I racconti di Thomas Ligotti vanno letti di notte

Infine una voce da tempo trattenuta esclama: Che cos’è questa vita? Ma a rispondere è soltanto il silenzio, che irride ogni folle speranza tu abbia mai serbato.
Thomas Ligotti, La cospirazione contro la razza umana (il Saggiatore, 2016)


di Andrea Cafarella
 

La lucidità dello Scrittore – la consapevolezza dell’Autore

Quando s’incontra per la prima volta la Voce di un Autore la si riconosce subito, come un richiamo familiare tra i rumori del bosco, ma leggermente distorto; ricorda il suono di una voce umana, ma è diverso. Sembra ci sia una stonatura nell’esecuzione, e proprio da lì si sprigiona quella conturbante sensazione di bramosa curiosità che, se seguita, porta all’ossessione del linguaggio. Il che farebbe sembrare la Letteratura come una magia, le cui formule si basano sull’errore. No, si tratta di un controllo, una consapevolezza tale dello «sbaglio» da generare uno scivolamento cosciente nei territori oscuri dell’ignoto, stando in piedi, fermi di fronte al baratro.
Pochissimi sono quegli Autori la cui autocoscienza letteraria sconvolge il lettore a tal punto da lasciarsi trascinare a un livello di lettura del linguaggio superiore, che sonda l’irreale. Una percentuale limitatissima poi, sono coloro che riescono anche, con quella stessa limpidezza con cui si inoltrano nei più bui meandri della lingua, a spiegarne le ragioni stendendole sul foglio con precisione cartografica. Succede per esempio leggendo Bestiario[1] di Julio Cortázar, e mi riferisco sia ai racconti in esso contenuti ma soprattutto all’appendice che li segue: due saggi sull’arte del racconto che illuminano il segreto della Letteratura con una saggezza pratica che effettivamente sta nel mezzo tra scienza e magia: è Arte. Che è un po’, forse, ciò che fa la differenza tra scrittore e autore: essere un artista. Ecco, se non fosse già palese dove voglio andare a parare o se non fosse già stato detto altrove: Thomas Ligotti è un artista.

Nottuario (1994), da poco in libreria per il Saggiatore, nella splendida traduzione di Luca Fusari – che bisognerebbe ringraziassimo, ognuno, personalmente – è il terzo libro di racconti di Thomas Ligotti, dopo I canti di un sognatore morto[1] e Lo Scriba Macabro[2] che riunirà tutti nella raccolta The Nightmare Factory nel 1996, vincendo il suo primo – di tre – premio Bram Stoker. E inizia così:

Che cos’è il mistero non ce lo insegna nessuno. Lo impariamo nelle fasi iniziali della vita. Il primo incubo, la prima febbre alta, ci iniziano a una società universale e al contempo segretissima. L’iscrizione a questa società si rinnova poi nel corso della vita grazie a una serie di incontri con il soprannaturale che possono assumere molteplici forme e avere facce diverse. Alcune di queste forme e facce sono private, personali, altre le riconosciamo praticamente tutti, volenti o nolenti. Ma sono sempre lì, che attendono di essere rievocate in quei momenti speciali e unici.
(Di notte, al buio. Appunti critici sulla narrativa del mistero)

Per chi ha già letto Teatro Grottesco[3] o La cospirazione contro la razza umana[4]come i racconti delle già citate raccolte, risulta abbastanza naturale leggere e ascoltare questa dichiarazione d’intenti – o di poetica, se vogliamo – così lucida e razionale. Trovo però sconcertante pensare che Ligotti fosse già così conscio della sua opera, senza ancora averla esperita del tutto, come lo stesso Cortázar ai tempi del Bestiario, di cui sopra. Parlo di quella capacità divinatoria che è essenza stessa dell’artista, che rende la fontaine di Duchamp quello squarcio nell’inconoscibile che tutti abbiamo vissuto e viviamo al contatto con una certa opera. La catarsi, il sapersi proiettare al di là delle cose, del linguaggio stesso, della vita.
La scrittura dell’artista, la Letteratura, è quindi anche tecnica che spezza la tecnica, ma in una visione totale e complessiva. Quello che lo stesso Cortázar definisce Stile, in questo modo:

