Dalla Munro alla Hempel: l’arte del racconto secondo Joy Williams

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di Fabrizia Gagliardi

Vedo questa donna dai capelli di fieno. Porta occhiali scuri ma dalle increspature del viso so che sorride. Ha impiegato un po’ per scendere dalla sua Ford Bronco perché aveva due figure nere e scodinzolanti da tranquillizzare. A malincuore ha lasciato i suoi pastori e pregusta già il momento in cui rientrerà. Una delle sue regole è avere sempre un animale nel racconto per dare ai personaggi la sua benedizione, un’innocenza ingenua e del tutto in contrasto con la volontà umana. Siede al tavolo, ordina la colazione e scrive. Sa tutto di una vita che non è la sua. Allo stesso modo divora le strade statunitensi, tra Arizona, Florida e New England, ospite di università e di motel.
Quando una volta le chiesero di raccontare il proprio mestiere si mise a parlare delle sottilette Kraft. E poi, continuando, disse che a guidare i grandi autori non è la tecnica ma il desiderio. Secondo Joy Williams una parte imprescindibile dell’essere scrittori americani è «assorbire l’esperienza americana, assorbire il calore, l’imprudenza, la spietatezza e la piccolezza dell’America, come anche il suo ottimismo e il suo sentimentalismo pericoloso». È stata proprio lei a darne un esempio ne L’ospite d’onore, una raccolta di 46 racconti pubblicata da Edizioni Black Coffee con la traduzione di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti.
Nell’affresco della Williams la natura nomade dell’identità americana è in divenire in ogni racconto. Indipendentemente dal sesso e dall’estrazione sociale dei protagonisti, i ritratti, diversi l’uno dall’altro, quasi discordanti nelle storie raccontate, si uniscono in un unico coro per l’inno alle avversità. I personaggi sono l’esperienza umana così scarna nella sua verità da non condurre mai a una risoluzione vera e propria. C’è chi, come il critico James Wood, apprezza l’essenza così canonica e quotidiana dei protagonisti della Williams da trasformarli in tante piccole particelle elementari che diventano la componente principale di quella materia nascosta, universale, reale, da scovare in ogni motel o cittadina americana.
La volatilità dei nomi che ricorrono da un racconto all’altro annulla il destino nominale e compone una mappa impazzita di solitudine, alcolismo, dolore e rimorso. La piccola Lizzie di Fughe è alle prese con la dipendenza della madre, la Lizzie di Ruggine contempla l’auto di suo marito, un uomo molto più grande di lei, che diventa spettro di un disagio più profondo.

«La narrativa riguarda tutto ciò che è umano, e noi siamo fatti di polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi non dovreste tentare di scrivere narrativa»

così Flannery O’Connor ribadiva la priorità dell’esperienza. Il fatto che la narrativa sia concreta, però, non giustifica uno scrittore che se ne lascia inghiottire. La contemplazione non deve essere partecipata, ma defilata in una posizione al di fuori della cornice del quadro, ancora più ai margini degli emarginati. Per Joy Williams c’è qualcosa di malsano e distruttivo nell’intero processo di scrittura, perché lo scrittore è un “agente trasfigurante”, un codificatore della realtà senza adesione. È vero che finirà per stabilire il contatto con i lettori, ma non è il suo obiettivo ultimo: lui serve qualcosa che è protetto «dalle ali del nulla».

Flannery O'Connor

Flannery O'Connor


Il nulla americano che si rintraccia nei suoi racconti è quel momento di svolta attorno al quale ruota un paradosso temporale. La brevità del racconto ritrae anni come attimi e secondi come interminabili anni. Non è detto che la svolta si svolga al presente: a seconda della sua collocazione nella storia può assumere nomi come rimorso, rimpianto o occasione. Prendendo Riguardati, il racconto che apre L’ospite d’onore, il meccanismo è immediatamente chiaro:
In ospedale sua moglie aspetta di essere decifrata, non più una donna, la donna che lui ama, ma una situazione. Il suo sangue si muove misterioso come costellazioni. È sotto osservazione, sotto attacco, e ha abbandonato James. È una nuotatrice che attende di poter continuare ad affogare. Jones è sulla battigia. In Messico sua figlia cammina sulla spiaggia con due uomini. Mette in scena una recita diventata ormai la sua vita. Jones è sulla vetta della montagna.
La contemporaneità è divisa in tre persone che, però, vivono lo stesso attimo anche se dovessero viverlo in diversi momenti. Ne L’escursione l’espediente temporale assume una vera e propria caratterizzazione stilistica: il susseguirsi di frasi in contrapposizione sinestetica che in altri racconti si palesava nella lingua («L’aria sembra distante, usata») qui contagia il tempo della prosa sdoppiandolo in due dimensioni. La storia della Jenny bambina, di quell’esperienza caratterizzata da piccoli drammi che oscurano per un momento la felicità infantile, passa a una vita adulta alle prese con la maturità brusca e mortale di un uomo. Le due storie procedono parallelamente collegandosi grazie a piccoli punti di raccordo.
Jenny si sveglia piangendo e si precipita nella stanza dei genitori. Non sa che ore siano. Non è sicura di trovarli. Invece sì che li trova. Jenny è soltanto una bambina […] Jenny si sente crescere e ha paura di crescere troppo. Dopo essere stata confortata torna nella sua stanza stringendo un fiore tra le dita.
All’uomo piacciono i fiori, ma non l’immaturità di Jenny. Le sfila la camiciola di maglia sottile. Le posa dei fiori tra i seni, tra le gambe. La casa è colma di fiori. Siamo in Messico ed è il Giorno dei Morti. Milioni di calendule sono state intrecciate alle trame dei tappeti e depositate sulle tombe. Jenny sente dolore alla bocca, allo stomaco. No, all’uomo la sua maturità non piace. Le si inginocchia accanto, le mette le mani sui fianchi e la costringe a guardare la sua faccia calda, impassibile.

