Storie della tua vita, di Ted Chiang

TITOLO: Storie della tua vita
Autore: Ted Chiang
Editore: Ne/oN
PP. 368 Euro 18,00

di Fabrizia Gagliardi

Accade qualcosa nella nostra vita e stupisce la velocità spietata con cui il mondo è pronto ad accartocciarsi sul vecchio e a stiracchiarsi sul nuovo.
Tutte le possibilità future diventano presente e, nel marasma di miopia soggettiva, il bias di normalità lavora per trovare coerenza e convalidare credenze preesistenti. Andrebbe peggio per la nostra salute mentale – o per la nostra fede – se l’ancoraggio a noi accettasse una causalità predeterminata o se la nostra conoscenza si fosse spinta oltre i confini del sondabile.
Solo per estraniarsi e immergersi in sensazioni del genere è utile leggere Storie della tua vita e altri racconti di Ted Chiang, che mancava dagli scaffali dal 2008 (pubblicato da Stampa Alternativa) e ora recuperato da Ne/oN, imprint di edizioni e/o, con la nuova traduzione di Marinella Magrì.

Nel panorama contemporaneo della letteratura fantascientifica, Ted Chiang occupa un posto singolare e difficilmente replicabile. Con una produzione scarna ma densissima – ha pubblicato due raccolte di racconti, diciassette storie in tutto – ha saputo ridefinire i confini del genere, esplorando i grandi dilemmi dell'umanità con la lente della filosofia morale e della tecnologia. Lui stesso ha ammesso di preferire un componimento che segue il suo ritmo – scrive solo nel momento in cui si presentano storie interessanti – quindi non pubblica con frequenza e non indulge nella spettacolarità di molta fantascienza mainstream. Eppure, la sua opera ha avuto un impatto profondo, pervasivo e riconoscibilissimo, tanto da ispirare il film Arrival, tratto dal racconto Storia della tua vita, considerato uno dei capolavori della speculative fiction del XXI secolo.
La narrativa di Chiang si muove su un crinale sottilissimo tra rigore logico e tensione emotiva, tra speculazione scientifica e riflessione esistenziale. Ogni storia si muove tra la parabola fantastica, un pensiero sperimentale, a un ritmo da metodo scientifico, ma è sempre percorsa da una pulsazione umanissima. Sul New Yorker lo scrittore ha ammesso che il suo scopo va oltre la profondità del sentimento umano: «Il mio obiettivo principale è quello di affrontare questioni filosofiche ed esperimenti mentali, cercando di elaborare le conseguenze di determinate idee».
Non a caso si è parlato di “fantascienza umanistica”: non perché i suoi testi siano consolatori o sentimentalmente accattivanti, ma perché riescono a parlare del dolore, del libero arbitrio, della fede, della memoria e del tempo senza mai perdere il contatto con ciò che rende umana la nostra esperienza del mondo.

Uno dei primi approcci destabilizzanti quando ci si accosta alla scrittura di Chiang è il suo interesse per la conoscenza e le implicazioni morali che ne conseguono.
In Storia della tua vita, la protagonista è una linguista chiamata a studiare e interpretare il linguaggio degli alieni. Mano a mano che la lingua degli eptapodi viene svelata, la studiosa acquisisce la capacità di percepire il tempo come un tutt’uno, abbracciando la consapevolezza del futuro – e di un futuro personale tremendo – senza poterlo modificare.

“Conoscevo fin dall’inizio la mia destinazione, e ho scelto il mio percorso di conseguenza. Ma sto procedendo verso l’estremo della gioia o del dolore? Ciò che raggiungerò sarà un minimo o un massimo?

Domande che mi risuonano nella mente quando tuo padre mi chiede: «Ti va di fare un bambino?». E io sorrido e gli rispondo: «Sì». Mi sciolgo dal suo abbraccio e prendendoci per mano rientriamo in casa per fare l’amore, per fare te”.

La rivelazione totale non conduce alla rassegnazione, ma a un’accettazione attiva e profonda del destino. Il dolore della conoscenza è il prezzo da pagare per accedere a un livello più intenso di esistenza.
È una visione che più volte ritorna e s’intreccia con una prospettiva determinista: per Chiang, l’universo è governato da un ordine materiale rigoroso che esula dal caso.
Lo esprime bene Renee, la matematica che nel racconto Divisione per zero cade in depressione perché scopre l’uguaglianza di tutti i numeri e, in un controsenso, la disciplina rivela il suo volto empirico:

“Mi sentivo come un teologo che stava dimostrando l’inesistenza di Dio. Ecco cos’è successo. [...] C’era una cosa in cui credevo profondamente, assolutamente, eppure non era vera, ed ero proprio io che lo stavo dimostrando”.

Il meccanicismo del divino è tale da avere un’alta potenzialità distruttiva nel palmo dei più fedeli. Il cervello umano riuscirà mai a contenere la complessità e l’insensatezza, oppure dovrà affidarsi alla follia?
La scelta è aperta: si può agire come Hillalum ne La Torre di Babilonia, rinarrazione della storia biblica della torre di Babele, che sceglie di farsi portatore dell’inspiegabile ingegno divino. Oppure c’è Neil, nell’Inferno è l’assenza di Dio, che si ostina ad andare contro la propria sorte: in un mondo dove Dio si rivela tangibile ogni giorno e i suoi angeli appaiono continuamente, il senso della fede diventa paradossalmente più problematico, non più fondato sulla speranza ma sulla constatazione.
In effetti, il sistema solare della narrativa di Chiang ha un’unica stella che lambisce i corpi celesti delle storie con lingue di tempo, destino e miraggio di libertà.
Ne è la dimostrazione la seconda raccolta di racconti, Respiro (traduzione di Christian Pastore, Sperling & Kupfer, 2021), dove tornano con più decisione i punti fissi solo accennati nell’opera di esordio.
Ad aprire la raccolta è Il mercante e il portale dell’alchimista, ambientato in un Oriente da Mille e una notte, dove il passaggio in una bottega di un misterioso alchimista rende possibile il viaggio nel tempo. I racconti del mercante s’incontrano e si mescolano ma la conclusione è la stessa: «futuro e passato sono uguali. Nessuno dei due può essere cambiato, tuttavia possiamo conoscerli più a fondo». L’illusione di poter cambiare il proprio passato e di esercitare un controllo sulla sorte si disintegrano davanti a un assioma: quello che è stato esiste immutabile per ricordarci di contemplarlo, accettarlo e comprenderlo.
Da vero scienziato che confuta le proprie teorie, Ted Chiang offre anche una controprova: cosa succederebbe se la scelta fosse illimitata e se, per esempio, potessimo scegliere come creare un prima e un dopo? Ne L’angoscia è la vertigine della libertà immagina una tecnologia – il prisma – in grado di connettere le persone ai loro universi alternativi. Si può entrare in contatto con il proprio sé parallelo per scoprire il risvolto di un’azione. Dopo qualche tempo, s’insinua il dubbio che la molteplicità delle possibilità, anziché aumentare la libertà, possa generare una nuova forma di paralisi morale: la scelta illimitata vuol dire essere davvero tutto ed essere nessuno. Sono le scelte definitive - e forse predeterminate - a dare contorni tangibili all’uomo.
In maglie narrative così strette e scientificamente rigorose è inevitabile incontrare la tecnologia. Ted Chiang non è un tecnofobo e nemmeno un entusiasta acritico del progresso. Non c’è niente di disumanizzante nelle astruse descrizioni delle invenzioni usate per esperire il mondo; c’è, piuttosto, una tecnologia profondamente umanizzata e integrata nella condizione esistenziale, al punto da diventare una metafora delle fragilità umane.
Gli strumenti dell’ingegno sono spesso lo sfondo – o il motore – di interrogativi più profondi. Nel Ciclo di vita degli oggetti software l’autore esplora l’etica della genitorialità applicata all’intelligenza artificiale: cosa significa crescere una coscienza? Quale valore e quali diritti ha un essere non biologico, ma educato, amato, nutrito emotivamente come un figlio?
Allo stesso modo, La verità del fatto, la verità della sensazione mette in scena un futuro in cui ogni ricordo è registrato e accessibile tramite un’interfaccia retinica. Il protagonista deve confrontarsi con l’eventualità che la verità documentata distrugga i legami affettivi costruiti sulla memoria emotiva: un vero e proprio conflitto tra memoria e archivio, tra l’oblio regalato dal perdono e l’inflessibilità asettica e dettagliata.