Stile: I) La definizione del dizionario è quella giusta: «Modo caratteristico che ognuno ha di scrivere o di parlare, ossia di esprimere le proprie idee o i propri sentimenti». Siccome si è soliti circoscrivere la nozione di stile alla scrittura e lì si parla di «stile caratterizzato da frasi lunghe», ecc., segnalo che qui per stile si intende il prodotto totale dell’economia di un’opera, delle sue qualità espressive e idiomatiche. In ogni grande stile, il linguaggio smette di essere un veicolo per l’«espressione di idee e sentimenti» e accede a quello stadio limite in cui non ha più valore come mero linguaggio perché è in tutto e per tutto presenza di quanto esprime.[1]

Ecco, la prima cosa che colpisce di Ligotti è la forza della parola potenziata da una composizione ampia, che si espande in tutte le direzioni, soprattutto in profondità. E ciò che fa risplendere questa esplosione è la miracolosa capacità di Ligotti di nuotare in questo mare color petrolio. I suoi occhi, al buio, come quelli dello Stregatto, appaiono e scompaiono illuminando gli angoli per qualche istante, quell’istante. Divampano e si spengono mostrando un lembo di carne, il braccio di un abominio, la vertigine degli incubi.

Un altro Autore dalla sconvolgente consapevolezza stilistica, che sicuramente avrebbe letto Ligotti con grande divertimento, è il nostro caro Giorgio Manganelli. E mi riferisco sì a opere come Dall’inferno ma soprattutto a tutta la letteratura manganelliana che definiremmo saggistica, critica. E così brani come «Elogio dello scrivere oscuro» o «Qualche licenza poetica contro la chiarezza»[1] mi sembra siano esplicativi di tutta una letteratura del mistero e dell’impossibile in cui Thomas Ligotti splende come ossidiana.

Il mistero dell’impossibile

Uno scrittore può essere oscuro perché è affascinato, è chiamato da una sorta di complessità che solo attraverso l’oscurità è conseguibile. Quando Eliot scrisse The Waste Land (La terra desolata) parve un provocatore; ma oggi Eliot è un classico e la sua idea dell’oscurità ha insegnato per quali tenebrori sia possibile conseguire il fulmineo abbagliamento – non la chiarezza – della complessità. Penso alla Sibilla di Dante, alle sue «foglie lievi». Esistono strumenti per spiegare l’enigma?
(Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa, Adelphi,1994)

L’opera di Ligotti è immersa nel mistero, le ombre coprono tutto, si muovono come un essere unico e onnicomprensivo. La parola stessa è un velo di oscurità steso sull’esistenza, che disvela senza rivelare perché l’enigma che essa ricopre è un segreto che non è possibile conoscere, che esiste in quanto possibilità, che solo il lettore può colmare chiudendo gli occhi e immaginando attraverso la Voce dell’Autore. Il mistero s’illumina durante quel fulmineo abbagliamento della complessità di cui parla Mangenelli. Nulla è davvero spiegato, ma mostrato con la potenza espressiva che solo attraverso l’oscurità è conseguibile. Siamo tenuti, all’interno delle storie di Ligotti, ad aprire gli occhi e le orecchie, a convocare tutti i nostri sensi per decifrare le ombre che si muovono e si mischiano; a sbirciare sotto il letto in cerca di un’epifania che rende ogni cosa possibile.

Nottuario  è diviso in tre sezioni (Studi sull’ombra, Discorso sull’oscurità e Taccuino notturno). Ma potremmo dire: due più un’appendice, un compendio finale di parabole, scene e frammenti. Entrambe le due sezioni principali iniziano con un racconto («La Medusa» e «Lo Tsalal») che si basa su testi inventati che ne fanno da centro narrativo. In entrambi i casi il concetto dietro cui ruotano questi leggendari volumi arcani (o concetti, nel caso della Medusa) è l’idea stessa della letteratura di Ligotti: il superamento della realtà per un vedere il mondo nella sua forma più vera. Quindi: la possibilità che tutto sia possibile.

