vuol dire che non c’è niente di certo e assoluto, giusto? Eppure, anche se tutto è incerto, la gente ci crede come fosse un dogma, una religione. Per me è assurdo, davvero».

«In ogni caso, il mondo è uno splendido miraggio, un’illusione temporanea» disse Yamamoto scrollando le spalle. «Un’illusione che è possibile vedere solo ora, nel momento presente, e che per questo bisogna cogliere e vivere appieno finché è possibile».

 

Nella descrizione dettagliata delle diverse fasi di preparazione, nei ricordi delle parti del corpo che era e dell’interiorità che non è più, non si avverte la ricerca spasmodica dello sconvolgimento e neanche la spettacolarizzazione di un horror splatter: la normalità del capovolgimento sta nella comprensione della diversità senza giudizio.
Allo stesso modo in Materiale di prima qualità i corpi dei defunti si rivelano molto utili per creare vestiti, dettagli d’arredamento e gioielli. I due promessi sposi protagonisti si schierano su posizioni opposte: per Nana è normale e quasi affascinante il modo di ripensare i corpi, per Naoki la pratica è impensabile e disgustosa.

 

Perché, secondo te, usare animali morti e sfruttare altre specie è diverso? Non è meraviglioso poter usufruire dei nostri corpi dopo la morte, evitando di sprecarli e dando loro come una nuova vita?

 

In Un lauto banchetto una coppia di sposi ingurgita il cibo speciale Happy Future Foods, il “cibo del futuro”, molto simile a quello liofilizzato degli astronauti, ma non accetta che la sorella della protagonista li inviti ad assaggiare la cucina del pianeta da cui sostiene di provenire.
Nonostante rare eccezioni la scrittura di Murata Sayaka evita abilmente sentenze moraleggianti, lasciando al lettore la possibilità di avvertire chiaramente i contorni precari del proprio monolitico senso dell’etica. La prosa è dritta, quadrata e lineare, lo stile non si serve di figure retoriche fantasiose volte ad innalzare nell’astratto il messaggio.
Che si tratti di costruire un racconto con sguardi antitetici e in armonia come in Una famiglia in due, in cui le due donne scelgono di convivere, mettono su famiglia, ma vivono la sessualità in maniera opposta; o che si tratti di raccontare l’amore corrisposto tra una tenda e la sua proprietaria ne Gli amanti del vento, il mondo raccontato è sprovvisto di giudizio, è dato e indissolubile. A momenti non siamo neanche sicuri che si tratti di futuro: sono tutti piccoli mondi ordinatissimi che condividono con il nostro la stessa pressione sociale, le stesse paure di non essere compresi.
La maggior parte delle storie racconta di donne indipendenti, dalla carriera avviata in uffici grigi, abitudini dai contorni definiti, traiettorie nette e senza entusiasmo. Eppure, la loro forza sembra essere proprio l’alienazione che chiama continuamente il bisogno di fusione.
In Puzzle, per esempio, la protagonista è benvoluta da tutti, è la collega dolce e disponibile, sembra avere una cura speciale per i sommovimenti più spietati e repellenti di tutti i corpi che la circondano. Per trovare un senso a un corpo anonimo inizierà a muoversi per azioni e reazioni dei corpi altrui, in una graduale fusione tra organi di cemento e tessuti di carne e sangue a lavoro per un unico, intenso ritmo.
Gli scenari di Murata Sayaka inorridiscono negli spazi quotidiani illuminati a giorno e ambientati in una casa degli specchi deformanti. I bizzarri esperimenti sociali si svolgono in mondi apparentemente familiari, oppure crescono come fantasie sfrenate all'interno di donne altrimenti non ribelli.
Il lavoro di Murata tende a offrire alternative imperfette, piuttosto che soluzioni, e le sue visioni per un mondo migliore spesso si piegano verso il mostruoso. Tuttavia, rimane indiscusso il talento di instillare nel lettore la convinzione che solo lo scontro con una verità capovolta e dai contorni incerti possa rivelare la realtà a occhi sempre diversi.


Las Voladoras, di Mónica Ojeda

Autore: Mónica Ojeda
Titolo: Las Voladoras
Editore: Polidoro editore
Traduzione:Massimiliano Bonatto
pp. 128 Euro 15,00

di Giordana Restifo

«C’è la visione magistrale del terrore che incombe su di noi e dentro di noi,
il verme che striscia e si contorce in un abisso orribilmente vicino.

Visione che penetra ogni aspetto inquietante della variopinta pantomima
che chiamiamo esistenza, non esclusa la solenne mascherata
dei nostri pensieri e sentimenti, e che acquista il potere
di proiettarsi in nere o magiche apparizioni e metamorfosi
»

Howard Philipps Lovecraft[i]


Scavare. Un verbo innocuo, inoffensivo, alle volte anche foriero di grandi sorprese, eppure in questi giorni di letture e pensieri ho capito quanto non mi piaccia, ho cercato di accantonarlo ma è tornato aggressivo. È proprio questo l’effetto che fa Voladoras di Mónica Ojeda, pubblicato nel 2020 dalla casa editrice spagnola Páginas de Espuma e appena uscito in Italia nel catalogo di Alessandro Polidoro Editore, con la traduzione di Massimiliano Bonatto. Una raccolta di racconti che scava negli anfratti più reconditi, più mostruosi, dell’animo umano, costringendo il lettore a insudiciarsi. È come se lo costringesse a mettere le mani nella terra andando sempre più a fondo fino ad arrivare al nucleo del mondo, al centro, per disseppellire la complessità dell’esistenza umana con la sua violenza, l’orrore e la paura.
L’autrice ecuadoriana, nata nel 1988, con i suoi precedenti romanzi, Mandibula e Nefando, pubblicati anch’essi da Alessandro Polidoro Editore rispettivamente nel 2021 e nel 2022, ci aveva già avviato alla brutalità e alle tenebre con i ragazzi, le ragazze e i genitori terribili, che ricordano quelli di Jean Cocteau. Così come nelle opere dell’autore francese «questi ragazzi terribili si rimpinzano di disordine, di una appiccicosa macedonia di sensazioni» (I ragazzi terribili, BUR, Milano, 2021, p. 117), anche in quelle di Ojeda la psicologia dei personaggi è intricata, sadica, tormentata.
Gli otto racconti che compongono Voladoras scavano ancor più nel profondo, nel mistico, nei riti ancestrali, nel terrore. Letti separatamente potrebbero sembrare solo contorte storie dell’orrore con forti richiami alla mitologia ma, se lasciati sedimentare, ci portano a riflettere sulla violenza del mondo e della realtà quotidiana. Una realtà che non appartiene solo ai lontani paesi del Sudamerica, ma che riguarda tutti. Certo, prendendo ad esempio il terzo racconto della raccolta, La testa che vola (Cabeza voladora), nel quale una donna trova la testa della vicina nel proprio giardino (fatto che sconvolge la sua esistenza), lanciata dall’assassino – il padre della vittima –, che per quattro giorni ci ha giocato a calcio, si potrebbe pensare che da noi, nella civile Italia (o se vogliamo Europa), una cosa del genere non potrebbe mai accadere; andando oltre il macabro e il surreale al centro del racconto vi è il tema del femminicidio, della violenza machista, e su questo non possiamo certo considerarci innocenti o assolti. Anche nel secondo racconto, Sangue coagulato (Sangre coagulada), ritroviamo una situazione non estranea alla nostra società, qui rappresentata all’estremo. La protagonista è una bambina alla quale piacciono il sangue, i bernoccoli, gli ematomi, che «conosce la bellezza dei coaguli», e che, per tale motivo, viene mandata dalla madre, che l’ha sempre considerata una “cretina”, sul paramo (ecosistema montano situato nella cordigliera delle Ande), a casa della nonna. Dopo aver subito una violenza psicologica perpetrata nel tempo che l’ha indotta anche all’autolesionismo, in questo luogo, dove dovrebbe essere protetta, al sicuro, lontana dalla ferocia degli uomini, viene, invece, subdolamente violentata da un uomo di fiducia della nonna. Quel sangue diventa un simbolo del ciclo della vita e della morte. Il sesto racconto, Soroche, è forse il più verosimile: quattro donne decidono di fare un viaggio per allontanarsi dal caos cittadino, dalle responsabilità, dai pettegolezzi, e, soprattutto, per distrarre una di loro, affetta da una grave depressione a seguito della separazione con il marito e della diffusione, da parte di quest’ultimo, di un video intimo in cui si vedono i due durante un rapporto sessuale. Nonostante siano tutte lì per dare coraggio all’amica, sono concentrate su sé stesse, pensano alla propria famiglia, alla propria carriera, alla propria forma fisica, sono vittime loro stesse di pregiudizi incalzanti e non riescono in uno sforzo di empatia. Durante un trekking, in ognuna di loro si manifestano gli effetti del soroche (mal di montagna, mal d’altitudine), e, così, sopraggiunge un’illuminazione. I pensieri si incupiscono, i giudizi rimbombano nella testa, le vie d’uscita si confondono nell’immensità del paesaggio, e la donna, che doveva essere aiutata, sceglie quella che le sembra essere l’unica soluzione possibile, tenta il suicidio:

E lì, con il culo al vento della montagna, ho compreso per la prima volta la vera condizione della mia esistenza… Ragazzo, non so se sai che questo ti succede solo una volta nella vita. Si tratta di una rivelazione così triste che la mente la rende breve, anche se nel mio caso è durata fin troppo tempo. Quando sei in alta quota pensi che sarà difficile vederci chiaro, ma non è vero. Vedi nitidamente quello che sei e quello che sono gli altri, vedi che laggiù è tutto piccolo e miserabile e che è da lì che vieni. Ecco cos’è il vero mal d’altitudine.
Ecco cosa ti spinge a correre
.

Sin dal primo racconto, Voladoras, dal quale prende il titolo l’intera opera, si intuisce la maestria dell’autrice, annoverata tra le esponenti del genere letterario definito “gotico andino”, nell’affrontare temi attualissimi, inserendo particolari propri della tradizione orale, delle leggende, della mitologia locale. Le voladoras, infatti, sono donne magiche, con un occhio solo, con capelli neri, vengono dalle montagne e volano «di casa in casa, di paese in paese, di tetto in tetto, senza Dio né santa María», portando notizie e vaticinando il futuro. Queste “streghe”, che fanno visita in casa della protagonista del racconto, conoscono i segreti della sua famiglia (una violenza intrafamiliare che avviene ripetutamente tra le mura domestiche), irritano la madre ed eccitano il padre. Ritroviamo figure simili, associate alla stregoneria e ai sortilegi, anche in Sangue coagulato (la nonna che pratica aborti in casa è vista come una strega dai compaesani), in La testa che vola (incontriamo le umas, esseri ancestrali, la cui forza proviene dalla montagna, in grado di preservare lo spirito di Madre Natura, capaci di staccare, durante la notte, la propria testa dal corpo e permetterle di volare; la protagonista le paragona ai cefalofori); e in Slasher (la storia di due gemelle musiciste, Barbara e Paula. Quest’ultima, sordomuta, veniva tacciata dai compagni di classe di essere una strega e lei non faceva nulla per smentirli, anzi alimentava questa nomea). La mitologia andina è presente anche in Soroche: nel momento in cui Ana, l’amica depressa, sta pensando di buttarsi giù dalla montagna le viene in mente l’immagine del condor (simbolo di potere e salute per molti paesi del Sudamerica, associato alla divinità del sole, si credeva che fosse il sovrano del mondo superiore):

[…] e ricordi la leggenda. Ricordi che un condor sceglie il momento in cui morire. Che quando si sente vecchio, finito, senza compagna, si lancia sulle rupi dal monte più alto.
Un condor con il soroche
.

 Inoltre, in più di un racconto, torna la figura di Dio, «il mistero più grande della natura», un Dio «pericoloso e profondo tanto quanto un bosco», di cui avere paura, in grado di sciogliere gli esseri umani come acqua, che non sa perdonare, che punisce; che sia quel “Dio bianco” di cui tanto parlavano Annalise e Fernanda, le protagoniste di Mandibula? Quel Dio di cui scrive anche Pierre Honoré in Ho trovato il Dio Bianco (Garzanti, Milano, 1963), eroe divinizzato, venuto dalle acque o dal mare per creare il mondo e la razza umana, il Creatore, colui che ha dato vita alla cosmogonia?
Altro elemento essenziale è la geografia andina, che caratterizza ed è presente in tutti i racconti, e che si rivela attraverso vulcani, parami, montagne, cittadine, valli. Nel penultimo racconto, Terremoto, il più breve ma anche il più intenso, Mónica Ojeda, con grande lirismo, ci racconta un amore incestuoso tra due sorelle, Luciana e Lucrecia, vissuto forse alle pendici di un vulcano in continua eruzione o forse proprio dentro il cratere. La loro passione, «il fuoco liquido» della loro carne, è talmente forte che la casa dove vivono, nonostante le ripetute scosse di terremoto e la lava che inonda tutto al proprio passaggio, non cede mai: «Amare è tremare», ma non crollare. In questo racconto poetico incontriamo nuovamente il simbolismo antecedente: «I condor erano l’unico soffio di Dio a precipitare sul fuoco inesauribile dei vulcani». La bellezza dei paesaggi delle Ande, della natura, stride con la ferocia del genere umano. L’autrice è cosciente di ciò e, anzi, va proprio alla ricerca di questa atmosfera misteriosa, enigmatica, che ruota attorno alla violenza, al desiderio, al terrore viscerale e che, unita alla potenza della terra, lascia nel lettore una sensazione illusoria e agghiacciante. Sensazione che perdura nel tempo, come fosse un sogno diurno interrotto più e più volte dall’incursione del dipinto di Johann Heinrich Füssli “L’incubo” (citato dall’autrice in Mandibula) o del più celebre Francisco Goya con il suo “Il sonno della ragione genera mostri”. D’altronde, e non è un mistero, è la creazione di una precisa atmosfera che definisce la resa dell’opera; era di fondamentale importanza anche per Mary Shelley, Edgar Allan Poe, Lord Dunsany e H. P. Lovecraft: «È l’atmosfera, e non l’azione, il più grande obiettivo della narrativa fantastica. Di certo, tutto quello che può essere un racconto fantastico, è un vivido ritratto di una certa emozione umana; nel momento in cui cerca di essere altro, diventa banale, puerile e incredibile» (H. P. Lovecraft, Biografia di uno scrittore da quattro soldi, Mattioli 1885, Fidenza, 2013, p. 42).
Infine, un grande contributo alla creazione dell’atmosfera è dato dalla forma, dalla scrittura che, per tutta l’opera, è curata in ogni dettaglio, è poetica e allo stesso tempo grottesca, è ferina e malinconica, e raggiunge il suo apice nell’ultimo racconto, Il mondo di sopra e il mondo di sotto (El mundo de arriba y el mundo de abajo). Qui la Ojeda poetessa (nel 2015 ha vinto il Premio Nacional Desembarco de Poesía per la raccolta di poesie El ciclo de las piedras, Rastro de La Iguana Ediciones) è dentro ogni parola. Uno sciamano, che «non è Dio, ma gli assomiglia», un padre, molto diverso dai precedenti degli altri racconti, non si dà pace per la morte della figlia Gabriela. Intraprende un viaggio verso un vulcano, trasportando il suo corpo senza vita, per trovare, attraverso la natura, il modo di farla rivivere. In questo cammino elegiaco, si ripresentano i condor, Dio, la potenza dei vulcani e della terra, ma anche la bianca pietra, il vento, l’ocelot e altri animali, nei quali lui cerca riparo:

All’alba, mentre mia moglie si stringeva al volto il piede freddo di mia figlia come fosse un cuore, entrai in trance: fui aquila, cervo, alpaca, ma nessuna creatura terrestre riuscì a sopportare la mia solitudine. Sono solo, compresi, e la terra è brulla. Ora cammino scalzo nell’oscurità. Ascolto il grido del vento. Cerco di percepire il sacro e quando mi rendo conto che non posso più farlo, mi abbraccio, pazzo di dolore. Per alcuni la morte è liquida come la pioggia. Per altri solida come la pietra», un requiem da un altro mondo.

L’opera di Mónica Ojeda è disturbante, scuote il lettore, provoca inquietudine, a volte repulsione, ma, al contempo, è portatrice di una lingua meravigliosa, di un dolore idilliaco, di qualcosa che resta dentro e la si ritrova scavando. Provocare qualcosa in chi legge, non è forse questo uno dei meriti della letteratura?

Flora e fauna, di Gilda Manso

Autore: Gilda Manso
Titolo: Flora e fauna
Editore: Wojtek
Traduzione: Antonella Di Nobile
pp. 166 Euro 16,00

di Fabrizia Gagliardi

Il mostruoso e l’eccezionale hanno radici profonde, lì dove il sogno incontra il misticismo e l’immaginazione. Non hanno mai carattere di aberrazione, ma svelano stupore ed elevano all’oblio che è poi la vera tentazione mostruosa dell’uomo.
In fondo le narrazioni archetipiche formalizzano l’oralità e la scrittura tramandate dalle favole greco-romane – dove lo studio del mondo aveva a che fare con piante e animali che rappresentavano virtù umane – fino ad arrivare ai fregi e ai bestiari medievali che, nelle cornici e nelle immagini finemente realizzate da miniaturisti e artisti, trasmettevano insegnamenti biblici e morali.
Solo dal titolo Flora e fauna (traduzione di Antonella di Nobile, Wojtek Edizioni, 2022) Gilda Manso attinge a tutto il sostrato di tradizione e conoscenze universali. Ma al contrario dei confini della cornice di un manoscritto o delle sfumature di una tela, l’unico limite dell’autrice è l’uso delle parole per configurare una brevissima microfinzione.
Nei racconti della raccolta accade che il margine fisico della pagina diventa uno strumento formale e stilistico, un rischio estremo se non maneggiato abilmente. Proprio come intendeva Cortázar che in Alcuni aspetti del racconto (scritto teorico contenuto in Bestiario) parlava di «alchimia» come risultato dalle immagini che sono all’origine della «profonda risonanza» di un grande racconto:

 

Lo scrittore di racconti sa che non può procedere in modo accumulativo, che non ha come alleato il tempo; la sua unica risorsa è quella di lavorare in profondità, verticalmente, tanto verso l'alto quanto verso il basso dello spazio letterario. E questo, che cosi espresso sembra una metafora, esprime tuttavia l'essenza del metodo. Il tempo del racconto e lo spazio del racconto devono essere come condensati, sottoposti a un'alta pressione spirituale e formale per provocare quella «apertura» a cui mi riferivo prima.