Lo stile narrativo di Chiang è deliberatamente sobrio e analitico: non rincorre l’effetto, ma costruisce con pazienza le condizioni logiche ed emotive del racconto. I suoi testi non si accontentano di “raccontare” un’idea, ma vogliono mostrarne tutte le implicazioni, esplorarne ogni angolo cieco. È una scrittura che chiede molto al lettore, ma lo ricompensa con una profondità rara.
Molti dei racconti sono ambientati nel passato o in versioni alternative del presente, le epoche storiche si fondono, la mitologia incontra la scienza e il fantastico serve a illuminare le strutture profonde della realtà.
Tutti aspetti che rifiutano le semplificazioni e le dicotomie: tra umano e artificiale, tra scienza e spiritualità, tra libertà e determinismo, tra emozione e razionalità. Il pensiero si muove sempre in tensione tra poli opposti, cercando sintesi inattese e nuove domande invece di risposte definitive.
Ted Chiang è un autore che ha trasformato la forma breve in uno strumento di indagine e meditazione. Che si tratti di intelligenze artificiali, viaggi nel tempo, memorie registrate o rivelazioni cosmologiche, ciò che gli interessa è come queste idee ci costringano a ridefinire ciò che siamo, ciò che sentiamo, ciò che scegliamo. In un’epoca che spesso confonde il progresso con la velocità e la complessità con la confusione, la sua voce lucida e profonda ci invita a rallentare e, soprattutto, a sentire.
Alla fine ci arrendiamo e, come la scienziata di Omphalos, teniamo insieme razionalità e spiritualità, senza contraddirle:

Anche se noi esseri umani non siamo la risposta a un perché, io continuerò a cercare una risposta al come.

Con grazia e rigore, Ted Chiang ci ha mostrato che l’umanità non è un limite alla conoscenza, ma la sua vera misura.

Buchi neri, di Alessandra Sarchi

TITOLO: Buchi neri
Autore: Alessandra Sarchi
Editore: Industria&Letteratura
Euro 10,00


di Debora Lambruschini

La scrittura di Alessandra Sarchi ha un’eleganza lieve: è la mano dell’artigiano che cesella con cura la materia e tira fuori la vita, plasmata parola dopo parola in un concatenarsi misurato, evocativo eppure allo stesso tempo solido, mai artefatto. È la musica che le parole messe in fila compongono in un fraseggio che sa accompagnare il lettore anche negli abissi più nascosti dei personaggi, nelle storture del mondo, nelle crisi, che insegue le crepe lungo la facciata. È prosa letteraria e al tempo stesso è vita, carne e sangue. E nella misura breve trova la sua dimensione ideale, la più esatta, nell’incastro tra storia e modo di raccontarla. Ora Alessandra Sarchi chiude una collana preziosa e che sicuramente rimpiangeremo: Invisibile, curata da Martino Baldi per Industria&Letteratura, un progetto editoriale dedicato alla novella che in questi anni oltre a due testi di Sarchi ha accolto storie di Rossella Milone, Giordano Meacci, Davide Orecchio e gli esordi notevoli di Giulia Ogliarolo e Andrea Accardi e che si conclude con i Buchi neri di Sarchi appunto. In questa casa hanno trovato spazio racconti e novelle che reggono da sole tutto il carico della narrazione, senza bisogno di etichette fuorvianti, ammiccamenti al lettore, ma neanche di respiri più ampi, sfocature verso il romanzo.

Buchi neri condensa nello spazio breve il momento, la scrittura, l’arte del racconto di cui pare farsi esempio di tutte quelle teorie e spunti che discutiamo tra seminari e laboratori di narrativa: le ellissi, l’uso di punti di vista molteplici e del tempo, il legame con la fotografia, la tensione, l’importanza di incipit e finali: è tutto qui, in questa storia, una lezione aperta di scrittura ma senza mai dare l’impressione di farsi maniera. È quell’eleganza della prosa di Sarchi cui si accennava in apertura e che plasma la realtà, indagando ancora una volta le pieghe dei suoi personaggi, gli sguardi marginali, le zone grigie, i sentimenti scomodi.
Faccio un torto a questa storia dicendo che è il racconto di tre donne, una famiglia, di fronte alla disabilità, semplifico troppo quella che è una narrazione molto più stratificata, ma da qualche parte bisogna pur partire per tracciare le coordinate minime di Buchi neri. Sarchi porta il lettore immediatamente al centro del racconto, l’apertura in media res, in quella casa di donne – le sorelle Lavinia e Alice, la madre Giulia rimasta vedova da tempo – tra le pieghe del quotidiano, nei legami affettivi, nei desideri inespressi. Sono soprattutto le voci e i punti di vista di Lavinia e Alice a dare forma alle cose, mentre quella di Giulia si sforza per farsi da parte, per non ingombrare con il peso delle sue preoccupazioni di madre.
Lavinia soffre di una malformazione del sistema nervoso, ha progressivamente perso la capacità di muoversi e anche parlare è difficile.  

 

Ricorda quando da piccola la madre per spiegarle la condizione di Lavinia le aveva detto che alla nascita era successo qualcosa per cui i fili del sistema nervoso che si allungano dal cervello al midollo spinale si erano ingarbugliati – gesto delle mani di madre che si contorcono – e così Lavinia non riusciva più a camminare, a reggere gli oggetti, a emettere suoni distinti. Tutto in lei era un po’ confuso e aggrovigliato.

 

La mente però è lucidissima, va veloce, distanzia quel corpo che non risponde. Lavinia è affascinata dalla matematica, dall’ordine dei numeri, da come le rispondono meglio del proprio corpo.
Buchi neri è anche una storia di corpi, di carne e desiderio: è il corpo di Lavinia, maneggiato da tutte quelle persone che se ne devono prendere cura per lei, ma anche su cui si posano da sempre i gesti d’affetto della sorella, i gesti di cura. Quel corpo su cui lei stessa si interroga, riflesso distorto di quello della sorella, mentre indugia sul significato della bellezza. Un corpo non conforme, comunque un corpo. Quello di una ragazza, quello del desiderio. Buchi neri si inserisce nelle pieghe del desiderio, tanto di Lavinia quanto di Alice, che prende forme diverse, si nutre di esperienze proprie e si scontra con qualche tabù che la letteratura sta cercando di abbattere quando la nostra società non sembra mai essere pronta e preferisce ignorare.
C’è una straordinaria normalità in questa storia che di ordinario potrebbe aver poco e in cui il discorso sulla disabilità è solo una delle sue componenti, per certi versi nemmeno la più importante. È, soprattutto, la storia di due sorelle, dei codici di comunicazione di un legame profondissimo, e della brama di essere anche altro da quel rapporto. Sarchi maneggia l’intreccio tra felicità e senso di colpa, racconta sentimenti complessi e la vergogna del riconoscerli, del nominarli. Si addentra in quelle pieghe stando ben attenta a non giudicare e costruendo una storia che si sviluppa in profondità, verso quell’iceberg di hemingwayana memoria la cui solida struttura sorregge il peso di quello che vediamo sulla pagina, superficie minima di tutto ciò che resta sommerso.
Passando da Lavinia ad Alice, Sarchi esplora il desiderio, la ricerca di indipendenza, la malattia, la perdita, il corpo, la felicità e la colpa, con una lingua malleabile e misurata, pienamente sintonizzata sui personaggi, che costruisce il codice di comunicazione tra le sorelle, quel filo che le lega.

 

Come si funziona quando ti mancano i pezzi, chi o cosa li compensa per te? Lavinia pensa ad Alice, è lei il suo intero, la sua compensazione.