Non vi è niente, nella natura delle cose» diceva la citazione «che impedisca a un uomo di vedere un drago o un grifone, una gorgone o un unicorno. Nessuno, a conti fatti, ha mai visto una donna i cui capelli sono fatti si serpenti, né un cavallo dalla cui fronte spunta un corno; è pur vero che i primissimi uomini, probabilmente, videro i draghi – quelli che la scienza chiama pterodattili ­– e mostri ancora più improbabili dei grifoni. Comunque sia, nessuna di queste fantasie zoologiche viola le leggi fondamentali dell’intelletto; i mostri dell’araldica e della mitologia non esistono, ma non c’è motivo, nella natura delle leggi della mente, che impedisca loro di esistere.
da «La Medusa»

Il terrore della bibliofilia

Il gusto di Thomas Ligotti per il falso bibliografico non può non ricordare immediatamente il genio di Borges, maestro in quest’arte: nella capacità di creare una – finta? – bibliografia, per “certificare” e per montare le storie di altri bibliofili e studiosi e filosofi e in generale scrittori (nel senso di scriventi) che vivono attraverso e attorno a quei libri inesistenti, ma che potrebbero esistere. Ligotti, aprendo le due sezioni principali del libro con questi due racconti, utilizza esattamente la stessa tecnica, la stessa appassionata visione dei libri come storie, o delle storie dei libri come storie, come fossero personaggi che racchiudono storie e viceversa; storie-personaggi: i libri che agiscono come personaggi e contengono altri personaggi e le loro storie, quelle dei libri, come storie di personaggi-libri in carne ed ossa. Il brano che cito poco sopra ne è un esempio perfetto. In quel caso il protagonista parla attraverso estratti (come quello riportato) dei propri libri – Riflessioni sulla Medusa e Nuove riflessioni – e, in modo anche abbastanza palese e dichiarato, Ligotti parla attraverso il protagonista e gli stralci dei suoi libri.

Tuttavia, nel libro dichiari che “la trasformazione è l’unica verità”: l’unica verità dello Tsalal, quello che non conosce legge né ragione. “Non esiste natura delle cose” scrivesti nel libro. “Non vi sono facce tranne le maschere strette sul caos che si addensa dietro di loro.“ Scrivesti che nella vita di questo mondo non vi è vera crescita o evoluzione ma soltanto trasformazioni dell’apparenza, un incessante liquefarsi e formarsi di superfici prive di ogni essenza sottostante. Soprattutto asseristi che non vi è salvezza per alcun essere perché nessun essere esiste in quanto tale, nulla esiste per essere salvato: tutto, tutti esistono soltanto per farsi trascinare nel lento e interminabile turbinio delle mutazioni che sapremmo vedere in ogni secondo della nostra vita se semplicemente lo osservassimo con gli occhi dello Tsalal.
da «Lo Tsalal»

Quella dei libri è un’ossessione, anzi, è l’ossessione. L’ossessione della morte e dell’eternità attraverso i libri. I libri che non esistono. Il libro che non esiste. Come il Necronomicon di Lovecraft. E lo asserisce lo stesso Thomas Ligotti quando, in un’intervista pubblicata qualche giorno fa sull’Indice dei libri (che potete leggere qui) risponde a Orazio Labbate, quando gli viene chiesto se crede che sia mai stato scritto un libro leggendario come lo Tsalal: «Come il Necronomicon di H.P. Lovecraft, non credo che sia mai stato scritto un reale Tsalal. Tuttavia, se la Bibbia o il Corano, o qualsiasi altra scrittura a cui la gente crede, non fossero stati scritti, li avrei comunque trovati impossibili da scrivere». «Ma non c’è motivo, nella natura delle leggi della mente, che impedisca loro di esistere» risponderebbe Lucian Degler – il protagonista di «La Medusa». Ed è qui il paradosso sistematico e maniacale di Ligotti. La consapevolezza di ciò che è reale e tangibile e il fascino presente seppure immateriale dell’intangibile. In fondo quella di Ligotti è una fede, che ha come tramite il linguaggio e il richiamo della paura. E la messa si celebra in cimiteri abbandonati da secoli, dove i segreti si nascondono dietro strati d’incomprensibile complessità.

L’accumulo di riferimenti che s’incastrano l’un l’altro regala al lettore diversi sentieri di comprensione che portano ai luoghi più remoti e a doni inaspettati. Ed è Ligotti stesso che ci da gli strumenti per arrivarci: «Fu da uno dei più illuminati di questa setta di narratori gotici che trassi il nome di quello [Lo Tsalal]. Ricordi, Andrew, le avventure di un certo Arthur Pym in una terra fantastica dove tutto, persone e orizzonti, è di una perfetta oscurità: il paese antartico di Tsalal». Non ha bisogno Ligotti di nascondere i propri riferimenti. Qui si riferisce a Jules Verne e al suo An antartic mistery che riprende la famosa Storia di Arthur Gordon Pym di Edgar Allan Poe. Quando uno scrittore riesce, in qualche riga, a rievocare due, o tre mondi che s’incastrano perfettamente l’uno dentro l’altro, come in questo caso, la complessità che se ne sprigiona è già un’illuminazione, l’abbaglio fulmineo per cui, forse, ognuno di noi legge e continua a leggere, ossessivamente, come l’Andrew di questo racconto, come Ligotti, come tutti noi.

