Il Bruno Schulz di Francesco Permunian

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Spaurito come Kafka, allegro come un giullare
Il Bruno Schulz di Francesco Permunian


di Andrea Cafarella

 

La letteratura dell’assenza e il valore di una glossa perpetua

Per quale motivo ci sono delle scritture, delle opere che, nonostante la sfortuna, la malattia, le psicosi, i suicidi, gli omicidi, l’abbandono e il tempo: restano vive, «risuona[no] nelle menti, e nei cuori, di milioni di lettori in tutto il mondo»?
Si potrebbe rispondere a questa domanda in molti modi, eppure nessuno di questi, né tutti insieme, potrebbero darci un’idea univoca e chiara del processo che subiscono i libri, a opera del tempo, all’interno del nostro patrimonio culturale o di certe sottoculture o singoli gruppi, circoli di pochi. C’è qualcosa di misterioso e oscuro nell’eco delle parole che si riverberano nei secoli. Mi vengono in mente Le metamorfosi di Antonino Liberale (pubblicate proprio quest’anno da Adelphi), Il romanzo della volpe (il numero 7 della prestigiosa collana Sellerio, La memoria) o la leggenda della Navigazione di San Brendano; ma più semplicemente basta pensare all’Odissea, a I canti di Maldoror, Il primo Dio, I Quaderni di Valery, i libri di Blecher o la poesia di Victor Cavallo. Ancora: i libri di Livia De Stefani. Si potrebbe continuare per un centinaio d’anni, senza andare a scomodare Shakespeare.
Ognuna di queste opere poteva essere perduta, dimenticata, oscurata dalle vicende del mondo, incurante, e di bestie senza sensibilità, incapaci di scrutarne il valore, disinteressate alla lucentezza, indaffarate tutto il tempo nell’esecuzione continua di una certa arte della distruzione e dell’annullamento. Così, uno scrittore come Bruno Schulz, viene ucciso da un colpo di pistola per «motivi futili», da un ufficiale della Gestapo. Il suo cadavere viene gettato in qualche fossa comune e mai più verrà ritrovato. Invece no: si è risollevato da terra, quel corpo, come un burattino col volto devastato dalla violenza, e ancora passeggia nelle nostre menti e nei nostri cuori. Chi fa la conoscenza di questo spettro non può fare a meno di sentire la sua voce spaventosa risuonare alla vista di tutti i pupazzi e le bambole sparsi negl’incubi.
Bruno Schulz, come molti altri della sua stessa stirpe – e penso a Kafka e Walser – genera ossessioni dalle sue ossessioni, vive nella passione spasmodica di chi lo ha letto e gli è succeduto scrivendone. Per questo motivo esiste una così vasta bibliografia su questo eccezionale personaggio. Uno che teneva testa a Witold Gombrowicz, a modo suo, certo, ma con una penna che diventava – non spada, come quella dell’amico polacco, ma – velo e scudo e specchio. Schulz è quel tipo di scrittore mago demiurgo, che non conosce l’uso delle armi, ma piuttosto quello della magia nera, dell’alchimia, delle rune, dei misteri esoterici che stanno dietro al Male e alla Morte. Come Kafka e come Walser, Schulz è un teorico-pratico della sofferenza (non è sicuramente un caso se Schulz fu traduttore di Kafka in polacco e Walser fu autore prediletto di Kafka, il quale diceva fosse tra i pochi che amava leggere e che considerava come suo antesignano). Tutti e tre sono autori – persone, prima