L'opera ossessionata di Patricia Highsmith

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di Debora Lambruschini

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Patricia Highsmith, scrittrice schiva, americana trapiantata in Europa dove i suoi thriller psicologici sono sempre stati accolti con particolare favore, molto spesso trasposti in versione cinematografica. La Nave di Teseo ha iniziato la ripubblicazione di tutte le sue opere in edizioni rinnovate e, in questo lavoro di recupero, trovano quindi spazio anche le prose brevi di Highsmith, scritte fra il 1935 e il ‘68, e riunite nella raccolta Donne pubblicata a fine Gennaio. Sedici racconti noir, così li definisce l’editore, in cui si riconoscono moltissime delle ossessioni intorno a cui Highsmith costruirà la sua carriera letteraria a partire dal romanzo d’esordio, “Sconosciuti in treno”, dal quale verrà tratto il celebre film di Hitchcock per la sceneggiatura di Raymond Chandler; un successo di pubblico – la critica, specie quella statunitense, è sempre stata più tiepida nell’accogliere l’opera di Highsmith – cui seguirà la serie dedicata al suo personaggio più iconico, Tom Ripley, anche questo portato sul grande schermo in varie versioni. Autrice prolifera, personalità riservata e sfuggente, eccentrica e morbosa a tratti, Highsmith aveva trovato a Locarno, in Svizzera, il rifugio ideale per ritirarsi dal mondo e concentrarsi soltanto sulla sua scrittura, dopo che dal Texas era prima giunta a New York e poi in Europa.

 La passione letteraria scoperta presto, durante gli anni dell’università e, soprattutto, la costruzione di una voce, uno sguardo propri: laddove alcuni scrittori sperimentano e cambiano prospettiva a ogni nuovo libro, Highsmith si colloca invece tra coloro che seguono fedelmente le proprie ossessioni, le rielaborano e scandagliano un libro dopo l’altro, costruendo così un universo letterario coeso, abbondante di rimandi, riconoscibile. Un approccio che può diventare limitazione o al contrario, in qualche fortunato caso, la base solidissima su cui ergere i propri edifici narrativi. Penso per esempio a Richard Yates che delle crepe sulla facciata ha fatto il proprio universo letterario con risultati magistrali, scrivendo e riscrivendo, in fondo, sempre la stessa storia ma caricata di volta in volta di abissi umani e narrativi, con una lingua cesellata con cura artigiana. Come lettori noi pure nutriamo le nostre ossessioni, tornando volontariamente o meno a scritture e tematiche che toccano corde particolari e nel constatare dall’altra parte, negli autori, simile abbandono all’ossessione c’è un che di rassicurante, una sorta di riconoscimento e connessione.
Patricia Highsmith ha vivisezionato le proprie ossessioni in ogni scritto, in romanzi e racconti non sempre pienamente riusciti, ma dentro ogni pagina la sua voce è riconoscibile e si inserisce nel suo mondo letterario fatto di continui rimandi, spunti, inquietudini.
In questo contesto, quindi, si inseriscono anche i racconti di “Donne”, pubblicati su rivista e per lo più inediti in Italia, affidati alla traduzione di Hilia Brinis, Lorenzo Matteoli e Sergio Claudio Perroni, in cui le figure femminili del titolo – anche quando non direttamente protagoniste delle storie – rappresentano l’increspatura del quotidiano, la chiave di volta. Ma la parola cardine con cui interpretare queste storie è, prima di tutto, “cambiamento”: i personaggi in scena sono mossi da un desiderio di mutamento, di fuga talvolta, dalla possibilità di ricominciare. Un cambiamento che tuttavia si scontra con la realtà, con i limiti della propria posizione, con l’increspatura, si diceva, che annulla le possibilità. Negli altri, estranei le cui vite brevemente si sfiorano, i personaggi di Highsmith intravedono ciò che anelano per sé stessi ma non riescono mai pienamente a possedere; si rivelano tutte le crepe lungo la facciata, il sogno che contrasta con la realtà, l’immaginato con la vita. Ad attraversare storie e romanzi di Highsmith, quella familiare sensazione di inquietudine, il dubbio, l’ambiguità, il senso di pericolo, di cui anche questi racconti sono intrisi. La scrittura di Highsmith non ha mai temuto di esplorare le zone più buie dell’animo umano, quegli stessi tormenti che qualche volta le sono costati in critiche feroci, sottolineando perciò come «art has nothing to do with morality, convention, or moralizing» (“Plotting and Writing Suspense Fiction”), e continuando in ogni scritto a scandagliare la natura di colpa e innocenza, bene e male, i confini labili di entrambe.

Ecco, quindi, come un quadro all’apparenza ordinario, pacificato, rivela improvvisamente il carico di solitudine, pericolo, lo «scricchiolio della realtà» di un dettaglio che muta completamente il corso del racconto e della nostra stessa percezione.
È la sensazione di profonda solitudine ciò che per prima avvertiamo entrando in certe storie, l’estraneità e il vuoto: di una bambina da poco trasferitasi in città insieme ai genitori che si scontra con l’indifferenza e l’ostilità, di una comunità che giudica, isola e non perdona, di una donna che ha già vissuto molte vite e tenta di liberarsi, di esistenze che si incrociano e sfiorano:

 

C’era, nelle cose semplici che ognuno di loro tre aveva fatto quella mattina, un elemento di dramma iniziale che l’avrebbe fatta ridere se non ci fosse stato anche il senso della loro solitudine. La sensazione di quella domenica sarebbe rimasta con lei per tutta la vita. Questa stanza, indifferente alla loro presenza come tutto il Nord […. ]

(“La campionessa del mondo di rimbalzi sul marciapiede”, p. 13)

 

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Due mondi che si intersecano, il confine tra giusto e sbagliato sempre più evanescente, sono il centro nevralgico di ogni narrazione di Highsmith: Sconosciuti su un treno, Il talento di Mr Ripley, Carol e parte dei racconti contenuti in questa raccolta sono esemplificativi di tale ossessione narrativa, cui ogni volta Highsmith attinge, mostrandoci l’ambiguità del quotidiano, le sue contraddizioni, la natura di colpa e innocenza, la perdita di sé stessi dentro regole e stereotipi.
Ambientati tra New York e sobborghi, i racconti di “Donne” – alcuni scritti agli inizi della sua carriera professionale – rappresentano quindi un punto di osservazione interessante del percorso letterario di Highsmith e, tra questi, ve ne sono alcuni particolarmente riusciti, laddove la scrittura viene pienamente liberata, e svicola da ogni regola e convenzione stereotipata, creando atmosfere di potente ambiguità, efficaci spazi bianchi nella narrazione.

 

D’improvviso, mentre si rannicchiava nel vano della finestra, la cittadina parve stringersi, gelida e ostile, intorno a lui.

(“Mattinate radiose”, p. 55)

 

Qui, nei racconti e nei romanzi dove lo sguardo dell’autrice cala in profondità, la pagina si fa carne e sangue, l’ambiguità di quanto leggiamo provoca squarci, certezze e rassicuranti istante vacillano.

Imperfetta e altalenante negli esiti, l’opera di Patricia Highsmith mostra ancora numerosi spunti di riflessione importanti, spesso messa in ombra dall’interesse per la sua autrice, le bizzarrie, le posizioni personali. Un peccato, perché è tra le pagine, i romanzi e le storie, che esiste tutto ciò che conta di un autore.