 

Viene così a mancare l’accumulazione di dettagli, che solitamente rafforza il tempo di un romanzo, e subentra la selezione, il taglio netto e la cura a circoscrivere senza chiudere.
In fondo sono proprio i continui rimandi di Gilda Manso alla grande diversità di temi e protagonisti, e alla ricorsività degli stessi in letteratura, a stabilire un ulteriore piano di lettura che la collega alla grande tradizione del racconto moderno di Cortázar e Borges.
Tuttavia, ogni pericolo di sterile emulazione svanisce perché, servendoci ancora una volta della teoria del racconto precisata da Cortázar, il narratore si muove in un ambiente circoscritto, una «sfera» di cui conosce perfettamente il raggio e le ampie volute. Lavorando dall’interno verso l’esterno «come nel caso di chi modellasse una sfera di argilla», l’autore la porta alla sua massima tensione. Le sfere di Gilda Manso cambiano continuamente il centro e, di conseguenza, si muovono in diversi universi costruiti e distrutti repentinamente.

 

Mi svegliò il camion della spazzatura, e gli uccellacci insonni che starnazzavano fra i rami del tiglio. Pensavo di poter tornare ad addormentarmi, ma per strada, pro­prio di fianco alla mia finestra, passò la vecchia suonata che vive di fronte, quella che alleva colombi sul cavo del­la luce, insultando il suo seguito di cani pazienti; forse urinavano troppo lentamente. Mi svegliai quasi senza ri­medio, dormicchiando a tratti, dieci minuti al massimo.
(da Rumore di scorpioni).

 

Sembra impossibile racchiudere in poche righe l’essenza dei circa settanta racconti o individuare un unico filo rosso. Eppure vale la pena citare alcune geniali trovate che spiazzano il lettore nel giro di poche righe. Come Il maestro, per esempio, che parte dall’espediente della mitologia della fenice per poi spostare inaspettatamente la sua eredità alla bambina protagonista. In Racconto con drago cattivo la tipica fama della creatura viene capovolta ironicamente; in Mitologia il protagonista ha inventato dèi, ha conferito loro poteri e ha smembrato se stesso per dare una forma, fino a quando le divinità non hanno più creduto al loro creatore. In Gulliver nel paese della mia vasca da bagno il famoso gigante è invece un lillipuziano che sbuca dallo scarico della vasca da bagno per chiedere di non usare più candeggina.
Personaggi conosciuti e mitologie secolari sono gli ingredienti principali di Flora e fauna che rendono continuamente partecipe il lettore richiamando l’immaginario comune e, allo stesso tempo, ci tengono a spiazzarlo con lo stravolgimento e la deformazione.
Prevale su tutto la sensazione che l’autrice abbia chiarissimo il mondo circostante e che conosca la sfera nella sua interezza, ma che si stia concentrando solo su un momento, una scena nel continuo fluire delle immagini e degli universi paralleli.
La riduzione delle battute, inoltre, rende ardua qualsiasi via di fuga verso il livello di intensità e tensione desiderate in un racconto. In effetti il lavoro di limatura non sarebbe niente senza la combinazione di tempo e spazio condensati per offrire la migliore apertura al lettore. Ancora una volta torniamo alle parole di Cortázar: «Ciò che chiamo intensità in un racconto consiste nell'eliminazione di tutte le idee o le situazioni intermedie, di tutti i riempitivi o le fasi di transizione che il romanzo permette e addirittura esige».
Non mancano racconti fugaci che riducono all’osso o annullano qualsiasi dettaglio circostante per concentrarsi su un epilogo inaspettato. In Scene del crimine, per esempio, c’è una conclusione ironica della vicenda di un fotografo di oggetti protagonisti di delitti; in Nemmeno per strada la voce narrante sconsiglia l’ambiente pericoloso della strada per poi chiedere aiuto per pulire l’assassinio appena compiuto; in Stagione invernale una modella sceglie la via più tragica per seguire la moda dei corpi senza vita.
Oltre a una selezione di dettagli significativi e alla resa stilistica che impreziosisce la messa in scena, Gilda Manso è in grado di assegnare parte del lavoro d’immaginazione alternativamente al lettore.
È proprio grazie al gioco di scambio, al ribellarsi a qualunque regola codificata della finzione, che l’intelligenza e la sensibilità di una narratrice del genere permettono di andare oltre lo scarno aneddoto visivo e letterario, oltre un’immaginazione canonica per poi allenarla a sfociare nelle infinite possibilità del fantastico.

Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato, di Hilma Wolitzer

Autore: Hilma Wolitzer
Titolo: Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato
Editore: Mondadori
Traduzione: Bettina Cristiani
pp. 180 Euro 19,00

di Debora Lambruschini

 

In un racconto o, perlomeno, in un certo tipo di racconto, lo sguardo dell’autore è catturato dal dettaglio, dal particolare, dal quotidiano e ordinario che proprio attraverso una certa postura si carica di significato; dettagli minimi, ma che possono aprire uno squarcio e, a seconda dell’uso che se ne fa, farci entrare nell’anima dei personaggi. Il racconto è un frammento, non mira all’universalità del romanzo e di questi stessi frammenti si compone. Quasi mai sono necessari narrazioni straordinarie; come dice un personaggio di Andre Dubus «il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo» e lì, su quei dettagli minimi e quelle vite ordinarie, si innesca la storia.
Leggendo la bella raccolta Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato della scrittrice statunitense Hilma Wolitzer, ho pensato molto a queste cose, a una certa postura autoriale, alla capacità di un bravo scrittore di prendere l’ordinario e trasformarlo in letteratura. Questi tredici racconti per la prima volta tradotti in italiano – e direi con particolare cura, da Bettina Cristiani per Mondadori – fanno esattamente questo, prendono un pezzetto del quotidiano e lo vivisezionano, restituendocene le pieghe intime, i conflitti, le svolte inaspettate, il punto di rottura. Scritti principalmente tra gli anni Sessanta e Settanta, accolgono atmosfere e urgenze del tempo in cui sono stati composti pur senza restarne intrappolati e, in un certo senso, riuscire anche a chiamarsene fuori, per arrivare a noi, lettori contemporanei, che a tratti riusciamo a dimenticare i confini temporali e geografici entro cui si sviluppano. A più di novant’anni, Wolitzer ha trovato un nuovo pubblico grazie a questa raccolta che mette insieme pezzi importanti della sua produzione letteraria, uno short story cycle in cui ogni racconto è legato all’altro in un equilibrio fra autonomia e unitarietà del tutto, a comporre un quadro in cui l’esperienza formale, i temi e i motivi, risultano evidenti nell’unità complessiva. Un’architettura che in questo caso si regge sull’occorrenza di taluni personaggi (Paulie e il marito Howard), ma anche dei temi (le relazioni, l’interesse per l’interiorità dei personaggi).
Il primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, è del 1971, l’ultimo del 2020, scritto e ambientato nel pieno della pandemia e per quanto mi riguarda uno dei migliori pezzi di fiction letti su quel periodo surreale e terribile, insieme a certe pagine di Etgar Keret. Chiude la raccolta e chiude le storie di questa coppia come molte altre, la narrazione di un matrimonio, le piccole crisi, le battute d’arresto. «La vita. Sempre la vita» diceva il buon vecchio Ray.
Ecco, la vita, è dentro questi racconti, ne è l’anima. L’ordinario, diremmo noi, contraddicendo un po’ le parole dell’autrice riportate da Elizabeth Strout nella bella prefazione: Non credo che esitano vite ordinarie. Ogni vita è straordinaria.

Di certo lo sguardo dello scrittore è capace talvolta di trasfigurarle, di osservarle caricando oggetti semplici e usuali in qualcosa denso di significato. Il pregio di Wolitzer poi, oltre a quella particolare postura, è quel wit che percorre tutte le storie, perfino quelle più drammatiche, e la vivacità di cambiare rapidamente registro da un racconto all’altro, all’interno di uno stesso, virando ora all’ironia, ora al dramma, ora la tragedia, con atmosfere vagamente horror perfino.
Se penso alle occorrenze tra Wolitzer e altri autori statunitensi penso alle scrittrici e alcune anche molto diverse tra loro, per tempo e luoghi: Elizabeth Strout naturalmente, con quello sguardo pieno di grazia che si posa sulle cose; Lydia Davis, per la polifonia del testo e la particolare ironia, l’interesse per la quotidianità scandita dalla routine, il dettaglio banale che sulla pagina acquista significato; Lucia Berlin, per quello scavare l’anima dei personaggi, l’apparente banalità della vita; perfino a Shirley Jackson, quella delle storie domestiche, degli sketch – seppure il racconto di Wolitzer “Madre” ha una virata verso atmosfere horror che potrebbe avvicinarlo a certe narrazioni tipiche di Jackson – delle donne che arrivano a un passo dal cortocircuito.
Ecco, una di queste ci è arrivata sul serio e, a differenza di quello che potrebbe fare un personaggio di Jackson non sfonderà la testa al marito – forse, così almeno stando a quanto vediamo sulla pagina – ma ha una crisi, un crollo, in mezzo a una corsia del supermercato:

 

Eppure, trovo che andare fuori di testa al supermercato abbia perfettamente senso: quelle arance dipinte che minacciano di scoppiare; schieramenti di lattine armate di etichette, prezzi e pesi; tagli di carne sanguinolenti; pesche e mele che esibiscono la loro parte perfetta e brillante,
celando quella marcia e rammollita.
(“Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato”, p. 15)

 

È un’altra donna che è lì a fare la spesa, incinta, ad accorgersi per prima di quanto sta succedendo e a tentare di intervenire; bloccata al centro di una delle corsie, tra scaffali ben ordinati, quella sconosciuta è il caos, il punto di rottura dell’equilibrio. Ferma, immobile, poche parole che ripete come una cantilena, due bambini attaccati alla gonna. Intorno, altri clienti iniziano a osservare – ma a debita distanza – e dare giudizi; il titolare del negozio che prontamente accorre ma è incapace di fare qualcosa; il marito, infine, che arriva e la porta via. Resta la borsa, vuota, appoggiata sul rullo del nastro trasportatore. Ma, soprattutto, resta il carico che quella scena rappresenta per la protagonista, che in quella crisi sembra riconoscersi o avvertire un pericolo futuro.

 

«Che cosa succede?» si allarmò, preparato alla catastrofe.

«Di tutto» dissi, indicando la pancia che emergeva dall’acqua. «Tutto. La condizione umana. Il mondo».
(“Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato”, p. 21)

 

Molto più stratificato di quanto in apparenza appare, questo racconto è emblematico di ciò che Wolitzer fa nella raccolta tutta, nel suo modo di porsi nei confronti delle storie, nell’eco fortissima della storia sommersa che ben percepiamo seppur rimasta fuori dalla pagina scritta: nel racconto, sosteneva Čechov, va eliminato tutto ciò che non è necessario e che potrebbe allentare la tensione ma è fondamentale essere pienamente consapevoli di ciò che si elimina e lasciarne sulla pagina un’eco per far percepire al lettore ciò che si omette; l’iceberg di Hemingway, con i suoi sette ottavi sotto la superficie dell’acqua. Questi sette ottavi sono fondamentali nelle storie di Wolitzer, sono gli spazi vuoti della narrazione che colmiamo noi lettori e che ci richiedono uno sforzo nella lettura come nella natura stessa di un buon racconto.
Storie, quindi, solo in apparenza “banali”, semplici, che forse a un occhio meno allenato alle sfumature del racconto possono scivolare via ma che invece sono in grado di aprire nuovi spunti, in un dialogo non interrotto tra pagina e vita.
C’è poi l’ironia di Wolitzer a percorrere come una scarica elettrica ogni racconto, mai stonata anche quando contrasta con l’atmosfera o i temi trattati.

 

Tutti dicevano che c’era un maniaco sessuale che si aggirava a piede libero nel condominio e io pensai che era anche ora. Era stato un lungo inverno asessuato.

(“Il maniaco sessuale”, p. 85)

 

È anche questo, si diceva, un elemento – formale – che lega una storia all’altra, oltre le occorrenze di certi personaggi. È un’ironia pungente, feroce talvolta, che scava tra le pieghe di queste vite, lo sguardo distaccato, oggettivo, al punto giusto. Come a farci dire: guardate, la vita è un caos, forse per non impazzire è meglio usare il filtro dell’ironia. Anche perché, questo caos, non siamo sufficientemente equipaggiati per dominarlo e le relazioni restano per lo più un mistero.

 

«Cosa c’è che non va, Howie? Se c’è qualcosa che ti preoccupa, parliamone.»

Lui sorride, quel mezzo sorriso studiato, e io penso che raramente parliamo di cose importanti.

Ho atteso tutta la vita di diventare una donna, dannazione, di stare seduta in cucina e dire cose da adulta all’uomo di fronte a me, parole sospese come vapore sopra le teste dei bambini.
(“Domeniche”, p. 55)

 

In una relazione lunga tutta una vita, come quella tra Paulie e Howard, le crepe sono ben visibili sulla facciata, ma quelle stesse crepe sono le loro esistenze, l’altalena dell’amore, le tante sfaccettature del sentimento e della vita condivisa. Sono i giorni brutti e quelli buoni. Fino all’ultimo. Come, appunto, a quest’ultimo struggente e al tempo stesso ironico racconto, “La grande fuga”, del 2020, con cui si chiude la raccolta. Una storia che racchiude moltissimi spunti carichi di emotività, a partire dall’insinuarsi della pandemia nel quotidiano, ma anche la riflessione sulla vecchiaia, il tema della morte, la paura della solitudine, il rovesciamento del ruolo genitori-figli. Sempre accompagnato dalla voce ferocemente ironica di Wolitzer, che anche novantenne non perde un grammo della sua vivacità.

 

Una volta la prima cosa che facevo la mattina era verificare se anche Howard era sveglio, e se voleva che succedesse qualcosa prima che uno dei bambini facesse irruzione e piombasse sul letto tra noi come un comitato di Amish. Ultimamente però […] mi sono trovata a dare un’occhiata per vedere se Howard è ancora vivo, trattenendo il respiro mentre osservo il lieve alzarsi e abbassarsi del suo petto, allo stesso modo in cui un tempo osservavo un innalzamento promettente tra le lenzuola.
(La grande fuga, p. 149)

Manuale di caccia e pesca per ragazze, di Melissa Bank

di Melissa Bank
Accento Edizioni
Traduzione di Marcella Maffi
Prefazione di Paolo Cognetti
pp. 256 Euro 16

di Manuela Altruda

The Girls’ Guide to Hunting and Fishing di Melissa Bank fu pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1999. L’autrice aveva trentanove anni, dodici dei quali li aveva passati a scrivere questo romanzo, il suo esordio, barcamenandosi tra il lavoro di copywriter, un incidente in bicicletta che le causò una grave commozione cerebrale e una serie di altri sfortunati eventi.

Quando il libro fece la sua comparsa sulla scena editoriale, forse nemmeno Bank si aspettava di aver dato vita a un bestseller. Il titolo era di certo un azzardo e ancora oggi fa pensare a uno di quei testi tecnici esposti tra gli scaffali di Outdoor Man, il negozio specializzato in caccia e pesca di Mike Baxter, protagonista delle serie tv statunitense Last Man Standing. Ovviamente si tratta di un piccolo inganno, perché tra queste pagine c’è molto di più di un elenco di regole sull’uso appropriato di esche e lenze per giovani principianti. Attraverso Jane Rosenal, protagonista del suo manuale, Bank narra la storia di molte ragazze che riescono nonostante tutto a ritrovare sé stesse: giovani donne che tentano di sopravvivere, cercando di fare pochi danni e ottenere qualche risultato decente.

Il libro è stato tradotto in più di trenta lingue, ed è arrivato in Italia per la prima volta nello stesso 1999 grazie a Frassinelli con la traduzione di Marcella Maffi. Presto, e con grande rammarico, è finito fuori catalogo nell’indifferenza del mondo editoriale. Ma quella di Manuale di caccia e pesca per ragazze è per fortuna una storia a lieto fine. Alla fine dello scorso anno è stata annunciata la fondazione di una nuova casa editrice: Accento edizioni, nata a Milano da un’idea di Alessandro Cattelan e Matteo B. Bianchi, che con le sue collane vuole dare spazio a voci emergenti (Accento Acuto) e riportare alla luce capolavori dimenticati o mai tradotti in Italia (Accento Grave) – nei prossimi mesi arriverà anche Dieresi, la collana dedicata alla saggistica contemporanea. A inaugurare Accento Grave è proprio il bestseller di Bank, con una copertina che parla da sé (a cura dello studio grafico Paper Paper), la traduzione di Maffi rivista e aggiornata e una prefazione di Paolo Cognetti.
È proprio nella sua prefazione che Cognetti spiega come la letteratura americana di fine Novecento vanti «ragazze meravigliose», autrici che in termini letterari hanno contribuito, in maniera inevitabile, alla nascita della generazione di scrittori e scrittrici a cui lui stesso appartiene. A partire dalla scoperta di Lorrie Moore (Tutto da sola, 1985), l’autore racconta di essersi accorto presto che:

 

Esisteva un filone tutto femminile, mi piaceva e mi misi a seguirlo. Le ragazze ci avevano preso gusto a scrivere: tra le pepite più preziose, nel mio setaccio di lettore, raccolsi Amy Hempel (Ragioni per vivere, 1985), A.M. Homes (La sicurezza degli oggetti, 1990), Pam Houston (Ho un debole per i cowboy, 1992), Aimee Bender (La ragazza con la gonna in fiamme, 1998), fino alla nostra Melissa Bank e a questo Manuale di caccia e pesca per ragazze, 1999.