 

Ma che cosa resta di Alice? Sarchi spinge il lettore a interrogarsi su questo, scacciando sentimentalismi e narrazioni stereotipate, inutili buonismi, per raccontare la complessità dei rapporti, l’amore che consuma, lo spazio per sé stessi. Per Alice l’esplorazione del desiderio e di una felicità intera, fuori dalle mura di casa, fuori dal rapporto con Lavinia e il suo ruolo di sorella che si prende cura, coincide con la scoperta di meccanismi complessi, significa fare i conti con il senso di colpa.

 

Sull’autobus che la porta a casa, Alice si accascia su un sedile, all’improvviso svuotata: potrebbe sentirsi meno in colpa del piacere che prova, della felicità che l’attraversa, ma come? Cos’è il senso di colpa, se non una macchia pronta a ricordarti che anche la gioia che provi è guasta, si dice, mentre con un dito traccia cerchi concentrici sul vetro sporco dell’autobus.

 

Come si fa a essere felici? Come si convive con quella parte di sé che ha desideri inconfessabili, la libertà da certi pesi, da certe responsabilità? Come quella volta da bambine, mentre spingeva Lavinia sull’altalena e per un attimo ha pensato di «spingerla così forte da farla volare via». E lei, Lavinia, che lo aveva capito, ha sempre visto quella parte della sorella, quella «malvagità» e l’ha perdonata. Forse è proprio Alice che non l’ha fatto, che non ne è capace. Alice, che prova a essere intera e sogna la fuga.

Sorelle, di Ada Negri

Titolo: Sorelle
Autore:Ada Negri
Editore: Neri Pozza
pp. 192 Euro 8,99

Di Emanuela Lancianese

In “Vite di uomini non illustri” Giuseppe Pontiggia, richiamandosi alla tradizione di Aubrey e Schwob, testimonia di una ripresa dei racconti brevi che riguarda non pochi narratori del nostro secondo Novecento (da Calvino a Manganelli, da Parise a Cavazzoni). Il romanzo o antiromanzo dello scrittore lombardo si scompone nello studio di caratteri e nel dizionario flaubertiano dei tipi umani.

In Sorelle (raccolta di ventuno racconti uscita nel 1929), Ada Negri, anche lei lombarda e anche lei dotata di uno sguardo acuto e di una prosa asciutta, germinata dal mestiere di giornalista, ha usato lo stesso dispositivo; tranne che andando oltre la letteratura, che deve per obbligo artistico concederle lo spazio che merita, a valere nella storia del femminismo sono le vite di donne non illustri, tanto eroiche e disperate e dure quanto quelle degli uomini (senza escludere dalla prospettiva cosmica la metamorfica qualità adattiva e resistenziale di animali e piante).   
Autrice del primo Novecento, uscita fuori dal canone dei grandi autori ma non della grande letteratura, come ritiene giustamente l’editore Neri Pozza ripubblicandola, Anna Negri attinge a una vena poetica che in parte alimenta l’antica passione politica e sociale e la lotta per l’emancipazione delle donne, in parte si fa prosa vibrante di impulsi e fremiti sensuali fusi in uno stile icastico, a tratti puro come la prosa di Manzoni, a tratti commovente come le poesie di Gozzano, sensuale almeno quanto quello di Margherite Yourcenar, per rivelare la durezza (e la bellezza) del mondo femminile di marca urbana e rurale.

Le protagoniste dei racconti sono donne del popolo, forti, determinate e spesso costrette a confrontarsi con difficoltà personali e sociali. Tra queste, spiccano personaggi come Eddie, soprannominata “la Cacciatora”, che sfida le norme di genere adottando un abbigliamento maschile e un comportamento libero; Plautilla, una vedova anziana che affronta la solitudine con estrema dignità; Lionarda, una madre coraggiosa che si prende cura della figlia malata; e la madre del piccolo Fosco, che deve affrontare un dolore inimmaginabile dopo un tragico incidente. Lo sfondo storico è quello degli anni ’20 e ’30 del Novecento dove si riverbera ancora il trauma post bellico della prima guerra mondiale, «in cui nemmeno i pochi proprietari di terre e padroni di fabbrica potevan dire d’essere ricchi; e conducevano, a un dipresso, la rozza vita del popolo» (scrive a proposito di Motta e Besana, paesi in cui ambienta il primo racconto) ma più in generale rievoca una prospettiva storica che ha visto sempre le donne portare sulle spalle, in condizioni impari e ancora più ingiuste degli uomini miserabili, tutto il peso delle cose e l’anticamente dolorosa memoria di specie. “Benedetto Croce, Renato Serra e poi Giuseppe Antonio Borgese: tre giudici severi della nuova letteratura italiana non possono fare a meno di sottolineare – pur tra distinguo – le qualità della scrittrice”, scrive Massimo Onofri nella prefazione alla raccolta.

“Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza trascorsi nel palazzo Barni, (di cui la nonna Giuseppina era custode n.d.r) dove giocava con le figlie del conte, furono importantissimi per Ada, perché la orientarono verso una duplice direzione: nel segno della disposizione alla fantasticheria su quel mondo aristocratico che non era il suo, e che in parte condivideva, ma anche d’un senso d’umiliazione e vergogna per certi compiti che fu costretta ad assolvere come quello di aprire il cancello alle carrozze dei conti e dei loro nobili ospiti. Senza dire delle tante ore passate ad ascoltare sua madre che leggeva
a voce alta alla nonna romanzi d’appendice”.

Grazie a sua madre, vedova e operaia, Ada studia. Nonostante il salario sia davvero molto misero, tanto che sua mamma non può mai permettersi neanche di ammalarsi, Ada riesce a diventare maestra. Insegna a ragazzi rozzi, selvaggi, ma che, come lei stessa dice, le piacciono perché sono creature spontanee e vitali.
«Non mi riconoscevo figlia che di mia madre: sua sola carne, suo solo spirito: lei vedevo sfaticare, logorarsi per darmi pane e gioia: nella mia perfetta innocenza non mi sarei meravigliata né offesa, se m’avessero detto ch’ero nata senza padre», scrive l’autrice nel racconto ispirato tuttavia dalla zia paterna Maurilia, in cui per antifrasi giunge a parlare del padre, alcolizzato e assente, ma tuttavia, se non rimpianto, ricordato con carità e indulgenza di bambina.
L’infanzia da una parte e la figura della madre dall’altra, saranno del resto i motivi ricorrenti di tutta la sua opera. In “Donna con bambina” le due polarità della vita femminile, giovinezza e vecchiaia sono sintetizzate in un doloroso battito di ciglia che racchiude l’arco di una piccola e grande ingiustizia.

“Sotto la ricchezza dello zibellino e la luminosità delle perle, nervi di donna insoddisfatta, esasperati dalle troppe raffinatezze della vita fisica e spirituale: tutti gli splendori apparenti, nessuna gioia reale, di quelle per cui la creatura diviene un frutto a perfetta maturanza, nutrito a sazietà del proprio succo”.

Del primo racconto di Sorelle, “La cacciatora”, di gran lunga il più esteso, è sorprendente l’incipit, così come lo è il personaggio eponimo, disegnato al di là d’ogni convenzione, tanto più se si pensa che nell’Italia fascista e concordataria del 1929, anni in cui l’amicizia contratta nella redazione del Popolo d’Italia con Margherita Grassini Sarfatti le permise comunque di godere di una certa protezione politica, la donna è unicamente moglie e madre. 

“Di che colore erano gli occhi della Cacciatora? Non riesco, per quanto mi ci sforzi, a ricordarmene. Forse, azzurri. Forse, grigi. Piccoli, certo, e vaghi: non mai risolutamente fermi su una persona o una cosa: tanto da far pensare come mai ella potesse avere, cacciando, così giusta mira”.

