I racconti di guerra, di Mario Rigoni Stern

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Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo alcuni brani estratti dalla prefazione al volume a cura di Folco Portinari.

 

A ben guardare, una raccolta di tutti i racconti di guerra di Mario Rigoni Stern corrisponde, o potrebbe, quasi a una raccolta di tutti i racconti di Mario Rigoni Stern: quella infatti è l’ambientazione ricorrente nel senso che lì, a quell’esperienza, sembra fatalmente rincorrere la memoria. Nella sua evidenza il dato è certo. Anche quando (lo vedremo) sembra allontanarsene senza apparente riscontro alcuno, nel finto idillio della natura. Il motivo di questa situazione va forse ricercato in una cultura di base che si sorregge appunto non sull’immaginazione o sulla ripetizione letteraria di modelli e archetipi adottati e aggiornati, ma sopra la conoscenza diretta e partecipata dei fatti narrati, sull’esperienza personale che, nella fattispecie, coinvolge sì la persona (e il personaggio protagonista), ma assieme i luoghi e l’ambiente e la memoria suggerita dall’ambiente, quelli proprio sopra i quali vive la sua quotidianità e che non poco ne hanno condizionato e circoscritto la crescita e l’educazione. Mi riferisco, è ovvio, all’Altipiano dei Sette Comuni e ad Asiago, dov’egli è nato e vissuto senza allontanarsene mai se non per la guerra o per viaggi occasionali. È una pianta con le radici ben radicate.

Ci si potrebbe giustamente domandare se ci sia una qualche attinenza tra un generico preambolo sul fenomeno della guerra e un suo improbabile nesso ontologico, con questa raccolta di racconti di Mario Rigoni Stern, se non fosse che tutti sovra o sottostanno argomentativamente a quel drammatico accidente. È perciò legittimo interrogarsi su cosa esso sia, al di là, se possibile, della sua fataRacconti guerra_0V-621.qxp 27-02-2018 10:23 Pagina xi xii folco portinari lità. C’è comunque un’altra motivazione ed è che la guerra ha drammaticamente segnato, come esperienza sperimentata in corpore, l’autore e con lui i suoi lettori, non solo i reduci dalle medesime battaglie ma pure i più giovani. Infatti mi sembra un errore storiografico di non poco conto considerare il 25 aprile 1945 come la data della fine, per noi almeno, della seconda guerra mondiale, quando essa rimane invece la data d’inizio della terza, combattuta è vero con altri mezzi e altre strategie, coinvolgendo però la popolazione di tutto il mondo. Il che fa una bella differenza. Non si è forse parlato per anni di «guerra fredda»? E l’orizzonte politico più o meno prossimo non prevede la ripresa di un nuovo conflitto, di cui conosciamo già i prodromi, magari tra ricchi e poveri, tra sazi e affamati, di dimensione globale? Per dire che i racconti di Rigoni Stern proprio di questo parlano: non raccontano la cronaca di un pezzo di storia passata ma ci raccontano la storia così com’è, anche e soprattutto la storia che stiamo vivendo, oggi, se il protagonista rimane tuttavia lui, l’uomo.
Se devo dare una spiegazione della scelta rigoniana posso tenere per buono l’assioma di Clausewitz sulla guerra come prosecuzione della politica, intendendo la politica nel suo senso letterale, di vita della comunità, di tutti i membri della comunità nella loro esistenza quotidiana, al di fuori delle gerarchie. Il panorama ambientale e comportamentale della guerra gli serve, dunque, per rappresentare un mondo creaturale, dell’animale uomo indifeso, quale si apre a noi senza trucchi. È l’uomo colto al grado zero dei bisogni e dei disagi, cioè nel momento storicamente regressivo, interamente esposto alla villania delle cose, più e soprattutto nella sua fisiologicità.
Se è questo l’uomo, il protagonista, è difficile adattare per lui la categoria classica del nemico. È difficile se non impossibile contemplarlo diversamente, quando questo sia percepibile in un racconto che si presenta al lettore con tutte le credenziali per essere un racconto di guerra senza eroi e senza nemici, o meglio, indicando eroi e nemici secondo uno schema che rovescia le gerarchie consolidate. Gli eroi allora sono uomini, semplici soldati, che hanno magari paura (è già un eroismo vivere e vivere in quel modo), i nemici sono i responsabili del macello bellico, proprio le massime autorità dello Stato e dell’esercito. Questo è il filo rosso che lega e tiene assieme il volume.

