Sotto il segno di Akutagawa, Debora Lambruschini

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di Debora Lambruschini

Che insegnava inglese l’ho già scritto. Ma non era il suo vero lavoro. O almeno non credeva che lo fosse. Nonostante tutto era convinto che l’ambizione della sua vita fosse la scrittura creativa.

(“Lo scritto”, 1924, p. 354)

 

Incanto e sospensione. Sono le impressioni che scaturiscono più immediate dalla lettura dei racconti di Akutagawa Ryūnosuke, il più importante fra gli autori giapponesi moderni e quello maggiormente tradotto e noto anche fuori dai confini nazionali. Incanto, per la parola impeccabile, ricercata, per le atmosfere evocate, la distanza geografica e temporale delle storie che una pagina dopo l’altra pare sfumare in contorni sempre meno definiti. Sospensione, delle istanze realiste e di una certa naturale tendenza a trovare conforto in atmosfere e situazioni ben definiti e riconoscibili, sospensione del giudizio, per calarci completamente nel mondo di Akutagawa.
Per molti di noi è anche subire la fascinazione della cultura nipponica, nel tentativo di svelarne una minima parte del mistero, camminare fra quelle strade, percepirne i colori per mezzo delle immagini efficacemente evocate dall’autore di luoghi e ambienti, immagini in cui si avverte chiaramente l’influenza delle arti figurative, specie delle avanguardie europee di inizio Novecento. Ma è un’illusione e ne siamo consapevoli. La cultura nipponica resta per lo più un mistero attraente, di cui scalfiamo appena la superficie. Leggere Akutagawa è quindi accettare il mistero, riconoscere nelle inquietudini della scrittura un sentire e immaginario comune, che tuttavia assume forme differenti, mescolandosi alla tradizione, impregnandosi di un sentire che è proprio del suo tempo e del suo ambiente.
La bibliografia in traduzione di Akutagawa è ricca e variegata, ma la recente pubblicazione di questo volume nella collana di Letteratura universale Marsilio aggiunge un tassello importante, soprattutto per l’accuratezza del volume in cui è presente un – seppur minimo – apparato critico. Sotto il segno del drago, curato dalla professoressa Luisa Bienati, docente di letteratura giapponese moderna e contemporanea presso l’università Ca’ Foscari di Venezia, comprende tre raccolte: racconti cristiani e racconti storici, racconti fantastici e le storie di Yasukichimono, arricchite di note, glossario minimo e una puntuale postfazione che sintetizza i punti salienti della scrittura di Akutagawa, inserendo l’autore nel panorama letterario del tempo e fornendo qualche utile spunto critico e biografico.
Il nome di Akutagawa è ben noto anche fuori dai confini nazionali, e pure in Italia sono disponibili numerose opere in traduzione, tra cui vale senza dubbio la pena ricordare il celeberrimo racconto Nel bosco, da cui Akira Kurosawa ha tratto Rashomon (il titolo, in realtà, è preso da un altro racconto di Akutagawa), che gli valse l’Oscar nel 1950 come miglior film straniero.
Il volume è quindi il mezzo ideale per avventurarsi nel mondo letterario di Akutagawa, che al racconto ha dedicato tutta la sua carriera di scrittore (con qualche incursione negli haiku e nella saggistica breve); proprio a lui è dedicato il premio letterario più prestigioso del Giappone che due volte all’anno dal 1935 – con qualche interruzione – viene conferito agli autori di racconti.
Se Akutagawa è stato per lo più fedele alla forma breve, la ricchezza letteraria dello scrittore si declina in storie che esplorano generi differenti, dallo storico al fantastico, passando per l’allegoria e la favola, caratterizzate quindi da una contaminazione di generi e fonti: fine intellettuale, Akutagawa ha saputo rielaborare fonti classiche giapponesi e occidentali, con particolare interesse per il cristianesimo e la cultura greca, ma aprendo anche a influenze più trasversali in cui appare evidente, per esempio, il  richiamo delle arti figurative e delle avanguardie. Lettore vorace fin dalla giovane età, Akutagawa ha nutrito un profondo interesse tanto per la tradizione in cui era immerso quanto per le influenze occidentali, la letteratura inglese e i classici greci soprattutto, che si traducono sulla pagina in una tensione costante fra modernità e tradizione, oriente e occidente. Una commistione di generi e culture che rendono difficile la categorizzazione delle storie che rifuggono ogni etichetta, ma per questo particolarmente vive, interessanti e ricche di spunti. L’incontro fra cultura nipponica e cultura occidentale produce uno straniamento che talvolta si fa inquietudine e malinconia, ma che per Akutagawa è anche il mezzo per esplorare più a fondo la psicologia dei personaggi e costruire racconti capaci di collocarsi fuori dal tempo, spesso attraversati da un dualismo esemplificato nella dicotomia morte-vita, bellezza e grottesco. L’interesse per l’aspetto psicologico è il fil rouge di tutta la carriera letteraria dell’autore, che prende le distanze dalle tendenze realiste e dal naturalismo per concentrare tutta la sua attenzione sull’intimo, sull’io, sulle contraddizioni dell’animo umano, sul mondo interiore. È ai moti minimi dell’animo che si lega soprattutto la scrittura di Akutagawa, alle passioni, alle frustrazioni quotidiane, al desiderio, ancora una volta attraversata da un’inquietudine di fondo che la biografia dell’autore – morto suicida a trentacinque anni – ci porta a considerare in modo particolare, insieme al fantasma della malattia mentale, che lo ossessionerà per tutta la vita.

 

Le risposte non estirpano le radici delle domande come una zappa. Servono solo come cesoie per fare germogliare nuove domande al posto delle vecchie. Ancora trent’anni dopo, ogni volta che otteneva una risposta, scopriva che portava in grembo un’altra domanda.

(“Monelli”, 1924, p. 383)

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E di simili interrogativi e spunti è disseminata tutta la raccolta, nella quale risaltano forse più chiaramente di altri i racconti di Yasukichimono, l’alter ego letterario dello scrittore. Osservatore attento e spesso ironico, ma velato da una malinconia di fondo che difficilmente lo abbandona, Yasukichimono è un aspirante scrittore dalla scarsa fortuna che per guadagnarsi da vivere lavora come insegnante e giornalista, in un chiaro parallelo con la vicenda personale dell’autore. I racconti di Yasukichimono qui contenuti sono forse i più godibili, permeati di atmosfere e ambienti perfettamente evocati e dall’interesse per l’interiorità del personaggio più che per le trame. Anche in questi racconti tornano quindi tematiche e spunti caratteristici della scrittura di Akutagawa, la precisione lucida della parola – per la quale va tributato il dovuto onore alle puntuali traduzioni – , l’incontro di due culture e tradizioni, certe sensazioni minime che danno moto a riflessioni profonde e quella sottile inquietudine che si riversa dalle pagine. È un sentimento che a tratti si confonde con la malinconia, con la solitudine e lo straniamento, nella distanza fra ciò cui si aspira e ciò di cui invece consiste il quotidiano, reso sublime dalle atmosfere evocate da Akutagawa, i viaggi solitari in treno, il paesaggio che si fa testimone di questi vuoti, che accompagna i personaggi dentro le proprie riflessioni. Quando crediamo di avere colto l’essenza di Akutagawa e del suo mondo, di averne svelato il mistero, ecco fluttuare davanti ai nostri occhi un’immagine nuova, un sottile riferimento di cui non comprendiamo davvero fino in fondo tutte le implicazioni. Di quelle stesse fonti cogliamo appena la superficie, le riconosciamo, forse, ma non possiamo davvero pienamente cogliere il senso di ciò che hanno significato nell’incontro con la cultura dentro cui lo scrittore Akutagawa si è forgiato. Forse, alla fine, l’unica cosa possibile è accettare di poter solo intravedere.

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Le contraddizioni comunicative del presente: Cory Doctorow

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di Fabrizia Gagliardi


Per un problema di diritti uno degli e-commerce più famosi al mondo elimina La fattoria degli animali e 1984 dall’ebook reader di migliaia di lettori.

Per pubblicizzare l’uscita della quarta stagione di Black Mirror, un’agenzia ha ideato un evento in cui i partecipanti dovevano avere un determinato numero di follower e like.

Dopo aver subito minacce da parte del governo per il controllo dei dati personali, dei dispositivi e dell’attività online, un ragazzino inventa un software per navigare anonimamente.

Solo uno di questi episodi è un racconto di finzione ma non sapremmo dire quale. In realtà, abbiamo il dubbio che neanche uno degli eventi citati è frutto dell’immaginazione. In Homeland Cory Doctorow raccontava di Marcus, un adolescente ingiustamente trattenuto dal Dipartimento di sicurezza interna e più volte costretto a rinunciare alla propria privacy per il controllo totale dei suoi dati e delle sue attività online. Per opporsi a ogni tipo di abuso da parte del potere Marcus inventerà e distribuirà ParanoidLinux, un sistema operativo che permette di navigare in modo anonimo.
«La tecnologia stava lavorando per me, era al mio servizio, mi proteggeva. Non mi stava spiando. Per questo mi piaceva la tecnologia: se usata nel modo giusto, ti dava potere e privacy», l’ingenuità di Marcus annotava una verità universale, non così non rivoluzionaria. Quello che colpiva di Homeland (e del seguito più maturo intitolato Little Brother) era uno scambio costante tra il mondo interno, prettamente di finzione, e un esterno che iniziava a porsi le stesse domande: alle incursioni nel mondo di adolescenza, sesso, lealtà e libertà si univa una narrazione incalzante fatta di linguaggi di programmazione e logiche di hacking. Le insidie di un regime totalitario in divenire facevano apparire la ribellione e l’attivismo come risposte naturali di chi, dal basso, usava gli stessi strumenti per affermare diritti fondamentali.
L’eco di ogni distopia che fa gridare a 1984 deve vedersela con una prospettiva nuova: la futuribilità del genere sta azzerando le distanze tra le conseguenze e i mutamenti che in realtà accarezzano scenari del presente. Solo che, a differenza della finzione, l’apocalisse ha ritmi pacati, con distorsioni che s’incistano nel sistema e rischiano di rimanere non viste.

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Lo scarto sempre più breve tra ciò che potrebbe essere e ciò che già è avvenuto reclama una certa impellenza in Radicalized, l’ultima raccolta di racconti di Cory Doctorow pubblicata da Mondadori con la traduzione di Dafne Calgaro. I quattro racconti lunghi guardano alle contraddizioni comunicative del presente come la libertà di usare la conoscenza tecnologica che però è ostacolata dalla monetizzazione delle informazioni ai danni delle classi più umili. Ci confronteremo con il caro vecchio mondo dei supereroi in piena crisi d’identità contro un potere che controlla corpi e informazioni, e rivivremo quella che sembra l’oasi anonima e indipendente di Internet, diventata il luogo ideale per esasperare la propria bolla e per distorcere la verità.
Nella scrittura di Cory Doctorow si avverte sempre un graduale passaggio dai panni dell’educatore appassionato e neutrale, con tecnicismi che entrano nei dettagli di reverse engineering e strategie di hackeraggio, a quelli del guardiano che è in grado di scansionare tutte le potenzialità e i pericoli di tale sapere.

In Pane non autorizzato, Salima sta finalmente costruendo una vita e una carriera dopo un passato di emigrazione e miseria. Abita in uno dei grandi edifici popolari che il governo ha riservato agli stranieri, ma si rende conto che il suo tostapane accetta i prodotti di un’unica marca, l’ascensore dà la precedenza agli abitanti più ricchi dell’edificio, altri elettrodomestici funzionano solo con determinati prodotti. Quando scopre che il libero accesso alle informazioni le dà anche il diritto di manipolare il software di base, inizierà a trasmettere la scoperta all’intero edificio. Si può davvero parlare di violazione quando la democratizzazione delle risorse, liberamente disponibili, può aiutare le fasce più deboli? E se all’improvviso le aziende degli stessi elettrodomestici volessero monetizzare la possibilità di hackerare i dispositivi?

Hanno tenuto d’occhio i forum della darknet, la Boulangism ha capito che la gente ha imparato a sbloccare i dispositivi mentre aspettava che noi rimettessimo in piedi l’azienda. In pratica vogliono trasformare quelle persone in clienti: invece di vendere cibo, si farebbero pagare per il permesso di comprare cibo non loro. Per poco Salima non scoppiò a ridere. Se lo faceva lei era un crimine, se lo metteva in vendita un’azienda era un prodotto.

«Che si voglia essere liberi o si voglia schiavizzare, si ha l’esigenza del controllo. E per il controllo è necessaria la conoscenza.» Così Cory Doctorow, in un discorso sul computer universale – il general purpose computer, un’idea di computer in grado di eseguire qualsiasi task –, esaminava il passaggio dall’economia del possesso degli hardware a quello dei software: lo scopo dell’information economy è la compravendita di informazioni. La loro protezione è assicurata da politiche che ne limitano l’uso da parte di utenti che in realtà le possiedono di diritto.
Il mondo descritto da Doctorow trasmette la speranza costante di un’economia della post-scarsità, della condivisione libera del sapere e dell’abbattimento di ogni metodo di controllo dei diritti (il DRM). Una visione che non lo rende un accelerazionista cieco e spensierato, più un commentatore consapevole in una posizione di costante riflessione sull’illusione di una tecnologia anonima politicamente e socialmente. A tratti l’ingenuità dell’autore crea una visione idilliaca che stride con la realtà se pensiamo per esempio a La valle oscura di Anna Wiener (traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi). Nel suo resoconto personale dell’esperienza tra le startup della Silicon Valley, l’occhio della Wiener cattura una mentalità estremamente creativa e ribelle che però non tollera nessuna opposizione esterna. Tutta la spinta anarchica e innovativa scopre gradualmente il suo vero volto, che non è molto lontano dal modo con cui il potere utilizza tecnologie e informazioni per esercitare il controllo.

Tornando a Radicalized, nel racconto Minoranza modello un Superman a tutti gli effetti è chiamato a prendere posizione per gli abusi della polizia, lo stesso sistema che ha servito per anni. L’accusa per la scelta acritica dei supereroi proposta da Watchmen di Alan Moore, con Cory Doctorow incontra una risposta stilisticamente meno originale: la decostruzione del supereroe è già avvenuta ed è solo l’orpello di un’opinione pubblica astorica e sensazionalista («Non interessa a nessuno cos’hai fatto un secolo fa, però tutti ricorderanno molto a lungo ciò che hai fatto la settimana scorsa»). L’eroe American Eagle è spogliato di ogni paternalismo e svela tutte le criticità di chi ha il privilegio di trovarsi dalla parte armata della barricata. Le questioni sociali decise da un software di sorveglianza predittiva – in base a calcoli probabilistici su quartieri malfamati – e risolte dagli scontri che ricordano quelli di Black Lives Matter svuotano di senso i suoi superpoteri: usarli significherebbe accettare gli strumenti oppressivi, non muoversi vorrebbe dire sottostare ai ricatti dell’informazione.
Lo stesso dilemma tormenterà il protagonista di Radicalizzati. Dopo che l’assicurazione sanitaria della moglie di Joe si rifiuta di pagarle le terapie, lui comincia a frequentare un forum online che assume toni sempre più violenti con conseguenze disastrose. L’effetto tabula rasa della comunicazione asincrona, la giustificazione linguistica di “squilibrati” e non di uomini bianchi “attentatori”, la sorveglianza che annulla ogni illusione di anonimato sul web vengono metodicamente costruite grazie a un crescendo di ossessioni nate dall’isolamento, dalla disperazione e dal collasso di uno stato sociale mai esistito.
Doctorow è un osservatore che non risparmia nessuno perché è consapevole di suggerire il contrario, un’utopia: ogni tecnologia porta con sé l’idea di mondo di chi l’ha creata, la speranza è suscitarne un uso etico e sostenibile. A rafforzare il bagaglio ideologico che muove le storie dell’autore c’è anche una vita da attivista per la liberalizzazione del copyright e l’opposizione al digital rights management (tanto da scegliere di distribuire alcune sue opere con licenza Creative Commons). Se abbiamo avuto l’impressione che i racconti di Doctorow non fanno che rappresentare l’attualità senza una proposta di soluzione vera e propria è perché la sua idea di fantascienza è di una letteratura riflessiva, non predittiva. Nonostante racconti avvenimenti troppo prematuri o troppo sdoganati per suscitare una risoluzione si avverte tutta la speranza rivolta alla finzione: sfruttando il potere dell’identificazione il lettore fluttua nel mondo del personaggio, incontra e avvicina condizioni in cui riecheggia un clangore contemporaneo. E forse quando arriverà il momento sarà pronto.

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L'opera ossessionata di Patricia Highsmith

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di Debora Lambruschini

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Patricia Highsmith, scrittrice schiva, americana trapiantata in Europa dove i suoi thriller psicologici sono sempre stati accolti con particolare favore, molto spesso trasposti in versione cinematografica. La Nave di Teseo ha iniziato la ripubblicazione di tutte le sue opere in edizioni rinnovate e, in questo lavoro di recupero, trovano quindi spazio anche le prose brevi di Highsmith, scritte fra il 1935 e il ‘68, e riunite nella raccolta Donne pubblicata a fine Gennaio. Sedici racconti noir, così li definisce l’editore, in cui si riconoscono moltissime delle ossessioni intorno a cui Highsmith costruirà la sua carriera letteraria a partire dal romanzo d’esordio, “Sconosciuti in treno”, dal quale verrà tratto il celebre film di Hitchcock per la sceneggiatura di Raymond Chandler; un successo di pubblico – la critica, specie quella statunitense, è sempre stata più tiepida nell’accogliere l’opera di Highsmith – cui seguirà la serie dedicata al suo personaggio più iconico, Tom Ripley, anche questo portato sul grande schermo in varie versioni. Autrice prolifera, personalità riservata e sfuggente, eccentrica e morbosa a tratti, Highsmith aveva trovato a Locarno, in Svizzera, il rifugio ideale per ritirarsi dal mondo e concentrarsi soltanto sulla sua scrittura, dopo che dal Texas era prima giunta a New York e poi in Europa.

 La passione letteraria scoperta presto, durante gli anni dell’università e, soprattutto, la costruzione di una voce, uno sguardo propri: laddove alcuni scrittori sperimentano e cambiano prospettiva a ogni nuovo libro, Highsmith si colloca invece tra coloro che seguono fedelmente le proprie ossessioni, le rielaborano e scandagliano un libro dopo l’altro, costruendo così un universo letterario coeso, abbondante di rimandi, riconoscibile. Un approccio che può diventare limitazione o al contrario, in qualche fortunato caso, la base solidissima su cui ergere i propri edifici narrativi. Penso per esempio a Richard Yates che delle crepe sulla facciata ha fatto il proprio universo letterario con risultati magistrali, scrivendo e riscrivendo, in fondo, sempre la stessa storia ma caricata di volta in volta di abissi umani e narrativi, con una lingua cesellata con cura artigiana. Come lettori noi pure nutriamo le nostre ossessioni, tornando volontariamente o meno a scritture e tematiche che toccano corde particolari e nel constatare dall’altra parte, negli autori, simile abbandono all’ossessione c’è un che di rassicurante, una sorta di riconoscimento e connessione.
Patricia Highsmith ha vivisezionato le proprie ossessioni in ogni scritto, in romanzi e racconti non sempre pienamente riusciti, ma dentro ogni pagina la sua voce è riconoscibile e si inserisce nel suo mondo letterario fatto di continui rimandi, spunti, inquietudini.
In questo contesto, quindi, si inseriscono anche i racconti di “Donne”, pubblicati su rivista e per lo più inediti in Italia, affidati alla traduzione di Hilia Brinis, Lorenzo Matteoli e Sergio Claudio Perroni, in cui le figure femminili del titolo – anche quando non direttamente protagoniste delle storie – rappresentano l’increspatura del quotidiano, la chiave di volta. Ma la parola cardine con cui interpretare queste storie è, prima di tutto, “cambiamento”: i personaggi in scena sono mossi da un desiderio di mutamento, di fuga talvolta, dalla possibilità di ricominciare. Un cambiamento che tuttavia si scontra con la realtà, con i limiti della propria posizione, con l’increspatura, si diceva, che annulla le possibilità. Negli altri, estranei le cui vite brevemente si sfiorano, i personaggi di Highsmith intravedono ciò che anelano per sé stessi ma non riescono mai pienamente a possedere; si rivelano tutte le crepe lungo la facciata, il sogno che contrasta con la realtà, l’immaginato con la vita. Ad attraversare storie e romanzi di Highsmith, quella familiare sensazione di inquietudine, il dubbio, l’ambiguità, il senso di pericolo, di cui anche questi racconti sono intrisi. La scrittura di Highsmith non ha mai temuto di esplorare le zone più buie dell’animo umano, quegli stessi tormenti che qualche volta le sono costati in critiche feroci, sottolineando perciò come «art has nothing to do with morality, convention, or moralizing» (“Plotting and Writing Suspense Fiction”), e continuando in ogni scritto a scandagliare la natura di colpa e innocenza, bene e male, i confini labili di entrambe.

Ecco, quindi, come un quadro all’apparenza ordinario, pacificato, rivela improvvisamente il carico di solitudine, pericolo, lo «scricchiolio della realtà» di un dettaglio che muta completamente il corso del racconto e della nostra stessa percezione.
È la sensazione di profonda solitudine ciò che per prima avvertiamo entrando in certe storie, l’estraneità e il vuoto: di una bambina da poco trasferitasi in città insieme ai genitori che si scontra con l’indifferenza e l’ostilità, di una comunità che giudica, isola e non perdona, di una donna che ha già vissuto molte vite e tenta di liberarsi, di esistenze che si incrociano e sfiorano:

 

C’era, nelle cose semplici che ognuno di loro tre aveva fatto quella mattina, un elemento di dramma iniziale che l’avrebbe fatta ridere se non ci fosse stato anche il senso della loro solitudine. La sensazione di quella domenica sarebbe rimasta con lei per tutta la vita. Questa stanza, indifferente alla loro presenza come tutto il Nord […. ]

(“La campionessa del mondo di rimbalzi sul marciapiede”, p. 13)

 

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Due mondi che si intersecano, il confine tra giusto e sbagliato sempre più evanescente, sono il centro nevralgico di ogni narrazione di Highsmith: Sconosciuti su un treno, Il talento di Mr Ripley, Carol e parte dei racconti contenuti in questa raccolta sono esemplificativi di tale ossessione narrativa, cui ogni volta Highsmith attinge, mostrandoci l’ambiguità del quotidiano, le sue contraddizioni, la natura di colpa e innocenza, la perdita di sé stessi dentro regole e stereotipi.
Ambientati tra New York e sobborghi, i racconti di “Donne” – alcuni scritti agli inizi della sua carriera professionale – rappresentano quindi un punto di osservazione interessante del percorso letterario di Highsmith e, tra questi, ve ne sono alcuni particolarmente riusciti, laddove la scrittura viene pienamente liberata, e svicola da ogni regola e convenzione stereotipata, creando atmosfere di potente ambiguità, efficaci spazi bianchi nella narrazione.

 

D’improvviso, mentre si rannicchiava nel vano della finestra, la cittadina parve stringersi, gelida e ostile, intorno a lui.

(“Mattinate radiose”, p. 55)

 

Qui, nei racconti e nei romanzi dove lo sguardo dell’autrice cala in profondità, la pagina si fa carne e sangue, l’ambiguità di quanto leggiamo provoca squarci, certezze e rassicuranti istante vacillano.

Imperfetta e altalenante negli esiti, l’opera di Patricia Highsmith mostra ancora numerosi spunti di riflessione importanti, spesso messa in ombra dall’interesse per la sua autrice, le bizzarrie, le posizioni personali. Un peccato, perché è tra le pagine, i romanzi e le storie, che esiste tutto ciò che conta di un autore.

 

TRA ROMANZO E RACCONTO: RACHEL CUSK E ELIZABETH STROUT

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di Antonio Tedesco

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Per usare un vecchio modo di dire: cacciati dalla porta i racconti rientrano dalla finestra?
I libri di Rachel Cusk (Resoconto,Transiti e Onori, Einaudi) e di Elizabeth Strout (Olive Kitteridge, Fazi e Olive, ancora lei, Einaudi), per fare solo due esempi tra i più eclatanti, potrebbero anche considerarsi come raccolte di racconti aggregati secondo un’omogeneità di senso, un filo conduttore intimo, sottile che, pur avvalendosi di una ambientazione precisa e di un “personaggio-guida”, non sviluppa mai una trama, intesa in senso stretto, lasciando all’elaborazione del lettore l’interpretazione del percorso umano e psicologico dei personaggi. Questi ultimi, specie nei libri di Rachel Cusk, ma anche in molti capitoli-racconto dei due Olive Kitteridge, vengono colti quasi casualmente in una sorta di istantanea emotivo-esistenziale, che riesce, in molti casi, a dirci sul loro conto di più che se ne seguissimo una complessa parabola narrativa. L’attenzione delle due scrittrici in questione si concentra soprattutto sulle persone, sulle loro esperienze soggettive legate alle atmosfere, ai contesti in cui vivono, al loro sentire, alle loro percezioni a volte piccole e sfuggenti se non insignificanti in apparenza, al continuo confronto con se stessi e con gli altri, agli smarrimenti individuali e collettivi.

 

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Elizabeth Strout, nei due libri citati, segue le vicende esistenziali di una serie di personaggi, senza mai disgiungerli dall’ambiente in cui tali accadimenti si dipanano (l'immaginaria cittadina di Crosby, nel Maine) e facendo, anzi, dell’ambiente stesso – del luogo, del clima, delle sue costanti e variabili, dell’atmosfera che si respira più in generale – un personaggio a sua volta, che partecipa e influenza le esistenze di chi in quel luogo vive.
I libri della Strout sono suddivisi in capitoli che, nel loro essere ampi e significativi frammenti di esistenze individuali, restituiscono dignità alla forma ampia che i racconti autonomi posseggono; dove può accadere che solo in maniera marginale, o apparentemente casuale, emergono collegamenti alle vicende della protagonista. La quale, pur senza perdere il suo ruolo di personaggio centrale del libro, viene raccontata a sua volta attraverso episodi ben distinti e autosufficienti.
Questo procedimento narrativo mira a creare una continuità che pure appartiene alla forma romanzo, ma lo fa rimanendo, senza ombra di dubbio, nella specifica fisiologia della struttura del racconto.  Questo le permette di svicolare da qualsiasi margine temporale, e seguire un ordine cronologico impreciso e saltellante. Eppure, alla fine, dall’unicità del contesto, ai personaggi che tornano e “fanno capolino” da una storia all’altra, si percepisce un’idea di coerenza e unità del tutto.
Una scelta stilistica in cui la visione del tempo è intesa come amalgama, un flusso dove passato, presente e futuro rischiano di diventare solo delle convenzioni di comodo.
Olive Kitteridge e Olive, ancora lei, sono, quindi, raccolte che si articolano per episodi autonomi e autoconclusi, in cui la natura e il paesaggio sono, come già accennato, parte attiva di questo incipiente accadere. Del quale gli uomini sono incapaci di cogliere le ragioni profonde e vivono tutto questo in uno stato di costante smarrimento, di inesprimibile disagio, che si manifesta attraverso incertezze, esitazioni, gesti incompiuti. Le storie sono tutte qui. Sono implicite, implose in queste vite soffocate e sofferte e non hanno bisogno di ulteriori impalcature, della costruzione artificiosa di una trama.
Il personaggio di Olive Kitteridge, con le sue asprezze, le ruvidità del carattere, la scarsa predisposizione a compiacere ipocritamente le convenzioni sociali, è come una sorta di sonda, un elemento di contrasto attraverso il quale si evidenziano atteggiamenti, comportamenti, contraddizioni di tutto il piccolo mondo che la circonda.  Quasi fosse un punto di fusione in cui quel circoscritto ma rappresentativo universo confluisce, con tutto il suo carico di sofferente umanità.

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Questa forma ibrida, che è stata definita anche come “romanzo in racconti”, potrebbe essere riconosciuta anche in quella utilizzata dalla scrittrice canadese naturalizzata britannica  Rachel Cusk, per quanto riguarda i romanzi che compongono la sua trilogia di cui Resoconto è il primo titolo, seguito da Transiti e Onori, tutti editi in Italia da Einaudi. Ciò che  si manifesta centrale, in queste strutture romanzesche, è la scrittura stessa, intesa come punto di convergenza, di osservazione e soprattutto di ascolto. Pratiche dalle quali trae elementi che vengono riportati, come dice appunto il titolo del primo dei tre libri (Resoconto), in maniera precisa ma neutra, registrando le voci e le realtà per quello che sono, senza interporre alcun giudizio sul merito delle stesse o sulle persone che le esprimono.
Non a caso proprio nel primo romanzo la cornice è Atene. Ciò che si evoca, in fondo, è l’Agorà, in quanto luogo di incontro, di riunione, di scambio. Protagoniste sono le parole. Che, come in Shakespeare, evocano pensieri, sentimenti, stati d’animo: sottili risvolti di complesse psicologie umane. Con una lingua estremamente letteraria, che proprio per questo è in grado di evocare con assoluta precisione le corrispondenze ricercate in chi legge. Un processo di gestazione e manipolazione del linguaggio che riesce a restituire con sorprendente naturalezza una realtà profondissima. Un porsi (stare) nel mondo, carico di interrogativi e perplessità.
Il concetto di Agorà assume, quindi, una sua particolare dimensione come luogo di ricerca di sé attraverso l’altro (attraverso l’ascolto dell’altro).
Anche i libri successivi seguono la medesima falsariga del primo. Non romanzi di intreccio narrativo, ma di frammenti di vita, di esperienze, di capacità di dire e di ascoltare, nel quale brandelli di esistenze, di visioni, di modi di stare al mondo, vengono colti dall’autrice e riportati attraverso questo suo sofisticato procedimento creativo. In Transiti c'è un filo conduttore sotterraneo, quello di una casa da ristrutturare radicalmente (la casa acquistata dalla narratrice trasferitasi, dopo il divorzio, a Londra) che, ridotta poco meno che a un cumulo di macerie, assume subito la funzione di metafora delle varie macerie esistenziali nelle quali, i singoli personaggi che compaiono, si dibattono più o meno consapevolmente.
Rachel Cusk, con un procedimento più complesso, e per certi versi meno accattivante di quello utilizzato da Elizabeth Strout, la quale privilegia, per certi versi, il fattore emotivo, scava a fondo, con il suo linguaggio preciso e pregnante, dietro la facciata di ognuno (la casa sembra bella solo apparentemente, ma dentro è completamente da rifare), mettendo a nudo, attraverso le loro stesse parole, alternando la forma del dialogo a quella del discorso indiretto libero, le fragilità, le incertezze, i pregiudizi, i condizionamenti, la casualità, spesso illogica, delle scelte.
Una chiave di lettura di tutto il testo può essere ricercato nelle parole di Dale, di professione parrucchiere, in uno dei primi capitoli del romanzo (che anche in questo caso hanno le caratteristiche di essere strutturati come racconti ben distinti e autonomi), in cui la scrittrice fornisce una notevole prova della sua arte narrativa. Il dialogo dell'io narrante con il parrucchiere, viene perfettamente contestualizzato e contrappuntato nell'ambiente in cui si svolge (l'elegante salone, appunto) durante un'elaborata operazione di tintura di capelli a cui la narratrice stessa si sottopone. Ambiente che, attraverso alcuni piccoli, ma significativi scambi nei rapporti tra lavoranti e altri clienti, sembra trasformarsi proprio nell'emanazione delle parole e dei concetti che il parrucchiere stesso espone alla scrittrice.

Il capitolo esordisce con una frase allegorica e carica di senso:

 

Ho chiesto a Dale se poteva provare a liberarmi dal grigio.

 

Il parrucchiere lascia trapelare il suo scarso apprezzamento per tali operazioni di “mascheramento”. E, mentre attende meticolosamente al suo lavoro, racconta alla cliente-scrittrice alcune vicende personali riguardanti la sua famiglia e i suoi amici. In particolare di un nipote un po’ disagiato, ma anche di una specie di illuminazione che lo aveva colto, una sera di capodanno trascorsa in casa propria con amici e conoscenti. Quella sera, alla proposta di uscire per andare a festeggiare in un locale, gli si era palesata con una chiarezza ineludibile tutta l’incongruità dei suoi ospiti, del loro atteggiamento, della vacuità delle loro azioni e delle loro parole, tutta la sostanziale immaturità nascosta dietro il loro modo di essere e di fare. Un'improvvisa consapevolezza epifanica, che lo aveva portato a trarre sconfortanti conclusioni  riguardo l’inadeguatezza dello stare al mondo.