Si chiama Eddie ed è, con ogni probabilità, americana. La voce narrante è quella stessa di Ada Negri, fresca maestrina diciottenne a sessanta lire al mese, che sente di vivere gli anni più belli e pieni della sua vita, mentre la poesia la visita quasi ogni notte «con apparizioni singolari». La Cacciatora è generosa. Vagabonda per i boschi fra la Motta e il Ticino con la sua cagna «dagli occhi umani, che lei chiamava Miss», ma sono pochi gli uccelli e le lepri che ammazza. Enigmatica figura racchiusa in un suo mistero inespugnato, nell’inviolabilità di un tempo che appartenne all’amore, chiusa in mute lontananze appunto una «terra lontanissima dalla sua», la Motta, paese in cui la Cacciatora non è l’unica personalità forte ed eccentrica: basterebbe citare Caterina Domprè, che raccoglie ogni confessione del paese, meglio del prete e la doppiamente vedova e anarchica Nanetta dei Rissi, Nanetta dei Rissi: «una contadina bruciata non soltanto dal sole, ma da un’inquieta, indomabile fiamma d’intelligenza, per cui s’era alla bell’e meglio istruita da sé, su tutt’i fogli che aveva trovati e che ce l’ha coi sciôri, senza averne mai visto uno».
Serra dice che lo stile di Ada risuona di echi dannunziani, ma sembra piuttosto, in grazia di uno sguardo fatto di muliebre comunione panica con il creato, che la scrittrice lo plasmi all’evidenza che è un corpo di donna, il suo appunto, a rispondere agli impulsi creaturali della natura, degli animali. A conferma del privato afflato mistico con il vivente, queste poche frasi del racconto sul gatto Michelangelo: «Le prode davano più mammole che erba. Gialli mazzetti di primule, senza stelo, occhieggiavano ai piedi dei tronchi: nel coglierli mi restava nelle mani la zolla, fresca, granulosa, còrsa da rapidi insetti».

Forza e debolezza, schiavitù e libertà, allegria e malinconia dipanano il rocchetto di queste vite che attraversano la tessitura dello spazio e del tempo, la morte dei figli, la caduta in disgrazia, il dissesto familiare, la malattia e la violenza, della sorte e dei mariti, come quello della Barila che «sa di averle lasciato sul corpo i segni che la faranno riconoscere il giorno del Giudizio». Durezza di amianto e fortezza d’animo di chi è dotato al massimo grado di questa virtù teologale, per rivelarci solo in parte un privato, ultimo, mistero.
Donne che parlano, ridono, odiano, desiderano pregano e si apprestano a morire sempre in profonda comunanza con la terra che calpestano, attraversate dal colore e dalla luce dei campi, scolpite nella sensualità ferina dei loro corpi flessuosi, delle cuciture erotiche delle calze, anche inginocchiate davanti all’altare in confessione di peccati forse mortali, di fronte a un dio che tace. Turbinio di polarità opposte e di interne crepe nell’alba della giovinezza o nel pallore della fine, ancora e fino in fondo ebbre di vita.

Undici, di Andrej Longo

TITOLO: Unidci
Autore:Andrej Longo
Editore: Sellerio
pp. 248 Euro 15,00

di Gianni Montieri

«Aurò, la vita noi mica ce la scegliamo. La vita è quello che viene. Quello che il destino ha scritto». «E noi, questo destino che sta scritto, nunn’ ’o putimmo cagnà, secondo te?». «Io penz’ ’e no, Aurò».

«una sedia / converge tutto il carico del cielo / esplode il suo metallo alla controra»; così chiude una poesia molto bella di Barbara Coacci (in Nessuna nuova, ed. La camera verde). Quella sedia la porto con me da molti anni. È una poesia che parla d’agosto, di controra, di cassonetti dei rifiuti. E che chiude con un oggetto tra i più comuni, che sta là abbandonato o lasciato temporaneamente da qualcuno per strada. La sedia fulcro, centro di gravità che attira su di sé il carico del cielo fino a irradiare lo spazio temporale della controra, a dominarlo, cos’è se non una indirizzatrice di destini? La sedia in quella poesia potrebbe essere anche Dio. Dicevo, la porto con me da anni e qualche giorno fa ho incontrato sua sorella, un’altra sedia, altrettanto importante, innocua come tutte le sedie fino a che un umano qualunque le riveste di importanza, attribuendo loro un peso specifico nell’ambiente e nella storia.  La sedia è una delle protagoniste principali di un racconto di Andrej Longo, contenuto in Undici. Non dimenticare edito da Sellerio. Un libro veramente bello, in cui l’autore fa un uso mirabile delle tecniche della narrativa breve riuscendo, tra le altre cose, a incanalare elementi che vengono dalla realtà, dalla cronaca, dentro una sospensione immaginaria, fatta di gesti e dialoghi, che è propria dei grandi racconti. Longo, con Undici, ritorna dove era già stato con Dieci (riedito sempre da Sellerio), solo che ogni ritorno è indifferente, diversi sono gli spunti, le voci, diversa è la stessa Napoli (e la sua sterminata provincia) che cambia ogni cinque minuti a dispetto di quello che spesso ci vengono a dire.

“Giù per la strada non ci stava più nessuno. Pareva che tutti quanti s’erano annascosti da qualche parte. Manco i motorini si vedevano. Intorno ci stava solo il silenzio. Un silenzio che non l’ho mai più sentito uguale a quella notte. Io, non lo so perché, subito ho pensato a lui. Ho pensato che gli poteva essere capitato qualcosa. Qualcosa di brutto. Di brutto assai”.

La sedia, dicevamo, titolo e fulcro di uno dei racconti più belli e ispirato da un fatto di cronaca. La sedia messa come segnaposto per un parcheggio, sempre là immobile da anni, in una zona dove il posto non si trova mai. La sedia osservata da una ragazzina prima, adulta poi. La sedia oggetto delle sue domande, alle quali i genitori non danno risposta, la sedia sta là, evidentemente, messa da un vicino di casa potente e inattaccabile. La sedia simbolo di potere, che protegge un posto e fa da monito. Sulla sedia c’è seduto qualcuno che non è necessario vedere, qualcuno che comanda. Dall’altra parte la voce narrante, la ragazza che per anni combatte con gli occhi e con le domande contro questa situazione fino al click, fino al precipizio che porta in fondo ad altre domande. Longo è bravissimo a maneggiare il tempo e i tempi, le descrizioni, i dialoghi, i silenzi, i personaggi la storia, tutto è sospeso, tutto ruota, ecco, anni che scorrono come in una lunghissima controra estiva, dove nessuno ha la forza di spostare la sedia, di cambiare le cose. Straordinario.

“La mia vita è questa, niente di speciale, niente da raccontare. Pulizzo il culo ai vecchi, lavo a terra, lavo per le scale, mi dicono quello che devo fare e io lo faccio. Mi chiedono Com’è andata con papà?, e io rispondo Tutt’a posto, nessun problema, che meno problemi ci stanno, e meglio è per tutti”.

Undici donne, undici voci, undici storie, tutte diverse. Storie che riguardano le difficoltà del nascere e vivere (sopravvivere) a Napoli e provincia, soprattutto in certi contesti. Chi scrive questo pezzo è nato a Giugliano e ha sempre pensato di averla scampata per pochi chilometri, nascere un poco più in là e chissà come sarebbe andata. Le donne di Longo sono meravigliose e normali, arrese e desiderose di riscatto, piegate dai fatti e colme di speranza. Sempre pronte alla rinuncia per puntare a qualcos’altro, capaci di desiderio, di scovare il vicolo che conduce fuori dall’ombra. E a volte quella luce è fare a meno di una bambina, altre è trovare una poesia e riconoscersi ancor prima di capirla, senza averne mai lette prima, altre è chiacchierare con un figlio in piena notte dopo averlo tirato fuori dai guai. A volte la luce è solo il fuoco che sta bruciando il tuo corpo perché hai detto no, altre è un omicidio perché il peso di chi abbiamo amato a volte è insostenibile. Ammazzare per salvare una figlia, due figlie, qualcosa.

