Il permaloso novelliere John O’Hara

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di Stefano Friani

Quando nel 1960 John O’Hara ritorna fatalmente e dopo una lunga assenza a pubblicare col New Yorker lo fa con una novella, la seconda della trilogia Prediche e acqua minerale, inaugurata da La ragazza nel portabagagli (traduzione di Vincenzo Mantovani, Racconti, 2019). Nel giro dei tre anni successivi O’Hara riscoprirà una vena aurea apparentemente inesauribile trovando che «nessun’altra scrittura gli riuscisse così semplice» e inonderà con un centinaio di storie la redazione e soprattutto il malcapitato editor William Maxwell – altro raccontista finissimo che all’epoca si ritrovava a maneggiare i testi dei tre John della short story: O’Hara, Updike e Cheever. Quasi una linea dinastica di scrittori che si sono passati il testimone nel descrivere i sobborghi felici e i prati falciati di fresco dell’America novecentesca.
Erano più di dieci anni che O’Hara non frequentava così assiduamente la forma breve e la cosa non poteva che rinsaldare il traballante rapporto con la rivista che nel corso di quarant’anni gli pubblicherà il record irraggiungibile di 247 racconti, contribuendo per sempre a definire il canone della tipica short story del New Yorker. Prima di Pensando di baciare Pete – questo il titolo della seconda novella – c’erano stati diversi screzi che il permalosissimo O’Hara aveva cullato accumulando rancore: un paio di brutte recensioni al suo secondo romanzo Venere in visone e al successivo Smania di vita, ma anche il rifiuto da parte del New Yorker di corrispondergli un compenso qualora un racconto appositamente concepito per la rivista fosse stato scartato. Si bullava di scriverne uno in un paio d’ore scarse, ma se poi gli venivano rifiutati aveva difficoltà a piazzarli altrove. Per non dire poi della sofisticata e guerreggiata strategia tit for tat che adottava con gli editor della rivista: sempre Maxwell, che era più giovane di una generazione e mezza, ricorda come fosse stato rintuzzato al suo posto per aver osato questionare l’utilizzo reiterato di certe didascalie a suo dire «manieristiche»; O’Hara gli aveva fatto recapitare una minuziosissima lettera in cui difendeva la sua estetica in toni tutt’altro che mansueti. Qualche anno prima sarebbe stato anche più intransigente: in un bar una volta aveva mandato al tappeto con un cazzotto Robert Benchley, un altro giornalista del New Yorker, senz’alcun motivo, un po’ come fa in Appuntamento a Samarra il protagonista Julian English con l’irlandese Harry O’Reilly. A sua discolpa c’entrava come spesso gli capitava in quegli anni l’alcol e il giorno dopo l’aveva chiamato per scusarsi. Benchley la prese sportivamente: «Nessun problema, John. Lo so che sei uno stronzo». Non era forse un caso che fosse cordialmente detestato da chiunque dovesse lavorargli accanto, un po’ come Roald Dahl alla Knopf.
D’altronde John O’Hara è sempre stato un autore che doveva mantenersi con la macchina da scrivere. Figlio di un medico di provincia, come Hemingway, alla morte del padre si era ritrovato in giovane età a fronteggiare un mare di debiti e impossibilitato a frequentare le tanto favoleggiate università della Ivy League. Se ne farà una malattia. Diventerà ricco e riconosciuto ma mai abbastanza, girerà in Rolls Royce aspettando un Nobel che non arriverà mai, e avrà sempre questo tarlo che lo rode dentro, una volontà di rivalsa che gli alienerà simpatie e amicizie, ma non certo lettori.
Se anche storicamente a venire ricordati sono più i suoi racconti che non i romanzi, qualche soddisfazione in quel campo l’ha avuta: il National Book Award a Ten North Frederick (di prossima ripubblicazione con Bompiani), le molte trasposizioni sul grande schermo dove i suoi personaggi venivano da incarnati da volti come Gary Cooper e Elizabeth Taylor, Frank Sinatra e Rita Hayworth. In controtendenza sarà William Vollmann a distanza di anni a scrivere che è nella forma lunga che O’Hara trova la sua migliore espressione, poiché nel suo essere più aristotelico e controllato nei racconti sembrava però trascurare quell’iniezione vitale di empatia necessaria a simpatizzare coi personaggi. Sempre Vollmann arriverà a dire che nel metodo – per quanto distanti ideologicamente – O’Hara era quasi marxista: un indagatore delle strutture e sovrastrutture sociali capace di sondare gli umori degli americani nei bar clandestini fino ai club per ricconi, con un orecchio tutto particolare per il dialogo e per la mimesi dei tic del parlato. Le sue ossessioni erano sempre presenti nei testi che produceva a un ritmo infaticabile – sedici romanzi, quattrocento racconti, un’infinità di corsivi al vetriolo e una manciata di sceneggiature per Hollywood e Broadway. Ci sono i cocktail consumati al circolo di Lantenengo Street o negli speakeasy attorno a Times Square, le macchine come status symbol descritte fin nel dettaglio più insignificante oppure addirittura le barche: Avrei potuto avere uno yacht si intitola uno dei racconti. Eppure nella stroncatura post-mortem che gli dedicherà proprio dalle pagine del New Yorker Harold Brodkey si dirà che la sua capacità di analisi sociale non era certo profonda quanto quella di un Theodore Dreiser o di un Faulkner e che il nostro, roso dal livore del cattolico in un’America protestante, mancava di empatia quando doveva scrivere i suoi personaggi wasp.
Ma se Lovecraft aveva la sua Arkham, Stephen King Derry e Castle Rock, Fitzgerald West Egg, nessuno come John O’Hara si è davvero preso davvero la briga di disegnare una cittadina fatta e finita: la Gibbsville, in Pennsylvania, che rispecchia la sua Pottsville d’origine e prende il nome dal suo primo editor e amico al New Yorker, Walcott Gibbs. In questo diorama sono ambientati cinque romanzi e oltre cinquanta short stories, con personaggi che ritornano e ritroviamo, come la Caroline English evocata in La ragazza nel portabagagli, protagonista di Appuntamento in Samarra e comparsa in Venere in visone. Gibbsville sta appollaiata all’ombra degli Appalachi, nel distretto dell’antracite patria di quella disillusa working class di origine scoto-irlandese che molti anni dopo volterà le spalle allo storico voto democratico e farà pendere l’ago della bilancia delle presidenziali per Trump. Difficile che il risentimento anti-establishment dei nostri giorni sia quello che animava la penna di O’Hara, per quanto come il suo doppio Jim Malloy, il protagonista dei racconti di Prediche e acqua minerale, anche per lui la strada sia sempre stata in salita.
Lo incontriamo che scrive coccodrilli per gente che ancora deve finire la sua corsa Jim Malloy, è così che inizia La ragazza nel portabagagli, un pubblicitario che alza il gomito e per campare si ritrova costretto a scarrozzare un’attrice sul viale del declino. Malloy è uno che sa stare al mondo e sa qual è il proprio posto, ma non s’è rassegnato, proprio come il suo creatore: John O’Hara.

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