Las Voladoras, di Mónica Ojeda

Autore: Mónica Ojeda
Titolo: Las Voladoras
Editore: Polidoro editore
Traduzione:Massimiliano Bonatto
pp. 128 Euro 15,00

di Giordana Restifo

«C’è la visione magistrale del terrore che incombe su di noi e dentro di noi,
il verme che striscia e si contorce in un abisso orribilmente vicino.

Visione che penetra ogni aspetto inquietante della variopinta pantomima
che chiamiamo esistenza, non esclusa la solenne mascherata
dei nostri pensieri e sentimenti, e che acquista il potere
di proiettarsi in nere o magiche apparizioni e metamorfosi
»

Howard Philipps Lovecraft[i]


Scavare. Un verbo innocuo, inoffensivo, alle volte anche foriero di grandi sorprese, eppure in questi giorni di letture e pensieri ho capito quanto non mi piaccia, ho cercato di accantonarlo ma è tornato aggressivo. È proprio questo l’effetto che fa Voladoras di Mónica Ojeda, pubblicato nel 2020 dalla casa editrice spagnola Páginas de Espuma e appena uscito in Italia nel catalogo di Alessandro Polidoro Editore, con la traduzione di Massimiliano Bonatto. Una raccolta di racconti che scava negli anfratti più reconditi, più mostruosi, dell’animo umano, costringendo il lettore a insudiciarsi. È come se lo costringesse a mettere le mani nella terra andando sempre più a fondo fino ad arrivare al nucleo del mondo, al centro, per disseppellire la complessità dell’esistenza umana con la sua violenza, l’orrore e la paura.
L’autrice ecuadoriana, nata nel 1988, con i suoi precedenti romanzi, Mandibula e Nefando, pubblicati anch’essi da Alessandro Polidoro Editore rispettivamente nel 2021 e nel 2022, ci aveva già avviato alla brutalità e alle tenebre con i ragazzi, le ragazze e i genitori terribili, che ricordano quelli di Jean Cocteau. Così come nelle opere dell’autore francese «questi ragazzi terribili si rimpinzano di disordine, di una appiccicosa macedonia di sensazioni» (I ragazzi terribili, BUR, Milano, 2021, p. 117), anche in quelle di Ojeda la psicologia dei personaggi è intricata, sadica, tormentata.
Gli otto racconti che compongono Voladoras scavano ancor più nel profondo, nel mistico, nei riti ancestrali, nel terrore. Letti separatamente potrebbero sembrare solo contorte storie dell’orrore con forti richiami alla mitologia ma, se lasciati sedimentare, ci portano a riflettere sulla violenza del mondo e della realtà quotidiana. Una realtà che non appartiene solo ai lontani paesi del Sudamerica, ma che riguarda tutti. Certo, prendendo ad esempio il terzo racconto della raccolta, La testa che vola (Cabeza voladora), nel quale una donna trova la testa della vicina nel proprio giardino (fatto che sconvolge la sua esistenza), lanciata dall’assassino – il padre della vittima –, che per quattro giorni ci ha giocato a calcio, si potrebbe pensare che da noi, nella civile Italia (o se vogliamo Europa), una cosa del genere non potrebbe mai accadere; andando oltre il macabro e il surreale al centro del racconto vi è il tema del femminicidio, della violenza machista, e su questo non possiamo certo considerarci innocenti o assolti. Anche nel secondo racconto, Sangue coagulato (Sangre coagulada), ritroviamo una situazione non estranea alla nostra società, qui rappresentata all’estremo. La protagonista è una bambina alla quale piacciono il sangue, i bernoccoli, gli ematomi, che «conosce la bellezza dei coaguli», e che, per tale motivo, viene mandata dalla madre, che l’ha sempre considerata una “cretina”, sul paramo (ecosistema montano situato nella cordigliera delle Ande), a casa della nonna. Dopo aver subito una violenza psicologica perpetrata nel tempo che l’ha indotta anche all’autolesionismo, in questo luogo, dove dovrebbe essere protetta, al sicuro, lontana dalla ferocia degli uomini, viene, invece, subdolamente violentata da un uomo di fiducia della nonna. Quel sangue diventa un simbolo del ciclo della vita e della morte. Il sesto racconto, Soroche, è forse il più verosimile: quattro donne decidono di fare un viaggio per allontanarsi dal caos cittadino, dalle responsabilità, dai pettegolezzi, e, soprattutto, per distrarre una di loro, affetta da una grave depressione a seguito della separazione con il marito e della diffusione, da parte di quest’ultimo, di un video intimo in cui si vedono i due durante un rapporto sessuale. Nonostante siano tutte lì per dare coraggio all’amica, sono concentrate su sé stesse, pensano alla propria famiglia, alla propria carriera, alla propria forma fisica, sono vittime loro stesse di pregiudizi incalzanti e non riescono in uno sforzo di empatia. Durante un trekking, in ognuna di loro si manifestano gli effetti del soroche (mal di montagna, mal d’altitudine), e, così, sopraggiunge un’illuminazione. I pensieri si incupiscono, i giudizi rimbombano nella testa, le vie d’uscita si confondono nell’immensità del paesaggio, e la donna, che doveva essere aiutata, sceglie quella che le sembra essere l’unica soluzione possibile, tenta il suicidio:

E lì, con il culo al vento della montagna, ho compreso per la prima volta la vera condizione della mia esistenza… Ragazzo, non so se sai che questo ti succede solo una volta nella vita. Si tratta di una rivelazione così triste che la mente la rende breve, anche se nel mio caso è durata fin troppo tempo. Quando sei in alta quota pensi che sarà difficile vederci chiaro, ma non è vero. Vedi nitidamente quello che sei e quello che sono gli altri, vedi che laggiù è tutto piccolo e miserabile e che è da lì che vieni. Ecco cos’è il vero mal d’altitudine.
Ecco cosa ti spinge a correre
.

Sin dal primo racconto, Voladoras, dal quale prende il titolo l’intera opera, si intuisce la maestria dell’autrice, annoverata tra le esponenti del genere letterario definito “gotico andino”, nell’affrontare temi attualissimi, inserendo particolari propri della tradizione orale, delle leggende, della mitologia locale. Le voladoras, infatti, sono donne magiche, con un occhio solo, con capelli neri, vengono dalle montagne e volano «di casa in casa, di paese in paese, di tetto in tetto, senza Dio né santa María», portando notizie e vaticinando il futuro. Queste “streghe”, che fanno visita in casa della protagonista del racconto, conoscono i segreti della sua famiglia (una violenza intrafamiliare che avviene ripetutamente tra le mura domestiche), irritano la madre ed eccitano il padre. Ritroviamo figure simili, associate alla stregoneria e ai sortilegi, anche in Sangue coagulato (la nonna che pratica aborti in casa è vista come una strega dai compaesani), in La testa che vola (incontriamo le umas, esseri ancestrali, la cui forza proviene dalla montagna, in grado di preservare lo spirito di Madre Natura, capaci di staccare, durante la notte, la propria testa dal corpo e permetterle di volare; la protagonista le paragona ai cefalofori); e in Slasher (la storia di due gemelle musiciste, Barbara e Paula. Quest’ultima, sordomuta, veniva tacciata dai compagni di classe di essere una strega e lei non faceva nulla per smentirli, anzi alimentava questa nomea). La mitologia andina è presente anche in Soroche: nel momento in cui Ana, l’amica depressa, sta pensando di buttarsi giù dalla montagna le viene in mente l’immagine del condor (simbolo di potere e salute per molti paesi del Sudamerica, associato alla divinità del sole, si credeva che fosse il sovrano del mondo superiore):

[…] e ricordi la leggenda. Ricordi che un condor sceglie il momento in cui morire. Che quando si sente vecchio, finito, senza compagna, si lancia sulle rupi dal monte più alto.
Un condor con il soroche
.