Il sogno e l’incubo. E il paranormale    

Per tutta l’infanzia, di notte, sperimentai sogni che diventavano brutalmente vividi e mi costringevano a svegliarmi urlando. Finito di strillare, sprofondavo nel letto vittima della debilitazione provocata dalle avventure incorporee imposte al mio io dormiente. Con il passare del tempo presi a preoccuparmi gravemente di questo regime notturno, con le sue visioni al contempo cristalline e confuse. Questa attività benché immateriale, prosciugava le mie riserve di forza e in pochi istanti mi privava dei benefici di una notte di sonno. Tuttavia, se non potevo godere del privilegio di un riposo naturale, qualcosa mi pareva di poter guadagnare: l’orribile opulenza del sogno, di un mondo ricco e rigonfio nutrito dall’esaurimento della carne. Il mondo, anzi, in quanto tale. Qualsiasi altro ambito sembrava un’assenza, a confronto; a dir tanto un solco nel fertile cimitero della vita.
da «L’angelo della signora Rinaldi»

La dimensione del sonno per Ligotti è essenziale, come rappresentazione, mi viene da dire, del nostro mondo. Della nostra esistenza in cui teniamo i sensi assopiti, senza riuscire a vedere il mondo, in quanto tale. Il prezzo da pagare per ottenere questa visione, più vera del tangibile, è l’ossessione. Come il protagonista de «L’angelo della signora Rinaldi» e come quasi tutti i personaggi di Ligotti. L’ossessione del sogno, dell’incubo, della creazione artistica, della scrittura, di tutto ciò che si butta a capofitto nell’ignoto per illuminarlo, per intuirlo. L’incoscienza che ci accompagna a quel momento di turbamento che porta alla coscienza ulteriore, all’intensità della vera vita, dell’abbaglio. Per questo il mondo di Ligotti è tutto un sogno e un incubo. «Tutto, là dentro, sembrava sghembo, distorto da qualche processo di decomposizione e piegato fino a perdere le sue proporzioni naturali. Era una stanza vista da una finestra deformante, dal colore strano»[1]. Vediamo lo spazio circostante attraverso la distorsione del reale, attraverso il nostro inconscio, che rende l’attorno un involucro deforme da squarciare per scoprirne la vera forma. Come una rappresentazione teatrale grottesca, in cui, sbirciare dietro le quinte è il fulcro della rappresentazione, oppure un diario notturno che sprigiona energia oscura e abbagliante, come Nottuario, soprattutto nei suoi frammenti finali: il «Taccuino notturno». Questa terza parte del libro è composta da brani molto brevi, in cui è contenuta un’immagine, una conversazione, una parabola, una semplice descrizione. C’è il sogno – «per il momento sono al sicuro nel mio sogno, questo sogno. Fuori dalla finestra una foschia densa si espande sul cimitero, e poche luci brillano nelle profondità nebbiose, come vecchi lampioni lungo una strada deserta. La notte comincia piano»[2] – da cui inizia tutto: la condizione d’incoscienza che presuppone una fede ancestrale nell’impossibile, nella distorsione della realtà che la porterà a spezzarsi per lasciarsi percepire nella sua vera forma, per entrare finalmente nell’incubo rivelatore.

Nessuno sa come si entra; nessuno ricorda per quale via si arriva a tali scene. Potrebbe esserci un fragile tunnel di oscurità, magari privo di pareti inarcate o pavimentazione solida; uno spazio limitato, essenziale e vago, lungo il quale si fluttua verso un capolinea ombroso. Poi all’improvviso, inaspettatamente, una luce avvampa e si espande, ovunque appaiono arredi, la scena si dipana ed è apparsa in un istante, mentre quell’ingresso d’ombra – quel vecchio tunnel sordo – è dimenticato. D’altro canto, forse non vi è porta d’ingresso al sogno, né primo atto della messinscena: una galleria di manichini prende vita di scatto e ciascuno riprende un discorso, senza un inizio a cui tornare.
da «La carriera degli incubi»

La potenza filosofica della parola

In questi frammenti si rivela, della scrittura di Ligotti, quella che chiamerò potenza filosofica della parola, vale a dire quella profondità che rende il linguaggio di Kafka, le sue storie, i suoi non-detti, i suoi incompleti, i suoi silenzi, una pratica filosofica che trascende la filosofia stessa strappandone i limiti e arrivandoci per pura intuizione artistica. L’estasi della scrittura e del linguaggio che porta alle estreme conseguenze nelle rivelazioni più alte. E, come per Kafka, ciò che la lingua di Ligotti ci rivela è un pessimismo visionario che annienta le credenze radicate nel nostro animo.