Le donne narrano la loro storia mentre la fanno, la costruiscono e disfano, si muovono in ambienti domestici, spesso piccoli, e nel paesaggio, si adeguano al contesto, lo subiscono e provano a cambiare lo stato delle cose. Queste donne sono Napoli, eternamente sospese tra rassegnazione e speranza, ingenue e sagge, disposte ad accettare il sopruso e pronte a insorgere. A liberarsi. A volte ci riescono, altre no, Longo lo sa e le libera tutte attraverso la forza del suo racconto. Le storie sono tutte relativamente brevi e consentono all’autore di non indugiare in descrizioni che superflue, i dialoghi sono secchi, di poche parole e, al contempo, ricchi pieni di sfumature, che sfruttano i tempi del dialetto mescolati all’italiano.

“Io mi chiamo Maria. Tengo sette anni, sono la più piccola e mio padre dice sempre che sono arrivata per uno sbaglio. Io non lo so che sbaglio è stato, non me l’ha mai detto. Manco mia madre me l’ha detto mai. E chi lo sa senza quello sbaglio mò dove stavo”.

In più ogni racconto è scritto in un modo completamente diverso dall’altro. L’istante che tutto sospende li accomuna, eppure quell’istante è diverso. Così come sono diverse le modalità con cui Longo sceglie di portarci al finale e di commuoverci o di farci arrabbiare. In queste storie di donne gli uomini spiccano per debolezza, violenza, incapacità di comunicare, per essere criminali, insensibili, o per essere vecchi e soli, o per essere morti troppo presto. Fanno parte del quadro ma non sono il quadro. Le personagge invece sono tutte indimenticabili, le madri, le figlie, le scampate, le bambine. Come la piccola che accarezza una tigre in pieno centro di Napoli, o come l’altra che racconta un fatto drammatico passando di sogno in sogno, perché nel sogno forse non sta accadendo, perché il sogno le consente di sopportare ciò che è troppo doloroso perfino da capire.

Infami, di Luis Reynaldo Pérez

Titolo: Infami
Autore:Luis Reynaldo Pérez
Editore: Edizioni Arcoiris Traduzione: Barbara Flak Stizzoli
pp. 100 Euro 10,00

di Emanuela Lancianese


Infami, di Luis Reynaldo Pérez, poeta dominicano, qui al suo primo lavoro come narratore, è una raccolta di quindici racconti brevi posti a spirale, come una scala del Borromini, sui gradini e colonne dell’hard boiled  che, procedendo, si assottigliano man mano che la trama cerca di districarsi tra atmosfere ipnotiche e delitti degni di un True Detective caraibico, fatto di protagonisti disperati più che cattivi; il tutto accompagnato da bizzarri inneschi narrativi che non sfigurano in questo trompe-l'œil visivo in chiave latina, con impercettibili tocchi di un realismo magico vissuto alla David Linch (stesso pastiche di temi e forme del film Emilia Perez, per chi lo ha visto e ne ha goduto, dove si accenna a un capo dalla fluida identità sessuale che si appresta a un ballo e donne dal cappuccio rosso che possono uccidere per difendersi).
I personaggi, apparentemente gli stessi, ritornano, a volte come allucinazioni ed evocazioni, come nominati di sfuggita. Torna Lo Squalo, Carlitos Scotch, che si chiama così perché lascia un segno della croce con lo scotch sulla fronte delle vittime, torna un veleno che tutti chiamano Il Fantasma, tornano le bande e i modi di uccidere e di far sparire i cadaveri. Torna il ritmo della bachata, colonna sonora degli atti di bassa macelleria compiuti da sicari e assassini, a gareggiare, quanto ad atmosfera gangster, con le canzoni neomelodiche delle cosche di Gomorra.
Tutti gli uomini di questi racconti non toccano terra, come fantasmi sono bloccati in un cortocircuito omicida, senza futuro e solo piccole schegge di passato che rivivono come un tormento. L’unico antidoto arriva sotto forma di una donna o di un bambino che, fuggendo, rompe il sortilegio malefico, apre gli occhi per portare ad una fine cercata, ad una liberazione.
Quindici racconti che, come sottolinea la scrittrice Silvia Tebaldi nell’introduzione, curata e tradotta da Barbara Flak Stizzoli: «disegnano una cartografia dell’infamia a Santo Domingo, bar notturni e bordelli, narcotrafficanti e sicari, criminali plebei e criminali insospettabili nelle alte cariche. Leggendo Infami sembra che tutti i suoi racconti gravitino attorno a “Squalo”, un racconto-cornice di grande forza tragica che tiene assieme Borges, l’epica della mala, il lavoro del giornalista e dunque la forza – e dunque il mortale pericolo – di una voce che racconta e denuncia». 

L’effetto straniante delle storie sul male caraibico è dato anche dall’alternarsi di parti in prima persona in cui il narratore sta fuggendo, o attende il suo destino, o ci parla da oltre la morte e parti con una voce narrante esterna al racconto. L’essenza della storia raccolta nella citazione di una frase di Edmund Burke, preposta all’incipit di Squalo:  «L’unica cosa necessaria per il trionfo del male è che gli uomini buoni non facciano nulla».
Storia di una esecuzione raccontata come da lontano, da dietro un vetro sporco oltre il quale un uomo si sta scavando la fossa, nel primo racconto Cartoline dell’ultimo istante, storia raccontata in seconda persona nel racconto Croci:

 

“Hai tatuate trecento croci, una per ognuno di quelli che hai ucciso con le tue mani. Ma se ti fossi fatto un tatuaggio per ogni crimine che hai deciso, ci vorrebbero i corpi di due o tre uomini di corporatura normale per dare spazio alla memoria di ogni morto”.

 

Storia raccontata in prima persona direttamente dal cadavere come in Ragnatela.

 

“Sconosciuto». È questo che dice l’etichetta che pende dall’alluce del mio piede sinistro”.

 

A uccidere sono pure sicari di un Governo corrotto oppure assassini che hanno già fatto un errore e per questo non possono permettersi di sbagliare ancora:

 

“Click, click! È l’unico suono che sento mentre premo il grilletto, solo per rendermi conto che il caricatore era inserito male. Il semaforo diventa verde. L’autista accelera e si perde nella notte”.

 

Assassini con la giusta dose di amaro in bocca, se a morire sono persone che in fondo gli tengono compagnia nell’eterna solitudine cui si vota chi si dà al crimine, fosse pure il conduttore del programma radiofonico preferito, per dire. Come in Nulla sarà come prima.

 

“All’ora stabilita uscimmo per eseguire il mandato. Arrivati alla porta, mi accorsi di aver dimenticato il cappello e tornai a prenderlo. Sul tavolo c’era la radio della Cuaba. E allora capii che, da quella

notte in poi, nulla sarebbe stato più come prima”.

 

Parricidi che del padre intendono abbattere la ferocia ma soprattutto un certo sguardo coloniale sul mondo che è l’origine niente affatto velata del male presente. Come ricorda il protagonista di Remington 1875.

 

“Nonostante fosse il capo di un cartello che risolveva tutto con la violenza, mio padre era un uomo di pace, preferiva risolvere le cose con le buone. Questo non gli impediva, però, di ordinare la distruzione di un intero villaggio quando necessario. Dopotutto, seguiva la massima del fare la guerra per evitare la guerra”.

Certo è che Santo Domingo sembra un paradiso dove siede il demonio, un luogo che la scrittura di Pérez rende plasticamente infernale con una scrittura asciutta e potente: «Una scrittura non espressamente di denuncia ma la cui forza, la cui responsabilità narrativa apre alla discussione, alla critica dei contesti politici e sociali, delle dicotomie colpevole/vittima, della storia maggiore – che si pone, dunque, a credito di futuro». Una dichiarazione di Silvia Tebaldi che il lettore sottoscrive.

Il museo degli sforzi inutili, di Cristina Peri Rossi

Titolo: Il museo degli sforzi inutili
Autore: Cristina Peri Rossi
Editore: Sur
pp. 180 Euro 17,50

di Debora Lambruschini

La mia concezione del fantastico non è poi così differente da quella del reale, perché nella mia realtà il fantastico e il reale si confondono quotidianamente.