di tutto – maledetti, che soffrono della propria scrittura come di una malattia. La Letteratura, per loro, è una maledizione che annienta la vita perché la vita è falsa. La Letteratura è una bestia che ringhia contro la falsità e non ce ne si può liberare. Nemmeno «quella giovane e dolce e ingenua ragazza [Józefina Szelińska, che fu fidanzata di Bruno Schulz] – sant’iddio! – [poteva] strappare il suo uomo alle grinfie mortali di quella spaventosa sirena che a tutt’oggi va sotto il nome di Madame Letteratura» ci dice Permunian. Un po’ come successe, per l’appunto, a Kafka; che è forse l’autore novecentesco su cui è stato scritto di più in assoluto, almeno in occidente.
Sono arrivato a questo libro doppio: La plasmabilità artistica del cartone e il suo impiego nella scuola. Una relazione su Bruno Schulz di Francesco Permunian / La maldicente moglie del dottore di via Wilcza di Bruno Schulz (Nino Aragno editore, 2018) mentre preparavo il materiale per scrivere un articolo sulla forma brevissima e incompleta di alcuni dei testi di Walser e di Kafka, per provare a comprendere il paradigma mediante il quale, quella che Deleuze e Guattari chiamano «letteratura minore» (Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, 1996) genera una serie di speculazioni letterarie proficue che sembrano la continuazione naturale dell’opera stessa di questi grandi scrittori dell’assenza e dell’abbandono. Mi viene subito da pensare al Walser di Sebald o di Benjamin, al Kafka di Citati o di Calasso, oppure al nuovissimo Kafka di Adriano Sofri, che in questo libro bellissimo, Una variazione di Kafka (Sellerio, 2018), analizza il percorso di traduzione di una singola parola de La metamorfosi. Un libro che è un trattato di filologia, un manifesto della buona traduzione e dell’indagine filologica, un giallo avvincente, un saggio critico su un dettaglio minimo (la parola in questione significa lampione ma venne più volte tradotta come tram, apparentemente, senza ragione logica) dal quale Sofri riesce a estrapolare e indagare significati nascosti dell’opera kafkiana, di incredibile profondità, prolifici perché pieni di senso.
E qui mi viene in aiuto Franco Fortini, del quale Hacca edizioni ha riedito, anch’esso quest’anno: Capoversi su Kafka. Fortini esprime perfettamente quello che penso dei microgrammi di Walser, delle Botteghe color cannella di Schulz o dei teriantropi tipici di un certo Kafka o di uno specifico Borges. La forma minima, come il suo opposto, rappresenta un’elongazione o un restringimento: in entrambi i casi, un contorcimento della lingua e della struttura dell’universo che si va rappresentando, in grado di creare ulteriori significati attraverso domande inrispondibili, questioni senza soluzione e misteri impossibili e paradossali. Nei dualismi – come ci insegna anche Carlo Michelstaedter, un altro poeta dell’assenza – risiede questa forza misteriosa del contrasto, della differenza, che sprigiona quel tipo di energia in grado di attraversare il tempo e lo spazio e insinuarsi nell’intero nostro mondo, creando un legame inscindibile, un percorso di sofferenza condivisa, dell’intera umanità, verso la conoscenza dell’ombra, attraverso altri sensi piuttosto che la vista, il tatto, l’udito.