Lo strumento narrativo di Rigoni Stern suona su tutte le corde. In un clima che per sua disposizione naturale si direbbe refrattario al riso, non mancano note meno drammatiche come, per esempio, l’episodio iniziale della bella donna incontrata in Val d’Aosta nei primi giorni di guerra. Potrebbe essere una spia, come avvertono gli ufficiali. Se no è un’occasione erotica perduta. Altrettanto divertente è l’episodio, nella guerra ’15-’18, dei prigionieri trentini dell’esercito austriaco catturati dai russi e mandati in Siberia. Però l’Italia è alleata con la Russia e ritiene italiani i trentini, richiedendone perciò la restituzione. Nel frattempo scoppia la rivoluzione d’ottobre, che coinvolge pure il campo di prigionia, con bolscevichi, menscevichi, zaristi, asburgici, italiani. Né può mancare il patetico, benché tenuto su un tono umanissimamente elevato, mai sentimentalistico: è il rapporto tra i soldati italiani e la popolazione russa, «i poveri civili russi che ci davano qualcosa da mangiare». Episodi che si ripetono: «Il più delle volte ci davano loro senza che si chiedesse, ed erano patate, cavoli e cetrioli in salamoia, pane di semi di girasole. Un uovo era gran fortuna! Ma si aveva l’impressione che nessun comando si curasse ora di noi che avevamo il torto di essere ancora vivi» (e qui cade bene la domanda se in questa guerra ci siano dei nemici e chi siano, cui Rigoni risponde perentorio: «Così erano i miei compagni montanari traditi da una patria matrigna e mandati a morire aggredendo altri popoli che non ci erano nemici. Ma poi abbiamo capito che i nostri nemici erano altri, abitavano a Roma e si chiamavano Benito Mussolini, Vittorio Emanuele III, generale Badoglio»). Tutte le corde, quasi volesse dimostrare l’errore di Vittorini nel ritenere il Sergente nella neve un libro unico, persin casuale, di uno scrittore casuale. Lui risponde con uno dei più straordinari romanzi-romanzi di questo mezzo secolo, Storia di Tönle, o su un diverso versante Uomini, boschi e api, con qualche migliaio di pagine per nulla affidate al caso, sapendo modificare la scrittura a seconda del soggetto, ma conservando un medesimo stile. C’è il «giallo» della bella spia e c’è la maestria nel disegno del croquis rapido, c’è il sentimento degli spazi, dei tempi vuoti, dei colori, degli odori e c’è il gusto inatteso per l’inattesa riproduzione di qualcosa di misterioso, ai margini del magico, come questa apparizione in piena campagna d’Albania: «Con mia sorpresa vedo che la roccia continua con una costruzione quadrilatera di blocchi di pietra: lo sguardo corre di pietra in pietra sino a una piccola finestra rettangolare chiusa da un’inferriata, come di castello medioevale, e dietro questa inferriata due occhi oscuri di donna mi fissano misteriosi e carichi di voluttà: per un lungo attimo. Subito la finestra rimane vuota e tetra più del muro di blocchi di pietra. E là dove è buio c’erano due occhi giovani di donna». Mentre cambia il tono per un croquis russo malinconicamente allegro: «Durante il viaggio ci fermammo un paio di volte per muovere le gambe indolenzite e cercare acqua per la bocca arsa e polverosa. In un villaggio abbandonato c’erano migliaia di oche che sguazzavano negli stagni e scendemmo velocemente a far bottino poiché eravamo anche senza viveri. Mentre i camion correvano nella steppa, noi, dentro i cassoni e tra i sobbalzi che ci facevano sbattere uno contro l’altro, spennammo le oche. E lungo la pista, come leggeri fiocchi, restavano nell’aria le piume bianche». D’altra parte Rigoni Stern ci tiene, pure tra questi racconti, a farci sapere della sua onnivora fame di lettore di classici moderni, russi, francesi, inglesi, che divora, metabolizza, assimila in un’altra «cosa», nel suo inconfondibile stile. Non si sentono mai citazioni esplicite. Lui prosegue col suo passo, col suo ritmo dettato da un andamento pronto, di proposizioni brevi, asindetiche o paratattiche per lo più, senza alcuna ricerca di effetti speciali, perché gli effetti sono nelle cose, nella storia. Ha letto Stendhal e Tolstoj, dunque, ma a un tratto, inatteso, mi pare di veder comparire Braudel, nella microstoria della Ricostruzione dell’Altipiano di Asiago (1919-1921), un saggio di storiografia da Annales, attorno al lavoro, spesso intralciato dalla piccola burocrazia, per rimettere in piedi le case dei paesi che la guerra aveva ridotto a un’unica grande rovina. In queste pagine ritrovo ancora una volta il vero Rigoni, tutto preso dai fatti senza stravolgimenti sentimentali. In lui rileggo gli storici della classicità, però senza eroi e senza generali, semmai con personaggi minori come don Giuseppe Rebeschini, preti che mi ricordano quelli auspicati da Ippolito Nievo per le sue campagne. La radiografia dell’Altipiano dice: «A Gallio sono un centinaio