Julio Cortázar, L’altro lato delle cose, intervista, Mimesis

 

Il fantastico di Cortázar riecheggia anche nei racconti di Cristina Peri Rossi, tra le più importanti e prolifere voci della letteratura ispanica contemporanea, insignita del Premio Miguel De Cervantes nel 2021; entrare nell’universo letterario di Peri Rossi, soprattutto per quanto riguarda i racconti, significa dunque mettere da parte almeno per un po’ il filtro del reale, quantomeno quello che siamo soliti abitare. Un fantastico peculiare, vicinissimo a quello di Cortázar stesso, che si intreccia al reale per svelarne nuove possibilità, ossessioni, ambiguità, forme. Ma ho scelto di partire da qui, dalle parole dello scrittore argentino, anche per il legame umano che legò Cortázar e Peri Rossi, per l’amicizia che nacque a Parigi, dove l’autore aveva scelto di trasferirsi e dove per un periodo si ritrovò anche lei; amicizia che si trasformò in dialogo poetico, che la scomparsa di Cortázar in qualche modo non interruppe, non del tutto almeno. Trent’anni di distanza li separavano, ma incontrandosi parvero in qualche modo riconoscersi l’uno nelle parole dell’altra, anche se per la giovane poeta Peri Rossi vedersi d’improvviso trasformata in Musa fu anche un po’ straniante:

 

Confesso che la lettura, all’inizio, mi sorprese. Io, il poeta, trattata come la musa: il cambio di ruolo sconvolgeva leggermente la mia identità.

Ma l’identità, in fondo, non è che la didascalia che diamo ai nostri usi e costumi.

 

Che cosa ci faceva Peri Rossi a Parigi? Chi è questa scrittrice oggi ottuagenaria di cui in Italia non si era mai parlato davvero abbastanza?
La sua storia inizia nel 1941 a Montevideo, Uruguay, che lascia però a trent’anni poiché perseguitata dalla censura a seguito della dittatura civico-militare che si è insediata nel Paese: quella di Peri Rossi sarà sempre la lotta di una donna, di una scrittrice, poeta e giornalista, contro chi vorrebbe metterla a tacere; una voce che non si piega e racconta con libertà: il desiderio sessuale, le dittature, l’esilio, l’alienazione delle società contemporanee, le ambiguità e le contraddizioni del mondo, le relazioni, l’eredità dei traumi.
Si trasferisce in Spagna, per un breve periodo a Parigi (è qui che incontrerà Cortázar) per sfuggire alla dittatura di Franco, fa ritorno stabilmente a Barcellona dove vive tutt’ora e da dove continua a osservare il mondo e scrivere. Tradotta in oltre quindici lingue, insignita di premi importanti, apprezzata da critica e pubblico, si muove tra registri e forme diverse, romanzi, racconti, poesie, con lo sguardo attento, la voce limpida, ironica e spietata. In Italia non aveva ancora goduto di particolare fortuna editoriale e della corposa produzione letteraria originale solo due raccolte di racconti erano state tradotte, molti anni fa: Il museo degli sforzi inutili (Einaudi, 1997) e Le difficoltà dell’amore (La Tartaruga, nel 2006, traduzione di Claudio Fiorentino), da tempo finiti fuori catalogo e per lo più dimenticati. Ora però la casa editrice Sur riporta sugli scaffali la prima raccolta, di cui mantiene titolo e traduzione di Vittoria Spada, e l’attenzione di pubblico e critica nostrana pare essersi svegliata. Dove siamo stati tutto questo tempo? Come abbiamo fatto a ignorare questa scrittrice fuori dai margini?
Troppo distratti dalle mode letterarie del momento, a perenne banchetto al tavolo della narrativa breve angloamericana ogni tanto ci dimentichiamo che senza il cuento non esisterebbe short story e che lì, tra America latina e penisola iberica resistono voci che hanno plasmato il nostro immaginario, si muovono tra forme e generi, creano nuove realtà possibili. Accanto a Cortázar, Bolano, Paz, Borges e, cronologicamente più vicine, Amparo Dávila, Mariana Enriquez, Samanta Schweblin, Guadalupe Nettel, Liliana Colanzi – solo per citare poco più di una manciata di nomi in un universo letterario ricchissimo e fondamentale – siede a buon diritto anche Cristina Peri Rossi e la ripubblicazione di questi trenta racconti segnano un punto fondamentale nella riscoperta in Italia della sua voce. Una voce che a distanza di molto tempo non ha perso un briciolo di forza, ironia, onestà.
Abbandonato il filtro del realismo come tradizionalmente abituati a concepirlo, entrare nei racconti qui selezionati significa addentrarsi in quel mondo in cui, appunto, «fantastico e reale si confondono quotidianamente» per approdare in un universo che è il nostro ma amplificato, spesso disturbante e ambiguo, contraddittorio, dai contorni geografici sfumati a trascendere confini di spazio e tempo.
In meno di duecento pagine sono contenuti trenta racconti, alcuni brevissimi, altri di una manciata di pagine, autonomi ed eterogenei a formare una raccolta pura, il cui unico fil rouge è la postura autoriale da cui sgorga l’immaginario fantastico, surreale, assurdo di Cristina Peri Rossi, che si muove tra prima e terza persona, maschile e femminile, tra ironia, grottesco, dramma, onirico. Lo sguardo dell’autrice tratteggia società alienanti, si sofferma su sentimenti, relazioni, ossessioni, investendo il quotidiano di una profusione di simboli, increspature. 
Nel racconto d’apertura, che dà il titolo alla raccolta tutta, un uomo si reca ogni giorno al Museo delle cose inutili, unico visitatore del luogo dove si custodisce memoria degli innumerevoli fallimenti umani: qui resta per sempre traccia, per esempio, dell’insuccesso di chi tenta di insegnare a un cane a parlare, di viaggi lunghi e pericolosi verso posti che non esistevano, di bambini e uomini che cercano di volare, di un uomo che per vent’anni ha tentato di conquistare l’amore di una donna, perfino di Lewis Carroll «che passò la vita a fuggire le correnti d’aria per poi morire di raffreddore» l’unica volta che aveva dimenticato di mettere il soprabito. Il museo stesso, forse, è uno sforzo inutile, dal momento che non riceve altri visitatori o quasi. Resiste, perché assolve all’importante compito di «prendersi cura […] della fugace memoria dei vivi» e la sua custode assume il ruolo di una vestale del tempio, per «il carattere sacro della sua missione» .
I racconti di Peri Rossi si muovono in bilico sulla frattura che stravolge l’apparente equilibrio del reale, sono costellati di simboli, risuonano di echi letterari più o meno espliciti. Lo spazio abitato dalla narrazione è, dunque, quello del fantastico, del reale, del sogno, intrecciati tra loro. La dimensione onirica talvolta assume contorni più tangibili e concreti del reale stesso, per svelarsi a poco a poco al lettore nella connotazione di sogno come ne “La pecora ribelle”, ossessione di un uomo che non riesce a dormire e catalizza tutta la propria frustrazione su quella pecora che non ne vuole sapere di saltare lo steccato e condurlo al riposo.

 

Tutto sarebbe più facile se la prima pecora si decidesse a saltare. Le notti sono lunghe. I campi molto verdi. La città è al buio.

 

L’ossessione attraversa molte di queste storie, influenzandole a vario grado di grottesco, ironia, dramma. È quella di un uomo infatuato dello sguardo enigmatico di Gioconda, di quel sorriso appena accennato, dei misteri che custodisce e che finiscono per sopraffare la sua vita intera.
È, ancora, l’ossessione per la corda su cui un bambino un giorno dell’infanzia sale decidendo di non scendere mai più: un Cosimo Piovasco di Rondò che vive tutta la sua vita su quella corda, indifferente alle richieste del mondo, alla curiosità, alla vita in basso.
Ecco, quella vita in basso che nei racconti di Peri Rossi molto spesso prende la forma di una società alienante, in precario equilibrio su un ordine che basta un minimo tentennamento a infrangere e generare il caos, come ne “La crepa”. Un uomo esita per un istante nel salire le scale per spostarsi da un lato all’altro del marciapiede della metropolitana e il suo tentennamento crea uno scompiglio che non potrà più essere arginato:

 

La folla compatta che lo seguiva ruppe il fitto – ma casuale – reticolo spaziotemporale, sparpagliandosi come una stella che, esplodendo, provochi una diaspora di luci e qualche eclisse.

