Nell'antro dell'alchimista, di Angela Carter

Autore: Angela Carter Titolo: Nell’antro dell’Alchimista Editore:  Fazi Editore Traduzione: Angela Tranfo, Cristina Iuli, Barbara Lanati e Rossella Bernascone pp. 392    Euro 17,50

Autore: Angela Carter
Titolo: Nell’antro dell’Alchimista
Editore: Fazi Editore
Traduzione: Angela Tranfo, Cristina Iuli, Barbara Lanati e Rossella Bernascone
pp. 392 Euro 17,50

di Debora Lambruschini


Tremate tremate, la strega è tornata. Angela Carter, autrice eclettica, anticonformista, irrequieta, a distanza di quasi vent’anni dalla sua precoce scomparsa non smette di far sentire la propria voce, ancora così forte e sperimentale. Se nel panorama editoriale italiano se ne erano un po’ perse le tracce, le recenti traduzioni dei suoi racconti ad opera di Fazi hanno nuovamente portato il nome di Carter in circolo, fra critici e lettori ammaliati dalla scrittura barocca, la mescolanza di lirismo e dialogato, dramma e commedia e, soprattutto, la chiave femminista con cui leggere ogni sua storia. La ricostruzione bibliografica della produzione breve di Carter è iniziata lo scorso anno con la pubblicazione di Nell’antro dell’alchimista, che comprende le prime tre raccolte dell’autrice: Primi racconti, con scritti che vanno dal 1962 al ’66, Fuochi d’artificio, del 1974, e La camera di sangue e altri racconti, del ’79; a questo si è di recente aggiunto il secondo volume, che riunisce le raccolte Venere nera del 1985, Fantasmi americani del 1993, più alcuni racconti sparsi scritti fra gli anni Settanta e Ottanta. Una polifonia e ricchezza narrativa adeguatamente resa dalla traduzione a più voci, affidata ad Angela Tranfo, Cristina Luli, Barbara Lanati, Rossella Bernascone (quest’ultima, insieme a Susanna Basso aveva già lavorato sul primo volume), che si sono confrontate con la scrittura visionaria e stratificata di Carter, riuscendo a renderne la varietà stilistica senza perdere in unitarietà di fondo. Leggere Carter, anche nella puntuale traduzione italiana, non è impresa semplice: lo stile fastoso, la lingua strabordante, le contaminazioni, la miriade di rimandi e chiavi di lettura a tratti ne appesantiscono la scrittura; ma concedendosi il giusto tempo di lettura, lasciando sedimentare i racconti e calandosi nell’oscurità di queste storie prive di protezione e pregiudizi, ecco che si compie la magia della scrittura. Oggi, che abbiamo a disposizione in italiano entrambi i volumi, ci è possibile seguire le mutazioni della fantasia carteriana e individuarne ossessioni, rimandi, spunti ricorrenti. Appare evidente come il fil rouge che lega tutte le storie – ma potremmo anche spingerci a dire tutta la produzione letteraria e giornalistica di Carter – sia la riflessione sulla femminilità: vergini ingenue, streghe, vampire, mogli oppresse, figlie assassine, ragazze abusate, madri salvatrici, amanti abbandonate, sono le mille incarnazioni delle donne di Carter, attenta a raccontare una femminilità non stereotipata, indagando le pieghe più oscure dell’animo umano, il desiderio, la brutalità.

 

È tanto bella da essere innaturale; la sua bellezza è un’anomalia, una deformità, perché nei suoi tratti non vi è traccia di quelle imperfezioni commoventi che sanno riconciliarci con i difetti della condizione umana. La sua bellezza è sintomo della sua alterazione, della sua empietà.

(p. 323, “La signora della casa dell’amore”, Nell’antro dell’alchimista volume I)

 

Addentrarsi nell’antro dell’alchimista significa lasciare fuori ogni pregiudizio e perbenismo, per ritrovare una dimensione in cui non esiste nulla di indicibile, inenarrabile e dove innumerevoli sono le maschere indossate dai personaggi in storie in cui quasi nulla è ciò che appare, e i mostri, quelli veri, molto spesso sono semplici esseri umani.
Come spesso succede nelle raccolte, non tutti i racconti sono all’altezza delle aspettative. La seconda è forse nel complesso la più debole fra le due. Eppure, vi sono in entrambe racconti che da soli varrebbero lo sforzo, che continuano a ossessionare il lettore che vi è inciampato. La camera di sangue, dalla raccolta omonima, è senza dubbio il capolavoro della produzione breve di Carter, in cui si intrecciano tematiche e spunti cari all’autrice: il richiamo del gotico inglese, la violenza e l’orrore, l’erotismo, la solitudine lacerante della protagonista, l’oppressione patriarcale e una tensione crescente con cui inchioda alla pagina. Scomporre il racconto alla ricerca di tutti gli spunti e le influenze su cui saldamente poggia, rimanderebbe a una tradizione che affonda le radici nelle fiabe gotiche, negli sperimentalismi della fin de siècle e, tra i tanti, nel meraviglioso e angosciante racconto The Yellow Wallpaper di Charlotte Perkins Gilman, dalla similare rappresentazione di un sistema patriarcale e un matrimonio sempre più opprimenti. Ecco che da queste radici si sviluppano i racconti di Carter e la rappresentazione di una femminilità piena di ombre, selvatica, forte, spesso brutale. Ne è massima espressione la giovane protagonista di Delitto con accetta a Fall River, il cui intento omicida è chiaramente espresso fin da principio; Lizzie, giovane e all’apparenza innocente, nell’istante prima di uccidere la propria famiglia. Ma inutile aspettarsi una qualche consolazione, una giustificazione possibile per la violenza che andrà a consumarsi entro quelle mura opprimenti, Carter non fa sconti e rinchiude il lettore dentro quella casa di porte sbarrate, claustrofobica, intollerabile:

 

È una casa tappezzata di porte chiuse a chiave che si aprono su altre stanze unicamente attraverso altre porte chiuse a chiave perché, sia al piano di sopra che a quello di sotto, tutte le stanze sono collegate l’una all’altra, come un labirinto in un brutto sogno.

(p. 143, “Delitto con accetta a Fall River”)

 

La scrittura indaga le ombre, si sporca le mani, abbonda di erotismo, bestialità – talvolta mostrata, altre solo insinuata - , di visioni, senza concedere sconti o consolazioni. Racconta i mostri che hanno il volto di uomini e donne, i segreti e le pulsioni più oscure – l’incesto, un altro tema ricorrente, nella seconda raccolta pienamente svelato nel racconto Peccato che sia una puttana di John Ford – plasmando la lingua a proprio piacimento, giocando con punti di vista, luoghi e tempi narrativi. Rilegge le fiabe, riporta in vita i fantasmi di Poe e Baudelaire, le apparizioni, i sogni, mescolando storia e finzione.

 

A quel punto, sotto lo sguardo sconvolto dei figli, prese a smaterializzarsi poco per volta. A sfarsi. Perse tutt’a un tratto i contorni della figura e cominciò a vacillare leggero nell’aria. Era il tramonto. La mamma dormiva sul letto con un bocciolo fresco di carne, color della malva, poggiato in un cestino, sulla sedia accanto al letto. Fu l’inizio dell’assenza e l’aria rabbrividì.

 (p. 71, “Il gabinetto del dottor Edgar Allan Poe”)

Un’autrice di culto che, pur nelle debolezze e mancanze, ci ricorda il tratto primario della narrativa e uno dei tratti peculiari della short story: sperimentare, spingere il lettore a uscire dalla propria personale comfort zone. Dire l’indicibile.

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