 

Sin da subito sembra chiaro che i riferimenti letterari cui guardano queste autrici sono gli stessi: da Grace Paley a Carson McCullers, da Joyce Carol Oates a Flannery O’Connor. In poche parole, le artefici del racconto breve. Cognetti conosce molto bene tutte loro e il piglio ironico, a tratti sarcastico e spesso dissacrante, che le accomuna e che Bank ha fatto suo con grande abilità. Ne ha parlato lo stesso Cognetti in suo libro di qualche anno fa il cui titolo è (forse) una felice coincidenza: A pesca nelle pozze più profonde, meditazioni sull’arte di scrivere racconti (minimum fax, 2014). Qui lo scrittore formula tre regole, a partire dall’orticaria di Paley per il concetto di «trama» intesa come gabbia entro cui racchiudere – a volte costringere – una storia. Secondo l’autrice non è questo che conta, ma «le voci, i ricordi, le vite delle persone». In questo senso le tre regole di Cognetti possono diventare una scorciatoia efficace per la lettura del testo di Bank.

 

uno: non si ama un personaggio usandolo per uno scopo

 La storia comincia dal racconto «Un’esperta principiante»: un ossimoro davvero efficace per descrivere una Jane quattordicenne che osserva molto e fa domande scomode per gli altri ma legittime per lei. La sua estate monotona e noiosa nel cottage di famiglia di Loveladies, sulla costa del New Jersey, è scossa dall’arrivo della fidanzata di suo fratello Henry. Si chiama Julia Cathcart, ha ventotto anni, sembra amare tutti i piatti che piacciono alla suocera, ha conosciuto Henry al lavoro, in una casa editrice, fa leggere a Jane un manoscritto cui sta lavorando mentre Jane vorrebbe solo confidarle i suoi dubbi esistenziali di adolescente sul sesso. È un’estate di prime volte: la protagonista non è più l’unica ragazza in casa, si approccia a un manoscritto, prova a cercare un lavoro come cameriera, si sente fuori posto rispetto a qualcosa che non le è ancora ben chiaro.
Potrebbe sembrare che Bank abbia creato di proposito uno stereotipo di ragazzina in evoluzione per ammiccare a giovani lettrici perse in pseudodrammatiche crisi esistenziali, ma Jane è tutt’altro che un fantoccio. La sua abilità sta nel modo – discreto e mai patetico – di suscitare empatia e far scattare l’identificazione. Bank racconta una vicenda così semplice che non deve sforzarsi di rendere simpatica la sua piccola eroina: siamo noi, lettrici e lettori, ad amarla così com’è, come abbiamo imparato col tempo a voler bene a quell’adolescente che siamo stati.

 

due: non si ama un personaggio giudicandolo, né ridendo di lui

 Il secondo racconto, «La casa sull’acqua», comincia così: «È la mattina della nostra partenza. Jamie appoggia i caffè sul comodino e torna a letto con me. Oggi pomeriggio saremo a Saint Croix, ospiti della ex ragazza di Jamie e del suo nuovo marito». Jane è cresciuta, ha un fidanzato, e insieme all’amore e al sesso conosce l’incertezza e il sospetto. Il soggiorno a casa di Bella e Yves si trasforma in una partita a Cluedo dove lo scopo non è rintracciare l’assassino ma il tradimento. Di tradimento però non c’è traccia, Jamie l’aveva avvisata: «Sono monogamo di natura».
La monogamia però non basta e la storia con Jamie, nel racconto/capitolo successivo («Vecchio mio»), arriva al capolinea. Dopo un po’ di tempo gli subentra Archie Knox: noto editor, seduttore incallito, ha l’età del padre di Jane e più gin che sangue nelle vene.
Intanto, il manoscritto letto per Julia non era stato un caso. Anche Jane da grande lavora in una casa editrice di cui non conosciamo il nome completo, sappiamo solo che è la H***; è arrivata con fatica alla posizione di junior editor e prova a sopravvivere al caos dell’editoria americana. A mettere in discussione la sua carriera sarà Mimi Howlett, nuovo dispotico capo che fa retrocedere Jane al ruolo di assistente, tra lo sconforto e la rassegnazione.
Cosa dovrebbe pensare un lettore a questo punto? Bank si sta prendendo gioco della sua eroina, vuole farci ridere di lei, che pensava di essere una «stella nascente» e si riscopre invece solo «luce di un aeroplano»? Non è questo lo scopo dell’autrice, e chi legge vorrebbe solo poter dire a Jane che quella che sta attraversando è solo una fase, forse traumatica ma pur sempre necessaria. «There is a light that never goes out», le canterebbero gli Smiths.

 

tre: non si ama un personaggio pensando di sapere fin dall’inizio tutto di lui

 Ci sono diverse luci che guidano Jane: l’amore per la sua famiglia, l’empatia e la conoscenza di sé. Fatta eccezione per la prima, si tratta di doti che la protagonista scoprirà con il tempo e non poca sofferenza: la lunga malattia e la morte del padre («Niente di peggio per una ragazza di periferia»), la scampata morte di Archie dopo una crisi causata dalla dipendenza dall’alcol e da una profonda incapacità di accettare la vecchiaia, la fatica di essere sempre e comunque sovraccarica di lavoro, la necessità di fermarsi e riprendere fiato.
Dopo la fine – ennesima, ma stavolta definitiva – della relazione con Archie e la decisione di lasciare il lavoro alla H*** – anche questa definitiva –, nell’ultimo racconto e nella vita di Jane piomba Robert:

 

È alto e snello, ha la carnagione olivastra, la fronte spaziosa e gli occhi grandi; è bello, ma ciò non spiega comunque quello che mi accade. Non provo più una simile sensazione da così tanto tempo che non riesco a riconoscerla e all’inizio penso che sia paura. Ogni mio capello sembra prendere coscienza di sé e raggelarsi, poi è come se tutto il mio corpo arrossisse.

 

Si tratta di un punto di svolta: se la decisione di affidarsi al terrificante manuale Come conoscere e sposare l’uomo giusto può far storcere il naso e far credere che – nonostante tutto – lei non abbia imparato nulla, sarà presto chiaro che in questa storia non c’è solo un lieto fine nel senso più canonico del concetto, e la ricerca dell’uomo giusto lascia posto alla ricerca della consapevolezza.

Per questa storia, Bank ha scelto una forma narrativa che le permette di avvicinarsi alle autrici-guida della sua poetica: Manuale di caccia e pesca per ragazze è un romanzo per racconti e segue il modello di Olive Kitteridge di Elisabeth Strout. Così il centro della storia resta sempre Jane, nelle diverse fasi della sua vita, ma l’autrice dà anche modo al lettore di osservare le vicende da più angolazioni che coincidono con altrettanto diverse scelte linguistiche e tonali. La maggior parte dei racconti/capitoli sono infatti narrati in prima persona dalla protagonista e in queste pagine la scrittura di Bank è lineare, asciutta e allo stesso tempo sfacciata, sarcastica e procede di pari passo con la crescita di Jane che è tanto ironica quanto fragile. In due punti, però, l’autrice decide di cambiare direzione. In «La miglior luce possibile» l’attenzione si sposta verso un personaggio diverso: l’autrice usa ancora la terza persona ma la storia è quella di Nina, vicina di casa della folle zia Rita – parente preferita di Jane che le lascia il suo appartamento e la conoscenza di Archie Knox; qui subentra il riflesso malinconico di una madre preoccupata per il figlio che sembra aver perso la ragione. Infine, in «Potresti essere chiunque», una seconda persona racconta con tanta rabbia e un po’ di rimpianto il lento naufragio di una relazione. L’alternarsi di prospettive e registri linguistici non è però ostacolo o motivo di confusione e, al contrario, l’autrice riesce a tenere viva e costante l’attenzione lavorando su empatia e immedesimazione di chi legge.

Bank ha affidato le sue intenzioni di scrittrice – e di donna – a un personaggio ironico e iconico che va reinterpretato guardando alla società contemporanea. Fraintesa al suo debutto, Jane non è un clone della più nota Bridget Jones né tantomeno solo un baluardo degli anni Novanta e del fenomeno chicklit. In Manuale di caccia e pesca per ragazze il passaggio dalla letteratura alla quotidianità è infatti breve e Jane sembra volerci dire proprio questo: non usarti per uno scopo, non ridere di te stesso o prenderti gioco delle tue disavventure, non giudicarti e soprattutto non credere mai di conoscerti fino in fondo. Datti tempo: è tutto quello di cui hai bisogno.

Afterparties, di Anthony Veasna So

di Anthony Veasna So
Racconti Edizioni
Traduzione di Emanuele Giammarco
pp. 280 Euro 18

di Fabrizia Gagliardi

«La nostra gente è sopravvissuta alle navi degli schiavi. Siamo sopravvissuti al genocidio dei Taíno. Siamo sopravvissuti a colonizzatori e dittatori. Mi stai dicendo che non possiamo sopravvivere alla linea D fino a Grand Concourse?»
«La maggior parte delle volte che sono a Stanford, sembra un tradimento.»
«Non c'è comunità per me a scuola.»

In modi baldanzosi e a tratti commoventi i personaggi di In the Heights cantano i capisaldi e le battaglie interiori dei figli di immigrati di seconda generazione. La storia ruota attorno a Usnavi, proprietario di una bodega nel quartiere Washington Heights a Manhattan, che prova sentimenti contrastanti all’idea di chiudere l’attività e tornare nella terra d’origine, la Repubblica Dominicana, grazie a una fortunata eredità.
Da lui si snoderà il racconto collettivo dei giovani abitanti del quartiere alle prese con una comunità che li ha protetti e che ha impresso in loro le origini senza preoccuparsi delle loro aspirazioni e di un futuro che cambia.
Il film del 2021 diretto da Jon M. Chu traspone al meglio il ritmo e le atmosfere del musical da cui è tratto, originariamente composto da Lin-Manuel Miranda e Quiara Alegría Hudes. Le origini portoricane dei creatori, il clima di energia, movimento e calore dei quartieri settentrionali di Manhattan, rivivono non solo nella malinconia e nel divertimento ma anche nel tratto distintivo dell’ironia.
Traduzioni maldestre, scambi culturali che sanno di colonizzazioni, accenti che diventano macchiette nella lingua di arrivo: la condizione di straniero in altro paese ha la doppia faccia di esilarante generatore di aneddoti e stereotipi da una parte e scherno razzista misto a vergogna dall’altra.
Anthony Veasna So nella sua raccolta Afterparties (tradotta da Emanuele Giammarco, Racconti edizioni) fa dell’humor un ingrediente tagliente, usato nei monologhi autoironici, nelle solitarie divagazioni dei protagonisti fino ai sorrisi amari di alcuni passaggi.
Il libro, pubblicato nel 2021 negli Stati Uniti, arriva dopo la prematura scomparsa dell’autore che in poco tempo è diventato una voce unica, già notata da riviste come The Paris Review, The New Yorker, Granta e n+1.
I nove racconti si concentrano sui residenti della polverosa Central Valley «nel buco del culo della California», come dirà uno dei protagonisti, in quartieri popolati da cambogiani pressoché autosufficienti per la comunità cambogiana stessa.
Lo si avverte chiaramente ne L’officina dove il padre del protagonista possiede uno sgangherato locale di ricambi per auto che arranca per attrarre clienti non esclusivamente cambogiani: «un intero ecosistema, sia per il servizio offerto al quartiere sia per la dozzina di cambogiani che aveva messo sotto contratto».
Le nascite, i compleanni, le morti e le reincarnazioni suggellano abitudini culinarie, sociali, religiose e culturali, tutte rigorosamente vissute insieme. Una costellazione di parentele e voci tra fratelli e sorelle, cugini, mamme e nonne, le Ming e le Ma, popolerà stabilmente ogni storia facendo entrare in un mondo che è celebrazione continua delle origini.
In una collettività così sentita le dissonanze non tardano ad arrivare e l’affiatamento di un coro intonato traballa davanti a chi resta impigliato nel passato senza neanche averlo vissuto.
I cambogiani americani di prima generazione scappavano dal regime degli Khmer Rossi, dai racconti terribili dei campi di concentramento durante il genocidio e da Pol Pot al potere. Una volta in America il trauma è rimasto, ma la rinascita è passata per condizioni economiche conquistate con dignità grazie a lavori da colletti bianchi e posti di rilievo in ambito scientifico e ingegneristico.
I loro bambini e nipoti, in piena adolescenza, rivivono in modo frammentato i racconti dell’orrore reale. Non riusciranno mai a partecipare fino in fondo al trauma della diaspora, provando continuamente un senso di inadeguatezza.
Il loro disprezzo non sarà mai dissacrante, ma sempre timoroso di rifiutare un legame così forte, anche se traumatizzato, che nonostante tutto ha saputo assicurargli un futuro. «Ogni nonna nella comunità», si lamenterà un adolescente, «è diventata una psicopatica dal genocidio».

 

Quando provavo ad articolare i miei sentimenti riguardo a casa, inevitabilmente il pensiero mi tornava a queste canzoni, al modo in cui l’incomprensibile si intrecciasse con tutto ciò che mi faceva sentire a mio agio. Ero vissuto nell’incomprensione talmente a lungo che avevo persino smesso di vederla come una cosa sbagliata. Stava semplicemente lì, incarnata in tutte le cose che amavo.

 

Cosa è davvero casa? E com’è costruirne una con l’ingombrante presenza della precedente? Cosa significa essere davvero cambogiani? La sensazione che pervade il lettore è essere al cospetto di un senso di colpa da espiare e una libertà che non è mai vissuta fino in fondo.
Ne Le tre donne del Chuck’s Donuts, per esempio, la quiete di un locale aperto fino a tarda notte è scossa da un uomo che entra e ordina una ciambella che puntualmente non mangerà. In un crescendo di tensione le voci delle tre protagoniste si alterneranno tra l’incubo di un passato oscuro che ritorna per la madre, il desiderio di avere una possibilità per un futuro diverso dall’amore tormentato e tradizionale dei genitori da parte delle due figlie: «Può di per sé la sopportazione portare a ferite che sanguinano nei pensieri, si chiede Tevy, distorcendo il modo stesso in cui si fa esperienza del mondo?».
Una volta capito che il vero nodo di Afterparties è l’individuo isolato che contempla le contraddizioni di una comunità affiatata ma avvoltolata su se stessa, la divagazione ironica e le improvvise epifanie che intramezzano battute sagaci diventano la difesa che travalica i confini dell’adeguatezza e della rispettabilità.
Nel lettore cresce la sensazione di essere uno spettatore privilegiato, e in fondo non così poco coinvolto: per quanto possa essere lontano dalle identità etniche in scena avrà provato il sentimento di rivalsa per origini che coccolano e che intrappolano allo stesso tempo, avrà assaporato il punto di rottura tra quello che è sempre stato e quello che gli altri volevano che fosse, si sarà domandato a quale costo s’impara a camminare senza deludere tutte quelle figure che hanno fatto parte di lui.
Ogni cambiamento passa per l’atto di coraggio di demistificare il proprio passato per non restarne vittima, per non scegliere la strada già tracciata lastricata di valori non più sentiti. E come può una generazione per giunta queer, alle prese con una dose prestabilita di discriminazione ed emarginazione, viziata dalla tecnologia e abituata a legami fugaci, portare sulle spalle il peso storico di un genocidio?
La scrittura di So posa lo sguardo su chi fugge e chi resta dissezionando cosa vuol dire sobbarcarsi le aspettative disilluse di vecchie generazioni e cercare di immaginare oltre le proprie origini. In entrambi i casi la moneta di scambio è una solitudine irrimediabile che arriva dolorosamente come rivelazione ultima prima andare via.

Segna ancora Superking Son racconta di un allenatore di badminton idolatrato da tutti i ragazzini del quartiere:

Poteva schiacciare il volano così forte, e farlo vorticare così veloce, che quando quello ci sfrecciava accanto, mano sul fuoco, riusciva a scuotere persino il campo di forza che ci soffocava tutti, quello composto dalle irragionevoli aspettative dei nostri genitori, la loro paranoia che il nostro mondo avrebbe potuto sbriciolarsi da un momento all’altro e spedirci di nuovo tutti dove avevamo cominciato, morti di fame e poveri sottomessi a un dittatore genocida.

 

Ma la sua nomea è destinata a estinguersi con l’arrivo di un nuovo e talentuoso ragazzino. La verità è che Superking Son si trasforma in un tipo bizzarro, sempre più lontano dalla speranza di un futuro diverso delle nuove generazioni. Ogni giorno l’anziano vive a metà tra il senso di appartenenza per essere rimasto nella comunità d’origine, a curare il superstore di famiglia, e il rimpianto per non aver osato seguire il sogno di diventare altro.
Conosciamo i Superking Son dei nostri paesi e dei nostri quartieri, li conosciamo forgiati dalla discriminazione e dalla povertà che li trasformano immediatamente da archetipo a stereotipo: il vincente ammantato di fascino nei nostri occhi di bambini diventa uno zimbello. L’eredità di una figura del genere non può che essere la prevedibilità, l’arrivo di contorni prestabiliti che nella vita adulta si ripresentano per chiedere il conto.
Lo stesso titolo di Afterparties suggerisce che qualcosa accade dopo le maschere obbligate che indossiamo a una festa. L’insularità vissuta nella comunità sbracata e informale delle aggregazioni post-matrimonio rilascia la speranza di poter sbrogliare l’incomprensione o, almeno, di confessarla alla ricerca d’indulgenza.
Nel racconto I monaci, per esempio, il protagonista decide di trascorrere un periodo in un tempio buddhista insieme ad altri monaci («La smetterò di pensare a me stesso come una cosa, e come parte di un'altra»). La comunione di gruppo squarcia la prevedibilità – i percorsi della vita degli immigrati segnati dalla storia e dalla lotta – e introduce la casualità.
Il ritorno alla comunità sembra un ciclo da incubo, eppure anche la struttura della raccolta ricorda la circolarità della reincarnazione buddhista. In un arco temporale indefinito ritroveremo gli stessi personaggi, improvvisamente invecchiati o nel mezzo della vita adulta: ora non possono più cavarsela con le solite battute perché alla fine credevano nella reincarnazione di una madre suicida nel corpo della nuova nata in famiglia (è il caso di Maly, Maly, Maly e Somaly Serey, Serey Somaly).
Come ha scritto So in un saggio su n+1, nelle parole di Deleuze, «la ripetizione consente la reinvenzione», i cicli e le loro rotture aprono a «nuove comprensioni, sentimenti radicali mai sperimentati prima».
Solo in mezzo agli altri si può sperare di invertire la rotta ed evolvere senza distruggere.