 

(…) quel capodanno aveva avuto la sensazione che nella stanza ci fosse qualcosa di enorme che tutti quanti fingevano di non vedere.

Gli ho chiesto cosa fosse. (…)

- Paura – ha detto – E ho pensato, io non scappo. Io resto qui finché non se ne è andata - .

 

Questi Transiti, allora, sono come passaggi nella vita e nelle vite. Transiti come apparizioni, epifanie che aggiungono tasselli, che vanno a costruire una visione disincantata e disillusa, in cui nessuno è immune dal sentirsi sperduto, confuso, incapace di fronteggiare quelle “macerie” che sempre e comunque incombono. Fino al capitolo finale dove, pur senza giungere ad alcuna reale conclusione, ci si apre ancora ad altre rivelazioni, o meglio, a degli svelamenti, che riguardano storie passate, sentimenti repressi, ma anche impulsi incontrollabili. 
Lo sguardo dell’autrice, in apparenza neutro e oggettivo, nasconde, proprio in virtù di questo, un senso profondo di compassione e partecipazione. Non si assolve, non si pone su alcun piedistallo, sa che le macerie sono anche nella propria casa.

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Ciò che emerge con maggior forza nei libri di queste due scrittrici è l’attenzione agli altri, alla vita degli altri. Una grande capacità di ascolto che si trasforma in partecipazione emotiva. Un’empatia che pare trasudare dalla pagina anche quando l’autore (Rachel Cusk), o il personaggio principale (la Olive della Strout) sembrerebbero volerne prendere le distanze.
Si potrebbero fare ancora altri esempi di questa struttura ibrida, svicolata dal canone classico romanzesco, di cui il romanzo contemporaneo sembra un po’ disinteressarsi, come Asimmetria di Lisa Halliday (Feltrinelli), libro composto da due romanzi brevi e un racconto lungo finale, ognuno dotato di una sua sostanziale autonomia, ma che pur trova in questa apparente frammentazione una propria omogeneità.

Sono solo alcuni degli stimoli (che ci giungono, in questo caso, da tre bravissime scrittrici) a ripensare la forma romanzo, che rischia di sclerotizzarsi in una infinita coazione a ripetere, pur nelle sue innumerevoli varianti (ma Ezra Pound non aveva detto che dopo l'Ulisse di James Joyce il romanzo non sarebbe stato più lo stesso?).
Le scrittrici prese qui in considerazione raccontano utilizzando strutture narrative ampie e ariose e libere, ma senza necessariamente romanzare. Recuperando, in qualche modo, e rigenerando, la più antica forma di comunicazione e trasmissione dell'esperienza umana, che è il racconto - appunto.

Una manciata di lettere per un mondo: Alfabeto di bambola di Camilla Grudova

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di Fabrizia Gagliardi

«Un pomeriggio, dopo aver bevuto una tazza di caffè in soggiorno, Greta scoprì come scucirsi». Con la raccolta d’esordio Alfabeto di bambola (il Saggiatore, traduzione di Andrea Morstabilini), Camilla Grudova impone subito un immaginario deciso e particolare. Proprio come «vestiti, pelle e capelli le si staccarono di dosso come la scorza di una sbucciata di un frutto» sin dal primo racconto pezzi di una realtà cederanno il passo a un universo tra il weird e la distopia. Una delle parti più difficili di chi scrive dell’orrore è dare all’impossibile la coerenza tanto agognata: gli scrittori del genere non sono solo artigiani delle parole, la metafora di plasmatori della creta sarebbe fin troppo terrena e finita. Scrivere dell’orrore ha a che fare con il sacrificio di una parte della realtà conservando l’arbitrio del plausibile e scavando nella curiosità dell’ignoto. Solo così ci si mette a servizio della curiosità di chi legge per titillare la tentazione di ribaltare un sasso perfetto e lucidissimo e scoprire le creature che dimorano al di sotto di esso.

In questo contesto Camilla Grudova non opera al buio: ha dalla sua parte una lunga tradizione del genere, fatta di immaginari possenti (a partire da Lovecraft) e tropi codificati (mesmerismo, trasmigrazione, strani marchingegni scientifici e creature non umane). I lettori dell’orrore, molto più di chi si dedica alla narrativa, dispensano cauta indulgenza verso chi è in grado di innovare il già visto. Non si tratta di scoprire l’innominabile ma di servirsene per affidargli l’esplorazione di un confine defilato agli occhi dei più. In questo modo abbiamo letto il male di Stephen King che incarna deviazioni dell’America contemporanea, l’oblio cosmico di Lovecraft che opera al di fuori della razionalità umana, l’estasi e l’eleganza della morte in Edgar Allan Poe.

Nei tredici racconti di Alfabeto di bambola il lavoro di coinvolgimento del lettore inizia proprio dalla creazione di un mondo unico che deforma alcune tracce della realtà.
Il problema abitativo – gli spazi angusti e privi di natura delle città – unito alla miseria di larga parte della popolazione plasmerà un costante sapore cromatico di grigio, la polvere scricchiolerà tra i denti e non sembrerà così scontato ereditare disturbi dell’accumulo:

Comprava, rubava, tagliava e strappava pezzetti di città come se questa fosse un frutteto: un monumento dimenticato, un cupido su una tomba visitata di rado, un battaglio a forma di tricheco, le tende dalle finestre aperte, belle piante dai davanzali, un pezzetto di intonaco arabescato dalla facciata di un edificio, la fisarmonica rossa di un musicante cieco, bambole e orsacchiotti strappati dalle braccia di bambini addormentati sul metrò, gatti e uccelli che faceva impagliare a un distinto signore che le faceva uno sconto se gli portava più animali di quanti lei stessa potesse usare.

Uno stile ordinato e metodico crea continuamente una materia che chiede di fondersi in spazi angusti e perversioni dell’oblio. Più che sondare l’estasi barocca della trasgressione e dell’erotismo come Angela Carter, o alimentare visioni dell’emarginazione à la Shirley Jackson, la Grudova predilige una voce materica, in grado di sprigionare le conseguenze dell’accoppiamento di oggetti, pezzi di carne e creature.

In città dove si annusano pozzanghere e si mangiano topi in vicoli «con la vitalità umana di uno spettacolo di marionette» non è difficile immaginare modifiche genetiche e una biologia diversa dall’umano. Le sirene, per esempio, non sono divise in due, pesce sotto e donna sopra, ma sono mescolate insieme «come il tè con il latte» (nel racconto La sirena), un comune candelabro è nato dall’unione di un polpo e di una sirena di legno sulla prua di una nave e sviluppa una coscienza umana (ne La triste storia del candelabro), le donne partoriscono grumi rosa o carni simili a moccoli di candela (in Moccolo). Quello che potrebbe apparire come un teatro degli orrori non è un’ostentazione di freaks, perché l’eccezione non è spettacolarizzazione di repellenza o di pietà, ma è una naturale evoluzione del mondo esposto a radiazioni di casualità.

Unica presenza consolatoria è lo sguardo costante delle donne che nella maggior parte dei racconti sono interpellate in prima persona: s’innamorano di proiezioni di lanterne magiche, accettano che il compagno porti a casa il corpo senza vita di una nana, partoriscono creature senza ossa. L’impressione è di assistere a tante, candide, intercapedini che potrebbero capovolgere l’ordine costituito ma che, per una missione da dee destituite, assorbono i buchi neri di instabilità. Da custodi di ricordi vivono mondi simili alle distopie di Margaret Atwood e costituiscono classe proletaria deputata alla generazione della vita lasciando agli uomini lo spazio per studio e inseminazione incontrollata:

Trovare un Uomo che aveva abbastanza soldi messi da parte con gli Esami e voleva anche dei bambini: ecco il Grande Obiettivo. Non mi ricordavo i miei genitori. I bambini di entrambi i sessi erano portati via all’età di tre anni. Alle bambine toccavano cinque anni di studio in Abilità e Prospettive di Vita, poi andavano a lavorare in una Fabbrica di Addestramento, che di solito faceva vestiti e giocattoli per i maschi, mentre i maschi restavano a scuola fino a sedici anni, quando iniziavano a sostenere gli Esami e a cercare una donna che si occupasse di loro.

Il rapporto stabilito con la carne propria e altrui non ha niente di erotico e costituisce un impedimento alla libertà e all’istinto di sopravvivenza. Sembra di assistere alla stessa sensazione d’inquietudine che percorre i racconti di Thomas Ligotti. «Niente di quel che ci guida ha senso, nel caso non te ne fossi accorta» leggeremo nel suo Teatro Grottesco, in cui gli stessi ambienti labirintici e asfissianti, il decadimento e le storpiature delle forme conducono un uomo inerte al compimento del proprio destino, privo di libero arbitrio.
Seppure alla sua prima prova Camilla Grudova riprenda un contesto simile, alla fine riuscirà a imporre la propria visione dell’orrore. Nel senso di smarrimento sembra di leggere storie della tradizione orale che hanno nella loro identità la sopravvivenza di tutti quelli che le hanno raccontate. S’individua una fine che è ancora possibile controllare e che, anche nel caos e nella spietatezza della perdita, conserva un ordine proprio. Un potere che probabilmente sarà controllato dalle donne.

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La distopia nei miliziani di Mazen Maarouf

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di Anna Lo Piano


A metà di Applausi a scena vuota di David Grossman, c’è una di quelle scene destinate a imprimersi nella memoria di chi legge.
Il protagonista Dova’le, uno stand up comedian dal successo incerto, sta raccontando a un pubblico interdetto un episodio della sua infanzia avvenuto durante un campo estivo (uno di quei campi estivi israeliani simili ai nostri campi scuola, solo con più deserto e più militari). Mentre trascorre lì le sue vacanze, vessato e bullizzato dai compagni, il piccolo Dova’le viene chiamato dal direttore e avvisato che deve tornare subito a Gerusalemme per andare un funerale. Seduto nella macchina del giovane soldato che deve accompagnarlo, il ragazzino è preso dall’angoscia. Dai discorsi degli adulti ha capito che uno dei suoi genitori è morto, ma nessuno si è preso la briga di specificare se si tratti di sua madre o di suo padre, e lui non ha il coraggio di chiederlo. Il giovane soldato comincia allora a raccontargli delle barzellette una dopo l’altra, senza tregua, chiedendogli in continuazione di ridere o almeno reagire. Lo fa per esercitarsi, così almeno sostiene, perché a breve ci sarà una gara di barzellette per militari e lui vuole vincere a tutti costi il primo premio.
Ora, si chiede il comico, se raccontare storielle a un bambino che è appena rimasto orfano è una cosa di per sé assurda, non è ancora più assurdo che esista una gara di barzellette per militari? Deve esserlo per forza, visto che negli anni, pur avendo cercato ovunque qualche informazione a riguardo, non ha trovato niente che potesse confermarlo.
La questione nel libro rimane sospesa, ma per uno di quei cortocircuiti che si creano a volte tra le storie, appena qualche giorno prima di leggere Grossman, avevo trovato un episodio analogo in Barzellette per miliziani di Mazen Maarouf, pubblicato da Sellerio e tradotto da Barbara Teresi.

Nel primo racconto, che dà il titolo alla raccolta, il narratore è un bambino alle prese con un padre che lui vorrebbe invincibile, ma che invece viene umiliato da una banda di miliziani che lo costringono, giorno dopo giorno, a inventare barzellette sempre nuove per divertirli.

Adesso, dopo averlo riempito di botte, anziché dirgli come al solito: «Noi siamo qui per proteggervi», iniziarono a chiedergli di raccontare loro una barzelletta. «Dai, raccontaci una barzelletta prima che te ne vai», dicevano.  «Non avere fretta». E mio padre doveva pensare a una storiella divertente. È ovvio che davanti a una platea di miliziani devi essere un buon narratore se vuoi guadagnarti la libertà. La tua storia deve essere convincente, interessante, brevissima. E deve fare ridere.
Non come questo, racconto, per esempio
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Malgrado la meta-autocritica di Maarouf, il racconto fa ridere, anche in un suo modo strano. E la sensazione di fastidio, humour nero, compassione estrema e ancora fastidio che attanaglia il lettore per tutto il libro, ricorda in modo impressionante quella del pubblico che durante tutto lo spettacolo di Dova’le, mentre il comico alterna battute a provocazioni, prese in giro e confessioni tragiche e personali, si chiede se sia il caso di rimanere o fuggirsene a gambe levate.
Per restare bisogna stare al gioco, farsi condurre da un narratore che in quasi tutti i racconti è bambino, o è rimasto tale anche da adulto, e scompiglia i piani del reale e dell’immaginario, passa da un elemento all’altro seguendo un suo pensiero che appare illogico ma invece ha una coerenza assoluta,  e ti porta a spasso in un mondo in cui una pianta di peperone contiene le anime della famiglia, e un occhio di vetro ti protegge dalla violenza.
Lo sguardo bambino però non edulcora niente. La realtà della guerra è portata alle estreme conseguenze attraverso personaggi che inseguono le proprie ossessioni, corpi deformi, animali vaganti. Figure di un mondo che ha perso ogni punto di riferimento, dove tutto è possibile e i sentimenti di minaccia, paura, insicurezza sono resi nel loro stato puro.
«La finzione è una forma pura della menzogna» ha dichiarato Maarouf in un’intervista al Festival della Mente di Sarzana del 2019, e se per convincere il lettore uno scrittore deve sempre mentire, per mentire in modo convincente deve partire da un elemento di realtà, che in questo caso è la sua stessa esperienza di bambino palestinese cresciuto nel campo profughi di Chatila, a sud di Beirut, e vissuto in Libano all’interno di quel solco scivoloso che è lo statuto di rifugiato.
Poeta, giornalista, attivista, Maarouf è stato perseguitato a causa dei suoi articoli e delle sue poesie, finché nel 2011 non è stato costretto a fuggire a Reykyavík dove ha ottenuto lo statuto di rifugiato politico, in un gioco di bambole russe fra le sue multiple condizioni di apolide. In Islanda, in una città in cui, come ha ripetuto in più occasioni, il vero choc culturale è stato sperimentare per la prima volta cosa vuol dire vivere senza una cappa di violenza e costante minaccia, sono tornati fuori i ricordi, e ha scritto Barzellette per miliziani, che nel 2016 ha vinto Al Multaqa Prize, il premio più importante per i racconti in lingua araba.

Se la finzione serve a tenere insieme la realtà, soprattutto la propria, e a ricucirla dandole una forma che aiuti a comprenderla e darle un senso, l’umorismo può servire a dominarla.  E il mondo arabo ha una lunga tradizione di ironia e irriverenza nei confronti delle tragedie e del potere, come ha messo in evidenza un libro di qualche anno fa: Il sorriso della Mezzaluna. Umorismo, ironia e satira nella cultura araba di Paolo Branca, Barbara De Poli e Patrizia Zanelli (Carocci 2011). Sebbene negli ultimi anni una parte radicale dell’Islam sembra aver perduto il legame con questa tradizione, scagliandosi violentemente con chiunque osi mettere in discussione l’assoluta serietà di certi temi, e i governi dittatoriali non siano benvolenti nei confronti di nessuno, è certo che nel mondo arabo, in epoca moderna così come in quella classica, qualunque istituzione o comportamento, dai rapporti familiari passando per il potere politico e anche la religione, è perennemente oggetto di battute, proverbi, barzellette e opere umoristiche di vario genere. La risata è l’arma dei deboli. Se la tragedia ti manipola, l’umorismo ti permette di manipolare la realtà, di dissacrarla, come ben sanno Joha, Giufà, Giacante o Nasreddin, incarnazioni mediterranee dello sciocco sapiente che scardina i giochi della lingua, prende tutto alla lettera, non si autocensura mai e smaschera sempre il re nudo. Il protagonista di Applausi a scena vuota è stato un bambino fragile, senza protezione, isolato e preso di mira dai prepotenti. Per ribellarsi comincia a camminare sulle mani, testa in giù e piedi in aria, e da questa prospettiva ribaltata guarda il mondo degli adulti, cercando di far ridere sua madre, di salvarla con una risata dalla depressione in cui rischia di sprofondare definitivamente. Anche i bambini di Barzellette per miliziani hanno perso la protezione da parte degli adulti da un regime di violenza senza senso che li sovrasta. I padri che avrebbero dovuto fare da scudo, opponendosi al caos, ne sono stati le prime vittime.

Sebbene siano passati quindici anni, mio padre prova ancora un forte imbarazzo. Mi dice che si vergogna di se stesso. «Quant’ero codardo!», osserva.
«Okay, papà» ribatto io, «non tutti, in guerra, possono essere valorosi».
(Barzellette per miliziani)

Gli uomini di questi racconti hanno tutti perso qualcosa: braccia, gambe, dignità, la capacità di distinguere il vero dal falso, mentre i loro figli e nipoti cercano di salvarli sacrificando i propri corpi, fingendo di credere alle loro ossessioni, ostinandosi a vivere anche quando ancora non sono nulla se non grumi di sangue rappresi.

 

Munir non era un nome moderno. Io e mia moglie lo sapevamo. All’inizio lo abbiamo scelto per gioco, supponendo che il feto fosse maschio. Poi ci siamo convinti che lo fosse per davvero. Un grumo di sangue coagulato ha una personalità maschile. Questa era la conclusione a cui eravamo giunti. La nostra relazione con lui si andava consolidando. Tanto che a volte mi svegliavo per accarezzare la pancia di mia moglie con movimenti circolari in senso orario. (Acquario)

 

Ciò a cui non rinunciano mai però è il tono dissacrante, che smaschera le finzioni in cui gli adulti si intrappolano.

 

Mio zio morì tre volte in una settimana. Iniziò la maratona del suo decesso un martedì, appena tornato dal mattatoio. «Mi hanno fregato», disse. Poi si distese sul divano e morì. Quando è successo tutto questo io non c’ero, ma mamma me lo ha raccontato. Mio zio aveva indosso il costume spagnolo da matador ed era sporco di saliva di mucca, di colore biancastro. A quanto pareva, al mattatoio gli avevano riso dietro. Ecco perché si era tolto la divisa e l’aveva riposta nell’armadio, per poi distendersi sul divano e morire.
(Matador)

 Lo stesso disincanto nei confronti dei padri si ritrova nelle graphic novel dello scrittore satirico Riad Sattouf, coetaneo di Maarouf.  L’arabe di futur, che ha avuto un grandissimo successo in Francia, e che in Italia è pubblicato da Rizzoli Lizard. Si tratta di un racconto ironico di un’infanzia trascorsa tra un paese e l’altro, tra un padre panarabista dai grandi ideali e dalle molte contraddizioni e una mamma bretone sempre un po’ fuori posto. Nella prima vignetta l’autore si ritrae come l’uomo dei sogni: un bimbetto di due anni biondo, educato, colto, incarnazione dell’ideale di perfezione araba del futuro che ha in mente suo padre. In realtà, nel presente, tenace dissacratore di ogni piccola ipocrisia che incontra sul suo cammino.  Ancora un padre, ancora un intreccio tra storia e autobiografia in Antoine di Mazen Kerbaj, un altro autore la cui data di nascita coincide con l’inizio della guerra in Libano.  Kerbaj fa parte del collettivo di Samandal, una rivista indipendente libanese che pubblica fumetti, a cui appartiene anche Barrack Rima. Nato nel 1972, Rima è disegnatore, regista, e autore della graphic novel Trilogia di Beirut pubblicata in Italia da Mesogea. Nei suoi disegni, contraddistinti dall’uso simbolico del bianco e nero, gli elementi della città si sfaldano. L’autore mostra i dettagli del palazzo antico in cui abitava, ma le scene di violenza incorniciate da ciò che resta delle finestre rendono ogni ulteriore spiegazione priva di senso, e lui perde le parole, la voce diventa un rumore di fondo. A poco a poco della città non resta che il senso di spaesamento, si affonda in un magma scuro e denso come la pece.
Anche la Beirut di Maarouf non ha punti di riferimento. Non ci sono quartieri, strade riconoscibili, comunità in grado di offrire radici, ma case, cinema, mattatoi sempre sul punto di essere distrutti da un momento all’altro. Le strade sono popolate da figure archetipiche: i miliziani, i venditori di sahlab. In uno dei racconti per me più belli, Cinema, una bomba irrompe in una sala cinematografica dove si sono rifugiate varie famiglie. Non si vedono morti o feriti, ma il senso della perdita, la tremenda solitudine del bambino che non trova più traccia di sua madre, di sua sorella, come se non fossero mai esistite, la si percepisce nella perdita di punti di riferimento spazio temporali. Non c’è giorno né notte, e il tempo scorre in modo strano, perché, per quanto si sforzi di terminare la riserva di formaggini che la mamma aveva stipato nell’imbottitura del pelouche per sopravvivere ai bombardamenti, questa sembra non esaurirsi mai. Fuori dal cinema, al seguito di una strana mucca che si gonfia ogni giorno di più nutrendosi tra le crepe dei muri in rovina, il bambino vede la città muoversi seguendo parametri inusuali, come se l’esplosione l’avesse spostata in una realtà parallela.
Negli ultimi anni, soprattutto da quando il fallimento delle rivoluzioni del 2011 ha fatto sprofondare i paesi che sognavano il cambiamento in una situazione stagnante, dove sembra che non si possa andare né avanti né indietro, nel mondo orientale è fiorito il genere distopico come modo per raccontare situazioni altrimenti irraccontabili.  Exit west di Mohsin Hamid,  La fila di Besma Abdel Aziz e Frankestein a Baghdad di Ahmed Saadawi, solo per citarne alcuni, sono romanzi in cui realismo magico, weird e distopia si fondono per creare mondi dove passaggi segreti portano dalla guerra a paesi densi di pace, un’istituzione conosciuta come La Porta si prende carico di qualunque incombenza legata alla cittadinanza, costringendo gli abitanti di un intero paese a fare una fila interminabile e immobile anche quando rischiano la vita, e un essere mostruoso si alimenta e ricompone con i resti della devastazione. D’altronde lo stesso Barrack Rima, riferendosi alla Beirut dei suoi disegni, usa il termine di distopia.

Nei racconti di Maarouf, immersi fin dall’inizio in un realismo magico, si assiste a un progressivo distacco dal dato reale per andare sempre più verso il racconto fantastico e simbolico. Anche la voce narrante cambia. I bambini dei primi titoli passano il testimone agli adulti folli, maniaci, che hanno però in comune l’ossessione per gli scherzi, le barzellette. Sono l’uomo che in Biscotto fa impazzire la madre raccontandole storie assurde, quello che ha un amico che ogni notte recita parti da comprimario nei sogni altrui, quello che la volontà di non sorridere mai ha modificato la schiena fino a renderla una piattaforma che ospita feste per bambini, e che alla fine, ironia della sorte, si vendicherà di un miliziano uccidendolo con una battuta (Il Portatore).
Verso la fine lo sguardo cambia ancora, perde ogni residuo di umanità. È un toro, animale che nelle sue forme maschile e femminile percorre tutto il libro, a raccontare l’ultima storia. Antagonista dei personaggi umani che cercano in vario modo di dominarlo con la violenza, in una sorta di tauromachia che ha la sua probabile origine proprio in Mesopotamia, ma che resiste con pazienza come quei tori antropocefali che nella civiltà assira erano a guardia delle porte, immobili e pazienti, in grado di aspettare fino alla fine per prendersi la propria vendetta, e dire la loro su come funzionano gli umani (Juan e Ausa).
Per quanto Maarouf ceda giocando la parola al toro, però, non rinuncia a fare un cenno di intesa al lettore, facendogli intendere che in tutto ciò che racconta, al di là delle voci narranti, l’unica vera voce è la sua. Entra spesso nella narrazione, riprende cose non dette, fa capire che sta scherzando anche nelle situazioni più tragiche, gestisce il ritmo, la tensione e la risata. Insomma, proprio come Dova’le, si comporta come uno stand up comedian, intrecciando storie su storie fino a dire tutto di sé.

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Farsene una ragione con i racconti di Lydia Davis

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di Fabrizia Gagliardi


Prendete un’esperienza e dissezionatela: eliminate la topografia di spazi e corpi, adombrate qualsiasi dettaglio anagrafico di tutti i protagonisti. Aspettate a eliminare le batture, smussatene i contorni letterali per suggerire una vacuità che colpirà nel profondo.
Scomporre, senza alcun fascino stilistico, la ricetta di un racconto ben congeniato dà l’impressione di poter innescare facilmente l’incantesimo che dal particolare conduce all’universale, che è poi la reazione sperata nel rapporto tra noi e le storie. Dalla prospettiva di chi scrive c’è solo un dettaglio ingombrante quanto una diga dall’equilibrio precario: la presenza dell’autore nella finzione, una traccia di realtà che con i suoi strascichi potrebbe invalidare il processo empatico della lettura.

Se in alcuni romanzi l’ascendente autoriale può servire a stimolare la morbosità del lettore, nei racconti tale incursione potrebbe scollegare immediatamente il mondo del lettore da quello dell’autore. Non è sempre così naturalmente: rimanendo nel mondo del racconto femminile abbiamo gli esempi di autrici come Amy Hempel, Lucia Berlin, Grace Paley che hanno attinto alle loro storie sottoponendole alla rivisitazione, affinata e controllata nello stile, fino a spuntarla nella guerra contro la voce interiore.

C’è un’altra autrice che è stata in grado di dissimulare la fantasmagoria dell’autore: Lydia Davis. Alla domanda “starà parlando di sé?” la scrittrice americana non indugia a rispondere di sì, aggiungendo però che «solo perché si usa materiale della vita dello scrittore, non penso che si possa dire che è la sua vita»: il cortocircuito tra finzione e realtà è subito svelato e sfata il mito di una scrittrice riservata, traduttrice tra gli altri di Prost, Flaubert, Blanchot, Simenon, che è stata sposata con Paul Auster e che ha alle spalle un romanzo, sette raccolte di racconti, raccolte di saggi su scrittura e critica letteraria.

In Italia i racconti della Davis sono arrivati gradualmente, prima con Pezzo a pezzo (Break It Down, 1986) pubblicato da Minimum fax nel 2004, poi recuperati da BUR Rizzoli con Inventario dei desideri  (che raccoglie Pezzo a Pezzo e Quasi senza ricordi, Almost No Memory del 1997) e Creature nel giardino (con Samuel Johnson è indignato, 2001, e Varieties of disturbance, 2007), tradotte da Adelaide Cioni.

Racconti di poche pagine, spesso anche di una riga, che ci accompagnano in un percorso del tutto inedito nello stile e in un tipo di componimento breve ancora mai incontrato. «Per me il racconto definisce una forma tradizionale, il tipo di storia scritta da Hemingway, da Katherine Mansfield o da Čechov. È più lungo, più sviluppato, con scene narrative e dialoghi», la stessa Lydia Davis ha ammesso che le sue sono solo storie (non “short stories”) o piccoli poemi, poche rientrano nella definizione canonica di racconto. Prima di farsi prendere dall’ansia della classificazione che la vede come esponente contemporanea della flash fiction, a cui sono stati assegnati epiteti creativi come “miniaturista”, vale la pena chiarire la grande varietà di modi e stili narrativi che s’incontrano nella sua lettura.

Probabilmente poi arrivi al punto in cui guardi quel dolore come se fosse lì, un metro avanti a te, dentro una scatola, una scatola aperta, in una vetrina in un qualche negozio. È duro e freddo, come una sbarra di metallo. Tu lo guardi lì dentro e dici: Va bene, lo prendo, lo compro. Ecco cos’è. Perché sai già tutto prima ancora di iniziare. Sai che il dolore fa parte del gioco. E dopo non puoi certo dire che il piacere è stato maggiore del dolore e che è per questo che lo rifaresti. Quello non c’entra niente. Non puoi quantificarlo, perché il dolore viene dopo e dura più a lungo. Perciò la domanda vera è: Perché quel dolore non ti fa dire: Non lo farò più? Quando il dolore è così forte che devi dirlo per forza, ma poi non lo dici.

Nel racconto che dà il titolo alla prima raccolta un uomo ricostruisce gli stadi del dolore, ripercorre i ricordi, analizza i sentimenti nella lucidità che sopraggiunge nel mezzo della sofferenza. In Quel che indossa una vecchia signora una donna avverte l’impazienza di invecchiare proiettandosi in una fantasia dai contorni malinconici; in Liminale – l’omino le inquietudini di una madre si materializzano ai limiti della follia. Tutte le personalità in cui ci proiettiamo inaugurano un soliloquio che preoccupa come un attacco endofasico. Lydia Davis non ama usare metafore o dilatare il tempo del racconto con sequenze descrittive e astratte, preferisce la successione di azioni e l’approssimazione delle emozioni tramite i labirinti mentali delle voci narranti. Il luogo comune di un tradimento, una delusione d’amore, la vita adulta che si avvia alla vecchiaia, sono un’epifania momentanea dedotta da un’unica frase che non occupa interamente l’attenzione del lettore. È come conoscere la causa scatenante di un male ma tergiversare ai margini. Se ancora siamo alla ricerca ossessiva della risposta alla domanda “è accaduto a lei?” dopo qualche racconto viene il sospetto che i protagonisti non cercano espiazione e non vogliono occuparsi della realtà pur avendone bisogno. Le loro vicende nascono da problemi opprimenti ma è proprio la narrazione ad allontanarli da una vera e propria risoluzione. E infatti i personaggi preferiscono risolvere enigmi mentali, giochi logici, perdono tempo dando attenzione alla semantica del pensiero e delle loro autofinzioni.

X sta con Y, ma vive coi soldi di Z. Y a sua volta mantiene W, che vive col figlio avuto da V. V vorrebbe trasferirsi a Chicago ma suo figlio vive a New York con W. W non può trasferirsi perché ha una relazione con U, il cui figlio pure vive a New York, anche se con la madre, T. T prende soldi da U, W prende soldi da Y per se stessa e da V per il loro figlio, e X prende soldi da Z. X e Y non hanno figli insieme. V vede il figlio di rado ma provvede a lui. U vive col figlio di W ma non provvede a lui.
(da Problema contenuto in Inventario dei desideri)

Non dare nomi a luoghi e personaggi, stravolgere gli elementi classici di un racconto (climax, dialoghi, scene descrittive) sono espedienti per avere «tanto contenuto emotivo senza approcciarlo direttamente, lasciandolo nella storia ma concentrando l’attenzione su altro». L’ossessione per la voce interiore («In questi giorni cerco di dirmi che quello che sento non ha tutto questa importanza» da Quello che sento) e per l’impossibilità di non poter essere altro da sé esasperano l’egoismo, fino a creare un paradosso: lo fanno passare in secondo piano. Ecco perché di Lydia Davis si apprezza anche l’abilità di alternare tono solenne a tragica ironia (Idea per un breve documentario: «I rappresentanti di diverse ditte alimentari cercano di aprire le confezioni dei loro rispettivi prodotti»); l’umorismo, l’ingenuità della scoperta della fragilità, l’abilità di mascherarsi come istinto di sopravvivenza o come indizio di autodistruzione («Se io non fossi me e mi ascoltassi per caso dal piano di sotto, da vicina di casa, mentre parlo con lui, mi direi quanto sono felice di non essere lei, di non suonare come suona lei, con una voce come la sua voce e un’opinione come la sua opinione»  dall’incipit di Dal piano di sotto).

Uno stile così rigoroso e definito lascia poco spazio a un vero e proprio cambiamento nelle raccolte successive – quelle degli anni 2000 – ma registra un nuovo approccio all’esperienza del materiale di partenza: «Quando ero giovane non avrei mai preso e plasmato materiale altrui, fino a cambiarlo per una mia storia, ora lo faccio […] Perché ti stanchi di cercare di capire emozioni e relazioni dopo un po’. Il mondo è così pieno di tante altre cose». Se prima i dettagli omessi facevano intuire un vuoto incolmabile, l’impasse di un’azione, l’impazienza o un guizzo giovanile appassito, ora le inquietudini vengono affrontate con tragica consapevolezza. Il dubbio per la ridefinizione del sé affiora a tratti ma sfuma verso il tipo di pace interiore di chi è sceso a patti con i propri demoni. L’esempio che più di tutti lo chiarisce è il racconto Tradimento contenuto in Creature nel giardino. Un’unica pagina passa in rassegna l’ipotesi, la catarsi e la risposta senza che la protagonista pretenda di passare all’azione:

Nelle sue fantasie su altri uomini, via via che invecchiava, uomini diversi dal marito, non sognava più l’intimità sessuale, come faceva prima, forse per vendetta, quando era arrabbiata, forse per solitudine, quando era arrabbiato lui, ma sognava solo l’affetto e un profondo senso di comprensione, tenersi per mano e guardarsi negli occhi, spesso in un luogo pubblico come un caffè. Non sapeva se questo cambiamento derivasse dal suo rispetto per il marito, perché lo rispettava davvero, oppure da semplice stanchezza, a fine giornata, oppure dal senso realistico di quali attività poteva o non poteva aspettarsi da se stessa, persino in una fantasia, ora che aveva una certa età. E quando era particolarmente stanca persino l’affetto e la comprensione profonda erano troppo, e allora sognava solo il genere di compagnia più delicato, per esempio essere nella stessa stanza insieme, seduti in poltrona.