 

Interrogato da un funzionario del governo circa le sue intenzioni non sa dare risposta dell’esitazione che d’improvviso l’ha colto, del caos che ha portato con sé; frattanto una crepa, sulla parete della stanza dove lo stanno interrogando, si allarga sempre di più. Era già lì quando è entrato? Ci deve essere stato un tempo in cui la parete era perfettamente liscia?
È un racconto dai contorni distopici – ma pure un po’ kafkiani, come altri della raccolta – profondamente politico che spinge a interrogarci sull’azione del singolo, sul ruolo delle masse, sull’intorpidimento nel quale siamo avvolti, sulla forza rivoluzionaria di qualcosa di apparentemente minuscolo, sulla precarietà dell’ordine.
Cristina Peri Rossi mette in dubbio l’ordine che governa il mondo, racconta l’esitazione, la crepa appunto che si allarga sulla parete. Le sue storie in apparenza aliene raccontano il mondo e l’uomo nei loro aspetti più contraddittori, attraverso le metafore che danno forma alle cose, mediante la demistificazione del dolore. Spesso narrano di uno scarto dall’ordine precostituito, dalle aspettative, dalle convenzioni: l’uomo che segue un rigido rituale per scendere dal letto, il ragazzo sulla corda che rifiuta di vivere nel mondo, l’atleta che a un passo dal record mondiale sceglie di fermarsi, l’uomo che con la sua esitazione scatena un pandemonio. Peri Rossi in molti di questi racconti pare metterci in guardia sul pericolo e la precarietà del vivere nel mondo, in società solo in apparenza ordinate, dove basta solo una persona che esca dai binari per sconvolgere ogni cosa.
Lo sguardo dell’autrice scandaglia l’animo umano restituendo al lettore un caleidoscopio di sentimenti e ambiguità: una coppia che entra in crisi quando lui perde di vista il punto fermo che gli era stato donato, un uomo che tenta di comprare il tempo necessario a curarsi dalle ferite – che da metaforiche assumono contorni reali – per la separazione da una donna, altri due che si fondono in uno strano essere unico in una “Storia d’amore” e morte.
Quello di Cristina Peri Rossi è un immaginario ricchissimo che si rivela in lampi di luce abbagliante, in quell’ironia feroce che attraversa le pagine e si fa ora spietata ora intimamente partecipe del dramma. È il racconto, nelle sue molteplici possibilità.

Il rasoio di Beckham, di Roberto Barbolini

Titolo: Il rasoio di Beckham
Autore:Roberto Barbolini
Editore: La Nave di Teseo
pp. 352 Euro 18,00

di David Valentini

Roberto Barbolini, classe 1951, è un personaggio decisamente eclettico. Critico letterario e teatrale, nella sua lunga carriera artistica ha scritto romanzi e raccolte di racconti, ma anche opere di teatro e saggistica, oltre a occuparsi di varie curatele. Insomma, una vita dedicata all’arte, sia quella più seria che quella più faceta.
A questo secondo gruppo appartiene la sua ultima raccolta di racconti, Il rasoio di Beckham, pubblicato verso la fine dello scorso anno per i tipi di La nave di Teseo. Già dal titolo si può comprendere lo spirito dell’opera. Il richiamo “elevato” è infatti al rasoio di Occam, il famoso principio metodologico attribuito al teologo, filosofo e religioso francescano inglese Guglielmo da Occam, vissuto nel XIV secolo, che indica di scegliere la soluzione più semplice tra più soluzioni egualmente valide di un problema. C’è però anche un richiamo che potremmo definire “pop”, ossia quello riferito a David Beckham, ex calciatore e attualmente dirigente sportivo e imprenditore (nonché icona e sex symbol degli anni Duemila e marito della ex Spice Girl Victoria Adams). L’associazione del rasoio di Occam con il nome di David Beckham crea sin da subito un forte contrasto: il richiamo ai due diversi mondi – la filosofia e il calcio – è così immediato da far scattare subito l’ironia che vi è dietro, oltre a esemplificare in quattro parole (due, se non contiamo l’articolo e la preposizione) un fenomeno che capita spesso a chi tenta di far sfoggio di una cultura appresa sui banchi di scuola e mai più rielaborata, ossia la confusione di campi semantici che genera errori grossolani.

 

Ho sempre pensato che i vegani prendessero il nome da Vega, la stella più brillante della costellazione della Lira e la quinta dell’intero firmamento, nonché la seconda per luminosità dopo Arturo nell’emisfero celeste boreale. Ma mentre accompagnavo Cloe al tavolino che ci avevano riservato, a questa genealogia astrale andavo sovrapponendo mentalmente l’immagine sfavillante di Las Vegas.

(dal racconto Sotto il segno di Vega)

 

Il rasoio di Beckham è una raccolta di ventisette racconti suddivisi in quattro parti, le quali tentano di ripartire le storie in macro temi non sempre precisi (ad esempio la seconda parte, tutti a tavola, raccoglie sei racconti inerenti, fra le altre cose, il cibo). Di questi racconti, ventuno sono inediti mentre gli altri sei sono apparsi in precedenti raccolte o antologie. Barbolini spazia dal racconto breve, anche di tre pagine, al racconto lungo (il più lungo, L’Orgoglio di Modena, è di trentacinque pagine). Queste storie sono slegate fra loro: se qualche richiamo c’è, appare più incidentale che voluto perché le ambientazioni sono spesso connesse all’hinterland modenese o, più in generale, alla zona emiliana.
C’è da dire sin da subito che la quantità di racconti e la presenza di diverse storie brevi non aiuta il lettore a percepire un legame all’interno della raccolta. A creare un senso identitario non sono tanto le vicende narrate o i personaggi quanto l’umorismo e l’equivoco che spesso dà il la alla narrazione e costituisce il vero leitmotiv del libro di Barbolini. Molte vicende prendono avvio infatti da piccole incomprensioni, a volte proprio sull’uso delle parole, che generano discussioni e litigi fra i personaggi e portano a un finale tragicomico. Nei racconti più lunghi, nei quali c’è modo di assistere a uno sviluppo di trama articolato, questo meccanismo riesce meglio al punto che, in alcuni casi – come il già citato L’Orgoglio di Modena –, non solo è impossibile anticipare il finale ma quando si arriva alle ultime righe si viene colti dal senso di spaesamento tipico di una narrazione che appare quasi senza senso e che invece un senso lo ritrova: quello delle disavventure assurde di un gruppo di amici di lunga data che hanno vissuto un’esperienza da raccontare.

 

Sentite come andò la faccenda. Una gran brutta faccenda, se diamo retta a Marcellus IV, da non confondere con Marcellus I. Non chiedetemi notizie degli altri due Marcellus, il numero II e il numero III, perché semplicemente non sono mai esistiti. Altrimenti, anziché un duo, Marcellus IV e Marcellus I avrebbero messo su un quartetto, e sarebbe stata tutta un’altra musica (dal racconto In culo a Bruce Willis)

 

 

La narrazione di Barbolini infatti risente molto del parlato quotidiano. Molti incipit si rivolgono direttamente al lettore come fosse parte di una combriccola di persone che condividono un background socio-culturale, o meglio ancora che vivono a poca distanza l’uno dall’altro e si incontrano al bar per raccontarsi gli ultimi eventi. Il risultato è un senso immediato di intimità rispetto ai personaggi che vengono presentati come fossero amici, conoscenti o amici di conoscenti. Il destinatario della narrazione, però, ossia i “noi” a cui si rivolgono i narratori, non siamo tanto noi lettori quanto altri personaggi che non compaiono nel racconto ma che sono seduti al tavolo insieme al narratore. Noialtri, invece, siamo al tavolo accanto a origliare quel che viene raccontato, col risultato di ascoltare una storia di cui non possiamo conoscere tutti i retroscena perché, come accade nella narrazione orale, vengono omessi. La mancanza di dettagli a volte fondamentali amplifica sia il senso di spaesamento sia l’effetto comico: da un lato infatti può capitare di fermarsi a un certo punto e chiedersi “Ma di che stiamo parlando qui?”, o anche “Dove vuole andare a parare il narratore?”; dall’altro, il continuo equivocare e il presentare situazioni al limite del paradossale, certamente amplificate ed esagerate come accade quando si racconta una vicenda a un amico, conduce a un crescendo e a un parossismo tali da strappare più di una risata. Se fossimo veramente al bar ad ascoltare queste vicende sorseggiando un caffè, ciò che vorremmo fare sarebbe scrivere ai nostri amici esordendo con “Non sai che storia assurda ho appena ascoltato”.