Il Cristo iracheno, di Hassan Blasim

Autore: Hassam Blasim
Titolo: Il Cristo iracheno
Editore: Utopia
Traduzione: Barbara Teresi
pp. 140 Euro 18,00

di Anna Lo Piano

Come si racconta la guerra? Non quella delle battaglie, delle ragioni politiche, e nemmeno quella della resistenza, dei vincitori e degli eroi, delle vittime e degli aguzzini, ma una guerra che va avanti da un tempo così lungo che intere generazioni non hanno mai conosciuto altro, il cui numero dei morti non impressiona più nessuno, nella quale la sofferenza ha smesso di essere associata a qualcosa di umano, e la violenza ha impregnato ogni frammento di quotidianità al punto da fondersi nella materia stessa di cui è fatto il paese.

“Guerre e le violenze erano diventate una macchina fotocopiatrice e tutti portavamo la stessa maschera, forgiata dal dolore e dal tormento”, dice uno dei personaggi de Il Cristo Iracheno, in cui Hassan Blasim racconta l’agonia dell’Iraq, dal conflitto infinito con l’Iran alla dittatura di Saddam Hussein, dall’arrivo degli eserciti occidentali a quello di Daesh, fino all’esilio forzato.

Pubblicata in Italia dalla casa editrice Utopia, con la bella traduzione di Barbara Teresi, la raccolta è ancora inedita in arabo, nonostante i singoli racconti siano circolati in vario modo attraverso il web.
Blasim non è un autore facile. La sua scrittura fonde poesia e turpiloquio, e sovverte ogni ordine prestabilito mettendo a nudo i tabù, travalicando ogni possibile autocensura.

Nato a Baghdad nel 1973, è finito sotto osservazione della polizia di Saddam Hussein fin da giovanissimo, quando era ancora uno studente della scuola di cinema e già si era fatto notare per alcuni cortometraggi poco compiacenti con la politica del regime. Costretto a fuggire, ha viaggiato per anni attraverso la Turchia e l’Europa per poi approdare in Finlandia nel 2003, dove gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico e ha ripreso a girare film e a scrivere.

Questi racconti sono stati scritti negli anni dell’esilio, e nella versione inglese del 2013 a cura della casa editrice Comma press, gli sono valsi l’Indipendent Foreign Fiction Prize. I personaggi che li animano hanno un’urgenza di parola che è dichiarata fin dalle prime righe:

 

La gente faceva la fila per raccontare la propria storia. Sul posto è intervenuta la polizia per garantire l’ordine. La strada principale su cui sorgeva la stazione radio era stata chiusa al traffico. Borseggiatori e venditori ambulanti di sigarette circolavano tra la folla. Tutti avevano paura che un terrorista si infiltrasse nella calca e trasformasse tutte quelle storie in una poltiglia di carne e fuoco.

 

Il motivo di un tale assembramento è il concorso “Storie in prima persona” bandito da Radio Memoria, in occasione della caduta del dittatore. Il rovesciamento del potere, pur senza interrompere la catena di orrori, è come la rottura di un argine, un via libera alle voci che cominciano ad accalcarsi. Se il premio in denaro fa gola a tutti, ciò che davvero in palio è il riconoscimento della propria sofferenza, la liberazione da quella maschera che, come una fotocopiatrice, li rende una massa informe senza alcuna traccia di individualità.
Cominciano allora ad accavallarsi le storie. Tutti, anche i morti, e forse soprattutto loro, brandiscono una storia vissuta, ascoltata, immaginata o letta, rivendicando il diritto a non essere solo vittime ma anche testimoni dell’orrore, di avere il coraggio di guardare e portarne addosso le tracce. Testimoni e martiri, nel senso più profondo della parola.
Il tema dello sguardo e degli occhi percorre tutto il libro. Ci sono occhi che lacrimano per fare apparire e sparire coltelli, ci sono gli occhi di Karima, tranquilli come la notte di un albero in primavera, e quelli della sua amica che “guardavano e rimpiangevano insieme a lei le ombre del tempo” (Non uccidermi, ti prego…questo è il mio albero!) e ancora occhi di ragazzi come lenti di ingrandimento che costruiscono un mondo immaginario sulla base di quello che vedono intorno a loro.

Ne “La finestra del quinto piano”, il narratore, chiuso in una stanza d’ospedale con due altri pazienti, legge “Palomar” di Italo Calvino e cita:

 

Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io? Di chi sono gli occhi che guardano? Di solito si pensa che l’io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale d’una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la vastità lì davanti a lui”.

 

Non è l’unica volta in cui Blasim fa riferimento a un’opera letteraria. In questi racconti i libri e i loro autori sono chiamati in causa di continuo, da Rumi a Borges a Kakfa, fino al poeta al Mutanabbi e alla strada che porta il suo nome a Baghdad, sede di un popolare mercato di libri, devastata da un’esplosione.
Ma quella di Palomar è l’unica citazione esplicita da un testo, e definisce una poetica.
I tre pazienti nella stanza d’ospedale sono malati terminali di cancro in una città devastata dalle bombe. La loro finestra, sempre chiusa, dà sul piazzale del pronto soccorso, dove le ambulanze e le scene di morte di susseguono. Passano il tempo a giocare a carte e raccontare storie, intrappolati tra i lamenti di un moribondo e quella vista che ha “un potere irresistibile”, “una forza gravitazionale che spinge a commettere un crimine”.
Nel momento in cui il narratore cita Calvino, gli altri due pazienti stanno confabulando fra loro, si stanno alleando per farla finita. Uno spinge l’altro, aprono la finestra, si buttano di sotto, mentre il narratore, affacciato alla propria finestra, li osserva impietrito come le statue di Baghdad.

 Nel risvolto di copertina Gerardo Masuccio, editor di Utopia, scrive “chi fissa l’esistenza dritto negli occhi, fino a constatarne l’assurdità, si espone a rischi infausti”. L’orrore può essere pietrificante come uno sguardo di Medusa.
Come fa uno scrittore allora a maneggiare una simile realtà? In che modo può raccontare una storia che abbia senso in un mondo in cui la donna a cui un gruppo islamico ha rapito e torturato il marito viene derisa perché tutti hanno storie “più strane, più crudeli e più folli” della sua?  Se il limite ultimo dell’orrore sembra spostarsi sempre più avanti la realtà comincia a sgretolarsi, a cedere e ricostituirsi in forme nuove e inedite.

 Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Daniel è un soldato cristiano che ha una particolarità. Ogni qualvolta è in pericolo di vita, sente un impulso inspiegabile, una voglia, un fastidio, un prurito imbarazzante, che gli suggerisce il posto più sicuro dove andarsi a rifugiare. Gli altri soldati lo seguono, e stando nella sua ombra protettiva si salvano la vita.

 

Gli eventi di quella guerra in compagnia di Daniel somigliavano alle storie dei cartoni animati. In un batter d’occhio la realtà diventava elastica, perdeva coesione, e il delirio aveva inizio.
(Il Cristo iracheno)

 

Se la realtà diventa elastica e perde coesione, può riformarsi in versioni parallele che hanno lo stesso diritto all’assurdità.
E quindi arrivano pozzi abitati da Jinn cannibali dove i visitatori “imparano molto presto a leggere e conoscere gli eventi del passato, del presente e del futuro”, conigli che depongono uova come avvertimento, alcune persone hanno il dono di far sparire coltelli e altre di farli apparire, ma niente di tutto questo significa qualcosa in modo esplicito.

 

Due anni prima mi era stato affidato il compito di leggere dei libri per capire il significato dei coltelli, ed ero facilmente giunto alla conclusione che fossero solo una metafora dell’orrore, degli omicidi e della brutalità del paese. Ma che valore ha una metafora? Cosa può fare in questo mondo?
(Mille e un coltello)

 

Il fantastico non è una metafora di una realtà, come tiene a precisare la narratrice di “Caro Beto”, una lupa che si scaglia contro le orride metafore degli umani:

 

Il loro linguaggio ci ha avvelenati. Dovremmo limitarci ad abbaiare, smettere di capire le loro parole. Tutte quelle figure retoriche e sciocche metafore (…). La vita è un libro, la vita è una galassia. La vita è una gabbia, insonnia, una croce (…)
Non c’è parola, qualunque sia la sua forma e qualunque cosa significhi, che non possa accompagnare il termine vita senza veicolare un’idea. O senza condurre all’essenza della vita. Perché la vita è spazzatura e fiore nello stesso spazio-tempo. E se ci fosse una sola parola che non si adatta alla vita, quella parola sarebbe la chiave per arrivare al segreto di questi umani.

 

Questa chiave, questo accesso segreto, è il desiderio più profondo dei narratori di questi racconti, che sono impegnati a decifrare libri, enigmi, la vita stessa.
Anche l’amore ha perso la sua forza, non è in grado di salvare nessuno, al contrario. Il Cristo iracheno, dopo aver messo tutti al riparo, cede al ricatto di un terrorista pur di salvare la madre. Una donna, pur di proteggere sua figlia da “i fantasmi” che potrebbero arrivare, la espone al sole fino a ustionarle la pelle per renderla meno attraente, e alla fine, in preda al terrore, la uccide prima che possano ucciderla altri.
L’unica via di uscita allora non è cercare di capire la realtà nella sua interezza, ma scomporla in minuscole parti, dedicarsi all’approfondimento di ogni singolo dettaglio, come fa il narratore de “Il coniglio della zona verde” che passa le sue giornate a leggere, scegliendo un dettaglio preciso e concentrandosi nella ricerca di altri contenuti su quel particolare, aggirandosi in una biblioteca di referenze labirintiche, nella speranza forse di trovare, in qualche segreto meandro, la fantomatica porta chiusa.

E torna allora il riferimento a Palomar, a questo personaggio che osserva tutto nei minimi dettagli.
Nella quarta di copertina del romanzo Palomar (edizione 1983), così Calvino descrive il protagonista:

 

Chi è il signor Palomar che questo libro insegue lungo gli itinerari delle sue giornate? Il nome richiama alla mente un potente telescopio, ma l’attenzione di questo personaggio pare si posi solo sulle cose che gli capitano sotto gli occhi nella vita quotidiana, scrutate nei minimi dettagli con un ossessivo scrupolo di precisione. Le esperienze di Palomar consistono nel concentrarsi ogni volta su un fenomeno isolato. L’oggettività e l’immobilità dell’osservazione si trasformano in racconto, peripezia, coinvolgimento della propria persona. Più Palomar circoscrive il campo dell’esperienza, più esso si moltiplica al proprio interno aprendo prospettive vertiginose, come se in ogni punto fosse contenuto l’infinito. Uomo taciturno, forse perché ha vissuto troppo a lungo in un’atmosfera inquinata dal cattivo uso della parola.

 

 L’ultimo racconto di Palomar si chiama “Come imparare a essere morto”. È quello il suo ultimo fine esattamente come tutti i personaggi di questi racconti, che hanno già passato il confine, o si preparano a farlo, sapendo che anche oltre non scompariranno, ma continueranno a osservare ciò che avviene.

 

Essere morto non vuol dire non esserci, prima per mondo intendeva il mondo più lui, adesso si tratta di lui più il mondo meno lui.

 

Il mondo meno noi, “eliminata quella macchia di inquietudine che è la nostra presenza” ci fa osservatori esterni di qualcosa in cui non possiamo più intervenire, nella consapevolezza che “Tutto è calma o tende alla calma, anche gli uragani, i terremoti, l’eruzione dei vulcani”.

In questo tipo di osservazione è forse possibile raggiungere una forma di pace, convincersi che esiste una fine, basta scomporla in istanti e descrivere ogni istante fin nei minimi dettagli, fino ad esaurire tutta l’attesa

 

Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante – pensa Palomar e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più di essere morto. In quel momento muore.

 

Allo stesso modo, in “Sole e Paradiso”, il narratore, dalla sua terrazza, è stato testimone muto della desolazione di una intera città, ha visto svolgersi il dramma di una madre angosciata per la figlia, ha assistito alla fine tragica di entrambe. Rimasto solo, continua a osservare ciò che accade, le truppe di regime che la prendono d’assalto, le forze di opposizione che ne riguadagnano il controllo, le organizzazioni umanitarie che contano le carneficine perpetrate da entrambe le parti come arbitri che contino i goal. E alla fine si ricorda che lui ha già perso la sua vita. Che è un martire, un testimone che porta su di sé le tracce della battaglia. I fratelli che organizzano le operazioni di trapasso gli hanno detto di aspettare finché non lo faranno passare dall’altra parte.

 

Il tempo passava e io continuavo ad aspettare. Giravo per la cittadina abbandonata. Osservavo i vestiti degli abitanti, le stoviglie, i giocattoli dei bambini e gli ossi degli animali domestici morti. Anche i campi di cotono erano morti. Mi annoiavo. Ma è stata proprio la noia a svelarmi i miei veri poteri. Ho cominciato a volare insieme agli uccelli tra i rami e sui tetti delle case. A ondeggiare insieme alle foglie che cadevano dagli alberi. A giocare con il vento, strisciare con i vermi e litigare con gli insetti. Potevo fare qualunque cosa, senza preoccupazioni, né fame, né paura. La solitudine aveva smesso di essere un peso e gli ultimi ricordi della mia vita passata stavano ormai svanendo.
E una mattina, mentre me ne stavo seduto sul melo in casa di Sawsan e sua madre, mi è passata per la testa l’idea che ha inferto il colpo di grazia al senso della mia attesa: che sia questa cittadina abbandonata, il paradiso?

 

 

 

Le citazioni da Palomar sono prese dall’edizione Einaudi 1983

Una casa è un corpo, di Shruti Swamy

Autore: Shruti Swamy
Titolo: Una casa è un corpo
Editore: Racconti Edizioni
pp. 203 Euro 17,00

di Modestina Cedola

Non so bene perché, ma la maggior parte delle donne ha una certa camminata, non possono farci niente. Non una camminata spaccona tutta fianchi, e nemmeno qualcosa di delicato. Forse è soltanto dovuta alla consapevolezza di quanto spazio occupano in ogni momento.
Anche se fanno passi lunghi per muoversi in fretta sono consapevoli della quantità esatta di spazio che il loro corpo occupa espandendosi e contraendosi.

 

Rifugio è la prima parola che mi viene in mente se penso al titolo Una casa è un corpo
Corpi che accolgono come case in cui riparare. Case che contengono come corpi in crescita.
Sulla copertina, scelta per l'edizione italiana da Racconti edizioni, ritroviamo due corpi, che sembrano quasi librarsi in aria, stretti in un abbraccio accogliente (illustrazione di Elisa Talentino).
L'autrice Shruti Swamy, già apparsa con i suoi racconti su The Paris Review e su McSweeney's, in questo libro tradotto da Eva Kampmann, racconta la volatilità delle relazioni e di quello che si lasciano dietro. Solo il corpo rimane stoico con le sue ferite e con i gesti a dominare gli spazi. I racconti sono brevi, la struttura non è mai ripetitiva e le storie tutte diverse tra loro sono istantanee del caos che bisogna attraversare per diventare un essere umano.
Il caldo, il sudore e la stanchezza elementi ricorsivi a sottolineare la fatica della vulnerabilità, di quell'esatto momento in cui cade la maschera e si resta scoperti alle prese con il proprio dolore o il proprio desiderio.
In Cecità il sogno diventa l'unica alternativa in cui rifugiarsi per una donna appena lasciata dal marito perché depressa. Una rottura crudele consumata in maniera silenziosa. Il racconto si apre con la suggestiva festa per le nozze. Sidha, la sposa, viene preparata dalle donne della famiglia che con mani amorevoli le cospargono di curcuma tutto il corpo. La madre che la lava nel latte come faceva quando era ancora una bambina. E poi momenti di vita matrimoniale e ricordi di loro due bambini si alternano veloce. Quando arriva la depressione e lo strappo tra Sidha e il marito il racconto rallenta per poi riprendere ritmo con i sogni che la vanno a trovare ogni notte. Sono sogni in cui Sidha cerca protezione anche se non sono felici.
Mio fratello racconta di una donna incinta attraversa la città per seguire il fratello che non vede da anni. Un fratello amato ma allontanato dalla famiglia perché vedeva i morti. Trovarsi davanti un adulto sconosciuto e ritrovarne i familiari lineamenti infantili. Notare differenze e somiglianze, ad esempio, in una camminata, nella posa della mani o nel modo di dimenare i piedi. Una tenerezza muta e distante. 
Nel racconto La casa è un corpo, che dà il titolo alla raccolta, un incendio è alle porte. Bisognerebbe evacuare la casa ma la donna che la abita sembra non riuscire a decidere quali siano le cose importanti. La sua bambina è a letto con la febbre, suo marito è andato via e probabilmente non ritornerà più. Che cosa fare prima di abbandonare la casa? Prendersi cura di sua figlia, misurarle la febbre, darle delle medicine oppure mettere in salvo le cose da portare via? Sua figlia da grande sarà più felice di avere ricordi attraverso le foto o bellezza con i gioielli di famiglia? Un vortice di domande che immobilizza mentre il fuoco avanza.
E poi Piaceri terreni in cui una donna dedita all'alcol e alla sua arte incontra Krishna. Nasce in modo inaspettato una storia d'amore segreta e intensa:

 

La voglia di Krishna, il gin, il gin, la faccia di mia madre quando cucinava. I polsi sottili di Krishna. Il mio quadro, le faccine, gli occhietti. Il gin. Il primo sorso di gin della mia vita, a tredici anni, lo risputai sul pavimento della cucina. L’odore dell’alcol è simile a quello dei colori. Colore coincide quasi con la parola dolore, e le braccia ti fanno davvero male dopo un po’, anche i polsi. I suoi, di polsi, sembravano così delicati che avrebbero potuto spezzarsi in due.