Anche Amy Hempel ha parlato del racconto di esperienze personali con un procedimento simile al funzionamento della memoria, in cui la geografia americana gioca un ruolo fondamentale nel nomadismo delle emozioni. I suoi personaggi non si isolano dalla realtà, cercano piuttosto una verità nella narrazione, così come i protagonisti dei racconti di Lucia Berlin, tra autofiction e dirty realism, rispondono a logiche personali dettate da estrazione sociale, traumi e vita vissuta, senza falsi pudori o particolari sofismi. È con Lydia Davis che completiamo lo spettro narrativo che dalla scrittura essenziale, ricca d’humor, e impegnata politicamente di Grace Paley, passa alla Berlin e alla Hempel fino a un’introspezione psicologica essenziale, verso una lingua più spietata ed enigmatica, che lascia più domande che risposte.

Sembra impossibile riassumere in maniera esaustiva il carattere profondo della scrittura della Davis: il momento in cui si raggiunge la stessa linea d’onda della storia crediamo di racchiudere in una mano il mondo di un personaggio che inizia e termina nel tempo della lettura. La realtà è che i pochi indizi del racconto aprono altrettante porte verso risvolti ignoti, le uniche risposte sicure sono quelle che ricaviamo dal nostro credo. Con la disposizione d’animo di rivivere le memorie del passato da una prospettiva più lucida, determinata dagli eventi di vita, potremmo rileggere le raccolte anche a distanza di anni e illuminarle di nuovi significati ignorati in precedenza. Questa è la portata della presenza di Lydia Davis autrice: nascosta tra di noi e in ognuno di noi, pronta a ricordarci che se anche è accaduto poi ce ne faremo una ragione.

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Bozzetti gotici: Amori defunti di Lafcadio Hearn

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di Fabrizia Gagliardi

«A New Orleans, in giugno, l’aria è greve di sesso e morte, morte non violenta ma per decadimento, per eccessiva maturazione, per marciume, morte per annegamento, per una febbre dalla causa sconosciuta.» La prima frase che Joan Didion riserva a New Orleans nel suo A sud e a Ovest sembra riecheggiare le parole che lo stesso Lafcadio scrisse in seguito al suo arrivo in città: «Quando vidi per la prima volta l’alba sulla Louisiana, mi vennero le lacrime agli occhi. Era simile a una giovane morte, una sposa defunta incoronata con fiori d’arancio, un viso senza vita che domandava un bacio. Non posso dire quanto sia bello, ricco e stupendo questo decaduto Sud. Mi ha affascinato». È indicativo come a distanza di secoli, generazioni e generi letterari una città abbia conservato il suo nucleo caratteristico.

Eppure, il carattere di Hearn era avvezzo a cambiamenti sconvolgenti: nato su un’isola greca nel 1850, dopo essere cresciuto a Dublino, aver passato per un’infanzia in solitudine, circondato da classici greci, biblioteche, periferie londinesi, ristrettezze economiche, a soli diciannove anni si era avventurato nel nuovo mondo. Visse a Cincinnati ma dopo il matrimonio illegale con Alethea Foley, una giovane schiava liberata di origini africane, perse il lavoro e si trasferì a New Orleans. Fu qui che una personalità inquieta e in costante ricerca di stimoli tracciò due ritratti paralleli della città: da una parte il lato reale fatto di storia, decadenza, pratiche vudù, tradizioni culinarie; dall’altra il fantasmagorico e fantasmatico furono ampiamente evocati in bozzetti dall’aria gotica che la maggior parte delle volte hanno come elemento primario un’atmosfera magica. Proprio questi ultimi fanno parte della raccolta Amori defunti ripubblicata, in occasione del 170° anniversario della nascita dell’autore, da Adiaphora Edizioni con testo originale a fronte a cura di Matteo Zapparelli Olivetti.

A una prima occhiata, tuttavia, i racconti brevi non appaiono nella loro struttura canonica: l’inizio nel bel mezzo della vicenda sfuma in conclusioni in sospeso che lasciano intendere una continuazione eterna. Ne è un esempio Di bianco vestita, la visione misteriosa di una donna dai contorni spirituali, e La notte di Ognissanti, uno scivolare continuo tra le entità naturali e soprannaturali di un cimitero.

E il Vento soffiò sui fiori fino a che le loro palpebre delicate iniziarono a chiudersi e il loro profumo si espanse più lieve al chiarore lunare. E il Vento cercò invano di risvegliarli dal sonno senza sogni nel quale stavano sprofondando. Poiché il profumo di un fiore altro non è che la manifestazione della sua anima invisibile. E i fiori appassirono al chiaro di luna e, a mezzanotte, chiusero per sempre i loro occhi e l’incenso delle loro vite venne a mancare.

Lo stesso Hearn chiamava questi piccoli scorci fantastics, guizzi di stile che non avevano l’obiettivo di traghettare storie ma di far entrare chi leggeva nello stesso stato di assuefazione tossica e romantica della Louisiana. A immaginarli come piccoli trafiletti inseriti tra le pagine di un quotidiano, avremmo apprezzato maggiormente tutta l’aura mistica attorno alla vita stessa di New Orleans. Leggendoli in una raccolta, oggi, possono rivelarci qualcosa a proposito dell’orrore degli albori.
C’era stato Edgar Allan Poe, la cui fama rischiava di rimanere nell’oblio, c’era stato l’orrore europeo dalle origini del Castello di Walpole fino a Ernst Hoffmann, ma Lafcadio percorse inconsapevolmente una strada del tutto personale. Si riconoscono tutti gli elementi tipici delle ghost stories ma la carica narrativa è rafforzata da scenografie suggestive e dall’incursione di termini spagnoli che dimostrano il crocevia di destini ed entità. La prospettiva di Lafcadio non è quella di un conquistatore che assoggetta il panorama alla sua visione, ma di un testimone al servizio dell’ignoto.

La tradizione classica si unisce all’eredità orale delle terre occupate dai conquistatori, e la scrittura di Hearn oscilla tra il racconto gotico e il tono solenne tipico delle leggende. L’esotismo si spinge a evocare un vero e proprio  esoterismo, soprattutto in racconti come Il carbuncolo del diavolo, che narra una maledizione al tempo dei conquistadores, o in racconti di miti come La fonte della giovinezza e Afrodite e il prigioniero del re.

Più bella di tutte le altre bellezze scolpite nella pietra, o nelle gemme, o nell’eterno bronzo dalle mani di uomini le cui vite erano state consumate dalle brame per un idolo vivente degno dei loro sogni di bellezza ideale… Una raffigurazione di Afrodite esibiva l’infinita armonia della sua nuda avvenenza su un piedistallo di marmo nero, così ampio e così perfettamente levigato da riflettere il divino poema del suo corpo come uno specchio d’ebano…

L’eleganza stilistica e la ricerca lessicale si prestano bene anche per i racconti dal tenore del tutto diverso dall’orrore: si passa dalla leggerezza di una favola in La piccola gattina rossa, alla carica ipnotica di oggetti inanimati come in Un sogno di aquiloni. Non è difficile immaginare che una tale predisposizione al fantastico, la grande influenza evocata da una città come New Orleans, l’oscillare tra visioni di amore e morte, abbiano preparato il terreno alle tante vite dell’autore: di lì a poco l’idea buddista della morte, il trasferimento in Giappone la cui tradizione avrebbe fortemente influito l’afflato soprannaturale della sua scrittura, sempre compenetrata al suo personalissimo sguardo.  

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L’angolatura inconsueta da cui Borowski guarda il campo

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Paesaggio dopo la battaglia è la raccolta con cui Tadeusz Borowski affonda il suo sguardo sui sofferenti, sui vinti, e con oggettiva spietatezza mette a nudo la crudeltà e il cinico egoismo che prevalgono nell’animo dell’uomo in lotta per la sopravvivenza. Lindau lo ha dato alle stampe, con la curatela di Roberto M. Polce, di cui vi proponiamo la postfazione per gentile concessione dell’editore.

Auschwitz come specchio del mondo
di Roberto M. Polce

Colui che cammina sulla testa vede il cielo sotto di lui come un abisso.
Paul Celan

Quando nel 1971 il critico e storico della letteratura polacco Andrzej Werner pubblicò zwyczajna Apokalipsa forse nessuno immaginava che questo libro dal titolo emblematico dedicato a Tadeusz Borowski avrebbe segnato una svolta fondamentale nella valutazione sia della produzione letteraria di questo scrittore, sia, più in generale, della più vasta produzione letteraria polacca sul tema dei campi di concentramento nazisti. Werner per primo infatti intuì non solo e non tanto l’alta qualità letteraria della narrazione di Borowski, ma soprattutto la peculiarità del suo punto di vista, l’originalità della sua visione dell’universo «concentrazionario», contrapposta a tutto il resto delle testimonianze dei sopravvissuti ai lager nazisti, per definire le quali egli introduce il concetto, decisamente sminuente, di «letteratura martirologica», vittimistica, che in nessun modo aiuta a comprendere ciò che veramente accadde in quegli anni tragici nel «cuore di tenebra» dell’Europa. Da quel momento, e sempre di più negli anni successivi, quando crescono e si moltiplicano gli apprezzamenti e gli studi dedicati alla sua opera, la letteratura polacca sui campi di concentramento è senza mezzi termini quella di Tadeusz Borowski, perché, come afferma Dariusz Kulesza, «nessuno ha detto sui campi di concentramento nulla di più utilizzando soluzioni letterarie più originali e adeguate». Al cospetto di Borowski, insiste Kulesza, «tutta la letteratura polacca sui lager è o di secondo piano, o ripetitiva». (E non solo quella polacca, aggiungeremmo noi.) E oggi ormai i racconti di Tadeusz Borowski vengono unanimemente annoverati fra i risultati più alti e pregnanti della letteratura «concentrazionaria» a livello mondiale, accanto alle opere di Primo Levi, Elie Wiesel, Jean Améry, Imre Kertész, per fare solo qualche nome. E la sua testimonianza è ancora più significativa in quanto mette a nudo, in modo dolorosamente onesto e brutalmente disincantato, il funzionamento quotidiano e i meccanismi dei lager nazisti vissuti dalla peculiare, e in generale più rara, prospettiva di un internato «ariano». Per convenzione si usa suddividere la biografia artistica di Tadeusz Borowski in tre fasi. La prima, che va dal 1942 al 1946, è caratterizzata da una produzione prevalentemente in versi. Nel corso della seconda, dal 1946 al 1948, Borowski, che pure fino ad allora aveva ritenuto sé stesso soprattutto un poeta, chiude con la poesia, scrivendo e pubblicando quasi solamente racconti. Infine, la terza fase, all’incirca dal 1949 fino al 1951, in cui, con una clamorosa autocritica, rigetta tutta la propria produzione precedente, accoglie i dettami del realismo socialista e mette la sua penna esclusivamente al servizio del partito e della propaganda politica. Con il suicidio, commesso enigmaticamente proprio in un momento in cui aveva ormai raggiunto un’invidiabile posizione di onorato e temuto apparatčik, rimise in discussione, per non dire negò, tutta la produzione ultima, vale a dire la sua pubblicistica più rozzamente agitatoria. «Borowski divorava sé stesso incessantemente». Tadeusz Borowski, nel corso della sua brevissima esistenza (nel momento in cui si tolse la vita non aveva ancora compiuto 29 anni), a più riprese aveva spiazzato gli amici e le persone a lui più vicine non meno degli avversari con le sue decisioni imprevedibili e i suoi mutamenti di rotta repentini e radicali e a prima vista del tutto incomprensibili. A Monaco di Baviera, per esempio, nel 1946, quando decise di tornare nella Polonia già attratta nel campo socialista che lo affascinava e lo spaventava a un tempo. O quando, nel febbraio 1950, pubblica l’articolo Rozmowy sulla rivista «Odrodzenie» in cui procede a un’impietosa quanto incondizionata autocritica con la quale distanzia di gran lunga anche i suoi più acerrimi e maldisposti detrattori per quanto concerne la valutazione negativa dei racconti da lui scritti in precedenza, definendoli «un’oggettiva alleanza con l’ideologia fascista». O ancora, infine, con il proprio suicidio. Per non accennare che ai fatti più vistosi. Ma di questi, l’avvenimento che ancora oggi appare maggiormente difficile da comprendere, addirittura più che il suicidio, è l’adesione senza riserve alla nuova politica culturale del partito al potere sancita dal congresso di Stettino del 1949 e il rinnegamento dei suoi «racconti del lager», questa parte sanguinante che in un sol gesto tranciò via da sé stesso. Czesław Miłosz nel suo saggio su Borowski sostiene che all’origine della sua «conversione» ci sarebbe stato un «amore deluso per l’uomo e il mondo», rovesciatosi in odio e «repulsione per l’uomo in quanto essere fisiologico determinato dalle leggi della natura e della società», odio che sarebbe stato infine manipolato e convogliato dal partito nella direzione desiderata. Sempre secondo Miłosz, per Borowski, che aveva visto «nei campi di concentramento i filosofi venire alle mani per qualche avanzo trovato fra i rifiuti», «il pensiero umano non aveva significato. […] Ciò che contava davvero era solo il movimento della materia. Beta [Borowski, N.d.R.] assorbiva il materialismo dialettico come una spugna l’acqua». Miłosz azzarda perfino un collegamento fra il percorso di Borowski e l’iter presunto che poteva aver condotto altri ad aderire al nazismo: Il tedesco che aveva rinchiuso Beta in un campo di concentramento forse un tempo aveva anche lui nutrito un amore deluso per il mondo, prima che la propaganda del partito ne facesse una bestia. Aspirava all’ordine e alla purezza, alla disciplina e alla fede. […] Anche Beta nei suoi articoli vedeva a portata di mano un ordine nuovo e migliore. Credeva nella salvezza terrena e la desiderava. Provava odio per i nemici, colpevoli di ostacolare la felicità dell’umanità. Gridava che bisognava distruggerli. […] Il grande talento e la superiore intelligenza di Beta non bastavano a far sì che prendesse coscienza dei pericoli che nasconde l’esaltazione della marcia.

Questa analisi, anche se non priva di una sua forza di suggestione e in generale di una parte di verità, se riferita a Borowski tuttavia a tratti lascia anche un po’ perplessi. Sono ancora troppo scarsamente studiati i materiali privati dello scrittore di quel periodo (appunti, lettere) che potrebbero gettare un po’ più di luce sulle ragioni profonde della sua scelta – se di vera scelta si trattò – nonché sul suo grado di consapevolezza circa quanto stava effettivamente avvenendo intorno a lui. Molti altri intellettuali di rispettabilissima intelligenza, e ai quali non sempre si poteva imputare sprovvedutezza o malafede, abbracciarono a quell’epoca in Polonia il marxismo dogmatico con fervore e nel pieno delle proprie facoltà mentali, vedendovi un’autentica promessa di riscatto per l’umanità. Inoltre, che in Borowski rapidamente si facesse strada il forte sospetto, quando non già la certezza, che anche entro quella diversa cornice il mondo stesse cominciando a farsi «di pietra», lo dimostra in modo inoppugnabile un racconto pubblicato nel giugno 1950, in cui pur se in uno stile ormai pesantemente socialrealista – denuncia l’innato spirito rapace dell’uomo che anche nell’ambito della nuova struttura fa bellamente carriera camuffandosi sotto spoglie politiche. Il suo stesso suicidio, del resto, costituirebbe la prova più inconfutabile di questa coscienza giunta in lui ormai come a maturazione, gesto peraltro preceduto, secondo alcune testimonianze, da discorsi «strani» e«confusi» fatti negli ultimi mesi prima della morte. Può essere invece molto verosimile che «nell’esaltazione della marcia» trovasse, o quantomeno cercasse, una sorta di stordimento, di oblio, e che scrivere quei violenti e sovreccitati articoli di propaganda, come suggerisce ancora Miłosz, agisse su di lui come un narcotico. Su un particolare infatti concordano più o meno tutti: e cioè sul fatto che Borowski fosse animato da un bisogno ardente di credere, da un desiderio feroce di lasciarsi trascinare via da una fede cieca e assoluta nel cui vortice frastornarsi e dimenticare.
Molto è stato scritto sulla cosiddetta «sindrome del sopravvissuto al campo di concentramento», sull’impossibilità di dimenticare quella massima degradazione dell’essere umano di cui si è stati spettatori e attori, sull’impossibilità di recuperare una piena fiducia nell’uomo e nell’umanità, e sul senso di colpa che accompagnerà per sempre, fedele come un’ombra, il sopravvissuto. Borowski nemmeno ne era rimasto immune. Era tormentato angosciosamente da ciò che aveva vissuto, da ciò che aveva visto. Provava quel senso di colpa «assurdo, incomprensibile» di cui è piena tutta la letteratura su questo argomento: il senso di colpa per il semplice fatto di essere scampato. Lo perseguitava quella domanda senza risposta di cui parla Bettelheim: «Perché, fra milioni, proprio io mi sono salvato?». Le immagini del campo straripano dalla memoria e si sovrappongono ossessivamente alla nuova realtà. Passeggiando per le strade di Monaco dopo la liberazione, capita che scorga fra la folla qualcuno dei vecchi «colleghi» del lager, che riconosca scarpe, vestiti, gioielli provenienti da là, oggetti un tempo appartenuti a coloro che andavano alle camere a gas. In una poesia, i bambini, registra uno di quegli improvvisi, involontari pensieri sfuggiti al controllo di un cervello i cui tessuti quell’esperienza-limite doveva aver smagliato forse per sempre e irrimediabilmente: «Me ne vado per la città / e fisso i bambini, / pupettini rosatini – / chissà, a tirarli fuori dalla carrozzina / ruotarli per un piedino / e sfracellarli contro il marciapiede, / scrocchierebbero o non scrocchierebbero?». Tornano i morti: «Cammini con me, escresci in me, / mi ti configgi nel sangue. / Come attraverso un vetro nell’oscurità vedo / il tuo viso dall’oltremondo». E nella Preghiera di dimenticare implora: «Dio Vendicatore degli Assassinati, fai la grazia / di Dimenticare morti e vivi…». Grazia che però su Borowski non discese mai. Non si può nemmeno escludere che un ruolo rilevante, nella sua decisione di rigettare tutto quanto aveva scritto fino a quel momento e di abbracciare con fervore e zelo il nuovo corso, fosse stato giocato sotterraneamente anche dalla tensione generata in lui dalla pressione sociale che, col passare dei mesi, si era andata facendo sempre più gravosa. Già nei primi due anni dopo il suo rientro in patria – anni pur ancora di notevole libertà e pluralismo culturale, caotici ed effervescenti, euforici e appassionati – l’apparire dei suoi racconti veniva accolto quasi di regola da salve di violente e infiammate critiche. Nel migliore dei casi, le riviste li pubblicavano facendoli precedere da una nota in cui prendevano le distanze dai loro contenuti, pur lodandone eccellenza letteraria e originalità di prospettiva e d’espressione, come fece «Twórczość» nell’aprile del 1946. Le accuse, provenienti all’inizio soprattutto dall’area cattolica, vennero per un certo tempo controbilanciate da prese di posizione a favore, o se non altro più possibiliste, meno categoriche, da parte di intellettuali dell’area di sinistra.

È nel 1947 che l’«affaire Borowski» si surriscalda assumendo le proporzioni e l’aspetto di un vero e proprio scandalo. Ad accendere la miccia fu, paradossalmente, Borowski stesso. Nel gennaio di quell’anno pubblica su «Odrodzenie» una recensione (intitolata Alice nel paese delle meraviglie) a un libro di memorie del lager fresco di stampa, in cui confessa di avercela, e molto, con l’autrice non tanto «per essere sopravvissuta al lager» in modo eticamente non irreprensibile, quanto per non aver avuto proprio lei è sopravvissuto(a)? […] Nulla da eccepire – raccontate finalmente come vi siete acquistati il posto in ospedale o in un buon kommando, come avete sospinto al camino i «musulmani», come compravate donne e uomini, cosa facevate negli unterkunft, nei Canada, nei krankenbau, nel campo zingaro, raccontate questo e ancora molti altri particolari, raccontate la vita quotidiana al campo, il modo di «rimediare», la gerarchia del terrore, la solitudine di ognuno. Ma scrivete che proprio voi lo facevate. Che una particella della lugubre fama di Auschwitz la si deve anche a voi. O forse no?

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Si scatena l’inferno. Borowski viene accusato di cinismo, di falso, e di essere nemico di tutti i valori, di quelli cristiani non meno che di quelli sorti dalla resistenza e dall’insurrezione. Ma ci si spinge ben oltre, rovesciando i dati della questione. Si identifica Borowski con la propria opera, interpretando alla lettera la sua narrazione in prima persona, e lo si incolpa di aver compiuto egli stesso tutto ciò che aveva descritto, si minaccia addirittura di trascinarlo davanti a un tribunale che giudichi i presunti crimini da lui commessi ad Auschwitz. Viene senza complimenti messo nel novero delle «iene del lager» e si conclude dicendo che gli altri «suoi simili» avevano se non altro avuto il buonsenso e la decenza di non scrivere memorie. Credo sia sufficiente pensare come ancora a distanza di decenni azzardarsi a mettere in dubbio tutta la retorica martirologica possa nuovamente sollevare ondate di indignazione per immaginare cosa dovesse significare allora, in una Polonia dove non esisteva quasi famiglia non visitata dalla morte in una forma o nell’altra, proclamare una verità così poco edificante come andava facendo Borowski. Il quale non solo non si univa al coro unanime di condanna della bestialità hitleriana e di autocommiserazione, ma osava sostenere e mostrare che «il male non era appannaggio solo degli aguzzini» né l’antisemitismo era prerogativa solamente nazista, e d’altro canto che molti ebrei pur di sopravvivere non avevano esitato a mandare al gas altri ebrei, e finanche i propri familiari, e insomma a farla breve, che fra i prigionieri, più che le leggi della solidarietà e della compassione, vigevano le regole ferree di una spietata e sorda lotta per l’esistenza. Il dramma reale del lager per Borowski non consisteva tanto nelle privazioni, nella fame, nella tortura, e neppure nella morte – l’autentica tragedia non si svolgeva fra gli spietati aguzzini e le deboli vittime indifese, ma riguardava unicamente queste ultime. Borowski si rendeva perfettamente conto che in quel mondo, per lo schiavo, non c’era possibilità di una scelta dignitosa: l’unica alternativa era fra una morte ignominiosa e una non meno ignominiosa sopravvivenza entro quel sistema criminale, arrendendosi alle sue regole e prosperandovi. Non c’era un modo moralmente ineccepibile di sopravvivere. E perciò chiunque fosse sopravvissuto al campo «non poteva non esserne rimasto lordato. Già solo per il fatto che si era visto, che si era stati testimoni, si era colpevoli!». Mentre quasi tutta la letteratura del lager si fissava su pochi martiri ed eroi, e su un olocausto di vittime sacrificali, di agnelli immacolati e incolpevoli, Borowski più che sulle eccezioni si soffermava a descrivere la grande massa degli internati, gli «internati-medi», da cui quella «situazione estrema» scrostava via impietosamente ogni patina (quanto inauditamente sottile e caduca!) di umanità. E questo è soprattutto ciò di cui non riusciva a finire di stupirsi: a questo dunque poteva ridursi un uomo… ammesso che quel miserabile ammasso di sorda materia che tendeva con tutte le sue energie unicamente e ferocemente ad autoconservarsi potesse ancora avere il diritto di fregiarsi della denominazione di uomo. Per lui la goccia di colpa di cui si erano macchiate le vittime era molto più grave del mare di colpa degli aguzzini, e il proprio odio si rivolgeva con uguale intensità verso quelle non meno che verso questi. Tutti erano responsabili per Auschwitz, chi c’era e chi non c’era, chi sapeva e chi non sapeva, gli assassini e gli assassinati. Egli la sua parte di colpa se l’era accollata e altrettanto esigeva dagli altri. «Non è lecito parlare di Auschwitz in termini impersonali…». Di qui passava il profondo solco che separava i suoi racconti dal resto della letteratura sui campi di concentramento. Il mondo intero assolveva in pieno sé stesso in quanto vittima innocente o in quanto ignaro – Borowski non assolveva nessuno: tutta l’umanità senza eccezioni era responsabile per Auschwitz, dopo Auschwitz tutta l’umanità aveva perduto per sempre la propria innocenza. Tutto ciò era difficile da digerire, non si poteva tollerare un Borowski che lacerava i veli pietosi sollecitamente stesi sulla coscienza collettiva. Ma lui non accennava a demordere, o almeno non ancora. Alla fine del 1947 uscirono in volume, con il titolo di Pożegnanie z Marią (Addio a Maria) alcuni racconti in precedenza apparsi su riviste, fra i quali quello che dava il titolo alla raccolta, inedito prima di allora, costituiva un’ulteriore novità. Questo racconto era stato per Borowski forse il più difficile da scrivere, quello che gli era costato più fatica. Doveva essere il racconto di apertura del ciclo, quello in cui descriveva il «paesaggio prima della battaglia», la vita in una Varsavia già infernale e tuttavia ancora ignara del vero fondo dell’abisso. Una vita che, nonostante tutto, continua a svolgersi in modo relativamente normale e a momenti perfino con leggerezza, ma in cui già colano e si rimescolano i toni cupi, lividi, violacei di un cielo prima di una tempesta che si vada addensando proprio sul calar delle tenebre. Tutto vi è incerto, sospeso, disperso, e come privo di consistenza e di realtà. È come se Borowski avesse voluto andare a ricercare là, in un’epoca per lui tutto sommato ancora «spensierata» e in qualche modo perfino «felice», i fili che univano quel mondo – il mondo «di fuori», il mondo «di prima» – al mondo del lager. Fili che il suo io di allora doveva a malapena scorgere, o forse solo nebulosamente avvertire, senza afferrarne appieno tutto il senso e la portata che gli si chiariranno veramente solo in seguito. (Ma che ne avesse percezione, per quanto confusamente, è indubbio: Borowski non rilegge semplicemente quel passato col senno di poi, sovrapponendovi un suo sapere «concentrazionario» tutto acquisito posteriormente: la sua raccolta di poesie del 1942, Gdziekolwiek ziemia…, gronda di presagi, di intuizioni, di immagini che nel lager non faranno altro che assumere consistenza, rafforzarsi, definirsi meglio). Anche la scrittura del racconto riflette quello stato di incertezza e di sospensione: le parole vi si impaludano, si rarefanno o si raggrumano eccessivamente, rimanendo sempre come un po’ scollate dagli oggetti, o soffocandoli – quasi non riuscissero ad afferrare e delineare con precisione una realtà che all’occhio dell’io narrante fatica ancora ad acquistare una forma e un significato compiuti. Addio a Maria anche per altri motivi, potrà risultare, di tutti, forse il racconto più ostico al lettore, tanto più se straniero. Basti il fatto che Borowski dovette difenderlo persino dalle incomprensioni dei critici patrii: «A Wyka non piace la lingua insopportabilmente distratta del racconto (credo nella parte iniziale) […] Ho voluto scrivere una novella nella lingua della poesia cospirativa e alla sua luce mostrare la realtà della cospirazione». A ogni modo, difficoltoso o no, Addio a Maria segna il tracimare della concezione «concentrazionaria» di Borowski fuori del campo di concentramento, nel mondo pre- e post-Auschwitz. Infatti, contemporaneamente va pubblicando le «short stories» che costituiranno il volumetto Kamienny świat (Il mondo di pietra), l’ultimo atto della sua «prosa del lager». Con questi ventuno brevissimi racconti, ognuno in sé perfetto e conchiuso, benché vadano considerati secondo l’autore come altrettanti capitoli di un’unica grande novella, Borowski calca maggiormente la mano, come a voler far intendere che quanto aveva fino ad allora rivelato della verità del campo erano ancora bazzecole in confronto a ciò che aveva visto e taciuto. Ma Kamienny świat (Il mondo di pietra) è anche una riflessione dolorosa su sé stesso e sul mondo che dopo Auschwitz «ritorna alla vita», sulle proprie ossessioni e sull’impossibilità di dimenticare ormai non più semplicemente ciò di cui laggiù è stato testimone, ma soprattutto ciò che di Auschwitz ha capito. Vede Auschwitz riversarsi e dilagare nel mondo, scorge i primi accenni di ciò che Améry chiamerà «il trionfo postumo di Hitler», vede in modo sempre più chiaro le connessioni, gli elementi di continuità fra Auschwitz e la realtà fuori del lager, che gli apparirà sempre più inequivocabilmente come un «universo concentrazionario». Kamienny świat uscì alla fine del 1948, ma ormai il clima politico si andava già facendo soffocante. Quella parte della critica di sinistra che lo aveva appoggiato e difeso dall’attacco dei cattolici, ora non lo sostiene più e, nel migliore dei casi, tace o lo ignora: un po’ per paura, un po’ perché se ne ha abbastanza di rivangare il passato e riesumare i morti, un po’ perché si è presi dalla febbre della ricostruzione e si ha voglia di dimenticare i «tempi del disprezzo» quanto più in fretta possibile. Borowski stesso del resto attraversa in quei mesi crisi profonde e dilanianti lacerazioni. Il bisogno di liberarsi di quel peso insostenibile della memoria si fa anche in lui sempre più urgente, diventa conditio sine qua non per la propria pura e semplice sopravvivenza fisiologica. Quando vi giunse Tadeusz Borowski, nel campo di concentramento di Auschwitz era già in atto un’inversione di tendenza: da poche settimane si era cessato di mandare al gas gli ariani, ritenuti ormai sempre più indispensabili per il lavoro di ricostruzione di una Germania sempre più frequentemente devastata dalle incursioni aeree degli alleati. Auschwitz, fondata nel 1940 alla confluenza fra la Soła e la Vistola, ampliata nel 1942 con Birkenau (Auschwitz II) e ancora più tardi con altri campi satellite (Auschwitz III), era ormai una «città» che contava allora una popolazione di oltre centomila abitanti «stabili». Di Borowski, nei due anni che vi restò rinchiuso, si sa molto poco. Arrivato un giovedì notte, il lunedì lavorava già in un Aussenkommando (cioè un Kommando di lavoro esterno al campo) a Budy, a 7 km dal lager, a trasportare pali del telegrafo, e non molto tempo dopo era ad Harmenze a scavare fossati. Tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del 1943 finì, ridotto presumibilmente a un «musulmano», nell’ospedale del campo, dove, preso in simpatia, venne aiutato e curato: il capoblocco se ne lasciò commuovere al punto da assumervelo come guardiano notturno. Si rimette in forze. Poi, dopo un sommario addestramento sanitario nel marzo 1944, ricoprirà la funzione di Pfleger (infermiere): solo allora riesce, tramite un giornalista sportivo tedesco internato per reati comuni, un tale Kurt, ad allacciare contatti epistolari con la sua fidanzata Maria, anche lei internata ad Auschwitz. Sempre grazie a Kurt riesce perfino a incontrarsi con lei nell’FKL, il campo femminile, dove si recava con un Kommando addetto al prelievo dei cadaveri dei neonati. Maria è in condizioni miserevoli, lui l’aiuta come può facendole pervenire cibo e medicinali. In questi ultimi mesi la vita al campo per Borowski non è più così drammatica: nell’ospedale ha cibo in abbondanza e più o meno libero accesso ai prodotti farmaceutici, riceve pacchi di viveri da casa con una certa regolarità, può perfino scrivere, lettere soprattutto, ma anche versi che girano per tutta Auschwitz (e dei quali si salverà poco o nulla). Il periodo più drammatico fu tra il maggio e il giugno del 1944, quando i nazisti danno il via all’«Operazione Höss», nel corso della quale si mandano al gas oltre 400.000 ebrei ungheresi: arrivano trasporti in continuazione (fra cui il famoso trasporto «Będzin-Sosnowiec»), i crematori ardono senza sosta, e per un giorno Borowski si ritrova nel cuore dell’inferno, allo scalo ferroviario, fra i membri di un Kommando, il cosiddetto «Canada». Intanto il fronte russo si avvicina. Borowski rinuncia alla funzione di Pfleger e si arruola nel Kommando dei Dachdecker (riparatori di tetti) che lavora all’FKL, in modo da potersi incontrare con Maria ogni giorno. Il 12 agosto la vedrà per l’ultima volta ad Auschwitz. C’è l’evacuazione. Parte con un trasporto diretto in Germania, dove verrà sballottato da un campo all’altro ancora per diversi mesi prima della liberazione a opera degli americani, che lo terranno «in quarantena» insieme a molti altri internati soprattutto polacchi, per ulteriori cinque mesi in un campo per displaced persons presso Monaco di Baviera. «Sono passati infine tre anni da quando uscii di casa. Sarei dovuto tornare per pranzo. Eh già!», scrive alla madre alla fine del 1945. Nonostante le insinuazioni e le accuse che gli verranno mosse più tardi, dalle testimonianze degli internati sopravvissuti risulterebbe che Borowski si comportasse nel campo in modo tutt’altro che immorale e cinico. Perché allora, nei suoi racconti, si sarebbe caricato anche di quanto non aveva commesso? È estremamente illuminante in questo senso il brano della sua recensione al libro della Kossak-Szczucka citato sopra. A nessuno che semplicemente vi fosse stato e fosse sopravvissuto, era lecito ritenersi immacolato, indipendentemente da ciò che aveva o non aveva commesso. A Monaco, mentre stava terminando di lavorare al libro collettivo Byliśmy w Oświęcimiu (Eravamo ad Auschwitz), confessava all’amica Zofia Świdwińska di aver scritto quei racconti per mostrare «la vita quotidiana del campo e strappare via dall’uomo il cosiddetto martirio, e infine – per mostrare che il male non era appannaggio solo di una parte. Il libro […] è molto crudo e pieno di stridii […], contrariamente alla moda in esso non ci sono quasi SS né troppo filo spinato nella notte». L’io narrante è il vorarbeiter Tadek: Tadek è il diminutivo di Tadeusz, mentre vorarbeiter vuol dire caposquadra, capolavorante. Perciò, il vorarbeiter Tadek è un ariano e un privilegiato del campo, un cosiddetto «prominente». Il campo di concentramento dunque è visto con gli occhi di un ariano che ricopre varie «funzioni» che gli permettono di «organizzare», o di «rimediare», cioè di procurarsi, più o meno illecitamente, ciò di cui ha bisogno per poter resistere più a lungo e di conseguenza nutrire maggiori speranze di sopravvivenza. «Organizzare» o «rimediare» spesso vuol dire commerciare con altri prigionieri le loro razioni di cibo, contribuendo così a che i meno previdenti e i meno abili deperiscano sempre di più scivolando così progressivamente e inesorabilmente verso la condizione di «musulmani», che preludeva quasi sempre alla camera a gas. Il vorarbeiter Tadek, perciò, pur non macchiandosi di delitti particolarmente nefandi, contribuisce indirettamente a che altri internati, i più deboli, diventino sempre più deboli e soccombano. Borowski, tralasciando, come si diceva, i casi sporadici dei martiri e degli eroi, troppo poco rilevanti dal punto di vista numerico per poter incidere sulla sostanza di quella «società concentrazionaria», preferisce appuntare la sua attenzione sull’internato medio che cerca di adattarsi a quella situazione estrema, con il puro e semplice intento di sopravvivere a ogni costo e con ogni mezzo. L’internato medio ha la sua parte di colpa unicamente per essersi lasciato prendere e inserire in quel meccanismo, in quel sistema criminale e immorale. L’osservazione lucida e distaccata di questo povero essere umano – che, posto in una situazione estrema, si degrada a tal punto da perdere in un sol colpo tutto ciò di cui era andato così fiero per secoli, civilizzazione, buoni sentimenti, gusto estetico – lo porta inevitabilmente a interrogarsi più in profondità e a spingersi più lontano nelle connessioni, a guardare sotto i monumenti della cultura umanistica occidentale, sotto le piramidi e le strade romane, dietro le disquisizioni sul bello dei filosofi greci, e ovunque, dietro e sotto l’intero percorso della civiltà occidentale, gli pare di vedere i medesimi principi che governano il campo di concentramento, nei cui ingranaggi egli stesso si trova ora inserito. E questo forse è il più importante elemento di novità dell’opera di Borowski rispetto ad altre analoghe. Mentre gli altri vedevano in Auschwitz una prova tremenda cui Dio aveva voluto sottoporre l’uomo, oppure l’eccesso di menti degenerate, malate o impazzite – vale a dire un intervento extraumano o un elemento estraneo alla tradizione umanistica europea che inspiegabilmente e perversamente si era impossessato di uno dei suoi popoli – Borowski vi scorge invece una componente costitutiva, connaturata nell’anima occidentale, in tale circostanza eccezionale semplicemente venuta allo scoperto nella sua forma più «pura» e portata alle sue estreme conseguenze (in uno dei suoi appunti, lo scrittore definì il fascismo come «il trasferimento dei metodi coloniali all’Europa»). Borowski è un attento osservatore non soltanto delle dinamiche dei singoli ingranaggi e del cadere delle maschere dell’uomo civilizzato e del suo trasformarsi in uomo «lagerizzato», cioè adattatosi a quella struttura e a quelle leggi, ma anche della più generale «economia» dell’edificio nella sua interezza, delle motivazioni economiche tout court che lo animano, e tutto ciò che individua (e dissemina nei racconti) riconferma di nuovo che nessuna follia vi era dietro tutto questo, ma una logica ben precisa, un disegno che, se folle era, lo era per troppa lucidità e razionalità. Quando uscirà dal lager, come si è già accennato, Borowski non riuscirà più a liberarsi di questa visione, e tutto il mondo, prima e dopo Auschwitz, gli apparirà informato da quelle stesse leggi profonde. Per lui il velo illusorio della māyā, steso sopra i raccapriccianti e atroci principi dell’universo, si era ormai irrimediabilmente squarciato. Ciò che avrebbe dovuto rimanere celato, perché fosse possibile continuare a credere nelle apparenze e perciò a vivere, gli si era rivelato in modo irreparabile e definitivo. «Non sarò più lo stesso di prima» scriveva con parole semplici alla famiglia da Monaco nel 1946. Ma neanche il mondo sarà più lo stesso dopo Auschwitz, perché Auschwitz, come uno specchio, ha rivelato al mondo la propria vera, più profonda natura.
Certo, l’angolatura inconsueta da cui Borowski guarda il campo, le terribili verità intuite e rivelate, il fatto di essere stato forse l’unico ariano ad aver ammesso di aver occupato nel lager una posizione privilegiata con tutto ciò che ne conseguiva, l’aver mostrato l’uomo scrostato della propria umanità, l’aver osato accusare le vittime di essere state colpevoli non meno degli aguzzini, e, in generale, il non aver passato sotto silenzio nulla, tutto ciò garantirebbe a questi racconti al massimo una posizione di attendibile, veritiera e insolita testimonianza e nulla più. Ma essi costituiscono anche un altro risultato artistico. Borowski sa miscelare sapientemente le tonalità più diverse, escludendo tuttavia risolutamente dalla propria tavolozza la retorica in tutte le sue forme, l’urlo, il lamento, il pianto. Adotta una tecnica quasi behaviorista, elimina del tutto la psicologia, le motivazioni morali, le intenzioni e di conseguenza ogni forma letteraria – come il monologo interiore, per esempio – che avrebbe potuto dare loro sfogo. Il mondo che deve rappresentare è qualcosa di inaudito, di mai visto prima, e nessun concetto preesistente sarebbe in grado di renderlo adeguatamente. Categorie conoscitive già date rischierebbero anzi di inquinarlo, di travisarne il senso, di ricacciarlo nell’inesplicabile o di relegarlo nel convenzionale: che è quanto effettivamente accade con la maggior parte della letteratura del lager. Borowski storna da sé ogni tentazione di commento, di intervento: di sé, in sé, fa tabula rasa, e registra tutto con occhi ben spalancati, sì, ma tuttavia impassibili, imperturbabili. Abbassa tutto di molti toni, attenua, smorza – si rende conto che perfino l’urlo è privo d’efficacia di fronte a tanto orrore, senza contare che, come dice Bettelheim: «Due o tre grida ci angosciano e ci risvegliano l’impulso di correre in aiuto. Grida che si protraggono per ore ci lasciano solo il desiderio che chi grida la smetta una buona volta». Questo urlo protratto è proprio ciò che, ahimè, rende insopportabile la quasi totalità della letteratura sui campi di concentramento. Invece Borowski, col suo tono pacato, a volte ironico, a volte perfino scherzoso, ci fa entrare con dolcezza in questo mondo terrificante, impercettibilmente e proditoriamente ce lo rende familiare. Ci ritroviamo anche noi assuefatti e «lagerizzati», anche noi a pensare secondo la mentalità degli integrati del lager, e, alla fine, forse, perfino un po’ colpevoli.