 Inoltre, in più di un racconto, torna la figura di Dio, «il mistero più grande della natura», un Dio «pericoloso e profondo tanto quanto un bosco», di cui avere paura, in grado di sciogliere gli esseri umani come acqua, che non sa perdonare, che punisce; che sia quel “Dio bianco” di cui tanto parlavano Annalise e Fernanda, le protagoniste di Mandibula? Quel Dio di cui scrive anche Pierre Honoré in Ho trovato il Dio Bianco (Garzanti, Milano, 1963), eroe divinizzato, venuto dalle acque o dal mare per creare il mondo e la razza umana, il Creatore, colui che ha dato vita alla cosmogonia?
Altro elemento essenziale è la geografia andina, che caratterizza ed è presente in tutti i racconti, e che si rivela attraverso vulcani, parami, montagne, cittadine, valli. Nel penultimo racconto, Terremoto, il più breve ma anche il più intenso, Mónica Ojeda, con grande lirismo, ci racconta un amore incestuoso tra due sorelle, Luciana e Lucrecia, vissuto forse alle pendici di un vulcano in continua eruzione o forse proprio dentro il cratere. La loro passione, «il fuoco liquido» della loro carne, è talmente forte che la casa dove vivono, nonostante le ripetute scosse di terremoto e la lava che inonda tutto al proprio passaggio, non cede mai: «Amare è tremare», ma non crollare. In questo racconto poetico incontriamo nuovamente il simbolismo antecedente: «I condor erano l’unico soffio di Dio a precipitare sul fuoco inesauribile dei vulcani». La bellezza dei paesaggi delle Ande, della natura, stride con la ferocia del genere umano. L’autrice è cosciente di ciò e, anzi, va proprio alla ricerca di questa atmosfera misteriosa, enigmatica, che ruota attorno alla violenza, al desiderio, al terrore viscerale e che, unita alla potenza della terra, lascia nel lettore una sensazione illusoria e agghiacciante. Sensazione che perdura nel tempo, come fosse un sogno diurno interrotto più e più volte dall’incursione del dipinto di Johann Heinrich Füssli “L’incubo” (citato dall’autrice in Mandibula) o del più celebre Francisco Goya con il suo “Il sonno della ragione genera mostri”. D’altronde, e non è un mistero, è la creazione di una precisa atmosfera che definisce la resa dell’opera; era di fondamentale importanza anche per Mary Shelley, Edgar Allan Poe, Lord Dunsany e H. P. Lovecraft: «È l’atmosfera, e non l’azione, il più grande obiettivo della narrativa fantastica. Di certo, tutto quello che può essere un racconto fantastico, è un vivido ritratto di una certa emozione umana; nel momento in cui cerca di essere altro, diventa banale, puerile e incredibile» (H. P. Lovecraft, Biografia di uno scrittore da quattro soldi, Mattioli 1885, Fidenza, 2013, p. 42).
Infine, un grande contributo alla creazione dell’atmosfera è dato dalla forma, dalla scrittura che, per tutta l’opera, è curata in ogni dettaglio, è poetica e allo stesso tempo grottesca, è ferina e malinconica, e raggiunge il suo apice nell’ultimo racconto, Il mondo di sopra e il mondo di sotto (El mundo de arriba y el mundo de abajo). Qui la Ojeda poetessa (nel 2015 ha vinto il Premio Nacional Desembarco de Poesía per la raccolta di poesie El ciclo de las piedras, Rastro de La Iguana Ediciones) è dentro ogni parola. Uno sciamano, che «non è Dio, ma gli assomiglia», un padre, molto diverso dai precedenti degli altri racconti, non si dà pace per la morte della figlia Gabriela. Intraprende un viaggio verso un vulcano, trasportando il suo corpo senza vita, per trovare, attraverso la natura, il modo di farla rivivere. In questo cammino elegiaco, si ripresentano i condor, Dio, la potenza dei vulcani e della terra, ma anche la bianca pietra, il vento, l’ocelot e altri animali, nei quali lui cerca riparo:

All’alba, mentre mia moglie si stringeva al volto il piede freddo di mia figlia come fosse un cuore, entrai in trance: fui aquila, cervo, alpaca, ma nessuna creatura terrestre riuscì a sopportare la mia solitudine. Sono solo, compresi, e la terra è brulla. Ora cammino scalzo nell’oscurità. Ascolto il grido del vento. Cerco di percepire il sacro e quando mi rendo conto che non posso più farlo, mi abbraccio, pazzo di dolore. Per alcuni la morte è liquida come la pioggia. Per altri solida come la pietra», un requiem da un altro mondo.

L’opera di Mónica Ojeda è disturbante, scuote il lettore, provoca inquietudine, a volte repulsione, ma, al contempo, è portatrice di una lingua meravigliosa, di un dolore idilliaco, di qualcosa che resta dentro e la si ritrova scavando. Provocare qualcosa in chi legge, non è forse questo uno dei meriti della letteratura?