Quattro nuovi messaggi, di Joshua Cohen

Autore: Joshua Cohen
Titolo: Quattro nuovi messaggi
Traduzione: Claudia Durastanti
Editore: Codice Edizioni
pp. 224 Euro 18,00


di Fabrizia Gagliardi

La storia di uno spacciatore finisce su un blog, in poco tempo diventa virale e la sua vita diventerà la disperata ricerca di un modo per cancellare l’identità online. Invece di insegnare scrittura creativa un professore chiede ai propri studenti di portare a termine la costruzione di un edificio nella città che lo ha ripudiato. La creatività frustrata di un copywriter che lavora per case farmaceutiche cerca di rivitalizzarsi con l’invenzione di una storia. Un aspirante giornalista conduce un’indagine per ricostruire i destini frammentati delle attrici di film porno.
I protagonisti di Quattro nuovi messaggi, raccolta di racconti di Joshua Cohen pubblicata nel 2012 e ora recuperata da Codice Edizioni (con la traduzione di Claudia Durastanti), sono alle prese con complessi stravolgimenti comportamentali e cognitivi provocati dalle nuove tecnologie.
Anche se la raccolta risale ad anni in cui la presenza virtuale non era così innervata nella vita di ognuno come oggi, si comprende come sia abilmente ricostruita l’origine di una metamorfosi: ogni storia è percorsa dal progressivo sgretolarsi dell’identità reale per l’affermazione di quella online, la scrittura dell’io è incerta, l’ansia, lo smarrimento e il senso d’impotenza percorrono ogni confronto con le briciole che sopravvivono o che non arrivano online.
Al contrario di quello che si possa pensare alle nuove tecnologie non è riservata un’attenzione privilegiata e quando vengono citati computer, caselle di posta, login, tecniche di hacking, non svolgono alcuna funzione futuristica. Joshua Cohen si allontana abilmente da ogni definizione di profeta della catastrofe per proporre una nuova prospettiva: fermare il tempo per sottoporre alla lente di ingrandimento alcune tendenze e pratiche linguistiche influenzate da velocità e consumo di pensieri come se fossero codice binario.
L’espediente più adatto a tale scopo è procedere con l’impostazione narrativa di parabole inusuali, perché il tipo di narrazione solenne amplifica il senso di un cambiamento epocale, una conversione universale irreversibile.
In Inviato, per esempio, il racconto si snoda dalla genesi della costruzione di un letto fino a un futuro in cui viene usato per girare un film porno:

Queste donne vivevano nella speranza, vivevano per il futuro come se ognuna di loro fosse già il personaggio di un film che si proiettava ben oltre la durata di un orgasmo, il film di un orgasmo costante che viene costantemente filmato: un biopic collettivista speranzoso che accumulava minuti filmati, accatastando incessantemente bobine e gigabyte di filmato, tutto quel lavoro sporco di montaggio per la coerenza e il lieto fine, da qualche parte tra molti anni e in molti paesi lontani. Vivevano come le aspiranti star dei film delle loro vite, che contenevano a loro volta i film degli altri (come i reattori nucleari contengono i loro nuclei).

«Ogni storia è connessa al tempo in cui viene scritta» affermerà l’autore in un’intervista su Rivista Studio, e in effetti basta guardare la sua opera successiva, Il libro dei numeri, romanzo mastodontico sull’avvento di Internet, per agevolare qualche parallelismo con le conseguenze dell’intrattenimento televisivo come aveva fatto David Foster Wallace in Infinite Jest. L’avvento della televisione aveva cambiato il modo di narrare nella letteratura americana. Il mondo culturale era profondamente segnato dalla cesura tra una generazione di scrittori americani «guardoni» e un esercito di letterati delle generazioni precedenti pronti a stabilire cosa fossero Classico e Letteratura, alla ricerca di “opere senza tempo dal momento della loro creazione”.
Posizioni e preoccupazioni della critica che oggi appaiono anacronistiche perché l’oggetto d’interesse è un quesito opposto: gli stravolgimenti che sfuggono al controllo umano (come una pandemia dilagante o la crisi climatica), il bombardamento informativo quotidiano e la conseguente tendenza a creare bolle ideologiche volte a proteggere una versione di noi stessi, non hanno fatto altro che creare megafoni di singolarità che si rivolgono a tante altre unità disconnesse tra loro.
Non è strano che per la fiction oggi ci s’interroghi sulla «trappola della riflessività» definita dal New Yorker come la modalità con cui alcuni scrittori contemporanei costruiscono una trama imperniata su loro stessi, un intreccio autoriferito che non diventa mai reale opportunità di riflessione oltre il proprio limite. «Come si scrive un romanzo che non diventi stantio alle prossime elezioni?» è l’altra domanda ironica di un articolo dal titolo emblematico: Are Novels Trapped by the Present? Il dubbio è lecito se pensiamo al flusso di messaggi, notifiche, idee, news che amplificano il senso di smarrimento: chi scrive è più orientato a rappresentare la realtà piuttosto che «rispondere ad essa, criticarla o impegnarsi. La rappresentazione – e la sua attraente controparte, la relatività – sono celebrate come conquiste piuttosto che riconosciute come la linea di base da cui un romanziere dovrebbe iniziare il suo lavoro».
Proprio perché ci capita di leggere e scrivere molto più rispetto al passato è inevitabile che ci sia una contaminazione tra i testi brevi e sintatticamente semplici e una semantica ridotta all’osso, ad alto grado di polarizzazione. Joshua Cohen si allontana dal pericolo di ogni riferimento autobiografico per recuperare la complessità di linguaggi e destini che l’identità virtuale, il riflesso dell’identità negli altri, si trova inevitabilmente a negoziare.
Ogni protagonista dei suoi racconti è un atomo in corrispondenza complementare con un altro. Così Mono, lo spacciatore di Emissione, è la versione tragica di Moc, la pornoattrice che si lascia sedurre da una carriera online in Inviato. Il professore del Quartiere universitario sceglie un mutismo artistico, mentre il copywriter di McDonald’s sente il bisogno di riappropriarsi della propria fantasia ormai distorta dalla lingua del marketing.
Per Cohen il decentramento del sé non è tanto una pratica empatica ma un vero e proprio esercizio di libertà di essere altro da sé. In questo modo evita ogni implicazione legata a uno sguardo che si lascia sedurre dalla centralità della propria esperienza individuale, un po’ come invece aveva fatto Jia Tolentino nella raccolta di saggi Trick Mirror. Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo ), in cui l’incursione autobiografica rendeva il personal essay una composizione ibrida tra la finzione dell’autore e la formulazione di un’ipotesi. Contrariamente a quanto fatto dall’autrice americana Cohen si apre a una provocazione: «Mi interessa la morte della terza persona: l’incertezza dello scrittore, l’incapacità di abitare la prospettiva altrui ma anche il dubbio profondo della nostra missione. La prima persona può sembrare più autentica, ma non lo è perché ogni prima persona è un personaggio». Più che avvicinarlo al tipo di riflessione filosofica di un saggio Cohen può essere accostato alla consapevolezza di Cory Doctorow): scrivere per alimentare il potere identificativo della fiction ed entrare nel lettore molto più di quanto non faccia la saggistica.