Mentre procedeva il lavoro di traduzione immaginavo, anzi registravo a più riprese, le possibili reazioni di molti: ancora un altro libro su Auschwitz!? Già, perché? Perché – al di là del valore letterario e dell’inconsueto particolarissimo sguardo gettatovi da Borowski, il quale ci presenta quel mondo che ormai ci sembrava risaputo fino alla nausea come se non ne avessimo mai sentito niente prima – proporre un ulteriore libro su Auschwitz? Günter Grass, a un forum evangelico tenutosi a Berlino Ovest nel 1970, in un intervento dal titolo Come parlare di Auschwitz ai bambini, disse:

I nostri calendari dopo quegli anni non ricominciarono propriamente da zero, ma un qualcosa sul genere di una nuova era si è impresso nella mente di ciascuno di noi, a dire il vero di rado con la partecipazione di una piena coscienza, ma inconsciamente senza ombra di dubbio. Dopo Auschwitz l’uomo intende sé stesso diversamente. Auschwitz lo costringe in generale a ragionare diversamente, ogni qual volta il modello di Auschwitz si ripete da qualche parte, si deve pensare a esso unitamente alla pietra di paragone dell’originale. […] Ritengo che Auschwitz debba essere inteso come passato storico, che debba essere riconosciuto nel presente e che non sia lecito escluderlo ciecamente dall’orizzonte futuro. Auschwitz non è solo dietro di noi.

Tre paia di occhiali

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di Roberto Galofaro

Ottica

All’interno del corpo umano gli stimoli luminosi vengono codificati in impulsi e inviati attraverso il nervo ottico per essere decodificati dal cervello come sensazioni visive. Tra la realtà esterna e la visione della realtà è posto uno strumento organico: l’occhio. Esso è sostanzialmente una lente; un diaframma che, al grado zero di connotazione, attua una semplice mediazione, mentre all’estremo può comportare persino una falsificazione.
Laddove il normovedente ha l’impressione di abbracciare con lo sguardo la verità e la profondità del reale, il miope ha la consapevolezza che il reale sia invisibile ai suoi occhi, o sia vero soltanto al di fuori della sua portata. La miopia è perciò la scandalosa rivelazione della fragilità del sistema percettivo umano.
È una metafora vivente della fallibilità della percezione. Limite e confine tra cecità e visione, è continua sconfessione dell’evidenza. Per chi ne è affetto, ogni percezione diventa ipotesi, interpretazione, interpolazione.

Sinossi

In Un paio di occhiali di Anna Maria Ortese (1949, in Il mare non bagna Napoli, Einaudi, 1953; successivamente: Adelphi, 1994) la miope è Eugenia, una bimbetta con la pelle invecchiata dagli stenti, che vive in un affollato basso napoletano. La vicenda raccontata occupa la giornata in cui la bambina, grazie a un generoso regalo della zia Nunziata, avrà finalmente il suo primo paio di occhiali, passando però dalla trepida aspettativa a un’angosciosa rivelazione.
L’avventura di un miope di Italo Calvino (1958, in Gli amori difficili, Mondadori, 1970) copre un lasso di tempo decisamente più lungo, centrato com’è sulla figura del buon Amilcare Carruga, che seguiamo da quando scopre di non vederci bene (ragion per cui la sua vita «andava, impercettibilmente, perdendo sapore») e inforca gli occhiali, al momento in cui, tornato al paese in cerca di “visibilità” in mezzo ai conoscenti e agli amori del passato, finisce in una sconsolata solitudine.
In Occhi felici di Ingeborg Bachmann (1972, trad. it. di Ippolito Pizzetti, in Tre sentieri per il lago, Adelphi, 1980) a essere affetta da forte miopia (e astigmatismo) è la bella e sbadata Miranda (la cui funzione nel mondo «dovrebbe essere la tenerezza tout court»). Compra e perde nuovi occhiali, li mette, li toglie, e intanto spinge con goffi e miopi stratagemmi il suo amato Josef tra le braccia dell’amica Anastasia.

Decezione (mispercezione)

Il miope è un vedente che si vuole redimere. Il miope ha coscienza di un’indefinibile inafferrabilità del reale. Lo iato tra essere e percezione, calcolato e misurato per la produzione di strumenti correttivi, è la certificazione della condizione straordinaria del miope. Le cose, le persone sono lì, a portata di vista, percepibili ma senza la dovuta nettezza. Basterebbe una correzione per raggiungerle e aspirare alla felicità. Basterà un paio d’occhiali?
Nessuno dei protagonisti dei tre racconti si gode a lungo la vista corretta, anzi, i tre racconti sono costruiti su tre modalità simili di infelicità del vedere.
In Bachmann la decezione è funzionale alla sopravvivenza (che è coazione a ripetere, rappresentazione di ruoli, profezia autoavverantesi).
In Ortese la decezione è indispensabile alla sopravvivenza (che è vicenda amarissima, perché «questa vita è un gastigo»).
In Calvino sia la decezione che la correzione portano manifestamente al medesimo risultato: la sconfitta e la solitudine.

Optometria

In ottica la miopia è definita “vizio di rifrazione”: essa si dà quando, a causa di un difetto della curvatura della cornea o del cristallino o di un allungamento dell’asse, il punto di messa a fuoco è posto anteriormente alla retina e sulla retina vengono dunque a formarsi immagini sfocate invece che nitide. La diottria, unità di misura della miopia, è in realtà l’unita di misura dell’angolo di correzione della lente che consente di portare le immagini propriamente a fuoco sulla retina.
Ragionando in termini più concreti e meno clinici, diciamo semplicemente che miope è chi non vede da lontano. Ora, si tratta di stabilire senza possibilità di equivoco che, una volta superata una certa soglia della menomazione visiva, quel lontano che è il limite dell’invisibile è spaventosamente vicino. Non a pochi metri ma a poche decine di centimetri dall’occhio. L’ambiente circostante è nella sua interezza offuscato, «avvolto in una nebbia», «coperto [...] da un velo sottile» (Ortese), «un molle mondo di forme e di colori quasi sfatti» (Calvino), è un «mondo velato» (Bachmann).
La miopia è la causa della noia del vivere di Amilcare Carruga: le donne a cui buttava sempre gli occhi addosso prendono ad apparirgli scialbe; le città nuove anziché esaltarlo come in passato lo disorientano; al cinema tutti gli spettacoli gli sembrano piatti e anonimi. La pratica è disbrigata da Calvino in poche righe, in un’asciutta, rapidissima paratassi: «Alla fine capì. L’oculista gli ordinò un paio d’occhiali. Da quel momento la sua vita cambiò, divenne cento volte più ricca d’interesse di prima». Da quel momento, rapito Amilcare da una miriade di particolari prima inintellegibili, l’atto stesso del guardare diventa per lui «un divertimento, uno spettacolo» – almeno fino a una nuova assuefazione.
La diagnosi acquista invece un peso maggiore in Bachmann e in Ortese. Entrambe sentono di doverla mettere in scena.
Ortese dà conto in maniera teatrale della condizione della piccola Eugenia, «così giovane e già tanto miope», per bocca dell’ottico: «Tiene nove diottrie da una parte e dieci dall’altra, se lo volete sapere... è quasi cecata». «Eugenia Quaglia, vicolo della Cupa a Santa Maria in Portico», recita l’intestazione dell’ordine per le lenti, con un conto salatissimo di «ottomila lire», un vero sproposito per una famiglia che vive in un basso scalcinato e che si arrabatta con piccoli lavori di servizio per sopravvivere.
Il racconto di Bachmann è il più clinico dei tre: inizia con l’elencazione scientifica delle proprietà della vista menomata di Miranda, in termini di diottrie, gradi, astigmatismo. «Aveva cominciato con 2,50 a destra e 3,50 a sinistra, ricorda Miranda, ma adesso, con perfetta armonia, di diottrie ne aveva 7,5 per occhio. Il punto prossimo è spostato anormalmente vicino, il punto remoto ancora più vicino». E poi c’è l’astigmatismo, una «deformazione che le mette paura, in quanto [Miranda] non riuscirà mai a capire perché i suoi meridiani siano abnormi e in nessun punto possiedano lo stesso potere di rifrazione». Insomma, il modo in cui vede Miranda «è peggio che esser ciechi», o, come dice più avanti, è anche lei «sul confine della cecità».

Montature

Occhiali d’oro per la raffinata Miranda (e con lenti diffusorie). Ma: «Miranda possiede, nei momenti migliori, tre paia di occhiali: un paio da sole molati con una montatura nero e oro, poi un paio leggero, trasparente, da pochi soldi, per casa, e un paio di riserva con una lente traballante, che oltre tutto sembra non le doni affatto». Tutte le lenti di Miranda, però, sono destinate ad andare smarrite; così per strada come in teatro, come in casa, lei rifiuta di indossarli (la dimenticanza è un’altra forma di ostinazione) ed è il buon Josef, finché ne ha pazienza, che «l’aiuta a vedere e a continuare a vedere».
D’oro pure li immagina la povera Eugenia, o quantomeno con il filo dorato: come può altrimenti giustificare le «ottomila lire vive vive»? I suoi occhiali sono in realtà un minuscolo affare di metallo sottile, quasi di filo di ferro, con delle lenti pesanti. «Una specie di insetto lucentissimo, con due occhi grandi e due antenne ricurve»; una volta indossati, nell’orrore della rivelazione sono crudamente «due cerchietti stregati».
Calvino esagera: il suo protagonista è infelice delle lenti che lo hanno trasformato in un «Uomo con gli occhiali» e li cambia per un paio quasi invisibile, tutto lenti, trasparente. Salvo poi ripensarci, ancora una volta, e tornare a lenti che lo nascondano (lo nasconderanno fin troppo). È come se Calvino insistesse sulla più effimera delle connotazioni della miopia: l’estetica. Gli occhiali come abbellimento o impedimento estetico, tema sul quale tentenna più volte anche la Miranda di Bachmann, come si è visto.
L’insistenza di Ortese sull’apparenza di miseria umana e materiale di certi quartieri napoletani, costante in tutta la raccolta Il mare non bagna Napoli,  non poteva lasciare troppo spazio a un vezzo estetico così accessorio come il cambiamento della figura con o senza gli occhiali. È esemplare che Eugenia sia descritta come una bimba con il «viso di piccola vecchia, i capelli come stoppa, tutti arruffati, le manine rivide, legnose, con le unghie lunghe e sporche»: quanto può peggiorare il quadro un paio di lenti da vista? Eppure Ortese accenna a quella prospettiva, affidando significativamente una battuta lapidaria alla serva della signora Amodio: «Io pure me li dovrei mettere, ma il mio fidanzato non vuole». Eugenia non afferra minimamente il senso malizioso di quella proibizione, pensa sia legata al costo eccessivo degli occhiali. Questa incomprensione è il succo della distanza tra un mondo di piaceri sensuali (in senso proprio) e il mondo in cui vive la piccola protagonista del racconto.

Slogan

Sulla fattura di un paio di costose lenti a contatto tedesche, che Miranda si è fatta venire da Monaco, si legge lo slogan pubblicitario della ditta che le produce, lo stesso che nella scena finale del racconto di Bachmann torna in mente all’imbranata Miranda dopo che ha battuto contro un’invisibile porta a vetri, mandandola in frantumi: «Tenete d’occhio il vostro bene». È proprio ciò che Miranda non è mai stato in grado, costitutivamente, di fare.
Come Bachmann, anche Ortese condensa ironicamente il senso del racconto in uno slogan. A Eugenia, che la ringrazia per la sua bontà e per il dono degli occhiali nonostante la sua “scostumatezza”, zia Nunziata risponde, con improvvisa malinconia: «Figlia mia, il mondo è meglio non vederlo, che vederlo». Niente di più vero.
Non c’è, purtroppo, uno slogan equivalente in Calvino, ma c’è un accurato riferimento al modo in cui chi indossa gli occhiali viene visto, che è quasi il fondamento del racconto, per una sorta di indagine sulla reciproca visibilità tra chi osserva e chi è osservato. Scrive Calvino: «[...] quando uno che non ti conosce cerca di definirti, la prima cosa che dice è: “uno con gli occhiali”; così quel particolare accessorio che quindici giorni fa t’era completamente estraneo, diventa il primo tuo attributo, s’identifica con la tua essenza stessa». Sembra solo un capriccio e invece, riflettendo sulla propria irrilevanza e inconsistenza, «il passo che porta alla disperazione è breve».

Vedo non vedo

L’atto del vedere, connesso com’è alla percezione dello spazio, è fondamentale al posizionarsi nel mondo del vedente. Ancora una volta, secondo quanto accade con tutti gli aspetti filosofici della miopia, questa frase è da intendersi sia in senso proprio che in senso metaforico. Accade dunque che la correzione della vista deficiente comporti uno spostamento o un riposizionamento.
È una trasformazione inizialmente felice nel caso del miope raccontato da Calvino: egli crede di aver riacquistato il suo posto nel mondo. Amilcare Carruga è intenzionato ad autodeterminarsi: «attraverso la necessità degli occhiali, andava lentamente imparando a vivere». Nel suo rinnovato stato d’animo di “felicità percettiva”, decide di recarsi a V., la sua città natale. Ciò che vuole è vedere ed essere visto. Dapprima pensa che sia per il piacere di rivedere luoghi e persone del passato (e segnatamente per la prima volta vederli); poi si rende conto che il principale desiderio è quello di incontrare Isa Maria Bietti, la sua fiamma di un tempo, colei per la quale lasciò la città. La seconda metà del racconto è il diario di un’impresa impossibile: con gli occhiali indosso Amilcare riconosce i passanti che gli si fanno incontro, sorride loro e li saluta, ma quelli, che non l’hanno mai visto con gli occhiali, non lo riconoscono a loro volta. Così decide di togliere gli occhiali: non vede più, tira a indovinare a chi appartengano le sagome che lo salutano passando e teme persino di aver confuso Gigina dei tabacchi per la sua Isa Maria Bietti. È così che il racconto si avvia alla triste conclusione, segnata da questa inconciliabilità di percezioni contrapposte che sembrano non avere un terreno comune.
La miope Miranda di Bachmann è invece nevroticamente indecisa. Il mondo lo rifiuta in blocco, rifiutandosi di indossare gli occhiali, togliendoli, perdendoli distrattamente o con intenzione. Vuole essere vista anche non vedendo. Eppure, il suo difetto della vista è un privilegio, un dono di dio (come in Ortese!), perché «Potrebbe anche darsi che la vista normale, astigmatismo normale incluso, ottundesse i sensi della gente». Miranda «pensa con disagio alla possibilità di un “vedere di continuo”». Quel “disagio” è appunto la sua incapacità di stare continuamente nel mondo. Perché lei non sente il bisogno di fotografare la realtà con uno sguardo occhialuto. I dettagli non le interessano e preferisce dipingerseli in un modo tutto suo. Inforcati gli occhiali «Miranda riesce a guardare l’inferno, il cui orrore non è mai cessato», e tuttavia è sempre pronta a toglierli, rapida, istantanea, per evitare che nel suo campo visivo capiti «tutto ciò che poi non riesce a dimenticare: [...] un bambino storpio, o un nano, o una donna con un braccio amputato» o anche solo le «facce infelici, cattive, maledette, segnate dalle umiliazioni e dal delitto, volti inimmaginabili». Dunque l’alternativa all’orrore non è la correzione ma la miopia, una via di salvezza. L’inimmaginabile è allontanato. Si badi che Bachmann con garbatissima perizia non menziona mai direttamente la questione verità-immaginazione o verità-finzione. L’autoconservazione di cui parla è presa sul serio e noi siamo tenuti a prenderla sul serio: siamo entrati definitivamente nella mente della donna miope. Anche i suoi sentimenti sono offuscati. Miranda ama Josef, ma è sicura di ciò che lui sente per lei? No, perché non si fida della sua percezione. Così lo mette alla prova. Gli eventi che seguono, e che lei stessa ha innescato solo in parte, dimostreranno la verità. Di quella verità Miranda non potrà che essere vittima, perché quella è la sua condizione. Non ha scelto lei di stare al mondo, non ha scelto lei come stare al mondo, perché non ha mai avuto un posto nel mondo.
Ortese lavora fin dalle prime righe per costruire un’aspettativa nel lettore: il duplice colpo di scena finale è nel fatto che quella che si preannuncia come gioia del vedere si ribalterà in disgrazia. La prima volta che indossa per prova le spesse lenti correttive, Eugenia guarda la strada davanti al negozio dell’ottico e vede via Roma con le ricche vetrine, i caffè lussuosi e le signore eleganti e imbellettate: è una «vera rivelazione: il mondo, fuori, era bello, bello assai». Di questa bellezza Eugenia ha forse soltanto un’immaginazione remota, e ora che le si prospetta la possibilità di abbracciarla con lo sguardo non vuole altro che godersela. Eugenia vuole fortemente vedere. Lei non ne ha mai avuto parte, nel vicolo in cui vive predominano le ombre e il grigio. È un mondo in cui ci si sveglia con gli scarafaggi nelle maniche del pigiama e in cui con ottomila lire (il costo degli occhiali) si potrebbe comprare il pane per tutta la famiglia per più di dieci giorni. È un luogo popolato di «cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione». Il racconto è disseminato di anticipazioni, che tuttavia accrescono l’attesa. Dice la marchesa D’Avanzo a Eugenia: «A te, che ti serve veder bene? Per quello che tieni intorno...». Ma il nucleo tematico è il trauma della rivelazione. La rivelazione sperata è negativa – perché la realtà è negativa. A Eugenia, indossati infine gli occhiali, tremano le gambe, gira la testa «e non provava più nessuna gioia». Piegata in due da un dolore che sembra averla presa allo stomaco, chiede e si chiede quale sia quel posto orrorifico e irriconoscibile in cui le è toccato di vivere (e in cui tuttavia, fino a poco prima, immaginava di poter vivere felice): «Mammà, dove stiamo?».

Il permaloso novelliere John O’Hara

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di Stefano Friani

Quando nel 1960 John O’Hara ritorna fatalmente e dopo una lunga assenza a pubblicare col New Yorker lo fa con una novella, la seconda della trilogia Prediche e acqua minerale, inaugurata da La ragazza nel portabagagli (traduzione di Vincenzo Mantovani, Racconti, 2019). Nel giro dei tre anni successivi O’Hara riscoprirà una vena aurea apparentemente inesauribile trovando che «nessun’altra scrittura gli riuscisse così semplice» e inonderà con un centinaio di storie la redazione e soprattutto il malcapitato editor William Maxwell – altro raccontista finissimo che all’epoca si ritrovava a maneggiare i testi dei tre John della short story: O’Hara, Updike e Cheever. Quasi una linea dinastica di scrittori che si sono passati il testimone nel descrivere i sobborghi felici e i prati falciati di fresco dell’America novecentesca.
Erano più di dieci anni che O’Hara non frequentava così assiduamente la forma breve e la cosa non poteva che rinsaldare il traballante rapporto con la rivista che nel corso di quarant’anni gli pubblicherà il record irraggiungibile di 247 racconti, contribuendo per sempre a definire il canone della tipica short story del New Yorker. Prima di Pensando di baciare Pete – questo il titolo della seconda novella – c’erano stati diversi screzi che il permalosissimo O’Hara aveva cullato accumulando rancore: un paio di brutte recensioni al suo secondo romanzo Venere in visone e al successivo Smania di vita, ma anche il rifiuto da parte del New Yorker di corrispondergli un compenso qualora un racconto appositamente concepito per la rivista fosse stato scartato. Si bullava di scriverne uno in un paio d’ore scarse, ma se poi gli venivano rifiutati aveva difficoltà a piazzarli altrove. Per non dire poi della sofisticata e guerreggiata strategia tit for tat che adottava con gli editor della rivista: sempre Maxwell, che era più giovane di una generazione e mezza, ricorda come fosse stato rintuzzato al suo posto per aver osato questionare l’utilizzo reiterato di certe didascalie a suo dire «manieristiche»; O’Hara gli aveva fatto recapitare una minuziosissima lettera in cui difendeva la sua estetica in toni tutt’altro che mansueti. Qualche anno prima sarebbe stato anche più intransigente: in un bar una volta aveva mandato al tappeto con un cazzotto Robert Benchley, un altro giornalista del New Yorker, senz’alcun motivo, un po’ come fa in Appuntamento a Samarra il protagonista Julian English con l’irlandese Harry O’Reilly. A sua discolpa c’entrava come spesso gli capitava in quegli anni l’alcol e il giorno dopo l’aveva chiamato per scusarsi. Benchley la prese sportivamente: «Nessun problema, John. Lo so che sei uno stronzo». Non era forse un caso che fosse cordialmente detestato da chiunque dovesse lavorargli accanto, un po’ come Roald Dahl alla Knopf.
D’altronde John O’Hara è sempre stato un autore che doveva mantenersi con la macchina da scrivere. Figlio di un medico di provincia, come Hemingway, alla morte del padre si era ritrovato in giovane età a fronteggiare un mare di debiti e impossibilitato a frequentare le tanto favoleggiate università della Ivy League. Se ne farà una malattia. Diventerà ricco e riconosciuto ma mai abbastanza, girerà in Rolls Royce aspettando un Nobel che non arriverà mai, e avrà sempre questo tarlo che lo rode dentro, una volontà di rivalsa che gli alienerà simpatie e amicizie, ma non certo lettori.
Se anche storicamente a venire ricordati sono più i suoi racconti che non i romanzi, qualche soddisfazione in quel campo l’ha avuta: il National Book Award a Ten North Frederick (di prossima ripubblicazione con Bompiani), le molte trasposizioni sul grande schermo dove i suoi personaggi venivano da incarnati da volti come Gary Cooper e Elizabeth Taylor, Frank Sinatra e Rita Hayworth. In controtendenza sarà William Vollmann a distanza di anni a scrivere che è nella forma lunga che O’Hara trova la sua migliore espressione, poiché nel suo essere più aristotelico e controllato nei racconti sembrava però trascurare quell’iniezione vitale di empatia necessaria a simpatizzare coi personaggi. Sempre Vollmann arriverà a dire che nel metodo – per quanto distanti ideologicamente – O’Hara era quasi marxista: un indagatore delle strutture e sovrastrutture sociali capace di sondare gli umori degli americani nei bar clandestini fino ai club per ricconi, con un orecchio tutto particolare per il dialogo e per la mimesi dei tic del parlato. Le sue ossessioni erano sempre presenti nei testi che produceva a un ritmo infaticabile – sedici romanzi, quattrocento racconti, un’infinità di corsivi al vetriolo e una manciata di sceneggiature per Hollywood e Broadway. Ci sono i cocktail consumati al circolo di Lantenengo Street o negli speakeasy attorno a Times Square, le macchine come status symbol descritte fin nel dettaglio più insignificante oppure addirittura le barche: Avrei potuto avere uno yacht si intitola uno dei racconti. Eppure nella stroncatura post-mortem che gli dedicherà proprio dalle pagine del New Yorker Harold Brodkey si dirà che la sua capacità di analisi sociale non era certo profonda quanto quella di un Theodore Dreiser o di un Faulkner e che il nostro, roso dal livore del cattolico in un’America protestante, mancava di empatia quando doveva scrivere i suoi personaggi wasp.
Ma se Lovecraft aveva la sua Arkham, Stephen King Derry e Castle Rock, Fitzgerald West Egg, nessuno come John O’Hara si è davvero preso davvero la briga di disegnare una cittadina fatta e finita: la Gibbsville, in Pennsylvania, che rispecchia la sua Pottsville d’origine e prende il nome dal suo primo editor e amico al New Yorker, Walcott Gibbs. In questo diorama sono ambientati cinque romanzi e oltre cinquanta short stories, con personaggi che ritornano e ritroviamo, come la Caroline English evocata in La ragazza nel portabagagli, protagonista di Appuntamento in Samarra e comparsa in Venere in visone. Gibbsville sta appollaiata all’ombra degli Appalachi, nel distretto dell’antracite patria di quella disillusa working class di origine scoto-irlandese che molti anni dopo volterà le spalle allo storico voto democratico e farà pendere l’ago della bilancia delle presidenziali per Trump. Difficile che il risentimento anti-establishment dei nostri giorni sia quello che animava la penna di O’Hara, per quanto come il suo doppio Jim Malloy, il protagonista dei racconti di Prediche e acqua minerale, anche per lui la strada sia sempre stata in salita.
Lo incontriamo che scrive coccodrilli per gente che ancora deve finire la sua corsa Jim Malloy, è così che inizia La ragazza nel portabagagli, un pubblicitario che alza il gomito e per campare si ritrova costretto a scarrozzare un’attrice sul viale del declino. Malloy è uno che sa stare al mondo e sa qual è il proprio posto, ma non s’è rassegnato, proprio come il suo creatore: John O’Hara.