La cospirazione contro la razza umana – saggio filosofico e critico dove Thomas Ligotti esprime le proprie idee riguardo l’esistenza stessa – inizia con una limpida ed esaustiva prefazione di Ray Brasser, che dice: «La cospirazione contro la razza umana lancia quella che è forse la sfida più solida al ricatto intellettuale che ci obbliga a essere eternamente grati per un «dono» che non abbiamo richiesto. Essere vivi non va bene: questo semplice non riassume la temerarietà del pensiero meglio di qualsiasi luogo comune sulla tragica nobiltà di una vita caratterizzata da un’eccedenza di sofferenza, frustrazione e autoinganno». Il modus operandi di Ligotti, se vogliamo, la sua temeraria intuizione, da sondare perdendosi, mi ha immediatamente ricordato, oltre che Kafka, l’immediatezza della scrittura e dell’espressività di Emil M. Cioran. Quella alchimie du verbe che svela tutto attraverso se stesso, esattamente la potenza filosofica della parola di cui ho già detto. La prima cosa che mi ha fatto rievocare Cioran è la struttura del libro di Ligotti, che ricorda molto quella dei libri del filosofo rumeno. Le sezioni iniziali, principali, che s’interrogano estesamente sul tema, seguite da intuizioni, dove la lingua ha uno stile altissimo, brevi, la cui forza intuitiva e analitica è racchiusa nel linguaggio stesso. Dopodiché, riprendendo in mano Squartamento, ho ritrovato questo frammento che avevo sottolineato:
«Non è normale essere in vita, poiché il vivente in quanto tale esiste, è veramente reale, soltanto se è minacciato. La morte non sarebbe insomma che la cessazione di un’anomalia». Rivedere Ligotti in Cioran, con le dovute distinzioni e distanze, mi ha scosso e profondamente turbato, per quello stesso pudore di cui Brasser parla nella sua prefazione, che ha reso difficile, anche ai filosofi più importanti, affrontare l’idea che vivere non vada bene. É lo stesso Ligotti a confermare questa sua affinità – nell’intervista condotta dallo stesso Fusari, il suo traduttore (che potete leggere qui), in cui dice:

La Cospirazione contro la razza umana è un libro pessimista, anche se spesso persino chi non è d’accordo con le sue tesi ci vede qualcosa di comico. E ogni autore pessimista desidera scatenare reazioni violente nella testa del lettore. E.M. Cioran parlava di opere che sono “esplosioni” che investono l’universo intero. Ovviamente si trattava di un’ambizione metaforica, ma è anche la mia ambizione, come lo è quella di scrivere un libro di autoaiuto per i disperati allo stadio terminale e per chi è stufo di fingere che essere vivi vada bene.


Ciò che davvero, in tutta l’opera di Ligotti, crea lo straniamento necessario per la rivelazione, in Nottuario, è già nascosto nei suoi racconti e si rivela abbagliando. Si trova già annidato nell’oscurità del suo linguaggio ed è pronto a esplodere e investire l’universo intero. «Notai che vi sono forze superiori che operano contro di noi e al contempo attraverso noi. Da un lato, la nostra ambizione è da sempre quella di creare un mondo di perpetua vitalità, a dispetto della seccante consapevolezza che la morte è “necessaria”. Dall’altro, non abbiamo fatto che erigere un’elaborata facciata dietro cui celiamo i nostri traumi immortali, una copertura che nasconde i perenni travagli della razza umana. Ah, la razza umana»[1]. La morte è l’unica soluzione, l’incubo ne è solo una catarsi, l’arte una rappresentazione. «Felice di questa ritrovata mortalità, andò alla finestra e balzò oltre il davanzale. Ora per lui era finita. Un giorno sarebbe finita per tutti, il terribile sogno di perenni cambiamenti che ci trattiene in un luogo che non avrebbe mai dovuto essere, se il suo più grande proposito non ci porta che a sguazzare nel sudiciume dell’eternità».[2]