Se la narrativa deve essere concreta e ricercare il contatto dei lettori in una reciprocità che si stabilisce in modi misteriosi, a rendere particolare la narrazione non è solo la storia ma soprattutto il modo di raccontarla. A questo punto sembra d’obbligo una breve incursione nel racconto femminile per capire dove si colloca Joy Williams.

«Diversamente da quanto accade a molti altri scrittori, che trovano logico organizzare i ricordi, il pensiero, il comportamento e le azioni in una forma lineare, a me interessa riportarli a una scrittura frammentaria» afferma Amy Hempel, altra maestra americana del racconto dalle sfumature maggiormente minimaliste della Williams. La predominanza dell’ordine cronologico ingabbia la verosimiglianza, ma nessuna verità è ordinata. Quando Amy Hempel incontrò Gordon Lish per la prima volta l’imperativo dell’editor la colse in pieno: «scrivere il peggior segreto», la cosa che avrebbe demolito il senso di se stessi. La rivisitazione autobiografica non è affatto un omaggio cieco al mondo del lettore, si collega, anzi, al modo di scrivere che diventa analogo alla vita stessa. I suoi racconti si compongono di una sintassi contratta e tronca quando devono alludere al significato complessivo. La conclusione di Fine settimana, una racconto di poco più di una pagina, contenuto in Ragioni per vivere recita così:

Poi i bambini andarono a letto o se non altro andarono di sopra, e gli uomini si unirono alle donne per una sigaretta in veranda, staccando distrattamente le zecche gonfie come uva dal dorso dei cani addormentati. E quando gli uomini diedero alle donne il bacio della buona notte, graffiando le loro guance con la barba da fine settimana, le donne non pensarono raditi, pensarono: resta.

Amy Hempel

Amy Hempel

Grace Paley è stata un’altra anima intimamente rivoluzionaria nella vita e nel racconto che ha affrontato con ironia e amarezza tutte le implicazioni di essere donna. Nei racconti degli inizi di Contrattempi del vivere, giovani bambine alla scoperta del loro essere donne conoscono l’illusione dell’amore e l’amaro per le piccole delusioni. Sprazzi di Bronx e Lower East Side sono lo sfondo di una solidarietà femminile che spesso si svolge nell’ironia dell’amicizia, nel dolore della morte di una cara compagna o nell’illusione di un uomo.

Grace Paley

Grace Paley

Nel novero della scrittrici che hanno costruito mondo e stile sull’impalcatura della vita c’è anche Lucia Berlin, portata per la prima volta in Italia da Bollati Boringhieri poco tempo fa con La donna che scriveva racconti (traduzione di Federica Aceto). In uno dei suoi racconti confessa: «L’unico motivo per cui ho vissuto tanto a lungo è che ho lasciato andare il passato. Ho chiuso la porta in faccia al dolore, al pentimento e al rimorso» e l’ha aperta alla narrativa. I suoi racconti sono l’eterno ritorno di vicende di vita che ogni volta assumono conclusioni diverse. Si aprono all’interpretazione allargando le possibilità di un’unica vita in maniera inedita rispetto al romanzo. Si legge di donne delle pulizie, madri alcolizzate, dipendenze, e tutto è raccontato dalla parte di chi ha vissuto tutto questo.

Lucia Berlin

Lucia Berlin

Alice Munro è la maestra che ha saputo sfruttare a pieno il potere del racconto. Sin da In fuga l’esplorazione delle relazioni umane passa per la vita quotidiana. Leggiamo la conclusione, ma niente sarà più importante delle strade per arrivare. La Munro rovescia l’impianto narrativo canonico della sequenzialità cronologica facendo emergere dai personaggi e dal paesaggio i segni di uno sviluppo intimo e naturale.
Dopo aver attraversato il minimalismo e le potenzialità salvifiche - e maledette - del racconto è il caso di nominare un’ultima valida rappresentante del racconto femminile. Le storie di Flannery O’Connor sono abitate da personaggi di umili origini nella cui vicenda si verifica un avvenimento che è in grado di spazzare via il mondo razionale per accogliere il mistero. Il contrasto tra il presente e il passato prima dello sconvolgimento sono tali da convertire la vittima che, anche se colpevole, si lascia travolgere dalla contemplazione del disastro, come se fosse una forma di redenzione.