 

Il desiderio in alcuni racconti è inopportuno ma liberatorio come a dire che il corpo non mente e sa sempre qual è la strada per la salvezza. Avviene nel racconto In lutto dove un uomo appena rimasto vedovo e sua cognata, arrivata per aiutarlo con sua figlia neonata, si concedono un momento di passione violenta. Oppure in Una composizione semplice dove una moglie taciturna e sola, trasferitasi in Germania per il lavoro del marito, ha la conferma della meschinità del Professore per cui il marito fatica giorno e notte, dopo averci fatto sesso nel suo ufficio. Selvaggio, istintivo come la donna forse non è mai stata. E poi ancora in Tempo di matrimoni dove la vacanza in India termina con loro due strette a fare l'amore orgogliosamente consapevoli delle regole culturali che stanno infrangendo.
I dodici racconti della raccolta di Shruti Swamy, ambientati tra l'India e l'America, hanno per protagoniste le donne e le loro identità. Il discrimine tra quello che sentono di essere e la percezione che ne hanno le persone che le circondano. In mezzo i loro corpi che non mentono e segnano ogni singolo momento vissuto, detestato e desiderato. Il dolore, il desiderio e la confusione sono esposti, a chi sa vederli, sui corpi. Mappe dei loro stati d'animo si propagano su gambe, braccia, e volti. Prendono vita nel modo in cui gesticolano, nel peso che spostano sulle gambe camminando, nel modo in cui sono seduti e in quello in cui dormono. Le pressioni sociali peso invisibile ma ingombrante che si portano sulle spalle per cui spesso sono portati a sbandare in direzioni che forse non gli appartengono. Eppure in ogni storia si svela un attimo di bellezza, un momento piccolo e intimo che fa venire voglia di andare avanti.
Un corpo che muta nel tempo. Si muove nello spazio. Smania nell'incertezza. Abbraccia per riconoscimento. Irrigidisce nella paura. Ascolta per sopravvivenza.
Corpi che sono difficili da abitare ma anche da cui è impossibile separarsi. In questa indecisione dell'anima il corpo si fa portatore di paure, relazioni, felicità e ambizioni. Spesso anticipando decisioni e azioni a lungo ragionate. E se quel che ti resta è quel che hai forse, allora, il corpo, tra tutte, è l'unica cosa davvero nostra. Appiglio e rifugio in qualsiasi situazione.

Le cattività domestiche, di Giorgio Ghiotti

Autore: Giorgio Ghiotti
Titolo: Le cattività domestiche
Editore: FVE Editore
pp. 142 Euro 17,00

di Anna Lo Piano

A dieci anni dall’esordio di Anche Dio giocava a pallone, Giorgio Ghiotti torna ai racconti, pubblicando con FVE, la casa editrice milanese per la quale è anche editor, Le cattività domestiche.

Fin dalle prime righe, ho provato quella sensazione che ogni lettore che ami la letteratura spera di provare quando apre un libro. Qualcosa che sta a metà tra il piacere di ritrovare qualcosa di noto - la scrittura come ritorno, un po’ come sedersi nel proprio divano – e il gusto dell’ignoto – la scrittura come trasporto, rapimento in mondi altri, in balia del ritmo dell’autore. C’è molta sperimentazione in questi racconti. Se il filo conduttore sono le galassie familiari, con le figure fatali che hanno segnato la nostra vita nel bene e nel male, è il modo di raccontarle il punto fondamentale.
Divisa in tre parti, la raccolta si nutre di ispirazioni letterarie diverse: dalla provincia americana di Haruf, Flannery O’Connor e soprattutto Elizabeth Strout con la sua “Olive Kitteridge”, al realismo magico ispano-americano fino al romanzo epistolare familiare di “Caro Michele” di Natalia Ginzburg e alle narrazioni di Celati.
La prima sezione, “I gerani”, si compone di quattro racconti molto diversi fra loro, di cui l’ultimo è una sorta di breve saggio sulla visione. Seguono poi i racconti che danno il titolo, “Le cattività domestiche”, scritti in forma di epistola, mentre “Lucernario”, dove ritorna la prima persona, è un canto a quell’età tutta in potenza che è la prima giovinezza.
Ho parlato di sperimentazione, ma forse dovrei dire più correttamente: esplorazione.
Si sente il gusto di Ghiotti nel muoversi in modo autonomo, avventuroso, in una tradizione novecentesca a lungo percorsa, i cui numi tutelari vengono continuamente evocati nei racconti, come se il modo di costruire la nostra memoria, la percezione delle cose, passasse anche dai mondi immaginari dei nostri autori di riferimento.

Di quante cose con il passare del tempo non si hanno più notizie. La bella Lucy, maestra d’asilo fresca di diploma che cucì dieci vestitini da pastore per la recita di Natale. Il primo bacio in pineta, l’estate della mia perfezione. La divisa del reduce Turner che ancora sfoggiava, malandato e mezzo zoppo, dopo così tanto tempo dalla fine della guerra, ogni domenica in chiesa. Qualcuno, i ragazzi più giovani specialmente, lo sbeffeggiava, “non ci sta mica tutto con la testa il vecchio Turner!”, ma lui non raccoglieva smorfie e risatelle e provocazioni. L’avrebbero seppellito in divisa con un fiore all’occhiello.
(I gerani)

Già nell’incipit del primo racconto, “I gerani”, troviamo un condensato dei temi che attraversano tutti gli altri. La coralità delle voci che ricostruiscono la memoria un ricordo alla volta, il senso fugace della storia che ha bisogno dei suoi cantori per rimanere viva (e non ho potuto non pensare all’incipit de “Gli anni” di Annie Ernaux con il suo monito “Tutte le immagini scompariranno”), il muoversi dei personaggi in uno spazio che li definisce – in questo caso la provincia americana con le sue case sparpagliate, tenute insieme dai rituali della comunità e dall’eco dei cantastorie di pettegolezzi. Gli spazi, i luoghi, hanno una grande importanza nel determinare il modo in cui guardiamo al mondo.

Ci sono persone che camminando per la strada tengono lo sguardo puntato verso il basso, e persone che guardano davanti a sé e per aria, quel che si dice avere un orizzonte.
(Avere un orizzonte)

Ma tenere gli occhi bassi permette di vedere molte cose a Roma, per esempio, e molte meno a Trieste. Ogni luogo determina uno sguardo, che è anche interiore. Ci si porta dentro una città, un mondo, se ce lo hanno raccontato, o se lo abbiamo attraverso i libri.

Ho imparato tante cose su Milano dai racconti del fratello, e sono certo che il giorno che ci andrò avrò una memoria nei passi.
(Educazione milanese)

Ghiotti ha creato dei ritratti di personaggi che non hanno niente di grandioso o di eroico, ma la cui memorabilità risiede nella traccia che hanno lasciato nel ricordo di altri. Specialmente le nonne, queste figure archetipiche, immense, capaci di dominare intere generazioni con la loro presenza, i loro giudizi, la loro visione delle cose. Leggo di queste ave e penso alla nonna descritta in “Althénopis”  da Fabrizia Ramondino, a quella di Brianna Carafa in Angeli personali. Ciò che siamo è in buona parte determinato dalle persone con cui siamo cresciuti o abbiamo scelto di crescere. Forse per questo, sebbene Ghiotti faccia un largo uso della prima persona, la visione è sempre spostata sull’altro. L’io narrante è un pretesto per parlare di altri, e quando parla di sé, o di un sé possibile, si tratta di una figura in mezzo alla folla delle altre.

Nel primo racconto c’è lo sguardo del bambino sul padre, il suo tentativo di ricostituire attraverso gli indizi e i sentito dire ciò che è avvenuto prima della sua nascita, di dare senso alle immagini confuse dell’infanzia, e poi di comprendere le scelte di un uomo che sembra seguire una sua strada misteriosa di attraversare il dolore.
Ne “L’appuntamento”, due uomini che si sono amati in gioventù si rincontrano a distanza di anni, e come in un duello o in duetto, contrappongono frammenti di ricordi, ricostruendo un po’ alla volta le fasi del rapporto e le ragioni della fine, senza che il lettore sia mai veramente sicuro di ciò che sia davvero accaduto.

Quale parte di quel racconto è realmente accaduta, quanto sono attendibile? Rievoco malamente a memoria il verso di una poesia, “forse il testimone perfetto è cieco”. Potrei dirti che sono ossessionato dalla verità ma mentirei ancora. Dopotutto la verità è un sentimento.
(Bambinacci)

Il ricordo è sempre una verità potenziale e anche parziale rispetto a quanto è successo.
Nei racconti epistolari l’autore si rivolge direttamente a cugine, nonne, componenti vari della famiglia, ricostruendo le vite e i fatti come un mosaico tra versioni contrastanti, edulcorate o rese leggendarie dalla magniloquenza della reiterazione.

Ancora la racconta, dopo trent’anni, questa storia; ne ha modificato a sua volta i dettagli, per esempio non ricordo che ci fosse una dependance a villa Claretta come invece continua a sostenere. Nella versione del padre Lente è un casotto per gli attrezzi. Ma può essere anche, informa la zia, che si trattasse di un dondolo, un dondolo con grandi cuscini a fiori cuciti dalla madre di Quartapelle. “Non ci avevi mai detto che c’era la madre!”

Più verità forse la troviamo negli oggetti, che hanno la capacità di serbare le tracce del nostro passaggio, di raccontare anche ciò che vorremmo dimenticare, come quando da un baule conservato salta fuori il vecchio strumento abbandonato della cugina Daria, memoria di un futuro da solista mai realizzato, i soli che sanno tutto di noi e anche, come per una delle nonne se davvero “è stata felice a ogni compleanno”. Ma allo stesso tempo anche gli oggetti sono capaci di parlare solo se manipolati dalla scrittura.
Perché la scrittura ha la capacità di manipolare il ricordo almeno quanto il racconto degli altri. Le cattività del titolo altro non sono che le prigioni in cui veniamo continuamente ingabbiati dal giudizio o dalle aspettative di chi ci circonda, a cominciare dai nostri familiari. Gabbie che tarpano le ali delle possibili nostre evoluzioni, come la cugina Daria che è tutta in potenza, anche quando la potenzialità è di un diritto alla non eccezionalità.

Che cos’è una bugia? Quel che gli altri hanno creduto di noi. Nessuno è al riparo dalla manomissione operata da una persona che ha amato.

La scrittura in questo senso è salvifica. Ricomporre nel mosaico, nella voce fuori campo che opera la parola mentre scorrono le immagini della vita, permette di non chiudere la gabbia ma lasciarla aperta a tutte le versioni dell’io. In più ripara, rimette insieme le eredità letterarie, ricuce le generazioni, permette di rifrangere la propria immagine in specchi infiniti, ripara le ombre, offre un futuro a chi non ce l’ha più. E sempre attesta la propria fragilità.

io ti racconto e tu non morire, pure se il tempo brucia e questa polvere che ci ingrigisce tutti si fa via via più pesante, s’infittisce, fino a farci sparire.”

Gesù dell’uragano e altre storie, di James Lee Burke

Autore: James Lee Burke
Titolo: Gesù dell’uragano e altre storie
Editore: Jimenez edizioni
Traduzione: Gianluca Testani
pp. 192 Euro 18,00


di Fabrizia Gagliardi

Proviamo a individuare il filo comune che unisce tutte le correnti letterarie contemporanee. Sarebbe come andare alla radice della misteriosa attrazione che abbiamo per le storie, il segreto di un vizio conosciuto da tutti.
A scomporle in particelle elementari troveremo in Shakespeare l’unico grande ideatore di tutte le trame primordiali, ma rimarrebbe una domanda: cosa sottostà a ogni storia raccontata, qual è il nucleo unico e condiviso, centro propulsore di tutto il resto?
Data una vicenda umana, il mistero della vita, se proprio vogliamo definirlo in questo modo, è che l’uomo genera un senso e risponde scegliendo dei valori, nel bene e nel male.
«Le battaglie più importanti avvengono in posti che non interessano a nessuno», sono le parole del detective Dave Robicheaux, protagonista della serie di romanzi di James Lee Burke. Un Philippe Marlowe contemporaneo, un attivista politico più spavaldo e mosso da una fede incrollabile.
È nella provincia, e negli spazi poco densamente popolati tipici dei luoghi americani lontani dai grandi centri, che la visione sociale e politica del personaggio coincide con le origini del suo autore. Burke è nato a Houston ed è cresciuto sulla costa del Golfo della Louisiana. Dopo gli studi all’Università della Louisiana e del Missouri la sua carriera letteraria non è stata da subito così scontata. Ci sono voluti molti anni, lavori come assistente sociale, professore universitario, impiegato dell’industria petrolifera, e innumerevoli rifiuti da parte delle case editrici, prima di stagliarsi nell’universo letterario americano con il personaggio di Robicheaux e il primo romanzo, Pioggia al neon, pubblicato nel 1987.
Anche l’editoria italiana negli anni ha recepito i gialli della serie in maniera frammentata comparendo nei cataloghi di editori come Baldini & Castoldi, Mondadori e Meridiano Zero.
A mettere ordine in una produzione che vanta oltre quaranta romanzi fa ben sperare il proposito di Jimenez Edizioni, nata con due principali scopi: «il primo era quello di riportare in Italia i romanzi di Willy Vlautin; il secondo, invece, era quello di pubblicare James Lee Burke, e in particolare Gesù dell'uragano».
Proprio la raccolta di racconti Gesù dell’uragano appena pubblicata, e tradotta da Gianluca Testani, riesce a conferire un senso nuovo e inedito a tutti i cliché che potremmo associare alle copertine dalla tipografia accentuata dei capolavori di Burke.
È qui che l’autore dimostra la grande capacità di spaziare tra il carattere più dinamico e intrattenente della tensione di un thriller e un talento narrativo e lirico che conferisce complessità ai personaggi dei racconti brevi.
Le storie, scritte tra 1990 e il 2005, sono tutte ambientate sulla costa statunitense affacciata sul Golfo del Messico, traumatizzata da uragani devastanti (come l’uragano Audrey nel 1957 e Katrina nel 2005), disastri ambientali intimamente legati alle vicende dei protagonisti colpiti in varie tappe fondamentali della vita da traumi, ingiustizie, fugaci sensibilità e un senso di giustizia tutto da costruire.
Mai come in questi racconti si avverte la presenza inesorabile di una vallata coperta di neve che col metodico susseguirsi delle stagioni è in grado erodere, in chi vi è immerso in solitudine, il senso dell’umana convivenza piegandolo alle leggi della natura.
In Luce d’inverno un professore universitario, ormai in pensione, vive al limitare di un canyon in una casa di legno che controlla l’accesso al parco nazionale. La quiete della contemplazione di una carriera appena conclusa e di una vita sentimentale tutta da definire subiranno la brusca interruzione a causa di alcuni uomini che vogliono accedere al parco per una battuta di caccia illegale.
Gli sprazzi paesaggistici, alternati alle parti narrative, creano chiaroscuri lirici che andranno a fondersi con una natura umana messa di fronte alla scelta di cedere al male o rispettare una giustizia tutta personale.
Una vicenda simile, con un protagonista dal passato oscuro, è presente nel più toccante La stagione del rimpianto. I Monti Bitterroot dominano una vallata che l’occhio umano non è in grado di abbracciare, e Albert è mosso dall’istinto innato di proteggere l’ambiente e la cittadina che ha scelto come casa dall’arrivo di quattro biker.
Dopotutto in un ambiente dimenticato da Dio la convivenza umana va a farsi benedire e la radicalizzazione di idee s’incunea in un carattere violento, un’intolleranza latente per la novità, un generale senso di abbandono in cui vince la legge del più forte e del farsi giustizia da sé. Ancora una volta nel corso del racconto il paesaggio naturale assiste all’arrovellarsi di un protagonista che si chiede se cedere alla pratica del male che genera altro male.

Gli piacerebbe credere che la terra si riprenderà, che un brav’uomo non ha nulla da temere dal mondo e che ormai ha messo da parte il male fattogli dai biker. Ma alla fine ha imparato che mentire a sé stessi è un reato per il quale gli esseri umani raramente si concedono l’assoluzione.
È giunto a credere che l’accettazione di un angolo oscuro nell’anima e il rifiuto di parlarne con gli altri siano la massima consolazione che un uomo possa ottenere, e per qualche strana ragione quel pensiero sembra dargli un po’ di pace.

È difficile che i personaggi di Burke cedano a un facile sentimentalismo, non per un qualche tipo di timida reticenza, ma perché non si abbandonano al ruolo di vittime per diventare eroi compatiti della propria storia. Non fanno niente per assecondare l’indulgenza del lettore, perché in tutte le vicende trapela una robustezza di spirito che resiste a città corrotte – come i jazzisti in tour alle prese con la mafia che gestisce la musica ai tempi di Jerry Lee Lewis e Big Mama Thornton ne La notte in cui Johnny Ace morì –; a quartieri nati nel sogno petrolifero, ma abbandonati alla candida lungimiranza dei bambini che ci dovranno fare i conti – come in TexasCity, 1947 –, al pentimento della memoria delle guerre in Corea e in Vietnam – come racconta il massacro paramilitare ne Il villaggio.
Lo sguardo di Burke riesce a cogliere il seme della violenza nei grandi spazi naturali, nelle città fino alle piattaforme petrolifere. Non si tratta di una crudeltà forzata e senza scampo, ma di una scelta dai contorni sfumati, dettata dalle condizioni economiche.
A volte tutto si avvicina alla fede masochista in un processo di espiazione le cui sorti si scopriranno solo alla fine. È quello che accade con Foschia, uno dei racconti più sorprendenti della raccolta. Lo spettro dell’uragano Katrina appare come un passato in cui si è sedimentata la vita desiderata di prima, ormai sommersa dai ricordi verso un baratro senza scampo.