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Gli anni meravigliosi del Vecchio scorticatoio: la letteratura della DDR, da Kunze a Hilbig

di Andrea Cafarella


Gli anni meravigliosi del Vecchio scorticatoio

Due sconosciuti poeti della Berlino Est e le loro forme estreme e opposte di raccontare quello che non si può raccontare

 

 «Dovevo affidarmi alle allucinazioni per riuscire a trovare il modo e le possibilità di viverci».

Wolfgang Hilbig

 

Il Novecento. È come una persona, il Novecento. Per noi, in particolare, che di questo secolo abbiamo conosciuto soltanto gli ultimi decenni, si è fatto di carne e ossa. Ci ha fatto un po’ da nonno, con le sue storie, i suoi ricordi. I suoi insegnamenti, la sua morale. I suoi «prima si faceva così», «ai miei tempi», «noi campavamo lo stesso, anche se non ce l’avevamo…» la televisione, il telefono e tutte le altre cose che i nonni guardano con severità. Le comodità che ci hanno reso – per loro, i nonni – deboli, smidollati, dei comodisti che non saranno in grado di cavarsela nella vita vera. Perché i nonni hanno visto la guerra. Hanno vissuto la fame e la miseria. Loro sì che sanno cavarsela, anche quando si fa dura, quando è difficile davvero. 

Il Novecento è un nonno così. Un nonno che ha fatto la guerra, è stato al fronte, ha mangiato pane e cipolle. «E il pane lo davano con la tessera mica al supermercato!». Si ricorda le bombe, il nonno. La bottega dove la cioccolata era chiusa nei contenitori di vetro o di latta riposti negli scaffali più alti. Poiché nessuno ne rubasse. «La miseria fa gli uomini lupi» dice sempre il nonno.

In effetti, il novecento è un secolo di guerre memorabili: la Grande guerra, la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda (oltre tutte le altre “piccole” guerre che hanno fatto da sottofondo anche ai nostri salotti: del Vietnam, del Golfo, dei Balcani). E, seppure sia prima che dopo, la guerra non abbia mai cessato di esistere (anzi, tutto il contrario) è indubbio che questa triade di guerre, combattute – o meno – in ambito internazionale, si compone di momenti storici molto complessi, la cui violenza scatena, ancora oggi, reazioni emotive molto forti e susseguenti riflessioni – sulla natura stessa dell’uomo e sulla vita in generale – di cui non si può più fare a meno. 

Il novecento è stato un secolo in cui la guerra ha cosparso il mondo occidentale, l’Europa, il nostro mondo, di cadaveri in ogni angolo, dietro ogni paesaggio che sentiamo vicino e consideriamo casa (come ci insegna Martin Pollack nel suo Paesaggi contaminati (Keller, 2016)). Ed è forse questo che ci colpisce di più di queste guerre, considerando – è proprio il caso di ricordarcelo – che altrove certi avvenimenti si perpetrano da prima del novecento e continuano tutt’oggi, anche oltre quanto i giornali dicono e dicevano. 

Genocidi, fosse comuni, campi di concentramento, dittature, esili, migrazione forzata e ghetti, leggi raziali, censura. Queste sono le parole del novecento. Il linguaggio prodotto dalle guerre che hanno coinvolto i paesi europei e occidentali (e non solo) durante il secolo scorso. E se il linguaggio è un prodotto dell’uomo, è altrettanto vero che attraverso il linguaggio l’uomo crea il mondo e fa la Storia. Il linguaggio è la Storia, il linguaggio è il mondo. E il linguaggio del novecento ha inevitabilmente cambiato – contaminato – il mondo in cui viviamo oggi, rendendolo cosi com’è.

 

Lungi da me voler esporre qui una lezione di storia del novecento e dei suoi conflitti (questo spazio non basterebbe nemmeno ad elencare una bibliografia essenziale utile al suo studio). Il fenomeno su cui sento l’obbligo di ragionare – accennandolo preliminarmente in questo mio scritto – coinvolge soltanto una delle guerre menzionate e una singola determinata area geografica. Parlo della DDR: la Deutsche Demokratische Republik (o Repubblica Democratica Tedesca (RDT), in italiano). Vale a dire la zona di occupazione della Germania, assegnata all’URSS, a seguito della vittoria della seconda guerra mondiale. La cosiddetta Germania Est. La cui esistenza si limita al periodo che va dal 1949 al 1990. Ovvero durante gli anni di quella dinamica politica che chiamiamo convenzionalmente: Guerra fredda.

La DDR era una nazione fittizia, creata a tavolino da generali e politici, in cui il regime totalitario sovietico dovette agire con una forza più opprimente che in qualsiasi altro paese legato dal Patto di Varsavia. Ne sono state conseguenze: la chiusura delle frontiere, nel 1961, quando l’espatrio fu ribattezzato «Fuga dalla Repubblica» e la costruzione del famoso muro di Berlino, che squarciava la città in due parti. L’Europa in due metà. Gli europei, le persone, gli esseri umani che abitavano quella parte di mondo, persino loro erano stati spaccati in due, divisi in parti. Le famiglie, gli amici, i colleghi, i conoscenti, fino al singolo individuo: ogni cittadino europeo e occidentale – e questo lo sappiamo dai nostri nonni e dai nostri padri – sentiva uno smembramento. Una separazione che sussiste tutt’oggi. Una ferita che sta facendosi cicatrice. E che, pur cicatrizzandosi, ricongiungendosi in un nuovo lembo di pelle, resterà lì per sempre. 

Riunita, ma da pelle morta.

 

In un tale contesto storico e politico si sono creati dei fortissimi stereotipi, atti a tenere distante il lontano, nemico il vecchio nemico. Questo processo coinvolge sia l’opinione che i singoli cittadini hanno di chi viene «dall’altra parte» che quella, più generale, che considera la cultura e quindi la produzione, soprattutto quella artistica, di chi è straniero. E questo è ciò che m’interessa davvero.


Circolavano varie storie che sconsigliavano di avvicinarsi troppo al mulino: stando alla più tetra, nel podere abbandonato si erano installati gli stranieri, gente dell’Est Europa che lì dentro era sopravvissuta alla guerra e nemmeno dopo aveva abbandonato il nascondiglio; anche costoro si ingigantivano quanto più sentivo voci sul loro conto; erano scaltri e violenti, incomprensibili e inavvicinabili – più una stirpe proveniva da est e più era pericolosa, così si credeva – e intuivo che, nella loro cieca ostilità verso la gente del posto, non avrebbero notato che anch’io venivo da una famiglia originaria del profondo Est…

Wolfgang Hilbig, «Vecchio scorticatoio»


La censura, la pubblicità, la propaganda. La lontananza. L’ignoranza. Sono tanti, mutevoli e s’intrecciano l’uno con l’altro, i meccanismi che hanno creato questa distanza tra Est e Ovest. Le leve che sono state usate per sollevare le pietre della lapidazione, del linciaggio collettivo e culturale. Sono meccanismi indotti e auto-indotti. Sono voluti, decisi o naturali, intimi. Sono diversi e impossibili da fissare in un elenco esaustivo. Sarebbe davvero interessante poterci addentrare nello studio pluridisciplinare di questo argomento. Ci potrebbe dare molti spunti di riflessione sull’analisi del razzismo tout court – e oggi sarebbe d’uopo più che mai. Tuttavia, confido che il lettore accorto possa trovare l’abbrivo per un discorso più approfondito nello spirito di questo saggio. Esattamente come è avvenuto nel mio caso, seguendo la pista di alcuni autori straordinari, vissuti al centro del contesto storico e politico che ho appena descritto.

 

La mia avventura nella profonda Germania Est inizia qui. 

Avevo avvistato, parecchi mesi fa, l’uscita di un libro dal titolo, doppio e intrigante: Le femmine – Vecchio scorticatoio. Di un autore che avevo già sentito nominare: Wolfgang Hilbig. L’avevo letto tra i nomi degli scrittori tradotti da Agnese Grieco. Quindi avevo preso subito La presenza dei gatti (il Saggiatore, 1996) l’avevo letto e le avevo immediatamente scritto. Ero folgorato da quella voce putrida e lirica e immensa. Quella prima persona plurale così forte e intima, la voce del primo dei racconti della raccolta. Era la voce degli ebrei durante l’Olocausto e degli artisti, di tutti gli autori censurati dalla paura della Stasi (la polizia segreta del regime). Non dalla Stasi in sé ma dalla sua sola aura, dal terrore che incuteva in ogni cittadino “libero” della Repubblica Democratica Tedesca. 

La prosa di Hilbig descrive il mondo difficile di quegli anni visto dagli occhi di un bambino che racconta con la voce di nonno Novecento. E l’effetto è allucinatorio.

Agnese mi rispose scrivendomi di Hilbig grandi cose. Dopodiché lessi il modo in cui viene descritto da László Krasznahorkai, Clemens Meyer e Joshua Cohen (negli strilli stampati in copertina). Ne parlai con Roberto, il suo nuovo editore italiano (Keller). E scoprii che tradurranno diversi suoi testi e mi s’infiammarono le mani quando mi consegnò finalmente il volume: Le femmine – Vecchio scorticatoio. Avevo il bisogno febbrile di divorarlo.

Il libro racchiude due suoi racconti lunghi (che, unendosi ai quattro de La presenza dei gatti formano un totale di sei racconti disponibili in lingua italiana – pochissimi considerando la qualità della prosa e la notorietà dell’autore in Germania), sono testi mirifici, elegiaci e crudissimi al contempo, fatti di sogni e sangue. 

Qualche giorno dopo – poiché nulla accade per caso – andai per la prima volta in vita mia a Berlino, nella Berlino unita degli anni duemila, di oggi. Vi restai pochissimi giorni, giusto il tempo per visitarne i luoghi principali, leggere il libro e andare a trovare Agnese nel suo incantevole studio. 

Ed è proprio lì, difronte al volto immane di Samuel Beckett che iniziai a capire cosa può provocare la separazione di cui ho abbondantemente accennato in apertura. Può creare una letteratura e nasconderla. E può perfino cancellare un’intera letteratura. 

Agnese mi raccontò le vicende editoriali che stanno dietro quella perla che è La presenza dei gatti (del quale, consiglio all’attento lettore, di recuperarne una copia, prima che sia tardi), mi raccontò di Hilbig e dei loro incontri. Della grande fatica compiuta nel tentativo di farlo pubblicare in Italia. 

Quindi mi nominò Botho Strauß ed Esther Kinky e tanti altri autori che finalmente stanno trovando spazio nella letteratura straniera tradotta in lingua italiana e dei tantissimi altri che non riescono ancora a oltrepassare la cortina di ferro. *

 

George Tooker, Voice, 1963

George Tooker, Voice, 1963

* Mi sembra importante e giusto sottolineare il magnifico ed essenziale lavoro di recupero e di ricerca che conducono, da anni, case editrici come Voland, L’orma, Keller e pochi altri (assieme a singoli addetti ai lavori, traduttori, editor). Non solo con autori che scrivono in lingua tedesca ma scrittori originari di tutti i paesi dell’area del cosiddetto “blocco comunista”: a partire da Uwe Jhonson ed E.T.A. Hoffmann, passando per Matrin Pollack e Max Blecher, fino ad arrivare a Mircea Cărtărescu, László Darvasi o Clemens Meyer. Oppure a sporadiche apparizioni, come quella di Volker Braun nel catalogo Donzelli.


Di ritorno da Berlino, a Milano, feci visita a una libreria dell’usato di cui sono abituale frequentatore. Continuavano a vorticarmi in testa i discorsi di Agnese e il mio sguardo percorreva gli scaffali in cerca di quei nomi impronunciabili che la Storia ha cercato di cancellare. E d’un tratto, nel piano sotterraneo – non poteva essere altrimenti – m’imbattei sorprendentemente nell’unica copia rimasta del solo libro tradotto in italiano di Reiner Kunze, Gli anni meravigliosi (Adelphi, 1978, traduzione di Guido Smeducci)

Fu il dipinto riprodotto in copertina (George Tooker, Voice, 1963) a rivelarmi, come una folgore di luce, tutto quanto sto cercando di dire qui. Ci sono due uomini, i cui volti sono deturpati dal timore e dalla sorpresa, e si poggiano – viso, mani e petto – su una sottile parete che li separa l’uno dall’altro. Siamo noi e loro. Occidentali e Orientali. Germania Ovest e Germania Est. La letteratura in lingua tedesca di quegli anni e la letteratura italiana. La letteratura dei paesi del blocco sovietico e quella dei paesi firmatari del Patto Atlantico. 

 Il libro è sconvolgente: un museo di oggetti minimi e quotidiani. Una galleria antropologica che mostra, liricamente, tutta la violenza sottile e psicotica della vita nella DDR degli anni settanta. 


Non vedi che in questo ragazzo si nasconde un artista?» disse. «È un ragazzo che ha il coraggio di affrontare l’ignoto. Connette le cose in un modo tale che restiamo sbalorditi. Ha una tenacia creativa. Forse potrà uscirne anche poeta, chi sa». […] «Oppure un soldato bravo, o magari geniale» disse il terzo, che io però interruppi subito. «Soldato? Come, soldato?» chiesi avvertendo il pericolo di dover cancellare poi dalla mente del ragazzo le parole che c’erano da aspettarsi appena l’amico avesse ricordato il proprio servizio militare. Lui rispose: «Un soldato bravo, perché esegue anche l’ordine più idiota. E un soldato geniale, perché lo esegue in modo che l’idiozia dell’ordine diventa evidente. Un uomo come lui può diventare provvidenziale per una truppa.

Reiner Kunze, «Clown, muratore o poeta», Gli anni meravigliosi


L’ultimo tassello del puzzle, ancora incompleto, che mi consentì di intuirne la forma e il disegno complessivo, viene da un’altra germanista: Anna Maria Curci. Da diversi anni conduce una rubrica, molto interessante, sulla rivista Poetarum Silva, che si chiama proprio «Gli anni meravigliosi» [purtroppo non sono riuscito a trovare una pagina in cui vengono raccolte tutte le pubblicazioni. Potete comunque trovare tutti i ventidue numeri finora usciti sul sito: www.poetarumsilva.com].

Ogni numero della rubrica presenta un autore tedesco, operante negli anni settanta, i cui testi sono stati «ingiustamente dimenticati». Testi che, ci dice la professoressa Curci, possiedono «le caratteristiche della raccolta di prose di Reiner Kunze, Gli anni meravigliosi: agile, puntuale e pungente, non si sottrae mai al dialogo serrato con la realtà, il contesto storico, la quotidianità anche ‘spicciola’». Per ogni autore segue un testo tradotto dalla suddetta. La seconda pubblicazione della rubrica è dedicata proprio a Wolfgang Hilbig e vi troviamo l’unica traduzione disponibile in lingua italiana della sua raggelante poesia «episode». 

Da quel momento, quando ebbi scovato il numero della rubrica che tratta Hilbig, per me – come evidentemente anche per Anna Maria Curci – Hilbig e Kunze sono diventati fratelli di sangue. Nonostante e grazie alle loro innumerevoli ed enormi differenze. La distanza letteraria e biografica li unisce ancora di più, poiché entrambi vengono dalla stessa terra marcia infarcita di cadaveri. Sono due golem, due creature della stessa razza, semplicemente evocati da due rabbini diversi ma fatti della stessa argilla.

 

Due poeti sconosciuti ma fratelli

La poesia nella DDR di quegli anni era un fatto serio. Molto serio. Basti pensare che nel 1959, dopo la lettura radiofonica di alcune poesie d’amore, a seguito di una forte campagna diffamatoria nei suoi confronti, all’università di Lipsia, l’allora assistente di cattedra Reiner Kunze, durante un’assemblea, viene travolto dagli sputi di uno studente. Un episodio che diviene un vero e proprio linciaggio. 

Kunze è costretto a lasciare la carriera accademica e a trasferirsi in Cecoslovacchia, dove, però, fortunatamente, conosce la sua futura moglie, inizia a tradurre dal ceco e a inserirsi nelle allora vivide cerchie letterarie e intellettuali del paese. Questo fortunato periodo dura però soltanto due anni, la primavera di Praga spazza via ogni speranza di pacifica e felice attività intellettuale nel cuore e nella mente dell’autore tedesco, abbandonandolo alla violenta censura del regime e alla totale repressione psicologica della società. Solo una quindicina di anni più tardi descriverà la deprimente situazione in cui dovette vivere, assieme alla sua famiglia e ai suoi cari, nel suo primo libro di prosa, appunto: Gli anni meravigliosi. Libro che conobbe una immediata notorietà in tutto il mondo. Libro che lo costrinse all’esilio. O meglio: libro che, per la sua scintillante e limpida veridicità, provocò l’ira del regime – che, come ogni regime, era restio ad accettare la verità – che costrinse Kunze e la sua famiglia a lasciare la loro casa, fuggendo verso occidente. Lontano da casa ma finalmente al sicuro.

 

La sua gratitudine nei confronti dello Stato e della società lascia assai a desiderare, per non dire che presenta tratti criminali. Vuole fare l’artista… e che cosa avrebbe da scrivere, lei… Uno scrittore che ha paura di gettare lo sguardo nella vita vera.

Wolfgang Hilbig «Le femmine»

 

Wolfgang Hilbig era un uomo e un autore molto diverso da Reiner Kunze. Lavora prima come operaio e poi come fuochista per aziende statali della DDR. Solo nel 1979 si trasferisce nella Berlino Est per dedicarsi interamente alla letteratura e, nel 1985, dopo aver ottenuto un permesso temporaneo di espatrio nella Berlino Ovest, decide di non fare più ritorno a casa. Si sposa e si separa. Come molti altri, ebbe, oltre l’esilio, in comune con Reiner Kunze, la censura e la successiva fama nel mondo occidentale. Vinse molti premi letterari e conobbe una grande notorietà. Giorgio Mascitelli, che già nel 2015 ne consigliava la traduzione su Nazione Indiana, racconta (pur senza certificarne la fonte) che appena arrivato nella Germania federale, Hilbig spese i primi soldi guadagnati per acquistare l’intera opera di E.T.A. Hoffmann. Un aneddoto che, anche fosse falso, dice moltissimo su Hilbig. Dice tanto sia sulla sua letteratura che sul suo modo di scrivere e dice altrettanto anche sul suo modo di pensare e di vivere – sperperando la vita in quello che amava, con una passione incontrollabile.

Morì alcolizzato, a Berlino, all’età di sessantasei anni.

 

Nell’insieme eravamo considerati degli individui negativi, dei nemici della società, in ogni caso, perlomeno, degli individui inutili e parassitari, poiché ci eravamo votati tutti quanti alle nebulose stelle dell’arte e della letteratura.

Wolfgang Hilbig, «La presenza dei gatti»

 

Reiner Kunze lo immagino in giacca e cravatta, con la sua famiglia riunita attorno a lui, gli occhiali poggiati elegantemente davanti agli occhi, nel suo studio ricolmo di libri. Al contrario, Wolfgang Hilbig me lo figuro solo, in uno squallido bar berlinese, la capigliatura spettinata e il grande naso da pugile a formare un grugno selvaggio. 

Due sconosciuti che non s’incontreranno mai. 

Eppure, fratelli. Sono entrambi due poeti della DDR, censurati, esiliati e tornati in patria, questo è il loro “patto di sangue”. 

E in comune hanno anche un premio, il più prestigioso della Germania occidentale: il Georg-Büchner-Preis (Kunze nel 1977 e Hilbig nel 2002) *.

Georg Büchner (1813 - 1837)

Georg Büchner (1813 - 1837)

* Il Georg-Büchner-Preis fu assegnato ad autori ormai conosciutissimi, anche in Italia: da Gottfried Benn (1951, il primo a riceverlo) a Paul Celan (1960), Ingeborg Bachmann (1964), Heinrich Böll (1967), Thomas Bernhard (1970), Uwe Johnson (1971), Elias Canetti (1972) Peter Handke (1973), Christa Wolf (1980), Friedrich Dürrenmatt (1986) fino a Botho Strauß (1989). Tutti questi hanno già editori, più o meno bravi e prestigiosi, che ne hanno curato l’opera in lingua italiana. Il fatto sconcertante, per me, è che mancano all’appello altri cinquantasei autori che lo hanno vinto tra il 1951 e il 2019.  

Lo stesso ragionamento si potrebbe fare per i ventuno autori selezionati da Anna Maria Curci per la sua rubrica «Gli anni meravigliosi» (di cui solo tre sono quasi interamente tradotti in italiano, al contrario degli altri diciotto, quasi totalmente introvabili nelle nostre librerie).

In questo senso non hanno molta importanza le abissali differenze che separano Kunze e Hilbig. O meglio: sono essenziali le differenze di Kunze e Hilbig ma non li separano, li uniscono. La loro letteratura è proprio quella pelle morta, cicatrizzata dal sangue sulla ferita, sullo squarcio provocato dalla Guerra fredda. Ed è proprio ciò che può guarire l’Europa e tutti noi.


«Medaglioni sbalzati dalla realtà della DDR» – Gli anni meravigliosi

Con questa frase Heinrich Böll definisce Gli anni meravigliosi recensendolo per la rivista «Die Zeit»: «medaglioni sbalzati dalla realtà della DDR». Le prose brevissime di questo libro meraviglioso sono piccole fotografie, rotocalchi, reliquiari di scene quotidiane. Raccontano delle situazioni apparentemente insignificanti che, per loro natura, sprigionano una enorme potenza lirica proprio nella semplicità del vissuto. Kunze non ha quindi bisogno di una lingua elaborata. Lo stile è piano, la lingua è scarna. Decisa e tagliente, spesso si riduce a singole frasi o dialoghi, privi di didascalia, privi di descrizioni. 

La figlia di Kunze è sicuramente una – se non la – protagonista di buona parte del libro. Le pagine seguono i suoi anni che passano. I suoi compagni di classe e di scuola diventano personaggi. Gli insegnanti, il preside, il custode. Gli episodi dell’infanzia: gli «anni meravigliosi» sono appunto questi, per tutti. Eppure, nei testi esplode, con una struggente ironia, la contraddizione intrinseca del titolo e del libro stesso. Sono gli anni meravigliosi dell’infanzia che però, nella DDR di quegli anni, come dire: non possono essere meravigliosi. Dovrebbero ma non lo sono stati. 

I ragionamenti assurdi che farebbe ogni ragazzino, anzi: che fa ogni ragazzino – per fortuna – prendono, nei testi di Kunze, una piega, una sfumatura grottesca. I bambini colgono, con i loro discorsi insensati, la dissennatezza del regime, la follia di un controllo propagandistico così asfissiante e scriteriato. I ragazzini portano alla luce la pressione psicologica di quegli anni, la forza emotiva della censura nelle anime di chi non ha ancora la capacità di codificare e decodificare certi meccanismi, certa pubblicità, certi stereotipi.  L’invasione culturale nella mente di chi crede ancora a tutto. E, allo stesso tempo, la naturale acutezza di chi crede, ancora, e non può farsi sottomettere dalle bugie.


Impugna un revolver per mano, dal petto gli pende un mitragliatore-giocattolo.

«Cosa dice tua madre di queste armi?»

«È stata lei a comprarmele».

«Per farne che?».

«Contro i cattivi».

«E chi è buono?».

«Lenin».

«Lenin? E chi è?».

Si sforza di pensare ma non sa rispondere.

«Non sai chi è Lenin?»

«Il capitano».

Reiner Kunze, «Sette anni», Gli anni meravigliosi 

 

Se da una parte c’è la figlia di Kunze. Quindi l’infanzia e i bambini e i ragazzini e il quotidiano. Dall’altra c’è Kunze stesso: l’intellettuale, la poesia, Praga. Soprattutto l’ultima parte del libro è un interessante spaccato della capitale ceca e un inno a certa poesia Cecoslovacca. Kunze arriva anche a riportare interi testi degli autori che tradusse. E riesce così a raccontare – sempre attraverso queste brevissime illuminazioni – il suo amore verso questo paese, la Cecoslovacchia, che lo accolse nel momento del primo esilio. E lo fa attraverso l’intimo resoconto del suo legame con la traduzione e la lingua ceca. Raccontandoci, in qualche modo, anche sé stesso e la sua letteratura e l’altrui traduzione delle sue opere, attraverso la sua relazione con le opere degli altri. 

Il risultato complessivo è il diario, lo zibaldone di un poeta già in esilio prima ancora di esserlo fisicamente. Un uomo che guarda e nota tutto, da una condizione di distanza profonda e incolmabile.

Gli unici momenti in cui la poesia subentra a segnalare un contatto, un’unione estremamente significativa ed emozionante, riguardano sua figlia. Sono epifanie strazianti e luminose, e tornano tutte al cuore alla fine del libro, nei ringraziamenti che suggellano il testo (di cui niente, nemmeno le note, è possibile escludere e considerare accessorio) all’interno dei quali ringrazia la figlia, Marcela, «perché negli anni in cui doveva innanzitutto trovare se stessa, non ha mai rinnegato suo padre». Una confessione, una dedica così aperta e toccante che farebbe piangere persino Hilbig, oltre che me e spero chiunque sappia leggere e abbia la possibilità di sfogliare questo libro eccezionale, perduto negli elenchi dei fuori catalogo.

 

Lei è il pugno con cui Dio cala sui suoi genitori. Ma un pugno che può piangere. Vivere con questa metafora impossibile.

Reiner Kunze, «Bilancio provvisorio», Gli anni meravigliosi 

Reiner Kunz (1933 - )

Reiner Kunz (1933 - )

 

 

Allucinazioni bloccate nel caos della DDR – Le femmine – Vecchio scorticatoio

Nuovamente: due poeti, due autori totalmente diversi e quindi due libri dalla forma completamente opposta. Le femmine – Vecchio scorticatoio innanzitutto è un libro “curaterale”. Al contrario de Gli anni meravigliosi, non è un libro pensato per essere così come lo troviamo nell’edizione italiana. L’editore Keller ha ben pensato di riunire due dei racconti lunghi più importanti di Hilbig (che forse oggi chiameremmo romanzi, per ragioni di “comunicabilità del prodotto”) in un unico volume, nella traduzione di Riccardo Cravero (per Le femmine) e Roberta Gado (per Vecchio scorticatoio), in occasione del trentesimo anniversario della demolizione del muro di Berlino. Diversi decenni dopo la loro prima pubblicazione in tedesco. A differenza delle prose di Kunze che furono tradotte dopo soli due anni dalla prima pubblicazione e l’anno successivo a quello della vittoria del Georg-Büchner-Preis.

Inoltre, i testi de Gli anni meravigliosi e i racconti di Hilbig, a prescindere dai loro dati anagrafici ed editoriali, sono, in effetti, diametralmente opposti. 

Se quelle di Kunze sono prose brevissime, scatti veristi che mettono in risalto la poesia del reale, quelli di Hilbig sono testi molto lunghi in cui la divagazione e la trasfigurazione simbolica sono strabordanti. Il reale viene filtrato da una lente, deturpato dall’immaginazione e dalla poesia, dall’assurdo e dal fantastico. 

 

Cercai la causa di quella sensazione e mi venne un sospetto, che andò rafforzandosi, e presto mi ritrovai a girare giorni interi soltanto per constatare che avevo ragione, notti intere soltanto per trovare conferma al mio tremendo sospetto: dalla città erano scomparse tutte le femmine.

Wolfgang Hilbig, «Le femmine»

 

Ci sono le fabbriche, le istituzioni e il controllo statale è predominante. La DDR è presente proprio nei modi che abbiamo evocato nelle pagine iniziali. Nonostante ciò, lo sguardo del poeta si rivolge all’astratto e all’invenzione fantastica. 

L’io narrante de «Le femmine» perde il lavoro e vive un costante stato di difficoltà e di ansia emotiva. Il suo pensiero però va alle femmine che, d’un tratto, non riesce più a vedere; sono scomparse, se ne sono andate, si nascondono a lui o sono del tutto invisibili? O si tratta esclusivamente di un simbolo, la rappresentazione di tutto ciò che è “femminile”? O entrambe le cose?

In questo racconto, personalmente, vedo anche un importante e strano e originale inno femminista, dal forte impatto emotivo, specie perché scritto da Hilbig. Una toccante critica al maschilismo dilagante di quegli anni, soprattutto durante il regime. Un’ode che dovrebbe parlarci ancora, oggi più che mai.

 

Oh femmine… voi che non bisogna più chiamare così… non sarà forse possibile spiegare il vostro caso con il solo fatto che un’incredibile sensibilizzazione del mio occhio vi rende a me invisibili?

Wolfgang Hilbig, «Le femmine»

 

Nei racconti di Hilbig si passa costantemente da una dimensione cruda, reale, violenta, a un piano simbolico e immateriale, dove tutto è stravolto e si smaterializza in descrizioni oniriche che hanno a che fare con la pazzia, con l’ebrezza, con le visioni di un alcolista, per l’appunto. 

 

In quel momento avrei potuto consegnare al ridicolo il simbolismo delle mie descrizioni maschili, che erano diventate da un pezzo associazioni mentali assurde e il cui stile si andava sempre più deteriorando.

Wolfgang Hilbig, «Le femmine»

 

Il protagonista, l’io narrante, in questi due racconti è sempre lo stesso Hilbig, seppure sia l’Hilbig dei sogni di Hilbig. Un Hilbig infero che spreca il suo tempo masturbandosi selvaggiamente nei meandri delle fabbriche. Un Hilbig che passa dalle sue divagazioni senza senso, dalle sue «associazioni mentali assurde» a momenti di lucidità in cui sembra come risvegliarsi e rendersi conto del reale, sentenziando frasi di totale smarrimento – «da molto ormai, non sapevo più dov’ero» – che hanno qualcosa di visionario e assolutizzante, che toccano tutti, in cui ognuno di noi si può ritrovare, poiché riguardano la natura umana, la gemma più intima e oscura del nostro essere. 

 

Nessuno mi avrebbe trovato: combattevo le mie battaglie pressoché solo con me stesso; fra le rovine, negli angoli più reconditi di quei luoghi distrutti dalla guerra, mi sapevo sicuro, invisibile e lontano dalle orecchie altrui, lì tenevo nascoste le mie sciabole di legno tinte di verde dalle ortiche che sfalciavo per farmi varco, un verde che al sole del tramonto sembrava virare al rosso. Allora le ombre si appostavano, intanate nelle crepe dei muri, ad aspettare il momento dell’agguato, ingigantendosi…

Wolfgang Hilbig, «Vecchio scorticatoio» 

 

Quella di Hilbig è una lotta costante, interiore, tra l’impossibilità di vivere il suo presente e la difficoltà di convivere con gli incubi incontrati nelle sue allucinazioni. Tra la necessità di rivedersi bambino, coi suoi riccioli d’oro ancora vergini e puliti, e la violenza dirompente del regime e dei regimi, capace di insozzare per sempre il biondo dei suoi capelli da ragazzino, bello e insolente.

 

Era come se dopo notti del genere dovessi faticosamente trasformarmi a ritroso, quasi fossi invecchiato a folle velocità assumendo un’età che non potevo accettare: nel piccolo bosco che nascondeva il luogo sacrificale degli animali deportati ero stato tramutato in connivente, nel compartecipe di un qualche Reich Millenario e della sua storia, e ora ero io stesso uno di quei vecchi induriti e senza sogni, anche i miei riccioli d’oro erano stati insozzati dal lerciume delle rampe…

Wolfgang Hilbig, «Vecchio scorticatoio» 

 

Anche in Hilbig torna il tema dell’infanzia, della fanciullezza ancora vergine. Della capacità di immaginare e di «fare poesia». 

È nella poesia che sia Kunze che Hilbig, ognuno a suo modo, trovano una fuga, un riparo, un ritorno all’innocenza. L’innocenza capace di credere. L’innocenza capace di vedere l’invisibile. E di vedere oltre le assurdità e l’orrore del visibile, qualcosa di invisibile e prezioso, di salvifico. Una speranza, pur morta.