«il carattere di parabola (e non di poesia) di quei libri chiede un commento perpetuo che poco a poco si incrosti nel testo medesimo ed entri progressivamente a farne parte, come è accaduto a tanti testi antichi e soprattutto, nella cultura ebraica, al Testamento. L’atteggiamento di sempre nuova domanda, che è del lettore-critico di fronte all’ambiguità del testo kafkiano, è previsto e richiesto dall’autore – come i suoi antenati talmudisti – perché quell’atteggiamento fa parte del rituale».

(Franco Fortini, Capoversi su Kafka, Hacca edizioni, 2018)

Le voci di Francesco Permunian

Tutto ciò per dire che è uscito (in anteprima al Salone del Libro di Torino e presto, a metà giugno, anche in libreria) un nuovo libro su Bruno Schulz. L’ennesimo libro su Schulz? Potrebbe chiedersi l’ingenuo. No, la naturale prosecuzione, come un’infinita catena di arti fantasma, invisibili ma presenti, essenziali, pezzi di carne che si accumulano e s’incrostano nel testo medesimo (l’opera di Bruno Schulz) entrandone a far parte: partecipandovi. E quale migliore interprete di questo incredibile personaggio letterario se non il nostro carissimo Francesco Permunian? Erede perfetto di una tale tradizione. Scultore di ombre e di ossessioni che toccano il fondo dell’anima. Grande maestro, anch’egli, della contorsione della forma fino alle sue derive più estreme. Poeta e scrittore polesano, amico di Giorgio Manganelli – un altro grande della misura minima e dell’accumulo linguistico, allo stesso tempo –, entrambi scrittori fuori dal mondo, guru della mancanza come della pletora. L’opera di Francesco Permunian è immensa e si muove in tutte le differenti possibilità espressive della lingua e delle sue forme. Scrive poesia, romanzi, libri compositi fatti di testi brevissimi, elenchi e abbozzi, appunti; integrandoli a disegni e fotografie. Ha scritto monologhi per il teatro e già esiste un’abbondante bibliografia su di lui, proprio come fosse un autore già morto e sepolto (brutto da dire, ma serenamente, orgogliosamente vero). Perché Permunian, anch’egli, è un cultore dell’assenza. Resta fuori dalle dinamiche sociali tipiche di una certa editoria italiana. Non ha paura di dire quello che pensa e sputare in faccia al perbenismo dilagante. Non teme le difficoltà dell’ignoto e della sofferenza di un lavoro letterario estenuante e doloroso.
Potrei stare a parlare della sua opera per pagine e pagine, iniziando con il ricordare di quando sono andato a prenderlo alla stazione per portarlo in libreria. Avevo appena letto Costellazioni del crepuscolo (Il Saggiatore, 2017) e non sapevo se aspettarmi un Lovecraft con l’accento del nord Italia o un rachitico personaggio kafkiano in grado di trascinarmi nel più profondo abisso delle sue paranoie. Mi faceva paura, onestamente. Avevo quindi pensato di prendere un taxi, vista la sua età, e sperando di abbreviare il più possibile lo spaventoso incontro; invece ha voluto passeggiare fino all’albergo. Più o meno ci sono quindici-venti minuti di cammino ma noi percorremmo la strada impiegandoci più di un’ora e mezza. Mi sentivo un po’ come Seeling nelle Passeggiate con Robert Walser (Adelphi, 1981). Francesco parlava di Manganelli e della Merini come vecchi amici squinternati e si slanciava in dettagli d’incredibile intimità, spesso molto divertenti. Alternava questi ricordi a invettive contro tutta una serie di villani impostori delle lettere. Quello che mi colpì davvero era la sua incredibile autenticità. Inizialmente: la gentilezza, vista la mia pregiudizievole paura, poi: la verità che sprigionavano le sue parole. La sua opera, in effetti, è un manifesto contro l’impostura e la menzogna. La sua scrittura svela le ombre con le ombre. Il suo sguardo è l’oscuro che guarda l’oscurità. Basta leggere qualche pagina de Il gabinetto del dottor Kafka o di La Casa del Sollievo Mentale (entrambi editi da Nutrimenti) oppure qualcuno degli aforismi di Il principio della malinconia (Quodlibet, 2005) per capire quello di cui sto parlando, per capire perché Francesco Permunian è ora considerato tra i grandi scrittori della letteratura italiana ed europea.
Ma siccome servirebbero pagine e pagine – che forse prima o poi scriverò – per il momento rimandiamo – per chi voglia inoltrarsi nel complesso mondo grottesco «permunianico» – alla scheda dedicata a lui nel volume La terra della prosa. Narratori italiani degli anni zero (1999-2014) (L’orma editore, 2014) a cura di Andrea Cortellessa, che può dare un’idea abbastanza completa della grande opera letteraria di Permunian.
Oggi, invece, proviamo a parlare esclusivamente di questo ultimo libro, pubblicato da Nino Aragno Editore, nella collana, diretta appunto da Andrea Cortellessa: «Pietre d’angolo». Il progetto grafico di Maurizio Ceccato è già un’opera d’arte in sé: coniuga perfettamente la forma imperfetta di questo volume composito e complessissimo, dove troviamo due facce (possiamo scorrere il libro da un verso e dall’altro): da una parte abbiamo un racconto di Francesco Permunian, dall’altra una serie di documenti, testi che mettono in luce degli straordinari aspetti di Bruno Schulz (lo scambio di lettere aperte tra Schulz e Gombrowicz sul mensile Studio e una lettera in cui Schulz si confida con Romana Halpern circa la sua relazione con la fidanzata: Józefina Szelińska, cui segue una lettera della stessa, dove Józefina racconta della sua relazione con Bruno).
Al contrario di chiunque altro, in questo testo – o insieme di testi, sarebbe più corretto – su Schulz, Francesco Permunian, oltre a un superbo lavoro di documentazione (dove, tra le altre cose, troviamo un compendio dei testi dedicati negli anni a Bruno Schulz, molto utile per chiunque si voglia addentrare nella scoperta della sua opera), scrive un racconto che in realtà è un vero e proprio monologo. E inizia con una didascalia:

«In una casa all’angolo fra via Czaki e via Mickiewicz, non lontano dal luogo in cui Bruno Schulz fu assassinato, un anziano signore sta conversando con un giovane professore italiano. è più di un’ora che gli parla. Anche se, in realtà,
sembra che egli stia parlando alle ombre del suo passato».

L’anziano signore altri non è che Pavel Gotard, allievo di Schulz al ginnasio «Re Ladislao Jagellone». La sua voce allucinata, tipica dei personaggi di Permunian, sembra provenire da un altro mondo. Somiglia alla voce dell’ufficiale SS del racconto Il compleanno (Giuntina, 2001). Sono le voci di Francesco Permunian che, come un medium, rovescia gli occhi in estasi ascetica e inizia a parlare altre lingue, nere e di fuoco, che vengono da un passato ancestrale e senza tempo, dal profondo inferno.
Gotard racconta di Angelo Maria Ripellino, il grande autore della Praga magica (libro che inizia con una palese evocazione di Kafka – di nuovo – e di Jaroslav Hašek). Racconta di Gombrowicz e dell’assurdo rapporto con Bruno Schulz, di amicizia e d’affetto – per quanto se ne possa avere per un uomo controverso come Witold Gombrowicz. Racconta di Tadeusz Kantor, della Classe morta e perfino dello Schulz professore, semplicemente. Racconta della sua morte e richiude tutti i nodi bibliografici in un racconto narratologicamente perfetto. Un racconto che contiene le storie di tutti questi libri e di tutti questi autori, e le rimette insieme. Non solo: ci regala un apparato di note pregno, essenziale, arricchente. E la cosa più interessante è che tutte le note provengono da quella stessa voce, creando un paradosso logico: come può Gotard parlare generando delle note legate alle sue parole? Non c’è spiegazione, eppure è così e non potrebbe essere altrimenti. Troviamo in questo libro un racconto-saggio biografico che ha la potenza del più perturbante grottesco e la profondità dell’erudizione intelligente, di quella «glossa perpetua che s’intreccia all’opera e ne entra a far parte».
In questo libro vi è il Bruno Schulz di Francesco Permunian, «spaurito come Kafka, allegro come un giullare» (Angelo Maria Ripellino. Posto in epigrafe al racconto). C’è soprattutto una voce, la Voce di un Autore: Francesco Permunian: profetico come Schulz, ossessionato come Walser, disperato come Kafka, unico e solo come ognuno di questi e insieme a questi, esattamente come loro: nessuno, e tutti noi. Capace di toccare i nostri collegamenti neuronali e immergere le mani nei flussi delle nostre anime e di migliaia di lettori in tutta Italia e, speriamo, col tempo, in tutto il mondo.

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