Nelle sei settimane seguenti Lisa arriva a credere che la persona che pensava fosse Lisa forse non era mai esistita. La nuova Lisa impara anche che l’Inferno è un posto senza confini geografici, che può viaggiare con un individuo ovunque egli vada. Si sveglia alla sua presenza all’alba, dolorante e disidratata, il cielo come il fondo acquoso e macchiato di ciliegia di un bicchiere Collins.
Che sia per recuperare un panetto di eroina afghana da un armadietto della stazione degli autobus di Lafayette per conto di Herman o per bucarsi con una delle sue puttane, a volte usando lo stesso ago, Lisa passa dal giorno alla notte senza tenere conto di orologi o calendari o della macabra trasformazione del proprio viso che le restituisce lo specchio.

Se la strada per il bene è tortuosa ed è difficile intravedere, l’unica salvezza è costituita da visioni e allegorie, fugaci epifanie che sfondano la porta del realismo per ascendere alla speranza più profonda.
In una capacità evocativa del genere non è difficile immaginare che Burke ha colpito anche il mondo del cinema: il detective Dave Robicheaux è apparso sugli schermi interpretato da Alec Baldwin (in Omicidio a New Orleans, del 1996) e da Tommy Lee Jones ne L'occhio del ciclone - In the Electric Mist (2009).
Il racconto che dà il titolo alla raccolta è diventato un film, God’s Country, presentato all’ultimo Sundance Festival. E ancora una volta i suoi personaggi si ritrovano sui tetti di una New Orleans sommersa, senza salvezza, a osservare un Cristo in croce galleggiante e mossi da una speranza che poche volte è capitato di incontrare in una vita soltanto.

Ma considerando la compagnia con cui mi trovo – Gesù e Miles, e Tony che ci sta aspettando da qualche parte – non ho problemi con il mondo.

Kalpa Imperial, di Angélica Gorodischer

Autore: Angélica Gorodischer
Titolo: Kalpa Imperial
Editore: Rina Edizioni
Traduzione: Giulia Zavagna
pp. 344 Euro 18,00

di Modestina Cedola

Pubblicato per la prima volta, in due volumi, tra il 1983 e il 1984 e tradotto poi in lingua inglese da Ursula K. Le Guin nel 2003, arriva anche in Italia Kalpa Imperial. Il più grande Impero mai esistito di Angelica Gorodischer, grazie alla casa editrice Rina Edizioni. Tradotto da Giulia Zavagna e con la prefazione di Loris Tassi “Kalpa Imperial” è il quarto volume della collana Água Viva curata da Luciano Funetta.
Undici storie e un Impero da raccontare. Di palazzi, segreti, protocolli, battaglie, cantastorie, principi, imperatrici, guerrieri e maghi. La lotta per il predominio, le scelte per il futuro, l'ambizione di restare nella storia, una dinastia da portare avanti o da interrompere per sempre, la morte agognata o subita atrocemente. Il potere è il centro di tutto, tutti ne sono asserviti ognuno nel modo che più lo rispecchia. L'Imperatore è figura dominante. Il potere che irradia è quasi sempre solitario e personale. Città fatte costruire per un capriccio, palazzi enormi e vuoti. Una vita vissuta spesso in una sola stanza. È un potere che ammala e rende folli. Un potere da conquistare o riconquistare ad ogni modo con ogni mezzo.

 

Non ci furono mai tanti ministri, mai durarono così poco; mai morì tanta gente, mai tante donne rimasero incinte. Mai le strade furono così spopolate e così popolati gli accampamenti. Mai ci furono tante denunce, tante torture, tanta tristezza. E fu così per vent'anni.

 

Niente è come sembra in Kalpa Imperial. Descritta da tutti come un'opera di fantascienza cela il racconto della dittatura argentina durante il quale è stato scritto.

 

Ora che soffia un vento propizio, ora che sono finiti i giorni di incertezza e le notti di terrore, ora che non vi sono più accuse né persecuzioni né esecuzioni secrete, ora che il capriccio e la follia sono scomparsi dal cuore dell'Impero, ora che noi e i nostri figli non siamo più assoggettati alla cecità del potere.

 

Le atrocità dei potenti, le parole dei saggi, il buon governo dei ministri, il silenzio delle donne, le cospirazioni segrete. Ogni tassello della storia è necessario per ricordare. La memoria è esercizio essenziale nel libro della scrittrice argentina. Attraverso la parola le storie vengono tramandate affinché sia possibile costruire un futuro migliore. La parola come forma di resistenza al potere. Un potere su cui fare anche ironia per rendere evidente le falle : “E un capitanuccio non molto coraggioso ma niente affatto stupido ricevette l'ordine di un colonnello che l'aveva ricevuto da un ministro che aveva sentito la domanda dell'Imperatore...”
Parola antidoto anche contro la paura. Che è contagiosa. Paura che non accompagna solo chi viene governato ma anche chi governa. Gorodischer racconta di Imperatori indomiti e illuminati, di Imperatori meschini e assetati di controllo ma anche di Imperatori che sono spaventati dal loro stesso potere. Un campionario di possibili modi di governare. Il dominio presente o la gloria eterna? Conta nell'esercizio del potere immaginare come si verrà raccontati? Che Imperatore vuoi essere per il tuo popolo?

 Caldamente sostenuta da Ursula K. Le Guin, che lo definì un testo ricco e complesso, ferocemente immaginativo e imprevedibile, Kalpa Imperial vede tra i suoi ispiratori, per stessa ammissione della sua autrice, Hans Cristian Andersen, J.R.R. Tolkien e Italo Calvino. Angelica Gorodischer nata nel 1928 ha vissuto quasi per cento anni ed è ritenuta una delle voci più originali e influenti della letteratura latinoamericana.

 Le undici storie che compongono Kalpa Imperial sono racconti? Oppure sono undici capitoli della stessa storia? L'Impero di cui si racconta è lo stesso che si distrugge e ricrea? Oppure leggiamo ogni volta di un Impero diverso? Gorodischer sembra chiedere un'attenta partecipazione a chi la legge lasciandogli la possibilità di aggiungere i tasselli che mancano attingendo dalla propria fantasia, reiterando il meccanismo della storia dentro la storia. Atteggiamento che rende palese attraverso il narratore, presente in tutti i racconti tranne l'ultimo, che dialoga apertamente con il lettore incitandolo a guardare oltre, ora celando alcuni dettagli ora facendo ironia sulle sue capacità d'intuito.

 

Certo capirete, se ne siete in grado, che il mondo era cambiato.

Era un'insolenza, nel caso non ve ne foste accorti.

 

Sulla copertina scelta da Rina Edizioni una città che si specchia su se stessa pur apparendo diversa nel riflesso. Una città fatta di palazzi alti e serratissimi. Un luogo che sembra inaccessibile e cupo, dove non c'è spazio né via di scampo. Edifici alti: piramidi, torri, colonne che puntano al cielo e simboleggiano la grandezza degli uomini che le hanno costruite. In mezzo a queste due città una bocca di pietra che spalanca un passaggio buio. L'oscurità e il volto sulla porta incutono timore ma allo stesso tempo invitano ad entrare. C'è un universo oltre quel buio che aspetta solo di essere scoperto. Kalpa Imperial di Angelica Gorodischer assomiglia a una porta pronta a portarti in altri mondi.

I morti dell’isola di Djal e altre leggende, di Anna Seghers

Autore: Anna Seghers
Titolo: I morti dell’isola di Djal e altre leggende
Editore: L’Orma edizioni
Traduzione: Daria Biagi
pp. 224 Euro 20,00


di Anna Lo Piano

C’è, nel riprendere in mano i libri che hanno segnato gli anni della nostra formazione, un senso di appartenenza, e allo stesso tempo il timore che ciò che allora ci aveva colpito risulti ora banale, e come per certi amori, deformato dalla patina del tempo.
È con questo duplice sentimento che ho preso in mano i racconti di Anna Seghers, I morti dell’isola di Djal e altre leggende, appena pubblicati da L’Orma editore con la traduzione di Daria Biagi. Seghers è stata una delle voci più significative della letteratura tedesca del ‘900, e una delle mie letture universitarie. Per noi ventenni della fine degli anni ‘80, leggere autori e autrici della Mitteleuropa era come riappropriarsi di un’identità che ci apparteneva e ci era stata sottratta. Lì c’era una ferita e la letteratura era come ricomporre una conversazione interrotta, appoggiare l’orecchio sul muro e tastarne la porosità, allo stesso modo con cui, zaino in spalla e Interrail in mano, facevamo incursioni sempre più audaci nel continente a parte dell’Est. E Anna Seghers, come e più di altri, quella ferita l’aveva vissuta e raccontata.
Netty Reiling, questo il suo vero nome, nasce nel 1900 a Magonza da una famiglia ebraica della borghesia colta. A Heidelberg, una delle università più progressiste della Germania dell’epoca, studia cinese e Storia dell’arte, laureandosi con una tesi su “Ebrei ed ebraismo in Rembrandt”. Il richiamo alla pittura, in particolare a quella fiamminga, sarà una costante del suo stile. Da un pittore fiammingo, Hercules Seghers, prende anche il suo nome d’arte, che usa firmandosi come autrice del suo primo racconto del 1924, “I morti dell’isola di Djal. Una leggenda olandese scritta da Antje Seghers”. Impegnata politicamente e culturalmente, ricopre incarichi di rappresentanza. Entra nel partito comunista tedesco e nella Lega degli scrittori proletari e rivoluzionari nel 1928. Nello stesso anno vince il premio Kleist per il romanzo “La rivolta dei pescatori di Santa Barbara” che racconta la lotta di un gruppo di pescatori bretoni per rivendicare migliori condizioni economiche. Anche se fallisce, la rivolta permette comunque loro di acquisire una nuova coscienza sociale e una consapevolezza esistenziale. È il tema della sconfitta che si trasforma nella promessa di  una futura vittoria, ricorrente nella letteratura socialista degli anni ’20.
Nel 1933, con l’avvento del nazismo, fugge a Parigi con la famiglia. Poi nel ’41 va in Messico, partendo da Marsiglia dopo una lunga e tormentata attesa che sarà l’ispirazione del romanzo Transito, ripubblicato da L’Orma nel 2020.
Scrive molto, sempre. Racconti, novelle, reportage. Il romanzo “La settima croce”, che racconta la fuga di un gruppo di ebrei da un campo di concentramento, diventa uno dei primi film ad affrontare il tema del lager, nel 1944, con la regia di Zinnemann e l’interpretazione uno dei volti sacri del cinema hollywoodiano: Spencer Tracy.
Finita la guerra, torna in Germania, decide di stabilirsi a Berlino est, di far parte della DDR. Apre la strada a una nuova generazione di scrittori e scrittrici, diventa una autrice da antologia.

 La raccolta pubblicata ora dall’Orma segue gli anni della sua produzione più intensa, dagli anni ‘20 alla fine degli anni ‘60. Ogni racconto viene presentato con qualche riga di introduzione in cui si indica la data di pubblicazione, il luogo, e la rivista o la raccolta di riferimento. Basta questo a dare il senso di una vita vissuta in gran parte in fuga, per la quale diventa essenziale il lavoro delle riviste che in tutto il mondo davano spazio alle voci plurime degli scrittori germanofoni, per impedire che il tedesco fosse solo la lingua del nazismo.  La divisione in due sezioni, Leggende e Storie, segue la doppia ispirazione di Seghers. Da una parte la passione per le narrazioni popolari, il fascino per il mito fondativo che può essere raccontato all’infinito sempre sotto nuove prospettive, dall’altro le vicende degli schiacciati della storia: la povertà degli Ziegler, le speranze del Sionismo, i giovani nazisti.
Per lei era chiaro che “in ogni epoca artistica si dovesse scoprire una nuova materia letteraria”, e la materia del suo tempo erano i proletari, le loro vite, le loro lotte, senza rinunciare però all’immaginazione. In un famoso carteggio del ’38, entra in polemica  con il critico György Lukács sulla questione del realismo. L’attenzione alle questioni sociali non può far rinunciare chi scrive alla creatività poetica. Contro la critica ideologica che produce descrittori e non narratori, rivendica i valori dell’autenticità soggettiva, dell’esperienza, di quel “futuro ricordato” che sarà la visione di Cassandra di Christa Wolf, capace di pre-vedere perché capace prima di tutto di muoversi nella propria memoria. Allo stesso modo nel racconto “Posta nella Terra promessa” il figlio, prima di morire, può scrivere a suo padre le lettere che gli arriveranno nel futuro perché sa che nel mondo “le cose non cambiano mai”. Ovvero l’essenza delle cose non cambia. Come nel mito, appunto, che per questo può essere raccontato infinite volte, adattandolo alle epoche, scoprendone ogni volta un lato nascosto.
Solo nella “Gita delle ragazze morte”, lunga novella, bellissima, sulla propria infanzia, Anna Seghers fa una concessione a un io narrante più intimo e autobiografico. In questi racconti si sente invece forte la sua voce più alta, epica. Si ha l’impressione di assistere a un racconto corale, che ha un andamento solenne, di qualcosa che è stato tramandato, passato di bocca in bocca. Mi colpisce che scrivendo da una prossimità storica così forte di nazismo, sionismo e colonialismo, ne colga il cuore estremo, la sostanza. Ed ecco che mentre parla di avvenimenti ormai lontani nel tempo, ci ritroviamo a viverne le eterne pulsioni che ne animano i protagonisti. La ricerca di un luogo da poter chiamare casa, l’essere trascinati da correnti che spingono in direzioni opposte e contrarie, il destino incombente, le speranze estenuate.
Nell’ultimo racconto, “La guida”, le contraddizioni del colonialismo sono raccontate attraverso una spedizione che sembra non potersi concludere mai, in un conflitto sempre più esplicito tra un giovane eritreo e i due soldati italiani che devono affidarsi alla sua guida, appunto, per attraversare il territorio che non conoscono, pur avendolo conquistato.
Di questa capacità di valicare i confini del tempo grazie al potere simbolico dell’immaginazione, Seghers parla anche in uno dei suoi ultimi racconti, “Incontro a Praga”, che è una sorta di manifesto poetico del suo modo di narrare. Qui immagina che Hoffman, Gogol e Kakfa si siano dati appuntamento, desiderosi di conoscersi.

 

“Io invece me ne infischio del tempo!” esclama Hoffman “Noi tre non staremmo affatto seduti insieme a questo tavolo, se ci attenessimo al tempo”.

E Kafka, poco dopo

Il tempo è strettamente cointessuto alla mia vita e alla mia scrittura. I miei personaggi non hanno bisogno di volti, i lettori possono immaginarseli da sé. A me interessa la loro indole, il loro comportamento in una determinata situazione. Io mi figuro, per esempio, come si comporterebbe il mio buon vicino se mi arrestassero improvvisamente e la mia abitazione venisse sigillata, senza nemmeno sapere perché. Il mio buon vicino, che finora mi ha stimato, immagina ora una cosa ora un’altra. Io però posso immedesimarmi in chi si sente minacciato da una misteriosa potenza. Del resto, anche la minaccia, il comportamento – che è reale come un volto o un carattere – hanno luogo in un determinato punto del tempo.”

 

Questa stessa immedesimazione nei personaggi come incarnazioni di sentimenti universali è molto forte nella scrittura di Anna Seghers. Anche per questo un romanzo come “Transito”, con una voce narrante in prima persona, legato a un momento storico molto preciso e a una radice autobiografica, può essere letto oggi come una storia contemporanea sull’esilio e sulla condizione di profugo, tanto che nel 2018 il regista Christian Petzold ne ha tratto un film ambientato nel presente: “La donna dello scrittore”.
E resta qualcosa da dire sulla qualità cinematografica dei racconti di Seghers, sulla sua capacità di evocare scene, paesaggi e colori. Basta leggere “Gli Ziegler” per ritrovare tutta la portata iconica del cinema espressionista e dei quadri fiamminghi. Volti deformati, corpi gialli, rinsecchiti, sguardi allucinati e muti, interni familiari e dimessi ricostruiti nei minimi dettagli, e macchie di colore gettate come speranze.Dice ancora Hoffman, in incontro a Praga, rivolgendosi a Kafka:

“poiché lei non scorge via d’uscita per se stesso, ecco che non ne vede alcuna nemmeno per gli altri. Occorre però cercarla, una via d’uscita, una breccia nel muro. Come la cerca un prigioniero, per infilarvi un messaggio per un altro essere umano. Bisogna veder brillare un puntino luminoso. Certi quadri scuri, quelli di Rembrandt per esempio, acquistano il proprio significato solo attraverso queste piccole luci inserite al posto giusto”

Mi ricorderò di te, di Mary South

Autore: Mary South
Titolo: Mi ricorderò di te
Editore: Pidgin edizioni
Traduzione: Stefano Pirone
pp. 276 Euro 16,00

di Fabrizia Gagliardi

Se osserviamo bene nella porzione di futuro immaginata, vagamente ottimista della nostra vita, è impossibile non includere la pervasività della tecnologia. Ed è proprio lo spazio tra le nuove questioni che s’impongono con innovazioni che abbiamo a disposizione oggi e le loro possibili conseguenze che s’instaura la malleabilità immaginifica di molti autori contemporanei. Scrivere di tecnologia, giocare con la distopia o l’ucronia, costituiscono i rischi più interessanti degli scrittori che vi si cimentano. Il pericolo è quello di produrre nel lettore lo stesso moto d’animo provocato dagli effetti speciali delle pellicole passate: un senso diffuso di tenerezza e nostalgia che però non nasconde un sapore anacronistico.
Ci sono autori che hanno efficacemente superato la prova come Cory Doctorow e le sue opere sulle scomode implicazioni future tra diritti e soprusi, oppure Joshua Cohen che ha riflettuto su tendenze e pratiche linguistiche influenzate da velocità e consumo di pensieri nei racconti di Quattro nuovi messaggi. Tra le nuove e più interessanti voci da aggiungere alla lista c’è Mary South con Mi ricorderò di te, pubblicata da Pidgin e tradotta da Stefano Pirone.
Una donna che si occupa di moderare commenti su un famoso motore di ricerca diventerà a sua volta la stalker dell’uomo che l’ha stuprata, in un vortice ossessivo di spionaggio d’identità online («Quando saremo morti e marciremo sottoterra o verremo cremati e trasformati in cenere, le nostre vagine saranno ancora su un server da qualche parte per gli occhi di tutti» dice Stronzetto).
Gli infermieri di una casa di riposo scopriranno la vita erotica, le fantasie sessuali, i bisogni e i desideri dei loro pazienti tramite registrazioni telefoniche. Le voci diventeranno così familiari da invadere anche la vita privata e sentimentale del protagonista.
La sezione delle domande più frequenti sulla craniotomia diventa la confessione della vita di una neurochirurga che ha perso il marito e che deve crescere due figli problematici.
I protagonisti delle dieci storie si muovono in un tempo indefinito ma altrettanto familiare: nei loro slanci per ricercare l’amore, la comprensione, e nei loro tentativi di mettere a tacere un senso di solitudine crescente, riconosciamo l’eco di una realtà atomizzata nel lavoro, nell’inseguimento di un indizio di memoria nel marasma di velocità e di precarietà crescente. Senza possibilità di fuga la tecnologia diventa la compagna costante, un sussurro continuo che suggerisce scorciatoie emotive.
In Non è Setsuko tinte orrorifiche definiscono la storia di una madre che cerca di ricreare la bambina che ha perso in passato, in un vortice di follia che coinvolgerà la bambina replicante e il padre.
Un’architetta all’apice del suo successo, protagonista di Architettura per mostri, si trova a raccontarsi in un’intervista affermando di prendere ispirazione dalle deformità della figlia. La vicenda giornalistica svelerà poi l’esistenza della rivalità con la sorellastra che ha donato alla bambina molto più amore e calore umano.