Così come in Bernhard e Gombrowicz, nel caso di Hilbig, e piuttosto di Sebald, Benn e Bachmann in relazione a Kunze, la poesia del linguaggio, la potenza della parola può rovesciare le sorti del mondo intero. L’ossessione, la mania del verbo può ridarci ciò che ci spetta: la sensazione di esistere. 

Nella crisi, solo nella crisi l’artista trova il movente per compiere l’assassinio, per uccidersi simbolicamente e scoprire quindi, attraverso l’atto, tramite il gesto artistico, cosa significa vivere, cosa vuol dire essere. E per chi, come Kunze e Hilbig, ha sempre vissuto nel parossismo imposto e insopportabile della dittatura, trovare le parole, tutte le parole – nuove, inventate, incontrate per strada, trasfigurate dai sogni, deturpate, ricucite l’una all’altra nella speranza di una cicatrizzazione gradevole alla vista – diventa un imperativo: una ragione di vita o di morte. E questa urgenza assoluta e viscerale effluisce in ognuna delle pagine di questi due illuminanti poeti, vissuti in esilio come Dante, le cui opere tornano vivide: sono i fantasmi dei corpi sparsi in tutta l’Europa sopravvissuta al Novecento. Il Novecento: questo nonno perfido, con un passato da nazista che tende a dimenticare, ormai immobile sulla poltrona dei suoi anni, apparentemente innocuo, a cui non possiamo più rimproverare nulla e dal quale possiamo solo imparare, ascoltandone i racconti, per provare a vivere diversamente da lui. Meglio di lui. 

Seppure, al peggio – lo diceva sempre il mio, di nonno – non c’è mai, mai fine.

 

«Vecchio scorticatoio, vortice costellato di stelle. Vecchio scorticatoio sotto una volta di pensieri confusi, confuso battito di pensieri coperti di vecchio, vecchio scardinatoio. Pensieri notteriflessi, pensati d’astri: vecchio sbattitoio che offusca le stelle. E nuvole, vecchio fruscio: cervella di fumo dietro fronte di nubi, volta ventosa che obnubila le stelle. 

Wolfgang Hilbig, «Vecchio scorticatoio» 

Wolfgang Hilbig (1941 - 2007)

Wolfgang Hilbig (1941 - 2007)

Un racconto post-esotico, di Antoine Volodine

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di Andrea Cafarella

Guardando attraverso il buco
Il post-esotismo come strumento di reinterpretazione del reale
Breve nota a margine di «buio 1» e di Black Village

 

«Gli ultimi giorni, Lutz Bassmann li trascorse come tutti noi, tra la vita e la morte».
Antoine Volodine, Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima

 

Se dovessi indicare un autore vivente degno di restare, di essere studiato per secoli, per comprenderne l’esempio, sarebbe di sicuro Antoine Volodine. Ultimo erede di quella immensa tradizione letteraria che attraversa l’opera di Honoré de Balzac e di Marcel Proust, trovo che sia uno dei pochissimi scrittori – cui ancora batte il cuore in petto – in grado di misurarsi con i giganti del passato. Capace ancora di dire qualcosa – a prescindere dal fatto che questo qualcosa sia: nulla.
Seppure il suo immane lavoro letterario non sia ancora terminato e sia minimamente tradotto in lingua italiana, credo sia finalmente possibile oggi scorgerne la punta affiorante dall’acqua.
Ciò a cui ci approcciamo si tratta pur sempre di una minima parte del suo lavoro, mi scuso quindi se i miei ragionamenti intorno a questo, ancora parziale, orizzonte della sua creazione, risulteranno – oggi come in futuro – insufficienti o di natura errata. Quello che ho cercato di fare, nelle poche pagine che seguono (e che precedono un suo breve testo), è di individuare la qualità fondamentale che rende la prosa di Volodine così penetrante e straordinaria, per non dire “illuminante”. Nel farlo ho scelto di considerare esclusivamente e sineddoticamente – e spiegherò in modo più approfondito le motivazioni di questa mia scelta – il breve testo che apre l’appena pubblicato da 66Thand2Nd (nella traduzione italiana di Albino Crovetto e Ida Merello) Black Village di Lutz Bassmann.

 

Lutz Bassmann 

«Quando l’ultimo sopravvissuto nell’elenco dei morti – in questo caso, Bassmann – avrebbe balbettato la sua ultima sillaba, allora, sia di qua che di là dalla storia, soltanto il nemico avrebbe conservato il diritto d’incedere a testa alta, invitto, invincibile, e, tra le vittime del nemico, più nessun portavoce si sarebbe fatto avanti per interpretare o reinterpretare sino alla fine questa o quella delle nostre voci o per amarci».
Antoine Volodine,
 Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima

 

Iniziamo col fare presente, al lettore neofita dell’opera post-esotica, uno dei tratti distintivi più evidenti della letteratura volodiniana: l’uso di eteronimi. Caratteristica che è stata più volte sottolineata e analizzata e, forse esageratamente, enfatizzata, anche alla luce della lezione del grande Pessoa.
L’invenzione dei nomi, nei libri di Antoine Volodine, tuttavia, assume una connotazione più generale e significativa. Poiché non si tratta esclusivamente del tentativo dell’autore di scomparire, come poteva essere per Neera o per gli Honorio Bustos Domecq e Benito Suarez Lynch di Borges e Casares. Ogni oggetto e ogni soggetto di Antoine Volodine è trasfigurato attraverso la creazione del suo nome, di una nuova denominazione che genera la metamorfosi dell’identità stessa di ogni cosa.
Così, viene a crearsi quella corrente letteraria chiamata «post-esotismo». Si tratta infatti di un movimento immaginario, artefatto, di cui il suo stesso ideatore, Antoine Volodine, è il portaparola, e le cui voci, gli autori che ne fanno parte, sono semplicemente degli eteronimi usati dallo stesso Antoine Volodine. Essi stessi, inoltre, in forma di personaggi, vivono – per così dire – all’interno del mondo che descrivono. E il luogo nel quale sono siti è anch’esso composto di eteronimi, oggetti e personaggi che non esistono nel mondo reale ma solo in un universo che non esiste se non negli scritti di autori, anch’essi inesistenti e inventati dall’unico autore post-esotico: cioè Antoine Volodine. Cosa che, in fondo, a ben pensare, è l’operazione che compie qualsiasi autore di narrativa. Resa palese, in questo caso, dalla ricerca di un marcato esotismo, di una distanza, piuttosto che da un tentativo di arrivare a una irraggiungibile verosimiglianza al reale.

 «Parola per parola, rantolo dopo rantolo, Lutz Bassmann lottava perché quell’edificio mentale destinato a tornare alla polvere continuasse a esistere».
Antoine Volodine,
Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima

 

Manuela Draeger, Elli Kronauer, Infernus Iohannes, Lutz Bassmann, questi e altri sono gli autori del post-esotismo. Ognuno di essi ha una propria personalità, un proprio stile, un ruolo diverso dagli altri. In qualche modo esistono, singolarmente. Lutz Bassmann, come viene indicato nella Lezione undicesima, è l’ultimo rimasto, il portavoce dell’ultima lezione del post-esotismo.
Ho deciso di congegnare la mia analisi – da considerare come una breve nota a margine – a partire dal primo testo (che alleghiamo per gentile concessione dell’editore) contenuto in Black Village per due motivi: in primo luogo, come ho già scritto, abbiamo la possibilità (almeno tutti coloro non sappiano leggere il francese) di reperire soltanto nove titoli dell’imponente bibliografia ascritta al post-esotismo (vale a dire quarantacinque libri già pubblicati dei quarantanove che verranno scritti, in totale, dal loro portavoce, per sua stessa dichiarazione). Appare subito palese da questo dato numerico che un’analisi complessiva ed esaustiva della sua produzione non è ancora possibile – né utile – in Italia [A proposito della storia editoriale di Volodine consiglio la lettura di questo lungo articolo di Tommaso Pincio] e ho quindi pensato che fosse più fruttuoso considerare un frammento minimo piuttosto che tentare un discorso complessivo su di una materia di cui ho visto e letto talmente poco. La seconda ragione che mi ha portato a imbracciare la penna, proprio in questa occasione, è che risulta evidente già nella lezione undicesima (titolo quanto mai utile alla comprensione dell’opera post-esotica) l’importanza centrale, nel complesso delle opere post-esotiche, di Lutz Bassmann, «l’ultimo sopravvissuto nell’elenco dei morti», colui a cui viene attribuito l’ultimo romånso post-esotico: Ritorno al bitume.
Penso inoltre che il ruolo cardine di Lutz Bassmann ­– nella lettura e nella comprensione del post-esotismo – si riveli immediatamente, con una cupa potenza sconvolgente, alla lettura di Black Village (il primo e unico libro firmato Bassmann reperibile al momento in lingua italiana), già e soprattutto, dalle prime pagine che lo compongono; ripetendosi poi, ossessivamente e con una copiosa forza espressiva, in ognuno dei frammenti che vengono raccontati. Nel loro brusco interrompersi, nelle loro sospensioni, nei loro silenzi ricolmi di significato e strabordanti di senso.

  

Black Village

 

«L’idea era di inventare raccontini, zaconti, di mettere in scena qualche personaggio creato quasi dal nulla o dai nostri vaghissimi ricordi e, soprattutto, vedere se riuscivamo a portare a termine le nostre storie e dunque a contraddire la teoria della non finitezza che Myriam, la nostra cara sorella, si ostinava a difendere».
Lutz Bassmann, Black Village

 

Un’altra delle eccezionali caratteristiche del post-esotismo è l’uso di nuove tecniche narrative inventate. Esse funzionano esattamente allo stesso modo degli eteronimi che consideriamo autori dei libri in questione. I narrat, i romånsi, gli intrarcane, le Shaggå. Persino la forma, quindi, è trasfigurata attraverso la lente del post-esotico. Distorta e reinventata, diventa distante.
In Black Village incontriamo i zaconti (o interronti, come li chiama Myriam, una dei protagonisti, una delle voci che raccontano).
Ogni zaconto è un racconto vero e proprio che però s’interrompe e si arresta nel nulla. Un singhiozzo narrativo. Dove il nulla che lascia parla quanto il linguaggio stesso che è possibile leggere.

 «Per un momento rimanemmo in silenzio. E un momento, per noi, poteva rappresentare parecchi minuti, qualche settimana o anche un lasso temporale nettamente più lungo. Secondo Myriam, secondo quanto ci aveva esposto molto prima, il tempo intorno a noi scorreva a blocchi incoerenti, senza gradazioni di durata, con piccoli o grandi rigurgiti di cui non potevamo avere coscienza. Stando alla sua teoria, eravamo entrati non solo in un mondo di morte, ma in un tempo che funzionava a intermittenza e,
soprattutto, non si concludeva».
Lutz Bassmann, Black Village

I tre protagonisti si trovano all’interno di un mondo che è costantemente sul finire. Sopravvivono nel buio assoluto in cui si muovono – condizione frequente del mondo post-esotico. Un luogo paragonabile al Bardo Thodol descritto nel libro tibetano dei morti. Una sorta di limbo in cui il tempo assume un’altra forma e tutto è deformato dal luogo stesso in cui ci troviamo. Per questa ragione anche lo stilema narrativo cambia, si adatta al tempo del racconto che racconta. Tenta di rappresentare il nulla, il buio infinito che circonda ogni cosa, attraverso la ripetizione ossessiva e la consecutiva reiterazione della fine senza fine.

 

«Ora, in modo del tutto indipendente dalla nostra volontà, le nostre storie si bloccavano di colpo e come senza ragione, ed era impossibile riprenderle. Quando cercavamo di riannodarle, quelle si erano già disfatte, scurite e inafferrabili. Il seguito non era arrivato o non arrivava. Non sono zaconti, aveva concluso un giorno con dispetto Myriam, sono interronti. Ci eravamo messi d’accordo sul termine e, di tanto in tanto, uno di noi si fermava lungo il cammino, esortava gli altri due a sedersi, ad ascoltare, e ancora una volta faceva l’esperienza della parola. Con rarissime eccezioni, il fenomeno dell’improvvisa interruzione seguitava a ripetersi».
Lutz Bassmann, Black Village

 

Cos’è il post-esotismo

 

«MA CHE COS’È IL POST-ESOTISMO?»
Viene chiesto a Lutz Bassmann, in maniera «insolente e decisamente inopportuna», ne Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima.
Potremmo rispondere e definirlo dicendo che il post-esotismo è una grande creazione fantastica contenuta nei libri di Antoine Volodine, autore francese nato a, eccetera eccetera. Considerare il narratore, il meta-narratore, gli eteronimi, la finzione, la fantascienza (come, d’altronde, ho appena fatto, apparentemente). Potremmo etichettarlo, il post-esotismo. Spiegare l’operazione di Volodine ascrivendola asetticamente all’ambito del fantastico, finanche alla letteratura di genere. Si potrebbe forse delimitare il post-esotismo circoscrivendolo all’interno di quella che viene detta letteratura avanguardistica.
Eppure, la letteratura post-esotica (come tutta la grande letteratura, aggiungerei), è molto di più.
Questa idea mi è venuta leggendo un articolo in cui si definiva quella di Gombrowicz come “letteratura filosofica”. Mi è subito venuto in mente che, in fondo, tutta la Letteratura è filosofica. La grande Letteratura – nei suoi più differenti modi e forme – s’interroga, al pari della filosofia, sul senso dell’esistenza, sull’Essere in senso proprio.
E allo stesso modo è anche politica. Politica nel senso greco del termine: per la società, per gli altri cittadini, per gli altri.
Il post-esotismo, a mio parere: è filosofia e politica, insieme.
«Si tratta di rivedere il mondo attraverso il prisma deformante dei sogni» (dice Volodine in una lunga intervista apparsa su «il Tascabile» a cura di Carlo Mazza Galanti). Il post-esotismo vuole dirci – gridando – che è già tutto finito, che è veramente già tutto finito. E che l’unica cosa che ci resta – l’ultima cosa che ci resta – è il linguaggio. L’inutile linguaggio; l’inutile letteratura è tutta la miseria che abbiamo. Questa nostra ossessione di rappresentare, di autorappresentarci. Ossessione sempre più presente e malata nella post-modernità, nel periodo storico che stiamo vivendo. E che essa produce solo una piccola e mendace «fiamma salvifica», alimentata da «polveri e pezzetti di grasso», utile esclusivamente a illuderci ancora, in attesa della fine assoluta.
Questa è la filosofia di Antoine Volodine, ed è fortemente politica. Ci dovrebbe portare a riflettere: bisogna scomparire, bisogna farsi da parte nei confronti del mondo. La nostra capacità di comunicare e, attraverso il linguaggio, creare una realtà – ripeto: una realtà – non ci rende superiori, non fa altro che richiuderci nella famosa grotta. Non ci permette di vedere aldilà di un palmo nel buio.
Trovo che l’aneddoto – splendidamente socratico – che dà l’abbrivo a Black Village sia un esempio esplicito del concetto che sto seguendo nel tentativo di potere parzialmente esplicare il post-esotismo e la sua immane funzione politico-filosofica, il suo insegnamento intrinseco: guardare la realtà attraverso i sogni.
Ecco ciò che accade in «buio 1»: uno dei tre protagonisti, Goodmann, riesce ad accendere una fiammella nella sua mano [il linguaggio] che illumina parte del buio, dando [ai personaggi della storia, come a noi tutti, lettori e uomini di questo pianeta] la sensazione – o forse l’illusione – di vedere. Dandoci la falsa speranza di potere ancora inventare storie, di potere continuare a esistere e a camminare nel buio, nell’attesa di qualcosa che dia senso a tutto,È una critica inesorabile ed estremamente vitale alla realtà, al linguaggio, alla letteratura stessa. aspettando ciò che arriverà alla fine di ogni cosa, la benedetta fine di tutti i tempi, sperando di non essere poi molto lontani, ma «molto lontani da cosa?», «Non saprei».

«Ecco in quale tempo avevamo continuato a esistere, aspettando di uscire, o piuttosto aspettando ciò che doveva accadere e che non poteva essere altro che l’estinzione».
Lutz Bassmann, Black Village

* Pubblichiamo un estratto di Black Village per gentile concessione dell’editore.

 

 

1—buio 1

 

Molto lentamente, Goodmann fece un po’ di luce. Su di sé aveva polveri e pezzetti di grasso che per parecchi anni aveva trasportato in fondo alle tasche, proteggendoli dalla pioggia e dal pulviscolo e non scambiandoli mai con del cibo, anche in caso di fame estrema. Li aveva preservati dal naufragio in previsione del giorno in cui non avremmo più sopportato l’oscurità e, sin dall’inizio del viaggio, anni prima, ce ne parlava. Ne esagerava le qualità e usava parole entusiastiche come «untumi fotogeni», «grassi fantasticamente luminosi», «polveri poco volatili» o altre. Avevamo atteso a lungo, confortati all’idea che quella fiamma salvifica si trovasse come riserva sul corpo di Goodmann. Regolarmente, e comunque almeno una volta ogni sei mesi, Goodmann tesseva le lodi dei tesori posseduti e prometteva di utilizzarli a ragion veduta, quando, per noi, sarebbe diventato intollerabile procedere attraverso i pericoli, attraverso le smisurate angosce e le tenebre. Ed ecco che l’ora era giunta.
Sentivamo Goodmann spargere goffamente una dopo l’altra le polveri che aveva nascosto dentro scatoline spesso inadatte o in saliere il cui coperchio corroso dal tempo non rispondeva alle sue aspettative, resisteva ma poi si sfaldava tra le dita. Le polveri si diffondevano intorno a noi, sperperate e inutili. Goodmann, al centro dell’attenzione, non diceva niente, non gemeva per la stizza, ma noi ne sentivamo il respiro sempre più affannoso, soffrivamo con lui per empatia e avvertivamo l’orrore di quel progressivo insuccesso che rischiava di coinvolgere e sbalordire, disilludere e sconcertare con la stessa intensità sia lui che noi. I minuscoli pacchetti si laceravano non appena Goodmann li sfiorava con la carne delle falangi o con il bordo delle unghie; le mini-scatole non si aprivano, resistevano ai suoi tentativi per quanto prudenti, poi cadevano in terra o si rompevano, esplodevano, liberando con un breve sospiro una minuscola, irrecuperabile nube. Dai diversi rumori avevamo dedotto di trovarci su una piattaforma, su un camminamento di legno solido, o su una passerella perfettamente stabile o sul palcoscenico di un teatro. Goodmann apriva i sacchetti di untume fotogeno senza perdere la pazienza e rallentava i gesti sperando di trasmettere all’untume il senso della lentezza. Non funzionava affatto.
Poi una fiamma grossa come un seme di soia, e appena più brillante, spuntò dalla mano sinistra di Goodmann, sul dorso della sua mano sinistra, all’incirca a livello della biforcazione fra l’anulare e il medio.
«Non avvicinatevi» ordinò Goodmann.
«Attenzione» dissi. «Se il fuoco prende, ti brucerai la mano». «La fiamma deve per forza partire dal grasso» disse Myriam, la nostra cara sorella. «Se la fiamma ti parte dalla mano, te la brucerà».
«E allora?» domandò Goodmann.
«Mettici sopra del grasso» consigliò Miriam.
«Non ne abbiamo più» disse Goodmann. «Il grasso è andato perso. Non avvicinatevi».
Un’ora passò nell’immobilità. La fiamma esitava fra il nulla e l’inesistenza, e quanto a noi, con sgomento ne constatavamo insieme a Goodmann la fragilità, ed eravamo talmente sgomenti, per via di quella fragilità, da rimanere tutti e tre paralizzati e quasi senza respiro. Benché da anni non avessimo più intravisto la minima luce, eravamo consapevoli che quel misero lucore poteva spegnersi da un momento all’altro, e che nulla ancora era acceso, almeno nel senso solitamente attribuito alla parola. La mano sinistra di Goodmann non tremava, ma era così scarsamente rischiarata che bastava un involontario battito di ciglia per non scorgerla più, sullo sfondo scuro percorso dai nostri occhi. Al minimo battito, la fiamma spariva.
«Non avvicinatevi» ricordò Goodmann.
E noi non ci avvicinavamo. Questo per parecchie ragioni. La prima era che avevamo rispetto gli uni degli altri, e quando uno di noi esprimeva un parere sotto forma di ordine obbedivamo senza discutere. La seconda era che Goodmann, da mesi, aveva assunto il comando tecnico del nostro gruppo, e si trovava dunque investito dell’autorità che governava la nostra esistenza comunitaria. La terza era che si doveva ad ogni costo garantire alla luce quella possibilità, senza metterla in pericolo con movimenti inconsulti.
Una seconda ora passò, poi si sentì un rumore dal lato della fiamma e di Goodmann, dal lato delle ossa calcinabili di Goodmann, dal lato della sua carne stanca e dei suoi tendini biancastri, dal lato della sua pelle dura, mummificata, delle sue crepe, delle sue vecchie crepe: la fiamma prendeva.
«La fiamma sta prendendo» osservò Myriam.
«Sì» disse Goodmann. «Ma non pensate che ormai sia andata».
«Ti brucerai la mano» s’inquietò Myriam.
«Non pensate che ormai sia andata» ripeté Goodmann. Aveva uno strano tono.
«Muovetevi solo dietro mio ordine» concluse.
Adesso che la fiamma aveva preso, si vedeva finalmente il suo volto. E si vedevano anche i nostri. Camminavamo in assenza di luce da così tanto tempo che l’idea stessa di possedere una fisionomia riaffiorava in noi come una brutale constatazione, dalla pietrificante oscenità. Myriam si era morsa le labbra per non urlare di terrore. Goodmann aveva una testa di lupo irsuta, una testa a brandelli con occhi nerissimi in fondo a orbite scavate, attenti e allucinati allo stesso tempo. Myriam aveva perso quell’aria da regina dell’alcova di cui avevamo serbato il ricordo, aveva un muso semi-umano, deformato dagli strati di fuliggine che vi si erano attaccate e poi incrostate nel corso dei mesi; gli occhi si nascondevano sotto ciglia folte, in disordine, e sembravano minacciosamente fosforescenti, agitati da sussulti di follia. Quanto a me, Myriam me lo confidò in seguito, davo l’impressione di essere stato cosparso di catrame e poi graffiato con uno strumento a denti, un pettine, ad esempio. I nostri corpi non erano in condizioni migliori.
«Vedo i vostri volti» dissi.
«Chiudi il becco, Tassili» disse Goodmann. «Non pensare che ormai sia andata».
«Eppure la luce serve proprio a quello» dissi.
«A cosa?» intervenne Myriam.
«Ad andare» dissi.
«Niente affatto» disse Goodmann. «Se serve a qualcosa, è unicamente a cominciare».
Goodmann faceva smorfie di dolore perché la fiamma cercava di alimentarsi sulle dita della sua mano sinistra che adesso lui brandiva come una torcia.
«Corri il rischio di finire divorato» fece notare Myriam.
«È un fuoco lento, un fuoco molto lento» spiegò Goodmann. «Ne abbiamo per giorni e anche anni. Abbastanza per rischiarare tutti e tre fino alla fine. Voglio dire, finché non saremo usciti da qui».
Da qui.
Adesso, la scena era più chiara. Ci trovavamo all’interno di una trincea interamente formata da tronchi di legno, abete suppongo, lavorati sapientemente ed ermeticamente allineati, ad eccezione di una feritoia vicino a cui mi trovavo che dava su un paesaggio scuro, della terra, forse, o un altro budello oscuro, parallelo a quello che occupavamo.
Per un momento rimanemmo in silenzio. E un momento, per noi, poteva rappresentare parecchi minuti, qualche settimana o anche un lasso temporale nettamente più lungo. Secondo Myriam, secondo quanto ci aveva esposto molto prima, il tempo intorno a noi scorreva a blocchi incoerenti, senza gradazioni di durata, con piccoli o grandi rigurgiti di cui non potevamo avere coscienza. Stando alla sua teoria, eravamo entrati non solo in un mondo di morte, ma in un tempo che funzionava a intermittenza e, soprattutto, non si concludeva. Dato che noi non capivamo bene ciò che intendeva dire, lei insisteva sull’assenza di continuità, sulle brutali cesure, sull’incompiutezza di qualsiasi momento, lungo o breve che fosse. L’incompiutezza era il solo ritmo cui potevamo tenerci aggrappati per misurare quel che rimaneva della nostra esistenza, l’unico tipo di misura all’interno dello spazio oscuro. Più provava a descriverci nei dettagli il sistema temporale che aveva in testa e meno ne capivamo le basi. Molte volte aveva ripreso le sue spiegazioni poi, scoraggiata, aveva rinunciato a cercare di convincerci. Però, dopo qualche tempo, diciamo dopo un anno o due, forse di meno o forse più, avevamo messo in pratica le sue proposte. Lo facevamo per amicizia, ozio, e per collettiva curiosità. Poiché nelle tenebre dov’eravamo immersi non avevamo un punto di riferimento concreto migliore della parola, ciascuno di noi, a turno, aveva pronunciato un discorso. L’idea era di inventare raccontini, zaconti, di mettere in scena qualche personaggio creato quasi dal nulla o dai nostri vaghissimi ricordi e, soprattutto, vedere se riuscivamo a portare a termine le nostre storie e dunque a contraddire la teoria della non finitezza che Myriam, la nostra cara sorella, si ostinava a difendere. Ora, in modo del tutto indipendente dalla nostra volontà, le nostre storie si bloccavano di colpo e come senza ragione, ed era impossibile riprenderle. Quando cercavamo di riannodarle, quelle si erano già disfatte, scurite e inafferrabili. Il seguito non era arrivato o non arrivava. Non sono zaconti, aveva concluso un giorno con dispetto Myriam, sono interronti. Ci eravamo messi d’accordo sul termine e, di tanto in tanto, uno di noi si fermava lungo il cammino, esortava gli altri due a sedersi, ad ascoltare, e ancora una volta faceva l’esperienza della parola. Con rarissime eccezioni, il fenomeno dell’improvvisa interruzione seguitava a ripetersi.
Ecco in quale tempo avevamo continuato a esistere, aspettando di uscire, o piuttosto aspettando ciò che doveva accadere e che non poteva essere altro che l’estinzione. Iniziai a scrutare quel che c’era dall’altro lato della feritoia.
«Laggiù è tutto buio» dissi. «Non si vede assolutamente nulla. Può essere un secondo budello come il nostro, oppure un cumulo di terra, o uno spazio oscuro parallelo».
«Laggiù dove?» domandò Myriam.
«C’è un buco» dissi. «Sto guardando attraverso il buco». Myriam si mosse.
«Dove lo vedi un buco?» domandò.

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Come funziona l’amore in America: un’educazione sentimentale di Joyce Carol Oates

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di Fabrizia Gagliardi


Un cuore, la metà di una mela, una rosa, il rosso, la passione, una fede e la promessa di eternità. Simboli così apodittici da essere diventati corrispettivi inconfutabili dell’amore. Ed è paradossale che immagini e oggetti dai contorni fisici e temporali definiti si discostino così tanto dalla realtà: funzionano come barriere che proteggono dall’indefinito, che è poi l’essenza dell’amore. È infatti impossibile parlarne senza sciorinare postille, giustificazioni, “dipende”. Eppure Joyce Carol Oates con Un’educazione sentimentale (traduzione di Claudia Valeria Letizia, edizioni e/o) ha saputo costruire argini apparenti che, invece di circoscrivere, sono pronti a cedere appena raggiunto il limite.

Si fatica a descrivere un’autrice completa, in grado di sfumare continuamente il confine tra autori realisti e di genere. Vero è che uno dei punti fermi che caratterizza l’opera della Oates è lo scavo psicologico che arriva alle estreme conseguenze: fino al punto in cui una morale imposta dalla vita americana si scontra con la passione. Nei sei racconti lunghi della raccolta non leggeremo di quei simboli citati all’inizio, ma della loro demolizione al cospetto del tempo e del cambiamento. Che siano uomini o donne, in giovane età o nel cammino per la vecchiaia, tutti sono colti dal rapido svuotamento di senso, una puntura che solo col tempo rilascerà un veleno di rimorsi, ricordi o felicità. La passione consuma velocemente, la consapevolezza delle sue conseguenze è un’eco da trascinare in quelle che si fa presto a etichettare come esperienze (esperienze vive, marchiate a fuoco nella memoria, “traumi” per i più disillusi).

Per la donna protagonista di Regina della notte, la scoperta del tradimento sarà l’opportunità per cambiare vita fino a scoprire un alter ego freddo, disincantato, quasi incapace di farsi scalfire dall’eccesso di amore (“Perdere chi si ama, in qualsiasi senso… è una specie di morte. È un terribile colpo inferto al proprio io, al senso della propria identità”). In Convegno amoroso e Stagione autunnale si presentano le diverse prospettive dell’infedeltà: una passione maschile, nel primo caso, fatta di contemplazione, inazione e pausa temporale; un viaggio nei ricordi falsati di una donna, nel secondo caso, altrimenti troppo dolorosi da ricordare.

Non si era mai sentita così giovane. Non sarebbe mai invecchiata.
Tra le sue braccia era immortale.
Le dita tra i capelli folti e ispidi di lui; la bocca di lui che premeva sulla sua; il sapore del corpo dell’altro, i necessari rituali dell’amore. (Dopo essersi lasciati, dopo che Eleonor andò via da Boston all’età di trentaquattro anni, si mise d’impegno a cercare altri uomini, per un certo periodo, uomini grandi, trasandati e bonari, e uomini sposati, e uomini che probabilmente l’avrebbero ferita.
Voleva esorcizzare il ricordo di lui, voleva che lui sparisse.)

Non si rintraccia una morale bacchettona da seguire, piuttosto una passione che è sempre appiattita da rituali e rappresentazioni: qui interviene il racconto operando nell’alveo del ricordo, dove le illusioni maturano e cristallizzano. La scrittura della Oates, in particolare, riconduce a un inconscio collettivo americano fatto di identità e violenza.

Di certo i racconti di Un’educazione sentimentale non approfondiscono la prospettiva sociologica e storica come i romanzi dell’autrice. La vicenda del singolo non sfuma nel panorama più ampio come faceva in Una famiglia americana – dove l’equilibrio fondato sulle apparenze e sulla posizione sociale di una famiglia benestante vengono demoliti da un avvenimento innominabile – o come nei romanzi della quadrilogia americana – il riscatto dell’oppressione femminile ed economicamente degradata, la chiusura della realtà rurale (Loro); la violenza e le disparità sociali (Il giardino delle delizie); l’alta borghesia e la sua disfunzionalità nei sobborghi newyorkesi (I ricchi); l’inseguimento sterile e lobotomizzato del sogno americano (Il paese delle meraviglie). Nella raccolta, invece, i personaggi si muovono all’interno di case, spazi chiusi della loro interiorità, vizi inconsci. L’affetto e l’ammirazione sono gli antidoti per la dimenticanza contratta dal tempo: avere “una storia” è il rimedio alla rimozione del proprio passato, continuamente mosso e aggiornato dalla Storia americana. Proprio in funzione di una difesa della storia personale subentra la violenza: una volontà di sopraffazione che rivela l’altra faccia dell’amore e non fa discriminazioni tra i sessi. Lo si vede bene quando la Oates unisce momenti lirici, di contemplazione estatica, a quelli che nascondono irrazionalità.

Il mare, il battito del mare, era nella stanza insieme con lui. Rifluiva intorno alle sue caviglie. Gli salì al petto, alle labbra. Agli occhi. Duncan scosse la testa per liberarsene, in un delirio di aspettazione. Non ti farò male. Stai buona. Non piangere, dài. La presenza della ragazza si dilatò fino a riempire la stanza: era così bella, i suoi capelli erano così lunghi e dorati e ondulati, era troppo per lui. E il suo viso – un cammeo di squisita bellezza! I suoi occhi socchiusi, le sue palpebre chiare, la sua bocca tesa e tremante, i suoi piccoli seni morbidi che lui sfiorava dolcemente con la lingua: era troppo per lui. Antoinette. Sua cugina, sua sorella, una bambina, una ragazza, una giovane donna, una sconosciuta. Le sue mascelle si serrarono. Non piangere. Non te ne andare. Stai buona. Era malato d’amore per lei, i suoi sensi traboccavano, ogni parte di lui si acutizzò, angosciata, piangente. Tutto il suo corpo stava per scoppiare in lacrime. Non odiarmi…

Se una qualità rinomata del racconto è cogliere la storia nel bel mezzo del suo svolgimento, è anche vero che la sua incisività non si ferma a una descrizione sterile di tradimenti e vicende amorose. In ogni racconto della raccolta la Oates intraprende una discesa progressiva nell’inconscio, alle radici del mutamento. La vita interiore dei protagonisti è continuamente popolata dal dualismo reso alla perfezione dalla sofisticatezza delle loro dichiarazioni d’amore e le brusche incursioni dell’irrazionalità. Con Un’educazione sentimentale la Oates ha dimostrato ancora una volta di essere una narratrice perspicace come poche, in grado di affrontare senza retorica un’altra sfaccettatura della vita americana.

