Irène Nèmirovsky: conoscerla attraverso i racconti

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di Marina Bisogno

Quando Adelphi comincia a tradurre e a proporre in libreria le opere di Irène Némirovsky, scrittrice francofona di origine ebraica, il suo nome è semisconosciuto. Poi, al cinema arriva Suite francese, il film tratto dal romanzo incompiuto, e leggere la Némirovsky non è più un fenomeno di nicchia. La sua riscoperta come autrice di racconti si lega alla trasposizione cinematografica di un’opera ormai celeberrima. Proprio Adelphi si occupa della pubblicazione (traduzione di Simona Mambrini) de L’orchessa e altri racconti, una raccolta di nove racconti, apparsi per la prima volta tra gli anni Trenta e Quaranta su alcune riviste francesi, tra cui Gringoire. Irène non si firma, i testi appaiono sotto pseudonimo. È già nel mirino dei tedeschi: gli editori temono ripercussioni e lei nasconde identità ed urgenze espressive dietro il nome di un uomo. Al centro dei racconti ci sono madri arcigne, adolescenti sognanti, innamoramenti tra sospiri, attese, baci, tradimenti, solitudini. I temi cari ad Irène sono la famiglia (rapporto madre-figlia in primis), l’amore, la guerra, la privazione. È una scrittrice essenziale nello stile, eppure affamata di particolari. Una scrittrice che lascia poco spazio alla spiegazione e molto alla deduzione. A volte ironica, altre amara. Il tratto delicato della sua penna immortala scene cittadine o bucoliche e attraverso i luoghi cristallizza stati d’animo, umori, personalità. Va a fondo, lo fa fin dai tempi di David Golder, il romanzo che nel 1929 la incorona come promessa della narrativa. Arriva a Parigi che è una bambina, vive in un quartiere bene, dopo aver viaggiato a lungo. Cresce con una governante inglese, mentre un amore irrisolto per il padre troppo preso dagli affari, e la madre burbera e vanesia le implode dentro. Dopo, è una moglie e una madre. Sposa Michel Epstein, un ingegnere russo emigrato, da cui ha due figlie: Denise ed Élisabeth. A ventisette anni Irène scrive il suo racconto più famoso, Il ballo, pubblicato da Adelphi nel 2005, (traduzione di Margherita Belardetti). Il ballo racconta la delusione per un rapporto madre –famiglia senza comunicazione e senza affetto ed è ancora oggi un racconto di riferimento per poter comprendere l’immaginario di questa fine scrittrice. Siamo nel 1928: impazzano il charleston, i boa rosa, gli abiti lamé puntellati di pietre preziose. È il tempo di una Parigi  febbrile e caliginosa, dei caffè popolati da intellettuali e da artisti. Antoinette, la protagonista, è in rotta con la madre, che ha scalato la piramide sociale con un buon matrimonio. La donna non desidera altro che essere accettata dalle compagnie del marito. Il disagio la irrigidisce e la soffoca. Antoinette subisce le sfuriate di questa madre, incapace, nel quotidiano, di qualsiasi gesto amorevole. A prendersi cura della bambina, senza conquistarne le simpatie, una bambinaia inglese. I rimbrotti continui infuocano Antoinette che, per attirare l’attenzione della madre, rovina l’organizzazione della festa in programma con amici e conoscenti. Una sfilata di merletti, piume e collane a doppio giro che si risolve in un dramma, tra le risate della servitù e il pentimento della bambina. È il copione perfetto per una pièce teatrale, da giocare tutta sull’ironia e la beffa.