Quando ami l’amore non svanisce. Il sentimento resta per tutta la vita con la persona amata, viene tramandato a coloro che ella ama, e si proietta in tutto l’universo, espandendosi con esso nell’eternità.

Che siano debolezze da esibire in pubblica piazza o dolori privati che irrompono sconvolgendo una vita intera, le preoccupazioni dei protagonisti non sono i prodotti della tecnologia ma piuttosto una rassegna di vuoti emotivi alla ricerca di un antidoto immediato.
L’obiettivo dell’autrice non è quindi un esercizio d’inventiva che va alla ricerca dei modi nuovi e più geniali di impiegare le nuove tecnologie, ma integra perfettamente queste ultime fino a farle assumere un secondo piano, un piano neutrale e non giudicante, rispetto alle inquietudini, i dolori, le gioie e le questioni irrisolte.
La tecnologia non è un deus ex machina ma diventa parte del panorama più preoccupante di nevrosi contemporanee vittime di un benessere economico a tutti i costi, di disfunzioni emotive poco chiare, di rimpiazzi ricercati nelle illusioni.
In ognuna delle vite raccontate la chiave è da ricercare nella provocazione e nella profondità di un’iper-realtà da umorismo nero, contro quelle che erano le aspettative di vita poi tradite, fraintese e deluse. In un panorama del genere non s’intravede speranza all’apparenza, ma in ogni racconto s’intuisce che lasciarsi sgretolare davanti agli altri, farsi assistere nel fallimento e nelle ferite più dolorose, non è voglia di esibizione ma un sincero aprirsi, disintegrarsi e rinascere collegandosi ad altre anime turbate.

Le dame di Grace Adieu, di Susanna Clarke

Autore: Susanna Clarke
Titolo: Le dame di Grace Adieu e altre storie
Editore: Fazi
Traduzione: Paola Merla
pp. 276 Euro 17,00

di Anna Lo Piano

Può un racconto nascere da una nota a piè di pagina? Le vie della creatività sono infinite, ma è su questa che si è incamminata Susanne Clarke per scrivere il racconto che dà il titolo alla raccolta Le dame di Grace Adieu, da poco pubblicato da Fazi editore, con la traduzione di Paola Merla.
Con un termine da serie TV, potremmo definire questo libro lo spin off di “Jonathan Strange & il Signor Norrel”, il romanzo che ha reso Clarke famosa e che nel 2015 è diventato una fiction prodotta dalla BBC. Ma sarebbe fargli un torto, perché a livello creativo è successo qualcosa di molto più interessante.
Alla fine degli anni ’90, Susanna Clarke è alle prese con la scrittura del romanzo. Uno stile ottocentesco che vuole ricordare Dickens e Jane Austen per la lingua e il sottile umorismo, che sconfina nel fantasy senza essere un romanzo fantasy, che introduce la magia nel mondo accademico vittoriano per affrontare temi esistenziali. Un contenuto magmatico che le sfugge da tutte le parti e fatica a trovare la propria forma definitiva. E mentre è immersa in questo difficile processo, per trovare ispirazione e forse anche contenimento, si iscrive a un corso di scrittura tenuto da Colin Greenland e Geoff Ryman. Il corso prevede che per accedere gli studenti presentino un racconto, e lei scrive “Le dame di Grace Adieu”, ambientato in quel mondo magico e vittoriano, dove appaiono anche i protagonisti del romanzo.
“Le dame” è stato il primo racconto pubblicato, e a questi ne sono seguiti altri sette, quasi tutti apparsi su riviste o antologie prima di essere raccolti nel 2006.
La sperimentazione è forse la cifra più caratteristica di questi racconti, che sono stati scritti attingendo alle parti più sommerse, marginali, del romanzo, da quello che per stessa ammissione dell’autrice non poteva rientrare in una struttura compiuta. Come se il romanzo fosse il palazzo, e le storie la campagna selvaggia che lo circonda, popolata da mondi infiniti, ognuno dei quali ne racchiude altri, in una moltiplicazione che ricorda l’architettura labirintica del suo romanzo più recente: Piranesi.
In questi racconti ci sono molte donne, escluse dal mondo accademico ed esclusivamente maschile dei maghi. A Grace adieu abitano tre donne che sanno molto più di magia di Strange e Norrel. Impossibile non pensare a Jane Austen quando Clarke ce le presenta, facendoci scorgere il loro guizzo geniale dietro l’apparente sottomissione alla vita di provincia.

(il Signor Field) Non si riteneva cambiato rispetto all’uomo che era stato una volta e Cassandra era assolutamente del suo parere, dato che (si diceva) “voi, signore, eravate certamente noioso a ventun anni come lo siete a quarantanove”. E dunque il signor Field riprese moglie, una moglie giovane, intelligente e solo di un anno maggiore di Cassandra, anche se, a difesa della seconda signora Field, possiamo dire che non aveva denaro e non le restava che sposare il signor Field o fare la maestra di scuola.
La seconda signora Field e Cassandra andavano molto d’accordo e ben presto si affezionarono grandemente l’una all’altra. Anzi,
bisognava riconoscere che l’affetto fra loro era assai superiore a quello di entrambe per Field
.

  Come in una lente di ingrandimento che metta a fuoco dettagli apparentemente insignificanti, il racconto indaga un episodio che nel capitolo 43 di Jonathan Strange è solo accennato in una nota. E in qualche modo tutti i racconti sono espansioni di note. Percorrono strade impervie e poco battute di un universo inventato di cui è possibile raccontare solo una versione alla volta.
Nella sperimentazione si alternano le voci narranti. Sono accademiche e circostanziali come quella del fittizio professor Sutherland che introduce la raccolta, esperto di sidhe, ovvero la materia che riguarda le fate e il mondo magico, o soggettive, come la prima persona del diario di Simonelli alla scoperta delle proprie origini attraverso l’incontro con un antagonista misterioso, dove sentiamo echi del Dracula di Stoker.
L’ispirazione ucronica trova protagonisti il Duca di Wellington o Maria Stuarda, finiti malgrado loro in un universo parallelo nel quale, per una strana combinazione, sono ambedue nelle mani del fato, di parche magiche che tessono fili, che ricamano scene di vita prima che si realizzino. Starà a loro tagliare il filo o provare a rimbastire la trama.
C’è molta struttura fiabesca, come nella reinterpretazione di Tremotino, ma anche nelle ripetizioni, nelle triadi di prove e incantesimi, e un gusto della poesia in certe descrizioni, che si percepisce fortemente nella lettura ad alta voce.
C’è soprattutto la sensazione di una cavalcata a briglia sciolta, il gusto dello sconfinamento dei generi e delle costrizioni, di attingere a piene mani all’ispirazione letteraria più amata.
Sono racconti che potrebbero essere letti in un cenacolo, come le raccolte di fabliaux medievali, o meditati in solitudine nelle sere di autunno. La ribellione al destino, come la sua accettazione, la discesa incerta verso la propria identità, la beffa al sopruso come l’ossessione amorosa che confonde realtà e follia (La signora Mabb, il mio preferito) sono i temi che il fantastico permette di esplorare fino in fondo.
E inerpicandosi sulle vie meno battute della materia creativa del romanzo, i racconti riportano specifiche scoperte, fino a quella più essenziale, ovvero che la magia, al di là delle speculazioni accademiche, è qualcosa che ha che fare con il dialogo ininterrotto con la terra e con i suoi elementi, con la capacità di riconoscere in ogni essere, roccia, animale o albero che sia, una scintilla della stessa sostanza che ci ha formato.

 Allora la magia sarà per noi ciò che il volo è per gli uccelli, perché proverrà dal cuore, oscuro e pieno di sogni, proprio come proviene dal cuore il volo degli uccelli. E nel praticare questa magia, felici come lo è l’uccello quando si lancia nel vuoto, sapremo che la magia fa parte di ciò che l’uomo è, esattamente come il volo fa parte di ciò che è l’uccello.

Contemporaneo Occidentale, a cura di Andrea Gentile

Autore: AA. VV
Titolo: Contemporaneo occidentale
Editore: Il Saggiatore
Curatela: Andrea Gentile
pp. 328 Euro 22,00

di Matteo Moca

Nella lezione inaugurale che tenne nel 2006 allo IUAV di Venezia, Giorgio Agamben per introdurre il suo discorso si chiede: «Di chi e di che cosa siamo contemporanei? E, innanzitutto, che cosa significa essere contemporanei?». Agamben riflette sulla relazione necessaria con il tempo («La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo»), sottolineando come coincidere troppo con l'epoca che si vive porti con sé il rischio di non vederla davvero e quindi di non essere contemporanei perché, proprio per questa vicinanza estrema, non si riuscirebbe a vederla, non potendo «tenere fisso lo sguardo su di essa». Anche attraverso questa chiave si può provare a comprendere il titolo e i racconti che fanno parte di Contemporaneo occidentale, raccolta di racconti pubblicata da Il Saggiatore con la cura di Andrea Gentile: questo libro infatti sventa sin da subito il rischio compilativo che si paventa davanti a insiemi di racconti di autori vari e di generazioni diverse, perché queste prose sono tenute insieme da un piano teorico ampio e ambizioso che si interroga, come sottolinea nella sua fondamentale Introduzione Gentile, su come contemporaneo e letteratura possano andare insieme: «Per “contemporaneo”, allora, si intende ciò che in quanto non attuale non è visibile, e tenta una letteratura come pratica meditativa. Un testo inteso come stato, capace di diventare più grande del pensiero, fuori dunque dall'antica polarità del bello/brutto, mi intrattiene/non mi intrattiene». In linea con il pensiero di Agamben, anche nel caso di questi racconti osservare solo l'estremo contemporaneo immergendocisi completamente porterebbe a smarrire una prospettiva fondamentale in grado di dare un saggio più ampio di cosa significhi “contemporaneo”. Qui emerge allora il valore assoluto che Gentile affida alla letteratura e la sovrastruttura che sorveglia questi racconti che hanno a che fare con gli interrogativi più profondi e urgenti dell'umanità: che cos'è la realtà? Come l'uomo ci si muove dentro? La confusione tra “realismo”, “verosimiglianza” e “realtà”, dove le prime due vengono erroneamente confuse con l'ultima, viene qui messa alla prova in maniera radicale attraverso lo strumento letterario, via di fuga dalla stretta rete che intriga e stringe l'io coccolato, tracciato e confuso dentro l'età contemporanea. Gentile sceglie in maniera intelligente, ma d'altronde replicando lo stesso valore del catalogo del Saggiatore, non di selezionare una serie di racconti afferenti, in maniera didascalica, a un unico tema, quanto piuttosto di scegliere racconti diversi (eterogenei per argomento e, in alcuni casi, per riuscita) in grado di soddisfare la poetica che sostiene questo libro: quali e quante sono le declinazioni del nostro tempo? Come può la letteratura, e in particolare la narrativa breve, scivolare e soggiornare nell'ignoto che segna l'esistenza umana? Qual è la funzione della paura e dell'orrore in un mondo che sembra sempre di più imprigionato nelle loro spire? Per rispondere a queste domande Gentile sceglie racconti scritti in un periodo che occupa più o meno l'ultimo decennio (con alcune eccezioni), opere di autori ormai centrali del canone occidentale contemporaneo (il premio Nobel Olga Tokarczuk, Jeff VanderMeer, Karl Ove Knausgard, Mircea Cărtărescu e William T. Vollman), esponenti di spicco della casa editrice (Thomas Ligotti, David Peace, la giovane Emma Glass, Geoff Dyer o László Darvasi), suoi numi tutelari come Botho Strauss, ma anche scrittori che forse non si immaginerebbero in questo contesto come Ali Smith. L'eterogeneità di questi autori, per cultura, opere e attenzione a diversi mezzi letterari, concede a questo libro uno statuto particolare, trasformandolo in una sorta di carotaggio avanguardistico sulle funzioni della letteratura nel suo primigenio compito di raccontare. Contemporaneo occidentale è diviso in tre parti che sembrano rappresentare le tappe di questo processo di purificazione alle acque della letteratura intesa come racconto ancestrale dell'essenza stessa dell'umano, dei misteri che ne affollano l'esistenza e delle paure che ne scolpiscono il pensiero. La prima di queste, Nel bardo, attraverso i racconti di Tokarczuk, uno dei più belli dell'intera raccolta, Ligotti, VandeerMeer, Peace e Glass, scandisce le forme e i momenti in cui il rapporto tra corpo (cioè la nostra necessità di vivere in contatto continuo con le cose) e anima (la possibilità di immaginare) comincia ad allentare le sue strette razionali. In La montagna di tutti i santi di Tokarczuk per esempio, nella storia di una scienziata malata che lavora a un progetto segreto in un istituto per minori in Svizzera ospite di un gruppo di suore, la ricerca (scientifica e sperimentale) sulla santità sembra la via di salvezza da un mondo in fiamme, in Metaphysica Morum di Ligotti, come al solito vertiginoso saliscendi linguistico e stilistico, il sogno si rivela come luogo di accoglienza ed epifania dentro un mondo troppo pieno di significati reconditi per essere vissuto davvero senza l'appoggio dell'immateriale, nell'ambientazione giapponese del racconto di David Peace (Dopo la caduta, prima della caduta) la costruzione a scatola della narrazione richiama le fiabe dell'antico Oriente con la morale che però si sgretola davanti all'insipienza umana. Oppure, infine, nel breve Consenso Emma Glass sembra riflettere sull'arrivo dell'ineluttabile e su come la morte possa rendere più vivida la vita.
La seconda parte si intitola invece Meditazioni ed è composta da testi che soddisfano ciò che il titolo suggerisce, una sorta di stasi prima del movimento di allontanamento dettato dall'immaginazione: si tratta infatti di una serie di testi dalla natura più saggistica, a opera di Knausgard, Dyer, Cărtărescu e Strauss che provano a interrogarsi su quale posto la lingua, la letteratura e la conoscenza delle opere letterarie possano rivestire, come in Sul valore della letteratura di Knausgard (dove però la struttura argomentativa risulta forse un po' troppo scoperta). Seguono poi una nostalgica rievocazione di una vacanza in Italia di Dyer (Omaggio a Michele Avantario), esercitazione pratica di come la scrittura possa dare forma meno instabile al ricordo, e il bel testo di Cărtărescu «There are more things…» ragionamento verticale su cosa possa significare conoscere il mondo e su come il pensiero provi a ingabbiare le sue manifestazioni. Chiude il volume la terza parte, Apparizioni, costruita da racconti che appunto ruotano attorno allo statuto di reale o irreale di ciò che ai personaggi sembra di vedere, al viaggio metafisico che può aiutare a immaginare nuovi, ma non per questo migliori, orizzonti. Ragnatela di Mariana Enriquez è uno dei pezzi più belli della raccolta: affogato nel clima umido del Sud America dove il calore invita la mente a perdere le usuali costruzioni del Super-Io, il racconto è incentrato su come le due protagoniste, entrambe omaggiate dal dono di una seconda vista sul reale in grado di farle vedere cose che altri non vedono, vivano in una situazione di sospensione del reale, che la scrittura avvolgente è perfettamente in grado di restituire, e di come non siano tollerabili interferenze secolari. Dopo la storia di violenza e di skinhead di Vollmann (I cavalieri bianchi), anche questa una tra le vette del libro, chiude la raccolta il breve testo di Mariella Mehr, scomparsa a settembre, Un dito tagliato: L'arrivo del capodoglio dopo la messa domenicale, astratto racconto d'infanzia che fissa, una volta per tutte, la prospettiva mobile di questa raccolta sospesa tutta sul dirupo che il reale, il ricordo e la scomparsa spalancano.
Se dunque, per riprendere ciò che scrive Agamben in Che cos'è il contemporaneo, contemporaneo è chi osserva profondamente il suo tempo interessato non solo a vederne le luci quanto, piuttosto, a percepirne e ghermirne il buio, allora questa raccolta di racconti è in grado di funzionare come sentiero, non semplice e lineare, di perlustrazione e, forse, conoscenza. «Tutti i tempi – aggiunge Agamben – sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente». Leggendo Contemporaneo occidentale l'immaginazione potrà avvicinarsi alle tenebre che avvolgono il nostro tentativo di rasserenare il tempo che viviamo invitandoci ad affondare dentro questo materiale multiforme che affida la sua ancora di salvezza alla letteratura. Nel suo testo, lo scrittore norvegese Knausgard scrive che la letteratura «è incompiuta come la vita, priva di senso come la vita, molteplice come la vita, priva di direzioni come la vita e ogni tanto, proprio come la vita, riesce a condensarsi in enormi grappoli carichi di significato e di vicinanza al mondo»: affidarsi allora al suo mistero e alle sue possibilità di gettare uno sguardo obliquo e onesto sul reale attraverso l'antichissima forma del racconto di storie rappresenta una delle poche possibilità, reali, di conoscenza.