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Shirley Jackson, la donna che amava scomparire

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Di Gaia Manzini

 

Un giorno Shirley Jackson portò il suo terzo figlio in ospedale. L’uomo dietro il banco dell’accettazione le chiese che lavoro facesse. “La scrittrice,” rispose lei. Seguì una pausa riflessiva del suo interlocutore, un sospiro che avrebbe potuto suonare rassegnato. “Scriverò semplicemente casalinga” replicò l’uomo con noncuranza.
Jackson, donna schiva e fragile, morì nel 1965 all’età di soli quarantotto anni. Maestra del gotico americano apprezzata da Stephen King, Jonathan Lethem, Joyce Carol Oates, ritenuta da Harold Bloom l’erede di Edgar Allan Poe, lottò tutta la vita per essere considerata un’artista: una penna degna di entrare in un manuale di letteratura. Lottò soprattutto contro il perbenismo che la voleva semplicemente autrice di articoli di economia domestica e moglie di Stanley Edgar Hyman, importante critico letterario e popolare insegnante del Bennington College. Il dilemma insolubile e lacerante tra essere un’artista oppure una madre, una moglie. Per Ruth Franklin, che qualche anno fa ha firmato una sua biografia (A Rather Haunted Life), l’intera opera di Shirley Jackson tratteggia la storia segreta delle donne americane della sua epoca. Il ruolo residuale al quale erano destinate. Schiacciate ai margini, mai al centro della scena, abituate a passare inosservate.
“Hilda Scarlett, l’infermiera del campo, che tutti chiamavano Will Scarlett, non trovò̀ traccia, nel registro dell’infermeria, di nessuna Martha Alexander” si legge nella Ragazza scomparsa, primo racconto che dà il titolo alla raccolta pubblicata in questi giorni da Adelphi nell’attenta traduzione di Simona Vinci. I tre racconti che la compongono – nel loro ritmo vorticoso, in tutti i loro scintillanti particolari - ruotano intorno a quella capacità così femminile, così pregiudizialmente consustanziale alla condizione delle donne, di risultare evanescenti. Di Martha, nessuno sa dire nulla di preciso. Né che corsi frequentasse al campus né chi fossero i suoi amici o quali vestiti indossasse prima di uscire e sparire nel nulla. Anche il padre e la madre, sfiancati dalla ricerca, faranno capire di avere altri figli, e di non giudicare il mancato ritrovamento come irrimediabile.
L’abilità di Jackson sta nel cogliere i dettagli. Il suo cinismo è una sferzata per chiunque la legga. Con precisione millimetrica tende il filo della narrazione, galoppa in sella a un mistero da risolvere, ma solo per non scioglierlo. Per mettere a fuoco l’indifferenza del mondo per la scomparsa di una ragazza.
No: la madre non l’amò mai, lei così sgraziata, così poco conforme ai canoni dominanti di bellezza. Le bruciò tutti i racconti scritti in gioventù; la criticò per ogni scelta, ogni tentativo di emanciparsi. La umiliava dicendole che era il frutto di un aborto mancato. Shirley Jackson, stretta dentro l’ansia, la follia da tenere a bada, rimuginava parole, le metteva in fila tra i pensieri, mentre rifaceva i letti, puliva la casa, accudiva i suoi quattro figli, li portava a equitazione, a lezione di francese o a danza; mentre si prendeva cura anche di due alani e quattro gatti. Isolata, solitaria, l’identità dolente e frammentata, viveva solo in quelle due ore al giorno che poteva concedere alla scrittura. Una parentesi dentro alla quale scomparire. Allo stesso modo, scompare sotto gli occhi di un’intera città Toni Morgan, la protagonista di Incubo, terzo racconto della raccolta; sparisce senza farlo davvero. È il perturbante di Shirley Jackson, la messinscena di una situazione apparentemente normale che scivola verso il paradosso. (Un po’ come accadeva nel celebre La lotteria -  un villaggio, una lotteria annuale a cui gli abitanti sono obbligati a partecipare per propiziare il raccolto: il vincitore, si scoprirà poco a poco, sarà la vittima designata per una lapidazione pubblica. Quando uscì sul New Yorker nel 1948 destò così tanto scalpore che Jackson ricevette per tutta la vita molte lettere che le chiedevano cosa avesse voluto dire con quel racconto). Toni Morgan è un’impiegata elegante a cui viene chiesto di consegnare un pacco dall’altra parte della città. Cammina decisa, sale su un autobus, si mette in viaggio. In sottofondo, lungo tutto il tragitto, continua a sentire – tra i rumori della metropoli – la voce di un uomo proveniente da un altoparlante. La voce sta promuovendo un gioco a premi: chiunque voglia vincere deve trovare tra le vie di New York una certa Miss X, una donna di stile che sta portando con sé un pacco. Di descrizione in descrizione, quella donna sembra essere proprio Toni Morgan. Lei stessa non capisce cosa stia accadendo. Tutti la cercano, eppure nessuno si accorge di lei.

”Ascolti”, disse l’uomo “questa città non va per niente bene. Nessuno l’ha notata”.

Pare che il professor Stanley Edgar Hyman, marito di Shirley, avesse un debole per le studentesse; che fosse un traditore compulsivo, e nutrisse un forte antagonismo nei confronti della moglie e della sua attività di scrittrice. Ne Lincubo di Hill House, considerato una delle storie di fantasmi più importanti del secolo scorso, la casa infestata è un luogo di disperazione: la casa che confonde, disorienta, seduce con i suoi misteri, fin quando le proporzioni non perdono il loro asse, il senso di realtà non esiste più. Hill House ci parla delle oppressioni legate a un ruolo, ancora una volta dei doveri ai quali una donna non poteva sottrarsi. Ci parla di Eleanor, la protagonista. Ci parla di Shirley Jackson.

Ma se non fosse proprio così? Se una possibilità di fuga esistesse? Nel secondo racconto pubblicata nelle Ragazza scomparsa il più bello, Viaggio con signora – Joe è su un treno da solo. Nove anni, nessuna paura: sta andando a trovare suo nonno. I fumetti, una barretta di cioccolato, un dollaro in tasca, Joe guarda fuori dal finestrino e si lascia andare sul sedile: «Questa sì che è vita» dice tra sé. In quel momento noi che leggiamo sorridiamo, diventiamo come lui: siamo lì seduti accanto, torniamo alla prima volta che abbiamo assaporato il senso d’indipendenza, il fatto di bastarci, la libertà. E proprio come lui, non appena ci accorgiamo dell’improvvisa, profumata, presenza di una donna lì a fianco, sbuffiamo. Ma lo scontento dura poco: la donna non è quello che sembra. Ha rubato dei soldi, è scappata per un po’, per un po’ si è goduta la vita e ha bisogno della complicità di Joe per non farsi scoprire. È avventata come chiunque voglia sentirsi svincolato da qualsiasi tipo di obbligo. Sono uguali, lei e Joe. E come loro era Shirley Jackson, il suo fuggire dal mondo che la considerava trascurabile, per rinascere – due ore ogni giorno – in quel luogo di libertà che è la letteratura.

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Lucia Berlin e il racconto biografico

Lucia Berlin Sera in Paradiso Bollati Boringhieri Traduzione di Manuela Faimali

Lucia Berlin
Sera in Paradiso
Bollati Boringhieri
Traduzione di Manuela Faimali

di Fabrizia Gagliardi

 

La figlia di un ingegnere minerario seguì il padre nei suoi spostamenti da uno stato all’altro dell’America. Idaho, Washington, Montana, New York e poi El Paso quando arrivò la guerra e la bambina si trasferì con la madre. Balli dell’alta società, feste, ma anche miseria e alcolismo materno scivolarono davanti agli occhi di Lucia Berlin che si abituò al nomadismo degli spostamenti e dei legami proprio come la sua lingua iniziò a mescolare la cantilena texana e il guizzo di Santiago del Cile.
Le venne diagnosticata una scoliosi che l’avrebbe seguita per tutta la vita, ma questo non le impedì di studiare alla University of Mexico, avere tre mariti, quattro figli, iniziare a scrivere e avere una miriade di lavori, dall’insegnante alla domestica. In vecchiaia si ritirò in California.
Conoscere l’intera linea temporale di una vita conferisce una certa sicurezza: l’ordine confuso del presente imprevedibile è incastonato nella certezza cronologica degli eventi. Cosicché gli avvenimenti non diventino ostacoli insormontabili ma piccoli scalini da superare per vivere la fase successiva. È la stessa dolorosa consapevolezza che coinvolge tutti i personaggi dei racconti di Sera in paradiso, seconda raccolta di Lucia Berlin pubblicata in Italia da Bollati Boringhieri con la traduzione di Manuela Faimali.
I write to fix reality”, ha spiegato una volta la Berlin ai suoi studenti, ed è affascinante come il verbo to fix si traduca con “riparare”, ma anche “fissare” e “fermare”. Tale è, infatti, la diramazione delle sue storie da poter plasmare ogni racconto secondo diverse forme.

La forma del tempo è un racconto che si svolge nell’area del ricordo. Trattandosi di eventi autobiografici la verosimiglianza assume un’importanza prioritaria senza prevalere fino in fondo. Col memoir la scrittura della Berlin avrebbe in comune l’intento di collezionare eventi a comporre un’autobiografia frammentata, ma se ne distaccherebbe nel momento in cui interviene la finzione. L’intento autoreferenziale si sposta verso un conflitto che prende spunto dalla quotidianità per rivelare i piccoli dettagli, vere e proprie avvisaglie del cambiamento.
In Andado. Romanzo gotico una bambina, figlia di un ingegnere minerario, è invitata nella tenuta di un ricco possidente. Ben presto sarà facile intuire che tra i due s’instaurerà una strana infatuazione fino al momento decisivo:

Ferita, con le vesciche sotto gli stivali bagnati, il petto dolente per la camminata spedita. Non l’aveva neanche degnata di uno sguardo. “E io?” disse ad alta voce. “Perché è arrabbiato con me?” Don Andrés si voltò verso di lei, ma senza guardarla. I suoi chiarissimi occhi grigi.
“ Non sono arrabbiato con te, mi vida.
Ti ho rovinata e ho quasi ammazzato il mio cavallo migliore”.
Gridò il nome di Gabriel. la sua voce echeggiò nell’ampia vallata,
seguita dal silenzio. Proseguirono.
Rovinata? Sono rovinata? Per un momento così fugace e disorientante?
Lo capiranno tutti, guardandomi?

 

Prevalgono le voci femminili colte in diversi momenti del loro sviluppo, verso un’identità di donne che impone scelte dolorose davanti al mutismo maschile. Gli uomini della Berlin sono simulacri, tracce sentimentali e istintuali che compaiono di rado in dialoghi dal confronto diretto o in racconti di donne che conferiscono loro la dimensione di un eterno passato. In Le mogli due donne sono state amanti dello stesso uomo e si ritrovano sull’orlo di una sbronza a raccontare le reciproche esperienze.

Se ne La donna che scriveva racconti si notavano più storie incentrate sulla capacità immersiva della Berlin, questa nuova raccolta contiene una varietà stilistica più marcata, come se si trattasse di un insieme di esperimenti registici. Vi si trovano, infatti, racconti basati esclusivamente sui dialoghi come il già citato Le mogli, o racconti dove alla terza persona è affidato il compito della narrazione, ricca di dettagli di città, parentele e legami: è il caso di Sombra racconto del viaggio solitario di un’anziana in Francia. Oppure di Lead Street, Albuquerque , vera e propria incursione nei destini di alcune donne alle prese con la gravidanza e con l’assenza dei mariti.
La forma dello spazio riflette la contrapposizione tra ambienti che plasmano il carattere di chi li abita. In città la riservatezza e la solitudine dei grandi spazi non riescono  a contenere la malinconia individuale. Lo leggiamo, per esempio, in Una giornata nebbiosa che si apre con un uomo e una donna che vagano per Manhattan. I loro trascorsi romantici, anche se intuiti, sono ormai lontani, rimane il sapore amaro di una passeggiata che ha un andamento macchinoso e ha perso la familiarità del luogo d’origine:

Cominciò a piovere forte. Aspettarono all’ingresso di Sashini and Sons, Artichokes, finché non si ridusse a un leggero piovischio, poi ripresero a camminare.
Lenti e dinoccolati, come erano abituati a fare a Santa Fe, come vecchi amici.


Nella campagna o nelle periferie l’appropriazione di spazi ha l’obiettivo di aggregare individualità per colmare i paesaggi sterminati. Così ne La casa di argilla con il tetto di lamiera una donna, alle prese con la vita domestica, si ritrova a dover sopportare un inquilino poco desiderato che ha invaso parte della proprietà.
Infine, è la forma della seconda vita a conferire fascino alla scrittura di Lucia Berlin perché opera in una parte ben precisa del racconto, un momento prima che la finzione faccia il suo corso. Lo si leggerà nei racconti in prima persona, una sorta di diario che non perde l’eleganza stilistica, e diventa uno sfogo in scrittura che allude continuamente alle vicende reali. Se ne La donna che scriveva racconti questi indizi si ricavavano dal ricorrere di vicende e personaggi da un racconto all’altro, in Sera in paradiso l’aspetto autobiografico è affidato alla voce interiore che compone veri e propri piccoli frammenti di memoir di poche pagine (come in Momenti d’estate, Perdersi al Louvre e Itinerario). È  probabile che parte del fascino della Berlin verta su tale capacità di coinvolgere la propria vita nella riscrittura senza, però, adombrare il potere identificativo delle storie. Il suo rimane un invito a chiamare i personaggi, fare le loro veci, scortarli nelle stesse esperienze che prima o poi si incontreranno nella vita e sperare, con loro, in una degna conclusione.

 

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L'avanguardismo di Willa Cather

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di Marina Bisogno

Prima del movimento femminista, prima di qualunque considerazione sul ruolo della donna nella società moderna, c’è stata Willa Cather, scrittrice e giornalista, premio Pulitzer nel 1923. Autrice di racconti, romanzi e articoli di critica teatrale, ci sorprende ancora oggi per la lucidità con cui ha scandagliato l’animo femminile. I suoi personaggi, da Marian Forrester a Myra Driscoll, sono perennemente in bilico tra deferenza e impertinenza, tra buone maniere e impetuosità. Cresciuta nel bel mezzo dell’era dei pionieri, Willa Cather modella il suo sguardo nel selvaggio West. La nostalgia per il tempo che va, la caducità degli eventi, le pennellate di parole per fissare sulla pagina la meraviglia hanno a che fare con la sua biografia (la passione per la natura, i cambiamenti nella società americana tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento). Ma è il periodo newyorkese a portarle la fama e la riconoscibilità, prima come articolista, poi come narratrice. Quando giunge a New York, Willa non è nuova al mondo del giornalismo. A Pittsburgh, dopo la laurea, aveva già lavorato come editor al magazine The Home Monthly. Nella Grande Mela lega il suo nome a quello del McClure’s Magazine, un periodico che pubblica, tra gli altri, Kipling, London, Twain e Stevenson, ricoprendo col tempo un ruolo centrale in redazione. Tuttavia, Willa non è soddisfatta. Questa insoddisfazione la induce a lasciare il lavoro in redazione per dedicarsi in toto alla narrativa. Ha già scritto La ragazza boema, uno dei racconti che Passigli editore (traduzione di Federico Mazzocchi) ha inserito nella raccolta La ragazza boema, quattro racconti. Siamo nel 1912 e il personaggio di Clara Vavrika dà scandalo pronunciando la sua sentenza sul matrimonio:

Vedi, ti prendono di mira, Nils; voglio dire, se sei una donna.
Dicono che cominci a deperire. È questo che ci spinge a sposarci; non sopportiamo le risatine
”.  

Il cinismo e la sfrontatezza di questa frase fanno il paio con i sensi di colpa che affollano l’animo di Clara e di ogni donna occidentale. Clara ha amato profondamente Nils, un uomo che le ha spezzato il cuore. Si rivedono, lui è un viaggiatore senza radici, lei una moglie e una donna intiepidita dagli eventi, non più la ragazza indomita di una volta. I dissidi interiori di Clara sono quelli che racconterà tra gli anni Quaranta e Cinquanta Alba de Céspedes (Dalla parte di lei, Il quaderno proibito, ecc.), aprendo la strada al dibattito femminista e puntando l’attenzione su ciò che si agita nel cuore delle donne che fin da bambine sono bombardate dall’urgenza di trovarsi un marito. Lo dirà anche Jean Rhys, nella sua autobiografia, Smile please (Sellerio, traduzione di Anna Maria Torriglia):

 

A quell’epoca si supponeva che una ragazza dovesse sposarsi, era la sua missione nella vita, ed era una fallita se non lo faceva. Era una cosa terribile diventare una vecchia signorina sullo scaffale, come la definivano. Il fatto che io conoscessi parecchie donne nubili che sembravano completamente felici, in realtà più felici e allegre delle donne sposate, non metteva assolutamente in dubbio questa supposizione.

 

Il Pulitzer arriva in seguito e con altri registri. Ad aggiudicarsi il premio è Uno dei nostri, il romanzo che mira al cuore di un’America ormai incapace di sognare, distrutta dalla guerra. Lo sguardo è quello di Claude Wheeler, un arruolato volontario deluso da sé stesso e dal circostante. Nel 1923 viene pubblicato Una signora perduta (Adelphi editore, traduzione di Eva Kampmann), romanzo breve di neanche centocinquanta pagine. La signora in questione è Marian Forrester, altro personaggio destinato a riecheggiare nell’immaginario dei lettori. Bellezza intensa e naturale, Marian è un’amante della vita. Fa parte di una classe sociale agiata, che, partita alla conquista del West, vi ha poi radicato la sua opulenza. Il capitano Forrester, suo marito, è un proprietario terriero, ex pioniere. Intorno ai due e alla loro tenuta, cresce una generazione di futuri professionisti, a tratti spietata, scettica verso un sogno americano nel quale non si riconosce. Mentre tutto cambia, non per forza in meglio, risucchiando i simboli di un’era passata, l’unica a non mutare di una virgola è Mrs Forrester. Non è in grado di rinunciare agli agi, alle feste, alle frequentazioni mondane. Ravvivare i salotti e rianimare gli spiriti di uomini annoiati la tiene in vita. A differenza del consorte e di tanti amici che periscono sotto il peso della tristezza, Marian Forrester, dopo un momento di sbandamento, ritrova il guizzo per vivere alla sua maniera. Niel Pommeroy, devoto alla grazia di Mrs Forrester fin da bambino - l’unico che con gli anni sarà in grado di parlare e di raccontare di lei - la tiene d’occhio. Mrs Forrester brilla solo nella ricchezza: disposta a fermare il tempo per non soccombere, riemerge dalle ceneri per restare uguale a se stessa, in mezzo a un mucchio di fantasmi. Marian tenta di trattenere l’incanto, di opporsi al deterioramento, all’alterazione. Non vi si oppone, arrendendosi alla malattia e alla grandezza di certi eventi, Myra Driscoll, protagonista de Il mio nemico mortale, altro romanzo breve (Adelphi, traduzione di Monica Pareschi), apparso per la prima volta in America nel 1926. Myra è una donna chiacchierata: da ragazza è scappata con un uomo, rinunciando a un’eredità sostanziosa. La sua altezzosità e il suo buon gusto appaiono fenomenali agli occhi di Nellie, la ragazzina, voce narrante, che incontra Myra a New York, dove va in vacanza insieme a sua zia Lydia. Nellie ritroverà Myra quando niente assomiglierà ai fasti di un tempo, neanche loro due.
L’espediente di affidare a personaggi giovani la focale su protagoniste attempate, espressione di un’epoca al tramonto, sintetizza bene il punto di osservazione della scrittrice. A New York non è inusuale incontrarla tra Park Avenue e Washington Square Park. Vive con Edith Lewis, giornalista ed autrice del memoir Willa Cather Living, che ci risulta non tradotto in Italia. La sua identità sessuale è oggetto di maldicenze e le sue scelte sono antesignane di un senso comune di modernità, ancora inaccessibile. Willa ed Edith viaggiano molto, arrivano in Francia e in Inghilterra, paesi molto presenti nel racconto La bellezza di un tempo, pubblicato postumo e proposto da Sellerio nella raccolta La bellezza di un tempo e altri racconti (traduzione di Domenico Scarpa).
Il personaggio di Gabrielle Longstreet polarizza tutti i temi cari dalla Cather: la celebrazione del bello, la malinconia che si cristallizza nello sguardo di un vecchio amico di Gabrielle, Seabury, al quale l’autrice fa pronunciare questa frase: “È così triste quando queste donne bellissime invecchiano, non è vero? E del resto, non ce ne sono mai troppe in circolazione”. Willa Cather è alla ricerca dell’imperituro, ma più lo cerca, più si accorge che nulla sfugge al cambiamento. L’esitare sui particolari degli ambienti esterni per poi concentrarsi sullo stato d’animo dei personaggi è un espediente per ricreare specularità. Il suo è un realismo onirico, ancora lontano dal disincanto del modernismo americano. La celebrazione della bellezza femminile le ha fornito il pretesto per sondare anche l’emotività delle sue eroine, amate o detestate, a seconda dei casi. Leggere la Cather vuol dire immergersi in un mondo che non esiste più, fatto di party, di salotti animati e baciamano. Ma vuol dire anche stupirsi di una modernità di fondo, che rende questa autrice affascinante e in qualche modo avanguardista.

 

Danilo Kiš: il sogno e l’archivio

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di Alfredo Zucchi

 “L’inconscio funziona come una fabbrica e non come un teatro (problema di produzione, non di rappresentazione).”

(Deleuze-Guattari, prefazione all’edizione italiana di Mille piani)

Il genere aveva iniziato a deperire 

La storia delle frizioni – degli adescamenti, erotici, agonistici e persino dialettici – tra documento e invenzione è forse la storia stessa della letteratura. Tra i numerosi cambi di paradigma che caratterizzano questa storia – che la rendono comprensibile e raccontabile attraverso il giudizio a posteriori, come solo è in grado di fare il discorso dimostrativo quando si spoglia di ogni orpello, si guarda allo specchio e dice a se stesso: «Io non posso fare che questo, ed è già tanto»[1] – ce n’è uno su cui posa lo sguardo Danilo Kiš: è la storia di Flaubert e della fine del romanzo realista.

È la storia della fine di un modello, della «forma della finzione caduta in disuso» (“Due variazioni su Flaubert” in Nuova Prosa 40, 2004, p. 22). Fino a Flaubert, dice Kiš, la letteratura rappresenta un insieme unitario, la totalità del mondo e dell’essere. Poi la caduta: “la letteratura ha perso la propria superiorità, la propria imparzialità, la propria integrità” (p.21). “Il mondo si era frantumato in mille pezzi” (p.21) e allora l’ossessione dello scrittore francese, l’angoscia dello stile è, per Kiš, un tentativo disperato di restituire la totalità proprio attraverso i cocci rotti, i frammenti.

Flaubert, scrive Kiš, identifica le cause alla base della crisi del genere realistico: narratore onnisciente e ritratto psicologico, “vale a dire la convenzioni letterarie più temibili e tenaci” (p.23), ma non riesce a superarle del tutto: si spinge, di fatto nell’esotico, proprio per liberare i propri personaggi dal determinismo psicologico in cui il lettore li avrebbe altrimenti incasellati, per comparazione con gli standard psicologici dell’epoca; c’è un accenno, dice Kiš, di trasformazione del narratore onnisciente in narratore inaffidabile. Se Flaubert fosse riuscito a superare quei due ostacoli, “la letteratura non avrebbe dovuto attendere un centinaio di anni prima che apparissero le Finzioni di Borges” (p.23).

E cosa sono le Finzioni di Borges? Diciamolo ora e togliamoci ogni sasso dalla scarpa: un libro, forse il primo, in cui la natura delle frizioni tra documento e invenzione diventa il tema stesso della narrazione. Questo tema, dice Borges, è la forma moderna della letteratura fantastica.

 

Questa non è la storia delle nostre emozioni.

La tradizione delle biografie fittizie – di cui fanno parte, tra gli altri prima di Borges, i Retratos reales e imaginarios di Reyes e le Vite immaginarie di Schwob – discende a sua volta dalla prosa enciclopedistica e dai ritratti biografici. Questa tradizione, per mezzo dello stratagemma delle false attribuzioni, trasforma l’erudizione e l’archivio – la volontà di verità, esattezza e universalità dell’enciclopedia – in vettori speculativi che spingono la narrazione fuori dal genere realistico, nel calderone astratto della letteratura fantastica. Lo scrittore argentino si inscrive in questa tradizione con la Storia universale dell’infamia, e si premura di spingerla ben oltre i propri confini con Finzioni.

La falsa attribuzione è un riferimento – operato con tutto il rigore che il caso impone – a un documento che non esiste se non nel dominio della finzione. Questo documento, in Borges, è quasi sempre un libro. Così operano gran parte dei racconti di Finzioni: un libro fittizio entra nel dominio del reale e se ne impossessa (è il caso de A First Encyclopaedia of Tlön, in “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”); o invece è un inganno nell’inganno: la Storia della setta degli Hasidim è l’esca con cui il gangster Red Scharlach si vendica del detective Erik Lönnrot.

In Borges, la frizione tra documento e invenzione si manifesta dunque attraverso la falsa attribuzione, ed è il tema stesso della narrazione. Così Borges supera e stravolge tanto il ritratto psicologico (il libro fittizio è decisamente più importante del soggetto che lo maneggia: “questa non è la storia delle mie emozioni: è invece la storia di Uqbar, di Tlön e dell’Orbis Tertius”, Ficciones, 2001, p.19) come il narratore onnisciente: non si dà, in Borges, narratore che non sia inaffidabile; l’inattendibilità, l’ambiguità sono la sua ragione d’essere; questa inattendibilità non dipende da specifici tratti psicologici: essa deriva dal tema della narrazione: il libro – il documento, il libro fittizio – è ben più importante del soggetto che lo maneggia – dell’uomo reale, cui non compete altro che l’interpretazione.

Il modo in cui Kiš si posiziona a sua volta nel solco tracciato da Borges è uno dei tre temi di questo articolo. Massimo Rizzante, nel saggio “Dell’ideale enciclopedico”, nota come “l’enciclopedismo di Kiš”, ovvero il suo ricorso allo stratagemma della falsa attribuzione e in generale alla tradizione borgesiana, sia “più un’arte della composizione che non un’arte della combinazione. In Kiš il gioco formale non diventa mai esercizio di stile sulle eventuali interpretazioni del mondo. […] Invece di un esercizio di stile su un tema le cui possibilità di interpretazione sono già inscritte in un codice – sia esso storico o retorico –, l’opera di Kiš è tutta una lunga e infinita variazione, una lunga e infinita esplorazione dell’uomo a partire dalle sue ossessioni, ossessioni nelle quali la frontiera tra storia personale e privata e storia pubblica e umana è cancellata per sempre” (Nuova Prosa 40, 2004, p.124).
Al netto del tentativo, da parte di Rizzante, di neutralizzare la portata politica dell’arte della combinazione, facendo di essa un innocuo “esercizio di stile”[2], ci sono nelle sue riflessioni degli spunti importanti. C’è, in effetti, una differenza, una variante, una novità che Kiš introduce in quello che Ricardo Piglia, nel ciclo di conferenze televisive “Borges por Piglia”, chiama metodo borgesiano. Questa differenza non ha tanto a che vedere con il procedimento, quanto con il suo oggetto: il documento che interagisce con la realtà, in Kiš, non è un libro: è la Storia stessa; una storia in cui, in effetti, i confini tra pubblico e privato sono scomparsi. Questa è la storia a cui Kiš continuamente allude:

“Io sono uno scrittore bastardo. Non vengo da nessun luogo.
Non sono uno scrittore ebreo come il maestro Singer. Gli ebrei, nei miei libri, non sono che letterarietà, straniamento, nel senso del Formalismo russo (ostranenie). Questo perché il mondo degli ebrei dell’Europa centrale è un mondo scomparso, un mondo di ieri, e come tale si trova nel campo di una realtà non-reale. Nel campo, quindi, della letteratura”
(Kiš, “L’ultimo bastione del buon senso”,
in Nuova Prosa 40, p.27).

 

Una realtà non-reale: si entra in una dimensione che sembra quella del sogno. Lo sembra poiché siamo stati forse abituati – male, molto male – a scindere sogno e realtà e a farne un’opposizione dualistica. Non sono queste le chiavi per leggere la faccenda come si deve: sforziamoci allora, per un momento, di omettere la realtà, e di considerare unicamente il trio che segue: archivio, sogno e finzione.

 

Da questo sogno non ci si risveglia che nella morte.

L’archivio, come nel racconto “Enciclopedia dei morti” (Kiš, Enciclopedia dei morti, 1988), è la Storia stessa: è tutta la storia che può essere rinvenuta, catalogata, inventariata, compresa e raccontata. Tuttavia il suo segno più intimo, la sua verità (la verità, in una finzione, esiste; in una finzione breve, è la vertigine che chiude il testo; vertigine presagita e annunciata fin dalle prime parole del testo stesso) non pertiene al mestiere e ai metodi dell’indagine storiografica: è la manifestazione di una correlazione inspiegabile, come in un sogno, eppure effettiva: così Dj. M., in “Enciclopedia dei morti”, dipinge motivi floreali a partire da un preciso momento della sua vita. Nelle ultime pagine che lo riguardano, nell’Enciclopedia, in quell’archivio che è l’enciclopedia, si trova un disegno di Dj. M, la raffigurazione di un “fiore strano”, la cui forma sembra “la rappresentazione schematica del mondo dei morti” (p.68). La forma di questo fiore strano, secondo il dottor Petrović, interpellato per l’occasione dalla narratrice del racconto e figlia di Dj. M., è proprio quella del sarcoma che si era formato negli intestini di Dj. M. “La sua [di Dj. M.] ossessione di dipingere temi floreali coincideva con la progressione del male” (p.69).

Il segno più intimo dell’archivio sembra venire da un sogno – di sicuro proviene da una realtà non-reale: questa realtà non-reale è il dominio della finzione, della letteratura. Le due figure – archivio e sogno – comunicano poiché partecipano degli stessi elementi costitutivi. Non è un caso allora che la dimensione onirica rivesta un ruolo così importante nell’opera di Kiš, come d’altra parte in quella di Borges: non come l’elemento oppositivo del dualismo sogno-realtà (assunto desueto, tenace e temibile come le figure del narratore onnisciente e del ritratto psicologico nel romanzo realista); al contrario: come un esempio e un modello  rappresentativo; e ancora di più come un deposito e un archivio.
Tuttavia, se abbandoniamo la figura della realtà, e rinneghiamo il dualismo sogno-realtà, dobbiamo disfarci anche del sogno. La letteratura, la finzione, infatti, ha le proprie regole. Non si tratta allora di imitare la grammatica dei sogni, ma di attingere all’insieme di immagini ed eventi che l’attività onirica produce; di più: di assegnare a queste immagini la valenza del documento. D’altra parte, come in Borges il libro è più importante di chi lo maneggia, in Kiš il materiale archiviato conta di più di chi l’ha generato (prodotto o sognato):

“Era un sogno? Era il sogno di un sonnambulo, un sogno nel sogno, e perciò più reale di un semplice sogno, perché non verificabile in base alla coscienza, giacché da un sogno simile ci si sveglia di nuovo in un sogno? O era magari un sogno divino, il sogno dell’eternità e del tempo? Un sogno senza illusioni e senza dubbi, un sogno con una sua lingua e con i suoi sensi, un sogno non solo dell’anima ma anche del corpo, un sogno della coscienza e del corpo a un tempo, un sogno dai confini chiari e netti, con una sua lingua e una sua sonorità, un sogno che si può palpare, un sogno che si può verificare con il gusto, con l’olfatto e con l’udito; un sogno più forte della veglia, un sogno quale fanno forse solo i morti, un sogno che non si lascia smentire dal rasoio con cui ti tagli il mento, perché ti uscirà subito il sangue e tutto quello che fai non fa che confermare lo stato di veglia, nel sogno sanguina la pelle e sanguina il cuore, in esso si rallegra il corpo e si rallegra l’anima, in esso non ci sono altri miracoli all’infuori della vita; da quel sogno non ci si risveglia che nella morte”
(“La leggenda dei dormienti” in Enciclopedia dei morti, pp. 76-77).

