Che cosa non è un racconto, di Giorgio Manganelli

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Che cosa non è un racconto
di Giorgio Manganelli

Di rado mi sono trovato di fronte, a sfida, una domanda più maliziosa, disonesta, intellettualmente losca ed improponibile; in effetti, non è propriamente possibile dire che cosa ‘non è’ una cosa, giacché checchessia ‘non è’ l’universo intero, eccetto se stesso, e tuttavia del se stesso appunto non può darsi definizione. Che cosa ‘non è’ un babirussa, un congiuntivo imperfetto, un archimandrita o un certo sasso fotografato sulla superficie di Marte? Potrei anche supporre una congiura, una agglomerazione dei ‘non essenti’ , secondo l’esempio riportato: che cosa ‘non è’ un babirussa? Ma, naturalmente non è un congiuntivo imperfetto! Ho tuttavia l’impressione che queste stolte lepidezze non tocchino il problema, nobile e minatorio, che si nasconde in quella interrogazione domenicana. Suppongo che i committenti che vogliono mettermi alla prova abbiano in animo risposte meno insolenti, insomma un ‘contributo’ alle discussioni sul concetto di racconto; ma, s’è visto, lo vogliono in negativo.
Proviamoci. Dunque, mi son detto con aria saputa, che cosa dunque ‘non è’ un racconto? Tenendo conto che non potevo rispondere «non è un babirussa», ho giocherellato con sondaggi e ipotesi letterarie.
Sebbene, devo precisare, come non mi sia chiaro e ovvio che il babirussa non appartiene alla letteratura, come figura retorica teratologicamente prestigiosa.  Suvvia, mi son detto, non potremmo farci beffe di codesta domanda, dicendo, poniamo, che un racconto ‘non è’ una ricetta dell’Artusi? Ma il furbo sogghigno mi si spense sulle labbra. Ero poi così certo che l’Artusi non fosse una squisita quanto inconsueta ghirlanda di racconti? Eccomi a sfogliare, non senza disagio, il gran libro. Ricetta 145: «Chi è che non sappia fare le frittate? E chi è che nel mondo non abbia fatto una qualche frittata?...Le uova per le frittate non è bene frullarle troppo; disfatele in una scodella con la forchetta, e quando vedrete le chiare sciolte e immediatamente col torlo, smettete. Le frittate sono semplici e composte…» Pausa. Non c’era, come dire, un sapor di racconto un queste vicende di oggetti, quell’aura svagata e attenta insieme? Non poteva essere un quadernetto di Čechov, magari un appunto per una storia come La sirena? O un Proust declassato, va da sé, ma così distinto nella sua discoperta umiltà? Un collodi passato al genere breve, un Morandi virtuosamente emendato dalle bottiglie, e da Pinocchio educato alla contemplazione dell’uovo?
Ecco, che il racconto non fosse in nessun modo in una ricetta dell’Artusi, questo non osavo dichiararlo. Ma, mi son detto, allora, se una ricetta dell’Artusi può e, indubitatamente, essere un racconto, che cosa mai non sarà un racconto? Panico, signori, panico letterario. Il poema epico? Eh no, mi son detto; a ben vedere, i così detti poemi sono macchinazioni dei racconti, che si macchinano un loro contenitore di Gerusalemmi e di Furiosi; e a togliere i racconti, poco resterebbe oltre alle invocazioni ai santi e alle muse. E poi, non c’è addirittura una complicità manifesta tra poema e ricetta, mettiamo nel Baldus – un poema maccheronico non è lo stesso che un poema artusiano? E come non riconoscere un aroma di salvatico Artusi nei girarrosti del Morgante?
Ma non sarà tutt’altra cosa con la lirica? Prendiamo un sonetto, mi son detto, ma mi è mancato il cuore. Quel chiacchierare allusivo, ricordevole, erratico, immaginoso ed effimero, tutto ciò sarebbe dunque il modello del non racconto? Artusi, Morgante, Ariosto, Petrarca. Niente da fare. Gli epitaffi? Così esigui e completi; non hanno conclusione; sono conclusione. Finiti, senza cominciare. Cartelli toponomastici? Un trionfo dell’implicito e della metafora concettosa e brachilogica; pensate, una via Porperzio che incontrava via Cola di Rienzo. Una meraviglia.
La guida del telefono? Ecco: la guida del telefono è un oggetto affascinante, e non è entrata nelle Storie della letteratura forse per la sua giovane età, o piuttosto per le congiure degli accademici. In realtà, la guida è già un ‘indice delle persone e luoghi notevoli’, indici che gli accademici amano intensamente; ma è soprattutto l’indice di un libro apparentemente da scrivere. Apparentemente, dico, perché la guida si offre come uno sterminato catalogo dei possibili, disposto in un ordine rigoroso che in realtà descrive il disordine del caos primordiale. La guida del telefono è un abisso insondabile, ma illuminato da una volontà di completezza e totalità che non ha l’esempio. La guida è una invenzione teologica, teocentrica, insieme comprensiva e insondabile; ma la regge una iterazione epifanica, insomma è una visione, ed una sola. È il racconto? No, è il romanzo.