L'altra te, di Joyce Carol Oates

Autore: Joyce Carol Oates
Titolo: L’altra te
Editore: La Nave di Teseo
Traduzione: Alberto Pezzotta
pp. 320 Euro 20,00

di Fabrizia Gagliardi

Quante versioni di noi impersoniamo nel corso di una giornata o in un passato che non è più?
Quando uno prevale sui centomila che siamo stati alziamo le mani e ci appelliamo al cambiamento, una patina temporale paradossale perché realizziamo di averla vissuta solo quando si è conclusa e coniughiamo tutto al passato: le strade sono state imboccate, le scelte sono state fatte.
Funziona benissimo come una sorta di giustificazione che non ci salva però dal ricordo, dal ripercorrere chi avremmo potuto essere, cosa avremmo potuto fare se avessimo scelto di essere altro.
Sembra banale sviscerare un tema che la letteratura corteggia da sempre grazie al meccanismo, insito nel racconto stesso, della possibilità di avere a disposizione solo una vita, e allo stesso tempo di poterne vivere tante altre grazie alla parola che crea una corrispondenza empatica con personaggi e vicende impensabili.
Maschere e ipocrisie, violenze e apparenze borghesi, l’ampio respiro della Storia che investe tutti, dal ricco al più umile, sono state ampiamente documentate da Joyce Carol Oates, una delle più abili e prolifiche sperimentatrici narrative contemporanee. Senza lasciarci ingannare dalla mole di romanzi, racconti, saggi, poesie e opere teatrali prodotte dal 1963 a oggi (più di cento), ci seduce la versatilità di stile declinata in strutture narrative che vanno dal thriller psicologico all’epopea famigliare, dall’horror alla detective story. Si tratta di generi che l’autrice è in grado di condensare anche nello spazio di una raccolta di racconti e che ora l’editoria italiana sta recuperando, come una delle ultime novità in libreria: L’altra te, pubblicato da La Nave di Teseo, con la traduzione di Alberto Pezzotta.

Per orgoglio, ma anche per soddisfazione della vita che hai, non pensi mai a quella vita che si è svolta lontano da Yewville. La ragazza che ha impugnato la penna e ha affrontato l’esame con sicurezza e intelligenza. La ragazza che è riuscita a conservare la calma. I cui genitori non hanno litigato tenendola sveglia la notte prima del giorno più importante della sua vita. La ragazza senza tosse e mal di gola.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta è un desiderio in potenza che oscilla tra il presente della realtà vissuta e quello della possibilità mai avvenuta. La sensazione è di vivere due piani temporali che procedono paralleli nel corso di un momento fugace, la vita segreta e incredibilmente creativa della mente destinata a svanire come al risveglio di un sogno.
Aspettiamo Kizer è ambientato in un locale che ricorrerà spesso nella raccolta, diventando quasi un luogo occulto a causa della quantità di personaggi che si troveranno a subire la sopraffazione da parte delle loro versioni alternative. I toni da commedia nera si uniscono al gioco crescente di equivoci. In un assolo di rimandi alla personificazione del proprio doppio i protagonisti esploreranno la possibilità concreta che la vita alternativa immaginata possa materializzarsi assumendo aspetti non più così seducenti.
Lo studio della Oates è minuzioso e non si ferma a condurre il lettore sul filo dolceamaro del rimpianto. Passerà in rassegna anche i meandri di quanto il racconto della propria vita, il ripercorrere romanticamente momenti del passato, serva a proteggere una realtà molto diversa che forse dovrà rimanere sconosciuta. Si tratta della duplice esistenza prodotta da chi vive delle proprie memorie, come scoprirà l’anziano professore protagonista de La “Guida Blu”. Il viaggio in Toscana per rivivere i luoghi e la gloria della gioventù virerà sempre più in un testardo tentativo di autosuggestione. Il racconto lungo, nel pieno stile di un’autrice che spesso ama perdersi tra le maglie della storia, quasi come smarrita e senza via, centellinerà anche i dettagli più insignificanti portando la narrazione all’estremo, verso il conto alla rovescia di un’irrazionalità mossa da un’ossessione sempre più evidente.
Nonostante il filo comune delle possibilità mancate di un’identità metamorfica e di una vita alternativa, L’altra te è una raccolta dall’andamento sinusoidale per generi e scelte linguistiche, molto diversi, per esempio, dalla regolarità di Un’educazione sentimentale .
Ne La crepa un’incidente infantile diventerà un racconto dell’orrore provocando conseguenze imprevedibili per il futuro. Malattie misteriose, un passato di disastri ambientali fatto di frane, inondazioni e incendi, definiscono il mondo al limite della distopia di Peccatori nelle mani di un Dio adirato. Si tratta di uno dei racconti dalla sperimentazione più strana e riuscita perché riesce a unire inquietudini del presente in un futuro dove rammentare l’esistenza “di prima” si somma a una quotidianità sinistra, fatta di gioie fugaci, mascherine da indossare e morti inaspettate.

Senza che ci fosse il bisogno di parlare. Di comune accordo, senza parole, discorsi, senza che quasi ci fosse il bisogno di toccarsi, istintivamente cominciarono a evitare il giorno, ossia la luce – la luce del giorno. Era il conforto, il lenimento, l’oblio della notte a scorrere nelle loro arterie indurite e ad accelerare il battito dei loro cuori rinsecchiti come prugne.
Come in un tropismo rovesciato, ciascuno cominciò a ritrarsi dai bagliori diurni. L’uno all’insaputa dell’altra, cominciarono a bramare la notte con un appetito quasi sensuale.

Una citazione da Angoscia notturna chiarisce come nella seconda parte della raccolta si avverte un cambio di passo registrato dal mutamento stilistico e dalla costruzione di atmosfere che si servono di sprazzi di lirismo.
Tutte le premesse immaginifiche e alternative dei racconti precedenti qui assumono i contorni concreti di mancanze, cambiamenti inaspettati che hanno provocato un inevitabile scivolamento nella versione più oscura delle sliding doors. Ci sono momenti di luce, per quanto fuggevoli, che non potrebbero esistere senza l’imperversare di una tempesta. Non è la completezza a interessarci, è piuttosto la fallibilità di un investimento emotivo, la manchevolezza di un legame, il vuoto incolmabile dei ricordi. Crediamo al caso e vi affidiamo, a giorni alterni, più meriti del dovuto cercando di tamponare un’azione mancata. In fondo sappiamo che solo il dubbio di possibilità perse e di vite alternative deluse permette all’umano di esperire per cambiare e non solo per essere.

Nel paese delle donne selvagge, di Matsuda Aoko

Autore: Matsuda Aoko
Titolo: Sacrifici umani
Editore: Fazi
Traduzione: Gianluca Coci
pp. 240 Euro 17,00

Di Debora Lambruschini

 

Negli ultimi anni ho avuto il piacere di dialogare in diverse occasioni con Antonietta Pastore, scrittrice e traduttrice dal giapponese, profonda conoscitrice della cultura nipponica e persona gentilissima e generosa, da cui ho sempre imparato molto. Di recente ci siamo confrontate sull’ultima antologia da lei curata (Racconti del Giappone, Einaudi, qui l’intervista completa) e, fra le molte riflessioni interessanti, una mi è tornata in mente proprio durante la lettura dei racconti di Matsuda Aoko, Nel paese delle donne selvagge, in libreria per E/O: sottolineava Pastore come la cultura giapponese sia particolarmente fraintesa, specie nei suoi due elementi più simbolici – la geisha e il samurai – e di quanto la letteratura offra una chiave di interpretazione fondamentale:

Noto due modi di fraintendere la cultura giapponese. Uno consiste nel vederne solo i due aspetti stereotipati e contrastanti – da una parte il mito del samurai (coraggio, violenza), dall’altra quello della geisha e dei fiori di ciliegio (grazia, delicatezza) – che i media continuano tutt’oggi a rafforzare. Un altro fraintendimento è l’idea che i giapponesi siano persone fredde e anaffettive, un’impressione generata dal loro comportamento spesso rigido, da una facciata di impeccabile cortesia aldilà della quale è difficile intuire cosa si nasconda. Quando però si riesce a oltrepassare questa barriera, si capisce che in realtà i giapponesi sono molto sentimentali e partecipi della sofferenza altrui, e inoltre che sono persone capaci di grandi passioni – passioni che spesso sono costretti a soffocare per rispettare le convenzioni sociali. La letteratura aiuta a comprendere questi sentimenti profondi che spesso restano celati nel loro animo. Per fare un esempio, la scoperta dei grandi autori giapponesi – Natsume Sōseki, Taniguchi, Kawabata... – mi ha permesso di aprire una porta che senza la lettura sarebbe probabilmente rimasta chiusa. Dove avrebbero potuto trovare, mi sono chiesta, questi autori, tutte le emozioni e le passioni che mettevano in scena nelle loro opere, se non le avessero provate personalmente, se non le avessero constatate e riconosciute in altre persone?

Ho ripensato molto a quest’idea, a come la letteratura possa scardinare stereotipi e fraintendimenti, alla fascinazione verso una cultura di cui ne sfioriamo appena la superficie e i misteri che non potremo del tutto svelare; alla sovrapposizione nel nostro immaginario di una realtà fissata in un non meglio specificato passato, ma che si discosta dal mondo contemporaneo, dalle sue complessità e contraddizioni; alle contaminazioni, all’equilibrio fra tradizione e contemporaneità. E, come sottolineava Pastore, ho cercato una chiave di accesso affidandomi alla letteratura, alle sue voci contemporanee, nel tentativo di scalfire quella conoscenza di superficie, penetrarne il mistero. Matsuda Aoko è tra le autrici odierne più interessanti e apprezzate anche fuori dai confini nazionali, scrittrice e traduttrice i cui racconti hanno vinto o sono stati segnalati per prestigiosi premi, in Giappone e nel mondo anglosassone, e nel 2020 la raccolta Nel paese delle donne selvagge è stata inserita da Time nella lista dei dieci migliori libri di fiction dell’anno. Di recente è approdata nelle librerie italiane grazie alle edizioni E/O, nella puntuale traduzione dal giapponese a cura di Gianluca Coci, ad aggiungere un tassello molto importante nella delineazione del canone nipponico contemporaneo. A Coci senza dubbio il merito di aver maneggiato tanto abilmente un testo coeso, denso di rimandi interni e differenti registri e disseminando opportunamente qui e là alcuni termini ed espressioni lasciati in lingua originale – con rimando al sintetico glossario in appendice – che non appesantiscono affatto la narrazione ma, anzi, ne esaltano le atmosfere, allo stesso modo con cui non indugia troppo di frequente nelle note a piè di pagina. Di fronte a testi di questo genere credo dobbiamo accettare il mistero, quella parte della narrazione che non ci sarà mai pienamente svelata a meno di trasformarla in un’opera didascalica e rovinarne quindi la fruizione.
Matsuda Aoko compone quindi una raccolta molto compatta, in cui si rincorrono diversi intrecci narrativi, tesa fra tradizione e contemporaneità: elementi del folklore e della tradizione popolare giapponese sono lo spunto da cui l’autrice rielabora storie calate nel mondo attuale, in perfetto equilibrio, e che si aprono a ulteriori spunti e chiavi di lettura dati dalle complessità del contemporaneo. Alla realtà tangibile e ben nota, si intreccia il sovrannaturale, spesso nella forma degli yōkai, creature che assumono diverse sembianze, fantasmi, “mostri”, il cui ruolo è quantomai centrale negli sviluppi narrativi, nella definizione dei personaggi. Non esiste un confine netto tra realtà e sovrannaturale, un mondo si riversa nell’altro e a uno sguardo attento i vivi sono spesso consapevoli della presenza di questi “fantasmi”. Un confine labile o pressoché inesistente, al punto tale che all’interno della misteriosa fabbrica di incensi intorno a cui tutto ruota, esseri viventi e fantasmi lavorano fianco a fianco, i primi non sempre consapevoli della presenza degli altri ma consci del mistero che aleggia intorno a loro.
In narrazioni dal registro mutevole, in cui ironia e dramma si alternano spesso all’interno di uno stesso racconto, Matsuda Aoko tratteggia un mondo in cui quasi mai le cose sono quello che appaiono, il punto di vista e l’uso privilegiato della prima persona capace di ammaliare il lettore e condurlo alla sorpresa dello svelamento, inseguendo un racconto via l’altro. Storie autonome e autoconclusive, che nell’insieme rivelano tuttavia un quadro più complesso, la stratificazione di spunti e riflessioni con cui confrontarsi dentro e fuori la pagina.

Per mezzo dell’ironia, Matsuda Aoko compone una personale critica alla società patriarcale e a certe derive del capitalismo, tratteggiando problematiche come gli stereotipi di genere, le discriminazioni sul piano professionale, il ruolo delle donne nella società, che riecheggiano dal contemporaneo ad ambientazioni storiche: ne emerge un profondo desiderio di autodeterminazione dei personaggi femminili che ben si sposa con narrazioni concentrate sul cambiamento o, per meglio dire, sulla sua presa di consapevolezza, di cui forse non vedremo gli effetti compiuti ma ne intuiamo chiaramente la direzione e il potenziale. Le donne di questi racconti, dalla proprietaria di un piccolo negozio di complementi d’arredo, la giovane calligrafa, la moglie preda di una furiosa gelosia, al fantasma di una dama dell’epoca Edo o della custode di un castello, si confrontano con i limiti imposti dalla società patriarcale e una lunghissima tradizione di privilegi maschili. Che siano canoni estetici – come nel racconto d’apertura, “Farsi belle”, in cui la protagonista ossessionata dal desiderio di un corpo glabro si risveglia una mattina ricoperta di un pelo nero foltissimo e abbraccia la sua parte selvaggia, la nuova identità – , modelli di comportamento – il tanto stereotipato ruolo della moglie e madre silenziosa, assertiva, attenta – o scarti di opportunità professionali tra uomini e donne, è chiaro in quale direzione punti lo sguardo di Matsuda Aoko:

 

In teoria il testo [la legge sulle pari opportunità sul lavoro] affermava che bisognava garantire lo stesso trattamento e uguali possibilità a uomini e donne in ambito lavorativo, senza distinzioni di sorta. Ma all’atto pratico si trattava solo di un mucchio di vuote promesse. Di tanto in tanto alcune colleghe di Kuzuha osavano lamentarsi della situazione, ma sottovoce e soprattutto nel silenzio degli spogliatoi o di luoghi simili, quando erano sicure di non essere ascoltate dai colleghi maschi e dai superiori.
(“Vita di Kuzuha”, p. 114)

La critica sociale si realizza nell’ironia e in una sorta di pacata consapevolezza:

 

Scommetto che sei sorpreso, non è vero?, avrebbe voluto dirgli Kuzuha. Avevi immaginato qualcosa di molto diverso, ti avevano raccontato tutt’altro eh? Ma purtroppo oggi è così che va il mondo, e pensa che noi donne quel dannato soffitto [di cristallo] ce l’abbiamo sopra la testa da sempre e lo vediamo fin da quando siamo bambine, in ogni momento della nostra esistenza. Però in qualche modo abbiamo imparato a conviverci, e dovrai fare lo stesso anche tu.
(“Vita di Kuzuha”, p. 122)

 

Consapevolezza che non significa sottomessa accettazione ma, in molti casi, apre alla solidarietà, a un sottile ottimismo di fondo, all’aiuto più o meno esplicito tra donne, che siano esseri viventi o yōkai. Sono, per esempio, creature che instancabilmente difendono le donne in difficoltà, “fantasmi dei bimbi” che silenziosamente accorrono in soccorso di madri single preda del pregiudizio e della solitudine, ma anche, in direzione inversa, donne che intrecciano legami di intima amicizia e protezione con fantasmi vittime di morti violente, spesso per mano degli uomini o in qualche modo a essi collegate, o che chiariscono lo scopo della loro nuova esistenza da non vivi.

 

Continuava a fissare il nulla, come se vagasse disperata nei meandri della sua memoria nel tentativo di individuare il momento preciso in cui aveva intrapreso la strada sbagliata e il punto da cui, se mai fosse stato possibile, avrebbe voluto ricominciare.
(“Farsi belle”, p. 19)

 

E il cambiamento è il punto focale di queste storie, che sia la scoperta di sé stesse e dei propri desideri, l’autodeterminazione finalmente libere da stereotipi e ruoli prestabiliti, poco conta se ciò avvenga in vita oppure dopo:

 

Era come se tutte le ansie e le paure che mi avevano tormentata fossero scivolate via dal mio corpo in un solo attimo. La gente crede che i fantasmi siano sempre pieni di astio e risentimento, ma si tratta di un luogo comune. A dire il vero ero molto più rancorosa e arrabbiata quando ero viva che non adesso.
(“Ora sì che è uno spasso!”, p. 179)

 

Matsuda Aoko con questi racconti aggiunge un tassello importante nella costruzione di un rinnovato immaginario culturale e, come sosteneva appunto Pastore, attraverso la letteratura spalancare porte su un mondo complesso, ricco di fascino, stratificato, liberandoci da stereotipi e fraintendimenti.