Tutto quello che Irène comporrà dopo, tratteggiando i profili di madri e di figlie, di mogli tradite e di mariti sfuggenti, trova origine nelle atmosfere de Il ballo. Ne La commedia borghese e Legami di sangue, due racconti contenuti ne L’orchessa e altri racconti, scava nei medesimi stati d’animo, nello stesso rifiuto per merletti e sorrisi di plastica. Nella solitudine di una madre egoista e giudicante. Di riflesso, si rifugia in ritratti di coppie di amanti: è la sua risposta, anche nella vita privata, alla fugacità delle cose, alla banalità degli ambienti che ha sì amato, ma pure criticato. Nei suoi racconti spiccano anche figure di donne. C’è Ida, che nel racconto omonimo, combatte la sua battaglia contro lo scorrere del tempo e lo sfiorire della bellezza, o la signora che chiamano l’Orchessa (“era imbellettata come le vecchie che da tempo hanno rinunciato a piacere ma continuano a truccarsi, senza convinzione né diletto, solo per abitudine o per decenza”). Anche quando Irène si mette in gioco con racconti destinati al cinema ritorna ai suoi temi. La sinfonia di Parigi e altri racconti (Elliot editore, traduzione di Ilaria Piperno), una raccolta di sceneggiature, ha al centro, oltre Parigi (ecco la Senna, la Rive gauche, il quartiere Latino, S. Sulpice), uomini e donne degli anni Trenta. Uomini infiorettati o bohémien, donne sofisticate o ragazzine addestrate come scimmiette che, nonostante le raccomandazioni di mamma e papà, si lasciano ammaliare dal primo sguardo seducente. L’energia di queste ragazze è ingannevole, si spegne nel giro di un fox-trot. I desideri, le aspirazioni personali, se repressi, ritornano come boomerang a minare le autoconvinzioni. E poi c’è l’amore, che può rivelarsi un imbroglio. I matrimoni sono contratti, accordi presi tra famiglie. Il desiderio è una lotta con le convenzioni, che sebbene d’un tratto riscatti dal torpore, alla fine ricaccia tutti negli schemi. Ma non ci sono solo i legami di sangue e la società nella narrazione di Irène. C’è anche la guerra, spietata, impietosa. Via del Vento, una casa editrice indipendente, propone nel 2008, per la prima volta in Italia, Notte in treno, racconto pubblicato nel 1939 su Gringoire. La bellezza di una lettura intensa, per concentrazione di spazio e temi, si preannuncia già dall’incipit:

Era la prima notte di guerra. Nelle guerre e nelle rivoluzioni niente di più singolare di quei primi istanti in cui si viene proiettati da una vita all’altra, senza fiato, come se si cadesse dall’alto di un ponte, tutti vestiti, in un fiume profondo, senza capire cosa sta succedendo, serbando nel cuore un’insensata speranza.

È la cronaca, soave e disperata, a metà tra reportage e narrativa, della notte in cui la Francia dichiara guerra alla Germania, ormai minaccia per tutta l’Europa. La gente si ammassa su di un convoglio che corre dalla provincia verso Parigi. C’è chi va ad abbracciare il proprio uomo – o figlio –  in partenza per il fronte, chi va a dare una mano, chi a lavorare. Il treno, l’attesa, la speranza fanno da scenario ad apparizioni fugaci ma ben delineate nel loro essere di passaggio. Le pagine non conoscono trama, ma solo pennellate di vita: scambi tra gli astanti, zoomate sugli occhi lividi dal sonno, sui bocconi raggranellati e divisi tra tanti all’ora di cena. Giunge fino a noi la dignità di un popolo nel presentimento di una disgrazia incombente. Una disgrazia che ha adombrato la spensieratezza di questa autrice nel fiore degli anni. I nazisti arrestano Irène Nèmirovsky nel luglio del 1942 e la deportano ad Auschwitz, dove muore. Se oggi ne conosciamo la sensibilità e il talento lo dobbiamo alle figlie che ne hanno salvaguardato il lavoro: parole su parole, e un’esistenza fugace eppur brillante. Edizioni Theoria ha di recente pubblicato in due volumi tutti i racconti di Irène Némirovsky, consacrando definitivamente, con un’opera editoriale titanica, il nome di questa narratrice sull’altare della letteratura mondiale.