Alice Munro

Alice Munro

Il mistero del nulla

Dove va a collocarsi Joy Williams in tale contesto? Mi chiedo, cioè, lo scopo della sua scrittura, e qual è il significato del nulla da lei cercato. Abita il realismo americano con le altre esponenti del racconto, ma lo fa in un modo del tutto personale. Joy Williams attraversa quello di cui parlava Carver quando affermava che «per scrivere un romanzo, mi sembrava, uno scrittore dovrebbe vivere in un mondo dotato di senso, un mondo in cui poter credere, da poter mettere a fuoco per bene e su cui poi scrivere accuratamente». Il romanzo vuole esserti amico, dice la Williams, il racconto no, perché nel romanzo la consuetudine del personaggio e dell’ambiente attecchiscono nel lettore per stimolare la familiarità. Il racconto dimezza il tempo, ingrandisce l’obiettivo fino a sgranare l’immagine ed esclude molti dei particolari che nel romanzo avrebbero occupato più spazio.
Le storie della Williams sono sporche perché non hanno il respiro profondo e riflessivo di una narrazione unica, che darebbe ai personaggi troppo tempo per rimediare. Non c’è niente di risolutivo negli indizi disseminati, solo un senso di inevitabile e tragica umanità. Esercitare l’arte dell’interpretazione con i racconti della Williams significa privarli dell’universalità con cui sono stati creati. Si offrono alla lettura personale ma si allontanano dall’imposizione di un’unica visione per rimanere profondamente sconosciuti. A titolo di esempio basta prendere la struttura tripartita che divide il punto di vista anche in presenza di un unico narratore.
In Pastore la morte del pastore tedesco suggerisce l’infelicità di una dimensione narcotizzata. Compaiono il pastore tedesco, la protagonista e Chester che le chiede di sposarlo. L’equilibrio di quella che poteva essere una storia di coppia si spezza per una nota tanto innocente quanto fondamentale («Tre giorni prima che il pastore annegasse, Chester le aveva chiesto di sposarlo. Si conoscevano da quasi un anno. “Sposiamoci” aveva detto. Si erano calati un metaqualone ed erano andati a letto»). L’eco della morte riverbera come ancora di un unico evento reale nel marasma della vita immaginata.
Chimica invernale è uno dei racconti migliori della raccolta e, anche qui, l’amicizia di due amiche in piena tempesta adolescenziale deve vedersela con l’infatuazione per un terzo elemento: un insegnante.
Ricorro ancora una volta alla teoria proposta da Flannery O’Connor quando sostiene che l’accumulazione di dettagli simbolici – e cioè investiti di un significato altro rispetto a quello canonico – espande e approfondisce la superficie narrativa. Nella Williams i simboli si manifestano grazie a un’illusione interna per i personaggi e di un’elusione esterna per il lettore. Nel primo caso i piccoli indizi, presagi del futuro, sono disseminati nel testo, immediatamente sopraffatti dallo scorrere di eventi. «Quando era con Daniel sentiva di essere vicina a qualcosa, a una comprensione di ciò che ancora le restava da desiderare» è la bugia che si racconta Joan in Bianco mentre contempla l’innamoramento per un altro uomo. Nell’elusione i muri invisibili che incanalano la storia nell’unica sorte possibile sfuggono e allo stesso tempo vengono sorvolati dallo sguardo interpretativo del lettore. Spesso basta una sola, vaga, visione per chiarire il senso del racconto, proprio come succede in Bianco:
 

«Abbiamo mollato tutto e ci siamo messi in strada di notte, e al mattino ci siamo fermati in una piccola piazzola di sosta vicino a un fiume, e c’erano due vecchi che stavano lavando quel grosso cane bianco. Un cane bianco grosso e vecchio. Lo lavarono con grande cura e poi lo asciugarono con un telo. Era tutto ciò che avevano».
«Stanno per andarsene tutti» disse Bliss. «Scendiamo a salutare».
«Non voglio che diventiamo come quei due vecchi» disse Joan.
«Mai» disse Bliss. «Scendiamo a salutare. Un’altra volta soltanto».

«È richiesta una certa freddezza nell’esecuzione», uno degli ingredienti della Williams per i racconti. Eppure nelle sue storie non si avverte un tale distacco, si percepisce, piuttosto, il contrario: un’aderenza dolorosa alla realtà, un’osservazione così viscerale delle possibilità della realtà da ritrarre psicologie impazzite e concrete allo stesso tempo. Ecco spiegato il suo “nulla”, l’impossibilità di definire il mistero che muove la storia e il tentativo di non riassumerlo in un’unica parola.

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