La poesia totalizzante

In Nuova Enciclopedia, alla voce Čechov, Alberto Savinio paragona lo scrittore russo a Maupassant «(e dico Maupassant per dare in esempio uno scrittore più volte citato dallo stesso Čechov,)» dicendo che i racconti del francese lo interessano e appassionano, ma non contengono quella “poesia” «che ci consente di vedere, di capire, di sentire le cose nella loro totalità e fino alla radice, ossia fino a quel punto in cui le cose e gli uomini più diversi ritrovano la loro essenza comune»[3] che invece vede, sente nei racconti di Čechov. A parte trovarmi assolutamente d’accordo, Savinio mi ha fatto subito pensare a Lovecraft come l’equivalente di Maupassant per il racconto del mistero. Cosa non del tutto vera, ma seguitemi. Ebbene, se Lovecraft corrisponde a Maupassant mi sembra dovuto lasciare il posto di Čechov,all’inestimabile Edgar Allan Poe, che ha fatto del genere horror o weird fiction un esempio di altissima letteratura al pari di Asimov per la fantascienza o di Chatwin per la letteratura di viaggio (e gli esempi sarebbero infiniti). Quindi, ho pensato a lungo come inserire Ligotti in questa analogia. Si tratta forse di un Carver dell’incubo? Di un Cheever della paura? Forse. Ma preferisco inserire forzatamente Kafka – sì, di nuovo – nella corrente più verista del racconto e prendere lui ad alter-ego dell’orrorifico Ligotti. Perché? Perché Ligotti ha la poesia dell’ossessione, della ripetizione alla Bernhard, alla Gombrowitz, dell’attenzione alle piccole cose, al dettaglio, ai corpicini impiccati di Cosmo, alla martellante «cena artistica» di A colpi d’ascia. Lo dice, anche questo, nell’intervista rilasciata a Fusari «Lo stile ripetitivo, maniacale di Bernhard è quello che più influenza i miei ultimi scritti. Questa è forse la spiegazione più semplice e sincera che riesco a dare del perché utilizzo la ripetizione, che sì, è una tecnica che uso. Più che appropriarmene in maniera conscia, è qualcosa che a un certo punto si è inserito nel mio stile». E allora come possiamo trovare un equivalente in qualsiasi genere? Ligotti non è vicino al gotico di McCarthy o di Chambers né alle rivelazioni della Munro o al carattere filosofico delle narrazioni più estreme e paraboliche di Kafka, eppure in qualche modo è vicino a tutti questi scrittori e a tutti coloro che si sono spinti oltre, che hanno vissuto la Letteratura come un modo definitivo di esistere e di scoprire e disvelare la realtà dietro la realtà. Tutti coloro per cui, per dirla alla Bolaño, «la Letteratura, come direbbe una cantante andalusa, è un pericolo».[1]

Sono i giri di frase, le strutture, la scelta dei vocaboli, che portano a questa poesia trascendentale. Come in brani di questo tipo: «In alto l’oscurità era densa e ininterrotta. Vi si innalzava una torre con una sola apertura che incorniciava una luce pallida, tremula. L’apertura era alta nel cielo, che la avvolgeva con la sua densa unità senza voce»[2] dove la parola dipinge e ritorna a sé stessa come un colpo di pennello che è già opera d’arte nell’istante stesso dell’esecuzione. La poesia di Ligotti si respira nei racconti brevissimi e perfetti, come quello che chiude la raccolta: «In dieci passi a Monte Magro» che, come tanti altri, ricorda moltissimo i brani, le parabole di Kafka; in dieci passi riassume tutto il pensiero di Ligotti: Monte Magro è lo Tsalal, la Medusa, è l’oscurità, è l’incubo e, per arrivarci, inevitabilmente bisogna morire.
Si deve cessare di vivere per vedere davvero.