 

Lo specchio dell’ignoto.

Come avviene allora la correlazione – apparentemente inspiegabile – tra i documenti (eventi e immagini) di un tale archivio?
Anche qui è Ricardo Piglia a fornirci la riposta adeguata: questa correlazione avviene “in modo molto semplice e diretto” (“El último cuento de Borges”, Formas breves, Anagrama, 2000, p.49).

Si tratta di spogliare la Storia – quella realtà non-reale – di ogni elemento privato; di spersonalizzare l’archivio – come un sogno oggettivo: puro deposito di immagini ed eventi –; di fare dell’uomo stesso una cavia per produrre immagini da archiviare; di ridurre le variabili e le forze in gioco ai loro tratti più essenziali e cominciare a scendere, a scavare. In questo movimento discendente verso l’essenziale sta il segreto della finzione, ci suggerisce Kiš – questo movimento diventa la forma stessa della finzione.

“La ragazzina accosta il piccolo specchio al viso, ma per un istante non vede niente.
Per un istante soltanto. […]
La ragazzina guarda nello specchio che ha accostato vicinissimo agli occhi quasi fosse miope […] Allora vede, subito dietro di sé, cioè dietro lo specchio – perché dietro di lei non c’è niente, non c’è nessuna strada – una fangosa strada di campagna su cui avanza un barroccino. Sul sedile anteriore è seduto suo padre […]”
(“Lo specchio dell’ignoto”, in Enciclopedia dei morti p. 98 e 105).

 


[1] È raro, senza dubbio, ma accade anche questo. Di fatto, è proprio quando accade questo che la Storia si muove, che l’orizzonte, cristallizzato per inerzia, si smuove. Va notato come in questo caso “bagno di realtà” ed “epifania” sembrano coincidere quasi perfettamente.

[2] “L’arte della combinazione” ha invece una natura eminentemente politica: sembra un gioco, in realtà ben altre cose sono in gioco. Scrive Ricardo Piglia: “qui entrano in gioco in modo diretto nella letteratura le relazioni sociali e alcune correnti della critica attuale vedono proprio nella parodia, nell’intertestualità, un trucco per separare la letteratura dai conflitti sociali: si tratterebbe di un mero gioco di testi che si autorappresentano, che si legano l’uno all’altro in modo speculare. Tuttavia, questa relazione tra i testi, che in apparenza è il culmine dell’autonomia della letteratura, è determinata in modo diretto e specifico dalle relazioni sociali. Nei suoi meccanismi segreti, la letteratura rappresenta le relazioni sociali, le quali a loro volta determinano l’insieme delle pratiche letterarie e le definiscono. Il fondamento per me è questo: la relazione con altri testi, con testi altrui, con la letteratura già scritta che funziona come condizione di produzione, si incrocia e si determina attraverso le relazioni di proprietà. In questo modo, lo scrittore affronta in modo diretto e specifico la contraddizione tra scrittura sociale e appropriazione privata, la quale si manifesta in modo eclatante nelle questioni suscitate da casi quali plagio, citazione, traduzione, parodia, pastiche, apocrifo. Come funzionano i modi di appropriazione in letteratura? Questa per me è la questione centrale” scrive Piglia in “Parodia y propriedad” (Crítica y ficción, 1986, pp. 42-43, i corsivi tutti nostri), e forse da questa prospettiva andrebbe pensata “l’arte della combinazione”: come un transfert totale della cosa politica in quella linguistico-letteraria. Per avvicinarsi al cuore del conflitto bisogna infatti scavare e discendere (verso le strutture elementari e microscopiche, fino a non trovare niente), non appianare e risalire.

I racconti di guerra, di Mario Rigoni Stern

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Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo alcuni brani estratti dalla prefazione al volume a cura di Folco Portinari.

 

A ben guardare, una raccolta di tutti i racconti di guerra di Mario Rigoni Stern corrisponde, o potrebbe, quasi a una raccolta di tutti i racconti di Mario Rigoni Stern: quella infatti è l’ambientazione ricorrente nel senso che lì, a quell’esperienza, sembra fatalmente rincorrere la memoria. Nella sua evidenza il dato è certo. Anche quando (lo vedremo) sembra allontanarsene senza apparente riscontro alcuno, nel finto idillio della natura. Il motivo di questa situazione va forse ricercato in una cultura di base che si sorregge appunto non sull’immaginazione o sulla ripetizione letteraria di modelli e archetipi adottati e aggiornati, ma sopra la conoscenza diretta e partecipata dei fatti narrati, sull’esperienza personale che, nella fattispecie, coinvolge sì la persona (e il personaggio protagonista), ma assieme i luoghi e l’ambiente e la memoria suggerita dall’ambiente, quelli proprio sopra i quali vive la sua quotidianità e che non poco ne hanno condizionato e circoscritto la crescita e l’educazione. Mi riferisco, è ovvio, all’Altipiano dei Sette Comuni e ad Asiago, dov’egli è nato e vissuto senza allontanarsene mai se non per la guerra o per viaggi occasionali. È una pianta con le radici ben radicate.

Ci si potrebbe giustamente domandare se ci sia una qualche attinenza tra un generico preambolo sul fenomeno della guerra e un suo improbabile nesso ontologico, con questa raccolta di racconti di Mario Rigoni Stern, se non fosse che tutti sovra o sottostanno argomentativamente a quel drammatico accidente. È perciò legittimo interrogarsi su cosa esso sia, al di là, se possibile, della sua fataRacconti guerra_0V-621.qxp 27-02-2018 10:23 Pagina xi xii folco portinari lità. C’è comunque un’altra motivazione ed è che la guerra ha drammaticamente segnato, come esperienza sperimentata in corpore, l’autore e con lui i suoi lettori, non solo i reduci dalle medesime battaglie ma pure i più giovani. Infatti mi sembra un errore storiografico di non poco conto considerare il 25 aprile 1945 come la data della fine, per noi almeno, della seconda guerra mondiale, quando essa rimane invece la data d’inizio della terza, combattuta è vero con altri mezzi e altre strategie, coinvolgendo però la popolazione di tutto il mondo. Il che fa una bella differenza. Non si è forse parlato per anni di «guerra fredda»? E l’orizzonte politico più o meno prossimo non prevede la ripresa di un nuovo conflitto, di cui conosciamo già i prodromi, magari tra ricchi e poveri, tra sazi e affamati, di dimensione globale? Per dire che i racconti di Rigoni Stern proprio di questo parlano: non raccontano la cronaca di un pezzo di storia passata ma ci raccontano la storia così com’è, anche e soprattutto la storia che stiamo vivendo, oggi, se il protagonista rimane tuttavia lui, l’uomo.
Se devo dare una spiegazione della scelta rigoniana posso tenere per buono l’assioma di Clausewitz sulla guerra come prosecuzione della politica, intendendo la politica nel suo senso letterale, di vita della comunità, di tutti i membri della comunità nella loro esistenza quotidiana, al di fuori delle gerarchie. Il panorama ambientale e comportamentale della guerra gli serve, dunque, per rappresentare un mondo creaturale, dell’animale uomo indifeso, quale si apre a noi senza trucchi. È l’uomo colto al grado zero dei bisogni e dei disagi, cioè nel momento storicamente regressivo, interamente esposto alla villania delle cose, più e soprattutto nella sua fisiologicità.
Se è questo l’uomo, il protagonista, è difficile adattare per lui la categoria classica del nemico. È difficile se non impossibile contemplarlo diversamente, quando questo sia percepibile in un racconto che si presenta al lettore con tutte le credenziali per essere un racconto di guerra senza eroi e senza nemici, o meglio, indicando eroi e nemici secondo uno schema che rovescia le gerarchie consolidate. Gli eroi allora sono uomini, semplici soldati, che hanno magari paura (è già un eroismo vivere e vivere in quel modo), i nemici sono i responsabili del macello bellico, proprio le massime autorità dello Stato e dell’esercito. Questo è il filo rosso che lega e tiene assieme il volume.

Lo strumento narrativo di Rigoni Stern suona su tutte le corde. In un clima che per sua disposizione naturale si direbbe refrattario al riso, non mancano note meno drammatiche come, per esempio, l’episodio iniziale della bella donna incontrata in Val d’Aosta nei primi giorni di guerra. Potrebbe essere una spia, come avvertono gli ufficiali. Se no è un’occasione erotica perduta. Altrettanto divertente è l’episodio, nella guerra ’15-’18, dei prigionieri trentini dell’esercito austriaco catturati dai russi e mandati in Siberia. Però l’Italia è alleata con la Russia e ritiene italiani i trentini, richiedendone perciò la restituzione. Nel frattempo scoppia la rivoluzione d’ottobre, che coinvolge pure il campo di prigionia, con bolscevichi, menscevichi, zaristi, asburgici, italiani. Né può mancare il patetico, benché tenuto su un tono umanissimamente elevato, mai sentimentalistico: è il rapporto tra i soldati italiani e la popolazione russa, «i poveri civili russi che ci davano qualcosa da mangiare». Episodi che si ripetono: «Il più delle volte ci davano loro senza che si chiedesse, ed erano patate, cavoli e cetrioli in salamoia, pane di semi di girasole. Un uovo era gran fortuna! Ma si aveva l’impressione che nessun comando si curasse ora di noi che avevamo il torto di essere ancora vivi» (e qui cade bene la domanda se in questa guerra ci siano dei nemici e chi siano, cui Rigoni risponde perentorio: «Così erano i miei compagni montanari traditi da una patria matrigna e mandati a morire aggredendo altri popoli che non ci erano nemici. Ma poi abbiamo capito che i nostri nemici erano altri, abitavano a Roma e si chiamavano Benito Mussolini, Vittorio Emanuele III, generale Badoglio»). Tutte le corde, quasi volesse dimostrare l’errore di Vittorini nel ritenere il Sergente nella neve un libro unico, persin casuale, di uno scrittore casuale. Lui risponde con uno dei più straordinari romanzi-romanzi di questo mezzo secolo, Storia di Tönle, o su un diverso versante Uomini, boschi e api, con qualche migliaio di pagine per nulla affidate al caso, sapendo modificare la scrittura a seconda del soggetto, ma conservando un medesimo stile. C’è il «giallo» della bella spia e c’è la maestria nel disegno del croquis rapido, c’è il sentimento degli spazi, dei tempi vuoti, dei colori, degli odori e c’è il gusto inatteso per l’inattesa riproduzione di qualcosa di misterioso, ai margini del magico, come questa apparizione in piena campagna d’Albania: «Con mia sorpresa vedo che la roccia continua con una costruzione quadrilatera di blocchi di pietra: lo sguardo corre di pietra in pietra sino a una piccola finestra rettangolare chiusa da un’inferriata, come di castello medioevale, e dietro questa inferriata due occhi oscuri di donna mi fissano misteriosi e carichi di voluttà: per un lungo attimo. Subito la finestra rimane vuota e tetra più del muro di blocchi di pietra. E là dove è buio c’erano due occhi giovani di donna». Mentre cambia il tono per un croquis russo malinconicamente allegro: «Durante il viaggio ci fermammo un paio di volte per muovere le gambe indolenzite e cercare acqua per la bocca arsa e polverosa. In un villaggio abbandonato c’erano migliaia di oche che sguazzavano negli stagni e scendemmo velocemente a far bottino poiché eravamo anche senza viveri. Mentre i camion correvano nella steppa, noi, dentro i cassoni e tra i sobbalzi che ci facevano sbattere uno contro l’altro, spennammo le oche. E lungo la pista, come leggeri fiocchi, restavano nell’aria le piume bianche». D’altra parte Rigoni Stern ci tiene, pure tra questi racconti, a farci sapere della sua onnivora fame di lettore di classici moderni, russi, francesi, inglesi, che divora, metabolizza, assimila in un’altra «cosa», nel suo inconfondibile stile. Non si sentono mai citazioni esplicite. Lui prosegue col suo passo, col suo ritmo dettato da un andamento pronto, di proposizioni brevi, asindetiche o paratattiche per lo più, senza alcuna ricerca di effetti speciali, perché gli effetti sono nelle cose, nella storia. Ha letto Stendhal e Tolstoj, dunque, ma a un tratto, inatteso, mi pare di veder comparire Braudel, nella microstoria della Ricostruzione dell’Altipiano di Asiago (1919-1921), un saggio di storiografia da Annales, attorno al lavoro, spesso intralciato dalla piccola burocrazia, per rimettere in piedi le case dei paesi che la guerra aveva ridotto a un’unica grande rovina. In queste pagine ritrovo ancora una volta il vero Rigoni, tutto preso dai fatti senza stravolgimenti sentimentali. In lui rileggo gli storici della classicità, però senza eroi e senza generali, semmai con personaggi minori come don Giuseppe Rebeschini, preti che mi ricordano quelli auspicati da Ippolito Nievo per le sue campagne. La radiografia dell’Altipiano dice: «A Gallio sono un centinaio coloro che hanno presentato la domanda per il risarcimento danni, solo sei hanno avuto gli acconti; cinquecento sono le domande da presentare; sono state ricostruite quaranta case, ne rimangono da costruire quattrocentocinquanta». I numeri sostituiscono con miglior efficacia metafore, allegorie, figure retoriche. «Prima dell’esodo c’erano duemila animali bovini, cinquemila ovini, trecento equini, mille suini, ora in tutto gli animali sono trecentocinquanta». Mi avvicino alla conclusione della mia lettura, il cerchio si chiude e tende a saldarsi col principio, mi ripropongo le stesse domande: cos’è e perché la guerra, visto che la guerra è il tema ambientale di tutti i racconti. Io non so darmi ancora risposte convincenti se non dagli effetti, di una natura nemica, a dimostrazione dell’origine scarsamente divina dell’uomo (o troppo umana della divinità). È il problema sotteso che accompagna tutto intero questo volume. Cos’è, perché? Dire che il male, in assoluto, è dunque una forma analogica, abbondantemente ambigua, perché si rischia con quell’«assoluto» di farne un’invenzione divina. Così aprendo un contenzioso angosciante come la teodicea: è possibile che Iddio abbia creato il male e possano coesistere Dio e il male, due assoluti antagonisti? È da qualche millennio che ci si rompe il capo su questo quesito e se lo pone implicitamente anche Rigoni, per via della insondabilità certa delle ragioni, contraddittorie: «Quando una guerra inizia gli uni e gli altri contendenti inneggiano alla sicura vittoria, gli uni e gli altri invocano Dio con loro e la benedizione delle armi. Così dalle origini, perché ogni avversario si ritiene dalla parte della giustizia. Con il passare del tempo nel conflitto, i più ragionevoli e razionali hanno dei dubbi; incominciano la stanchezza, il desiderio di farla finita. Ricordo quel freddissimo gennaio del 1942 quando una tradotta mi portava verso il fronte russo...» Unica realtà certa è l’orrore per le azioni immotivate che si compiono. Il motto di un reggimento alpino diceva «Pietà l’è morta» e la pietà sembra essere ufficialmente la grande assente, almeno per quanto riguarda gli stati maggiori. Nei racconti di questo libro gli esempi di comportamenti tra idioti e criminali sono numerosi. Finché non intervengono le vittime a ripristinare equilibrio e onestà. Il caso di Caporetto nel 1917 è solo il più clamoroso, che anche da Rigoni è riproposto come la rivolta delle vittime di Cadorna e del re. Bisognerà pur dare una giustificazione plausibile e sana alla richiesta di morire all’assalto, specie quando l’assalto non è necessario e, peggio, è frutto di un errore. Quanti muoiono di insipienza tattico-strategica!?
È qui, a mio vedere, che si manifesta la consistenza di tutta l’opera rigoniana, che va sì indicata nella rara limpidezza della sua scrittura, ma più ancora nella tensione etica che la pervade e che pone Rigoni Stern al di sopra della maggior parte dei narratori italiani, assieme ai suoi amici Levi e Revelli. Questo è un punto fondamentale, è il discrimine di valore che dovrebbe accompagnarci nelle nostre letture. È la ragione stessa per cui si scrive o si dovrebbe scrivere (voglio evitare il termine «missione» perché fonte di equivoci eccessivi, benché sia appropriato), per essere testimone in modo che la testimonianza sia utile. Utile a chi, seguendo la classica formula dell’«insegnar dilettando»? Insegnar cosa, utile a chi? Pedagogismo antiquato? No, dignità umana e consapevolezza. Mi pare che sia la suprema, davvero, funzione della letteratura questo «dare la voce a chi non poteva più parlare». Raccontando della guerra ’15-’18 Rigoni Stern individua e indica il suo interlocutore, colui per il quale egli scrive, il giovane: «Se noi allora giudicavamo così una cosa vicina e dalle mie parti tragicamente vissuta, come giudicherà un ragazzo d’oggi gli avvenimenti che nel 1939 cominciarono a insanguinare prima l’Europa e poi tutta la terra? [...] e non per fare prediche inutili, ma solamente per capire e far capire. Fermiamoci allora cinque minuti a pensare, ora che si corre così in fretta senza sapere dove». Accadrà che quel giovane, comparando le cose che legge con quelle che vede quotidianamente attorno a sé, riversategli addosso dai telegiornali, si renderà conto dell’attualità di questi racconti. Si renderà conto, insomma, che il 25 aprile 1945 è in realtà la data di inizio della terza guerra mondiale calda o fredda che sia. Con un continuo discorso etico presente il nostro autore ci offre già un antidoto contro i veleni d’oggi. Egli ci ha insegnato come vada giudicata la guerra dai suoi effetti e dalle sue effimere cause, quanto sia umanamente scandalosa.

© 2007 e 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

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Il Bruno Schulz di Francesco Permunian

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Spaurito come Kafka, allegro come un giullare
Il Bruno Schulz di Francesco Permunian


di Andrea Cafarella

 

La letteratura dell’assenza e il valore di una glossa perpetua

Per quale motivo ci sono delle scritture, delle opere che, nonostante la sfortuna, la malattia, le psicosi, i suicidi, gli omicidi, l’abbandono e il tempo: restano vive, «risuona[no] nelle menti, e nei cuori, di milioni di lettori in tutto il mondo»?
Si potrebbe rispondere a questa domanda in molti modi, eppure nessuno di questi, né tutti insieme, potrebbero darci un’idea univoca e chiara del processo che subiscono i libri, a opera del tempo, all’interno del nostro patrimonio culturale o di certe sottoculture o singoli gruppi, circoli di pochi. C’è qualcosa di misterioso e oscuro nell’eco delle parole che si riverberano nei secoli. Mi vengono in mente Le metamorfosi di Antonino Liberale (pubblicate proprio quest’anno da Adelphi), Il romanzo della volpe (il numero 7 della prestigiosa collana Sellerio, La memoria) o la leggenda della Navigazione di San Brendano; ma più semplicemente basta pensare all’Odissea, a I canti di Maldoror, Il primo Dio, I Quaderni di Valery, i libri di Blecher o la poesia di Victor Cavallo. Ancora: i libri di Livia De Stefani. Si potrebbe continuare per un centinaio d’anni, senza andare a scomodare Shakespeare.
Ognuna di queste opere poteva essere perduta, dimenticata, oscurata dalle vicende del mondo, incurante, e di bestie senza sensibilità, incapaci di scrutarne il valore, disinteressate alla lucentezza, indaffarate tutto il tempo nell’esecuzione continua di una certa arte della distruzione e dell’annullamento. Così, uno scrittore come Bruno Schulz, viene ucciso da un colpo di pistola per «motivi futili», da un ufficiale della Gestapo. Il suo cadavere viene gettato in qualche fossa comune e mai più verrà ritrovato. Invece no: si è risollevato da terra, quel corpo, come un burattino col volto devastato dalla violenza, e ancora passeggia nelle nostre menti e nei nostri cuori. Chi fa la conoscenza di questo spettro non può fare a meno di sentire la sua voce spaventosa risuonare alla vista di tutti i pupazzi e le bambole sparsi negl’incubi.
Bruno Schulz, come molti altri della sua stessa stirpe – e penso a Kafka e Walser – genera ossessioni dalle sue ossessioni, vive nella passione spasmodica di chi lo ha letto e gli è succeduto scrivendone. Per questo motivo esiste una così vasta bibliografia su questo eccezionale personaggio. Uno che teneva testa a Witold Gombrowicz, a modo suo, certo, ma con una penna che diventava – non spada, come quella dell’amico polacco, ma – velo e scudo e specchio. Schulz è quel tipo di scrittore mago demiurgo, che non conosce l’uso delle armi, ma piuttosto quello della magia nera, dell’alchimia, delle rune, dei misteri esoterici che stanno dietro al Male e alla Morte. Come Kafka e come Walser, Schulz è un teorico-pratico della sofferenza (non è sicuramente un caso se Schulz fu traduttore di Kafka in polacco e Walser fu autore prediletto di Kafka, il quale diceva fosse tra i pochi che amava leggere e che considerava come suo antesignano). Tutti e tre sono autori – persone, prima di tutto – maledetti, che soffrono della propria scrittura come di una malattia. La Letteratura, per loro, è una maledizione che annienta la vita perché la vita è falsa. La Letteratura è una bestia che ringhia contro la falsità e non ce ne si può liberare. Nemmeno «quella giovane e dolce e ingenua ragazza [Józefina Szelińska, che fu fidanzata di Bruno Schulz] – sant’iddio! – [poteva] strappare il suo uomo alle grinfie mortali di quella spaventosa sirena che a tutt’oggi va sotto il nome di Madame Letteratura» ci dice Permunian. Un po’ come successe, per l’appunto, a Kafka; che è forse l’autore novecentesco su cui è stato scritto di più in assoluto, almeno in occidente.
Sono arrivato a questo libro doppio: La plasmabilità artistica del cartone e il suo impiego nella scuola. Una relazione su Bruno Schulz di Francesco Permunian / La maldicente moglie del dottore di via Wilcza di Bruno Schulz (Nino Aragno editore, 2018) mentre preparavo il materiale per scrivere un articolo sulla forma brevissima e incompleta di alcuni dei testi di Walser e di Kafka, per provare a comprendere il paradigma mediante il quale, quella che Deleuze e Guattari chiamano «letteratura minore» (Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, 1996) genera una serie di speculazioni letterarie proficue che sembrano la continuazione naturale dell’opera stessa di questi grandi scrittori dell’assenza e dell’abbandono. Mi viene subito da pensare al Walser di Sebald o di Benjamin, al Kafka di Citati o di Calasso, oppure al nuovissimo Kafka di Adriano Sofri, che in questo libro bellissimo, Una variazione di Kafka (Sellerio, 2018), analizza il percorso di traduzione di una singola parola de La metamorfosi. Un libro che è un trattato di filologia, un manifesto della buona traduzione e dell’indagine filologica, un giallo avvincente, un saggio critico su un dettaglio minimo (la parola in questione significa lampione ma venne più volte tradotta come tram, apparentemente, senza ragione logica) dal quale Sofri riesce a estrapolare e indagare significati nascosti dell’opera kafkiana, di incredibile profondità, prolifici perché pieni di senso.
E qui mi viene in aiuto Franco Fortini, del quale Hacca edizioni ha riedito, anch’esso quest’anno: Capoversi su Kafka. Fortini esprime perfettamente quello che penso dei microgrammi di Walser, delle Botteghe color cannella di Schulz o dei teriantropi tipici di un certo Kafka o di uno specifico Borges. La forma minima, come il suo opposto, rappresenta un’elongazione o un restringimento: in entrambi i casi, un contorcimento della lingua e della struttura dell’universo che si va rappresentando, in grado di creare ulteriori significati attraverso domande inrispondibili, questioni senza soluzione e misteri impossibili e paradossali. Nei dualismi – come ci insegna anche Carlo Michelstaedter, un altro poeta dell’assenza – risiede questa forza misteriosa del contrasto, della differenza, che sprigiona quel tipo di energia in grado di attraversare il tempo e lo spazio e insinuarsi nell’intero nostro mondo, creando un legame inscindibile, un percorso di sofferenza condivisa, dell’intera umanità, verso la conoscenza dell’ombra, attraverso altri sensi piuttosto che la vista, il tatto, l’udito.

«il carattere di parabola (e non di poesia) di quei libri chiede un commento perpetuo che poco a poco si incrosti nel testo medesimo ed entri progressivamente a farne parte, come è accaduto a tanti testi antichi e soprattutto, nella cultura ebraica, al Testamento. L’atteggiamento di sempre nuova domanda, che è del lettore-critico di fronte all’ambiguità del testo kafkiano, è previsto e richiesto dall’autore – come i suoi antenati talmudisti – perché quell’atteggiamento fa parte del rituale».

(Franco Fortini, Capoversi su Kafka, Hacca edizioni, 2018)

Le voci di Francesco Permunian

Tutto ciò per dire che è uscito (in anteprima al Salone del Libro di Torino e presto, a metà giugno, anche in libreria) un nuovo libro su Bruno Schulz. L’ennesimo libro su Schulz? Potrebbe chiedersi l’ingenuo. No, la naturale prosecuzione, come un’infinita catena di arti fantasma, invisibili ma presenti, essenziali, pezzi di carne che si accumulano e s’incrostano nel testo medesimo (l’opera di Bruno Schulz) entrandone a far parte: partecipandovi. E quale migliore interprete di questo incredibile personaggio letterario se non il nostro carissimo Francesco Permunian? Erede perfetto di una tale tradizione. Scultore di ombre e di ossessioni che toccano il fondo dell’anima. Grande maestro, anch’egli, della contorsione della forma fino alle sue derive più estreme. Poeta e scrittore polesano, amico di Giorgio Manganelli – un altro grande della misura minima e dell’accumulo linguistico, allo stesso tempo –, entrambi scrittori fuori dal mondo, guru della mancanza come della pletora. L’opera di Francesco Permunian è immensa e si muove in tutte le differenti possibilità espressive della lingua e delle sue forme. Scrive poesia, romanzi, libri compositi fatti di testi brevissimi, elenchi e abbozzi, appunti; integrandoli a disegni e fotografie. Ha scritto monologhi per il teatro e già esiste un’abbondante bibliografia su di lui, proprio come fosse un autore già morto e sepolto (brutto da dire, ma serenamente, orgogliosamente vero). Perché Permunian, anch’egli, è un cultore dell’assenza. Resta fuori dalle dinamiche sociali tipiche di una certa editoria italiana. Non ha paura di dire quello che pensa e sputare in faccia al perbenismo dilagante. Non teme le difficoltà dell’ignoto e della sofferenza di un lavoro letterario estenuante e doloroso.
Potrei stare a parlare della sua opera per pagine e pagine, iniziando con il ricordare di quando sono andato a prenderlo alla stazione per portarlo in libreria. Avevo appena letto Costellazioni del crepuscolo (Il Saggiatore, 2017) e non sapevo se aspettarmi un Lovecraft con l’accento del nord Italia o un rachitico personaggio kafkiano in grado di trascinarmi nel più profondo abisso delle sue paranoie. Mi faceva paura, onestamente. Avevo quindi pensato di prendere un taxi, vista la sua età, e sperando di abbreviare il più possibile lo spaventoso incontro; invece ha voluto passeggiare fino all’albergo. Più o meno ci sono quindici-venti minuti di cammino ma noi percorremmo la strada impiegandoci più di un’ora e mezza. Mi sentivo un po’ come Seeling nelle Passeggiate con Robert Walser (Adelphi, 1981). Francesco parlava di Manganelli e della Merini come vecchi amici squinternati e si slanciava in dettagli d’incredibile intimità, spesso molto divertenti. Alternava questi ricordi a invettive contro tutta una serie di villani impostori delle lettere. Quello che mi colpì davvero era la sua incredibile autenticità. Inizialmente: la gentilezza, vista la mia pregiudizievole paura, poi: la verità che sprigionavano le sue parole. La sua opera, in effetti, è un manifesto contro l’impostura e la menzogna. La sua scrittura svela le ombre con le ombre. Il suo sguardo è l’oscuro che guarda l’oscurità. Basta leggere qualche pagina de Il gabinetto del dottor Kafka o di La Casa del Sollievo Mentale (entrambi editi da Nutrimenti) oppure qualcuno degli aforismi di Il principio della malinconia (Quodlibet, 2005) per capire quello di cui sto parlando, per capire perché Francesco Permunian è ora considerato tra i grandi scrittori della letteratura italiana ed europea.
Ma siccome servirebbero pagine e pagine – che forse prima o poi scriverò – per il momento rimandiamo – per chi voglia inoltrarsi nel complesso mondo grottesco «permunianico» – alla scheda dedicata a lui nel volume La terra della prosa. Narratori italiani degli anni zero (1999-2014) (L’orma editore, 2014) a cura di Andrea Cortellessa, che può dare un’idea abbastanza completa della grande opera letteraria di Permunian.
Oggi, invece, proviamo a parlare esclusivamente di questo ultimo libro, pubblicato da Nino Aragno Editore, nella collana, diretta appunto da Andrea Cortellessa: «Pietre d’angolo». Il progetto grafico di Maurizio Ceccato è già un’opera d’arte in sé: coniuga perfettamente la forma imperfetta di questo volume composito e complessissimo, dove troviamo due facce (possiamo scorrere il libro da un verso e dall’altro): da una parte abbiamo un racconto di Francesco Permunian, dall’altra una serie di documenti, testi che mettono in luce degli straordinari aspetti di Bruno Schulz (lo scambio di lettere aperte tra Schulz e Gombrowicz sul mensile Studio e una lettera in cui Schulz si confida con Romana Halpern circa la sua relazione con la fidanzata: Józefina Szelińska, cui segue una lettera della stessa, dove Józefina racconta della sua relazione con Bruno).
Al contrario di chiunque altro, in questo testo – o insieme di testi, sarebbe più corretto – su Schulz, Francesco Permunian, oltre a un superbo lavoro di documentazione (dove, tra le altre cose, troviamo un compendio dei testi dedicati negli anni a Bruno Schulz, molto utile per chiunque si voglia addentrare nella scoperta della sua opera), scrive un racconto che in realtà è un vero e proprio monologo. E inizia con una didascalia:

«In una casa all’angolo fra via Czaki e via Mickiewicz, non lontano dal luogo in cui Bruno Schulz fu assassinato, un anziano signore sta conversando con un giovane professore italiano. è più di un’ora che gli parla. Anche se, in realtà,
sembra che egli stia parlando alle ombre del suo passato».

L’anziano signore altri non è che Pavel Gotard, allievo di Schulz al ginnasio «Re Ladislao Jagellone». La sua voce allucinata, tipica dei personaggi di Permunian, sembra provenire da un altro mondo. Somiglia alla voce dell’ufficiale SS del racconto Il compleanno (Giuntina, 2001). Sono le voci di Francesco Permunian che, come un medium, rovescia gli occhi in estasi ascetica e inizia a parlare altre lingue, nere e di fuoco, che vengono da un passato ancestrale e senza tempo, dal profondo inferno.
Gotard racconta di Angelo Maria Ripellino, il grande autore della Praga magica (libro che inizia con una palese evocazione di Kafka – di nuovo – e di Jaroslav Hašek). Racconta di Gombrowicz e dell’assurdo rapporto con Bruno Schulz, di amicizia e d’affetto – per quanto se ne possa avere per un uomo controverso come Witold Gombrowicz. Racconta di Tadeusz Kantor, della Classe morta e perfino dello Schulz professore, semplicemente. Racconta della sua morte e richiude tutti i nodi bibliografici in un racconto narratologicamente perfetto. Un racconto che contiene le storie di tutti questi libri e di tutti questi autori, e le rimette insieme. Non solo: ci regala un apparato di note pregno, essenziale, arricchente. E la cosa più interessante è che tutte le note provengono da quella stessa voce, creando un paradosso logico: come può Gotard parlare generando delle note legate alle sue parole? Non c’è spiegazione, eppure è così e non potrebbe essere altrimenti. Troviamo in questo libro un racconto-saggio biografico che ha la potenza del più perturbante grottesco e la profondità dell’erudizione intelligente, di quella «glossa perpetua che s’intreccia all’opera e ne entra a far parte».
In questo libro vi è il Bruno Schulz di Francesco Permunian, «spaurito come Kafka, allegro come un giullare» (Angelo Maria Ripellino. Posto in epigrafe al racconto). C’è soprattutto una voce, la Voce di un Autore: Francesco Permunian: profetico come Schulz, ossessionato come Walser, disperato come Kafka, unico e solo come ognuno di questi e insieme a questi, esattamente come loro: nessuno, e tutti noi. Capace di toccare i nostri collegamenti neuronali e immergere le mani nei flussi delle nostre anime e di migliaia di lettori in tutta Italia e, speriamo, col tempo, in tutto il mondo.

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