coloro che hanno presentato la domanda per il risarcimento danni, solo sei hanno avuto gli acconti; cinquecento sono le domande da presentare; sono state ricostruite quaranta case, ne rimangono da costruire quattrocentocinquanta». I numeri sostituiscono con miglior efficacia metafore, allegorie, figure retoriche. «Prima dell’esodo c’erano duemila animali bovini, cinquemila ovini, trecento equini, mille suini, ora in tutto gli animali sono trecentocinquanta». Mi avvicino alla conclusione della mia lettura, il cerchio si chiude e tende a saldarsi col principio, mi ripropongo le stesse domande: cos’è e perché la guerra, visto che la guerra è il tema ambientale di tutti i racconti. Io non so darmi ancora risposte convincenti se non dagli effetti, di una natura nemica, a dimostrazione dell’origine scarsamente divina dell’uomo (o troppo umana della divinità). È il problema sotteso che accompagna tutto intero questo volume. Cos’è, perché? Dire che il male, in assoluto, è dunque una forma analogica, abbondantemente ambigua, perché si rischia con quell’«assoluto» di farne un’invenzione divina. Così aprendo un contenzioso angosciante come la teodicea: è possibile che Iddio abbia creato il male e possano coesistere Dio e il male, due assoluti antagonisti? È da qualche millennio che ci si rompe il capo su questo quesito e se lo pone implicitamente anche Rigoni, per via della insondabilità certa delle ragioni, contraddittorie: «Quando una guerra inizia gli uni e gli altri contendenti inneggiano alla sicura vittoria, gli uni e gli altri invocano Dio con loro e la benedizione delle armi. Così dalle origini, perché ogni avversario si ritiene dalla parte della giustizia. Con il passare del tempo nel conflitto, i più ragionevoli e razionali hanno dei dubbi; incominciano la stanchezza, il desiderio di farla finita. Ricordo quel freddissimo gennaio del 1942 quando una tradotta mi portava verso il fronte russo...» Unica realtà certa è l’orrore per le azioni immotivate che si compiono. Il motto di un reggimento alpino diceva «Pietà l’è morta» e la pietà sembra essere ufficialmente la grande assente, almeno per quanto riguarda gli stati maggiori. Nei racconti di questo libro gli esempi di comportamenti tra idioti e criminali sono numerosi. Finché non intervengono le vittime a ripristinare equilibrio e onestà. Il caso di Caporetto nel 1917 è solo il più clamoroso, che anche da Rigoni è riproposto come la rivolta delle vittime di Cadorna e del re. Bisognerà pur dare una giustificazione plausibile e sana alla richiesta di morire all’assalto, specie quando l’assalto non è necessario e, peggio, è frutto di un errore. Quanti muoiono di insipienza tattico-strategica!?
È qui, a mio vedere, che si manifesta la consistenza di tutta l’opera rigoniana, che va sì indicata nella rara limpidezza della sua scrittura, ma più ancora nella tensione etica che la pervade e che pone Rigoni Stern al di sopra della maggior parte dei narratori italiani, assieme ai suoi amici Levi e Revelli. Questo è un punto fondamentale, è il discrimine di valore che dovrebbe accompagnarci nelle nostre letture. È la ragione stessa per cui si scrive o si dovrebbe scrivere (voglio evitare il termine «missione» perché fonte di equivoci eccessivi, benché sia appropriato), per essere testimone in modo che la testimonianza sia utile. Utile a chi, seguendo la classica formula dell’«insegnar dilettando»? Insegnar cosa, utile a chi? Pedagogismo antiquato? No, dignità umana e consapevolezza. Mi pare che sia la suprema, davvero, funzione della letteratura questo «dare la voce a chi non poteva più parlare». Raccontando della guerra ’15-’18 Rigoni Stern individua e indica il suo interlocutore, colui per il quale egli scrive, il giovane: «Se noi allora giudicavamo così una cosa vicina e dalle mie parti tragicamente vissuta, come giudicherà un ragazzo d’oggi gli avvenimenti che nel 1939 cominciarono a insanguinare prima l’Europa e poi tutta la terra? [...] e non per fare prediche inutili, ma solamente per capire e far capire. Fermiamoci allora cinque minuti a pensare, ora che si corre così in fretta senza sapere dove». Accadrà che quel giovane, comparando le cose che legge con quelle che vede quotidianamente attorno a sé, riversategli addosso dai telegiornali, si renderà conto dell’attualità di questi racconti. Si renderà conto, insomma, che il 25 aprile 1945 è in realtà la data di inizio della terza guerra mondiale calda o fredda che sia. Con un continuo discorso etico presente il nostro autore ci offre già un antidoto contro i veleni d’oggi. Egli ci ha insegnato come vada giudicata la guerra dai suoi effetti e dalle sue effimere cause, quanto sia umanamente scandalosa.

© 2007 e 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

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