I patti sono patti: non sono tenuto a definire il romanzo; e quel che dirò non varrà come definizione, glossa, chiosa, splanamento del concetto di romanzo. Ma credo di poter dire che il racconto non è il romanzo. È l’unica ‘cosa’ – uso questo termine rozzamente elusivo per non cadere nelle panie di una precisazione concettuale – che non è il racconto.  Forse tutto il resto, inclusi i babirussa e congiuntivi imperfetti, è racconto; ma il romanzo, no.
Cercherò di parlare del raccontesco non essere romanzo in modo un poco rabbinico; giacché non v’è dubbio che il problema ha i suoi connotati teologici. Il romanzo mi pare intrapresa monoteistica. Per quanto stravagante, difficilmente potrà  sottrarsi – a mio avviso, mai – da una devozione ad una qualche Altissimo solitario e vertiginoso. Donde la vocazione ad una norma, che non è una regola. Nulla è più sregolato del romanzo nel senso che non ha regole di confezione  generalmente valide; ma, insieme, nulla è più dominato dal complesso della norma. Il romanzo può sposare solo se stesso, ma il matrimonio è monogamico, come s addice ad un monoteista. Ma v’è di più. Il romanzo è l’Erode dei racconti. Può svolgersi solo uccidendo continuamente possibili racconti, come quel juggernaut che schiacciava i fedeli; e questo fa perché i racconti si collocano trasversalmente al percorso del romanzo. Quando Don Abbondio incontra i bravi, deve passare sul cadavere del racconti dei bravi – di che si saran parlati andando a quel bivio? – e il cadavere del racconto che voleva nascere attorno a quel tabernacolo dipinto d’anime purganti; e poco dopo quel «si racconta che il Principe di Condè»  non è una confessione di denegato – necatus – racconto? Insomma, un romanzo si può scrivere solo rinunciando alle minuscole, ripetitive eresie del racconto; le mostruosità effimere; le frettolose perversioni; gli appunti per un delirio. Non che un romanzo non possa essere eretico, mostruoso, perverso delirio; ma l’resia constante diventa ortodossia; la mostruosità duratura si consolida come mutazione felicemente realizzata; la perversione accolta e accettata si fa a modo e per bene; e il delirio dà luogo, dopo tre capitoli, ad un nuovo linguaggio, robusto d grammatica e dizionaretto.
Si potrebbe dire che il romanzo tende al monomorfismo, mentre il racconto è intrinsecamente polimorfo; e per la sua labilità non giunge mai a fare istituzione del delirio, a far dignitosa la perversione, ovvio il mostruoso, e trar dall’eresia un Credo. Tutto è provvisorio, ha dell’epitaffio la natura conclusiva, ma senza antefatti; della toponomastica la natura programmatica ma disimpegnata; delle ricette dell’Artusi la disponibilità a far di checchessia un protagonista – un torlo vale veramente un archimandrita. Tonde e inafferrabili gocce di mercurio, i racconti eludono e deludono; sono un sospiro, un gioco di parole, un maldestro accordo di stridula ghironda, una interpunzione esente propriamente da parole precedenti e susseguenti, un esclamativo, una interrogazione,  e soprattutto non sono monoteisti; professano un minuscolo ateismo, non impervio alle incursioni di deuzzi esili e petulanti, o di procaci e petulche deesse – purché morituri, effimeri, finti, esilissimi, disorientati; perché una carenza di disorientamento non manca mai nel racconto. Già, ho scritto «carenza di disorientamento», volevo dire che il racconto è sempre disorientato, e in qualche modo ho detto il contrario. Non sono così sciocco da cancellare il mio refuso – il refuso, così raro, è il meglio di qualsivoglia scrivente – ma vorrei capire quale gioco mi è stato giocato. «Carenza di disorientamento» vuol dire forse che il racconto ha come meta il disorientamento , ma in proposito è carente? Che, dunque, una sua specifica perfezione il racconto potrebbe averla, ma fa parte della sua natura non poterla mai conseguire? Dunque, il racconto si troverebbe non in un posto, in un punto della topografia letteraria,  ma lungo una strada, è sempre in divenire, è in fuga da sé diretto a sé, ma da sé non fugge e a sé non perviene. Sua è la gioia della imperfezione strutturale, e se potesse esistere – ma perché non potrebbe esistere? – una imperfezione perfetta…ma questo, mi par di capire, potrebbe essere il titolo di un racconto. Un ottimo racconto per la Sfinge.

 

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Questo saggio è tratto da Il rumore sottile della prosa (Adelphi 1994/2014)
© Adelphi Edizioni S.p.A.