La catarsi orfica della morte

I racconti di Thomas Ligotti vanno letti di notte. Anzi, sono loro a svegliarti di notte, a farti sentire un ticchettio alla mano, e a non capire più se hai realmente un tic al dito medio, se sei tu a immaginarlo o se Ligotti parla attraverso i tuoi occhi. La sua scrittura è pervasiva, coglie la trascendenza del disturbante, dell’oscuro e della paura; ti lascia addosso il brivido macabro dell’assoluto che si affaccia indecifrabile su un mondo distorto e maciullato, perché raccontato da chi ha già squarciato il velo, stavolta di pelle sanguinolenta, che nasconde la Verità.
(Io, sul mio taccuino, dopo aver letto Nottuario)

I racconti di Ligotti sono spesso simbolici, il mistero delle  apparizioni della Verità si nasconde nei simulacri di quello che è e soprattutto che potrebbe essere. Quando Ligotti dice oscurità intende profondità, quando dice stanza intende spazio interiore e se evoca mostri, spettri e fantasmi, siamo noi a doverci sforzare per vederli, perché vediamo i nostri, i nostri demoni ci appaiono intimamente veri nella loro, nostra, unicità. «Ora sono sue le mani cremisi che sollevano la lama d’oro, sua è la faccia dietro la maschera con sette occhi. Ed è lui che con vesti luminose affronta il massiccio idolo delle lune, e intanto trema di meraviglia»[1]. Siamo noi a dover affrontare l’idolo delle lune, a ergerci a sacerdoti di una nostra setta personale fondata per comprendere la Verità, per smascherare l’illusione e finalmente vedere dai sette occhi della nostra nuova maschera. Finalmente rievocare quei momenti speciali e unici. Come quel bellissimo, minuscolo “racconto” che evoca Ligotti nell’introduzione: Un uomo si sveglia al buio e cerca gli occhiali sul comodino. Qualcuno gli mette gli occhiali in mano. Questa è solo l’ossatura, lo scheletro di una storia e di tutte le storie, eppure contiene tutto il conturbante che rende possibile «reclamare questo senso di meraviglia di fronte all’irrealtà monumentale macabra della vita e risvegliarsi al misterioso: proprio come l’uomo che si sveglia nell’inferno perpetuo della sua breve storia, scuote la propria sensibilità intontita dal sonno e allunga la mano nel buio a cercare l’oggetto misterioso. Adesso anche senza occhiali, ci vede. E forse, anche soltanto per quel momento di terrore artificiale concessoci dalla narrativa del mistero, insieme a lui anche noi vediamo». Una catarsi orfica, che attraverso l’opera d’arte, ci fa sentire in pericolo, e quindi, vivi, quella stessa sensazione che descrive Cioran quando dice che «il vivente in quanto tale esiste, è veramente reale, soltanto se è minacciato.» L’esplosione di sofferenza, di paura, di precarietà, di straniamento, che proviamo quando leggiamo Ligotti, di notte, prima di andare a dormire, perché avremo bisogno di qualche tempo per ritornare a sentire la comodità dei nostri letti e la sicurezza delle nostre case, con la sensazione, sotto la pelle, che tutto questo non sia proprio così stabile e inscalfibile, con un ticchettio alla mano e qualche ombra che si arrampica sulle pareti e le palpebre che, scivolando sui nostri occhi, ci indicano la via per arrivare al bivio tra l’incubo e il sogno. 

Perché noi siamo gli spettri di una follia che ci sorpassa e si nasconde nel mistero. E sebbene cerchiamo un senso in infinite stanze, tutto quello che troveremo, forse, è una voce che sussurra da uno specchio in una casa che non appartiene a nessuno.[1]

 

[1] da «Il terreno spettrale»

[1] da «L’ordine dell’illusione»

[1] Roberto Bolaño, Tra parentesi, Adelphi, 2004

[2] da «La voce nelle ossa»

[1] da «Folle notte di redenzione. Storia futura»

[2] da «La voce nelle ossa»

[3] A. Savinio, Nuova Enciclopedia, Adelphi, 1977

[1] da «L’angelo della signora Rinaldi»

[2] da «Magari uno sogna»

[1] Il rumore sottile della prosa, Adelphi, 1994

[1] Il giro del giorno in ottanta mondi, Sur edizioni, 2017 [trad. Eleonora Mogavero]

[1] Songs of a Dead Dreamer, 1989 [trad. it. I canti di un sognatore morto, Elara libri, 2007]

[2] Grimscribe: His Lives and Works,1991[trad. it. Lo Scriba Macabro, Elara libri, 2015]

[3] Teatro Grottesco, 2006, ristampato nel 2008 [trad. it. Il Saggiatore, 2015]

[4] The Conspiracy against the Human Race, 2010 [trad. it. Il Saggiatore, 2016]

[1] Bestiario, Sudamericana, Buenos Aires 1951 [trad. it. Bestiario, Einaudi, Torino 1994]