 

Ma anche il paradiso terrestre può venire a noia e questo spiega perché Sandra è diventata Chandra, la sciroccata che va in giro col suo sari arancione, il piattino e il tamburello chiedendo l’elemosina per conto degli Hare Pio: una setta di squinternati che nel nome di Krishna e di Padre Pio da Pietrelcina praticano la preghiera e l’accattonaggio a favore dei ricchi (dal racconto Mio marito è un mi bemolle)

 

Le storie di Barbolini sono costellate, oltre che da equivoci e astrusità varie, anche da riferimenti di vario tipo alla cultura popolare, all’arte, alla filosofia, alla religione. Può capitare che in alcune pagine vi siano una decina di citazioni o richiami appartenenti ai più disparati campi culturali, e che vengano collegati fra loro in maniera così precisa da sentirsi smarriti dinnanzi alla lettura. Così come il rasoio di Beckham può apparire, a tutta prima, qualcosa di realmente esistente – salvo poi soffermarsi un istante per ragionare meglio su ciò che si è letto –, allo stesso modo si può nutrire un senso di perplessità nell’associazione fra gli Hare Krishna e Padre Pio, o fra un tesoro misterioso e il maiale più premiato di una gara decisamente peculiare. C’è di tutto fra le pagine di Barbolini: Star Wars e Re Artù, Ilona Staller e la Russia di Putin, il paradosso di Schrödinger e Salgari. A tratti sembra di osservare un quadro di Hieronymus Bosch, con tutte quelle forme umane e semiumane che tappezzano ogni centimetro della tela e che, più ci si sofferma a guardarle, più sembrano irragionevoli. Il che, è appena il caso di farlo presente, richiede nel lettore un certo sforzo e un certo bagaglio culturale se intende comprendere tutti i riferimenti, gli scherzi e i vari divertissement con cui Barbolini ha arricchito la propria opera.

Le bestie, di María Fernanda Ampuero

Titolo: Le bestie
Autore:Marìa Fernanda Ampuero
Editore: granvia
Traduzione: Francesca Lazzarato
pp. 128 Euro 14,00


di Chiara Bianchi

In esergo, una frase di Clarisse Lispector «Sono un mostro, oppure è questo che significa essere una persona?», una frase in forma di domanda che ha probabilmente ossessionato María Fernanda Ampuero mentre scriveva questi tredici racconti che compongono Le bestie, pubblicato da granvia, nella traduzione di Francesca Lazzarato.
María Fernanda Ampuero, classe 1976, scrittrice ecuadoriana, ci conduce negli abissi di quella domanda iniziale presa in prestito, fino a farla diventare un’affermazione.
I corpi distrutti dalla malattia, dall’abuso e dall’odio, la violenza perpetrata e la smisuratezza del quotidiano s’insinuano nel racconto. L’efficacia della mostruosità risiede proprio nel luogo in cui si sviluppano le storie: all’interno di case di famiglie appartenenti alla classe media latinoamericana, in cui la violenza irrompe per distruggere tutto. Si ha la percezione di vivere sul bordo di un precipizio, continuamente e in compagnia dei personaggi che Ampuero con abilità stilistica costruisce attorno a quelli che sembrano fatti di cronaca, in cui la brutalità è specchio di una società malandata.
La prosa di Ampuero calamita il lettore, mentre sviscera scene terribili, avvolgendole di un’aurea intima ed evocativa in una sinestesia di olezzi attraverso cui i personaggi rivivono esperienze di disgusto capaci di oltrepassare la pagina e arrivare dritta a noi che leggiamo.
In molti di questi racconti, la famiglia appare come il generatore di queste tragedie e la preadolescenza è rappresentata come una via crucis penosa, dolorosa e obbligata, da cui i personaggi non potranno uscirne indenni.
I titoli sono formati, tutti e tredici, da un’unica parola, evocativa. Il racconto che apre la raccolta è quello che è stato più apprezzato dalla critica statunitense. Si intitola Asta e racconta di una particolare tradizione sudamericana legata ai combattimenti dei galli. Il ricordo della protagonista si focalizza su suo padre, sulle corse a cui la lasciava partecipare pur bambina, alla crudeltà di sottoporla alla tortura della morte: «Toccava a me raccogliere la palla di piume e interiora e portarla al cassonetto della spazzatura». Le lacrime delle prime volte e le parole di suo padre: «Su non fare la femminuccia. Sono galli, cazzo». L’odore disgustoso di morte torna e collega l’evento presente. La protagonista si ritrova legata e bendata in un luogo sconosciuto. Rapita da una banda di uomini disposti a tutto pur di vendere i loro prodotti: gli umani sequestrati.
Il racconto si focalizza sull’evento e toglie il fiato per la crudeltà con la quale vengono descritte le angherie subite dai prigionieri, degno di un film splatter.

E come nei migliori film horror, la presenza dei gemelli emerge nei racconti successivi: in Mostri, la serva Narcisa mette in guardia le due dodicenni: «bisogna avere paura più dei vivi che dei morti». Nella loro pubertà le due ragazzine guardano film horror di nascosto dai genitori e giocano con le loro bambole all’esorcista. Non sanno però che la loro fantasia non ha ancora superato la realtà brutale che si nasconde nella loro casa. La figura del padre emerge fin da subito come il tipico patriarca a cui tutto è concesso.

In Griselda, emerge la solitudine procurata dalla violenza domestica subita ai danni dell’anziana del quartiere, famosa per le sue torte di compleanno. Raccontata dagli occhi di una bambina di undici anni; la storia di Griselda assume i toni di una delusione infantile e ciò che accade alla donna non ha importanza in un contesto comunitario in cui l’eccezione diventa la norma.

 

L’anno dei miei undici anni non ebbi la torta. Dopo quella faccenda, la mia mami non volle ordinarla alla signora Griselda, perciò mangiammo un triste pan di spagna coperto di meringa bianca, confettini e una candela a forma di numero undici. (da Griselda)

 

Le coppie di gemelli in fase preadolescenziale continuano a costellare i racconti in Nam, come in Creature, compare l’infatuazione, il sesso – in un contesto domestico turbato da genitori dal passato incrinato dalla guerra o dalla malattia mentale e con un futuro incerto – e l’amicizia.

 

Con lei rido come se a casa mia non succedesse nulla, come se mio padre mi volesse bene come un padre. Rido come se non fossi io, ma una ragazza che dorme felice.
Rido come se non esistesse la crudeltà. (
da Nam)

 

I padri sono violenti, le madri assenti. Questo è un mood costante, perpetuo, in cui ci abituiamo a vivere la lettura di queste storie fino a Persiane, racconto affidato a Felipe, prima voce maschile narrante, che ci racconta la sua giovane esistenza tra le mura domestiche, dove le persiane vengono chiuse di giorno e aperte la notte.
«In questa casa in culo a questo paese in culo al mondo la vita era abbastanza bella. Qui siamo cresciuti tutti e tre» dice Felipe ricordando i giorni in cui i suoi cugini passavano le estati lì. La figura della nonna, vecchia, temuta, ora immobile si mescolano ai ricordi di promesse materne mai mantenute. E nel caldo di una insopportabile estate, Felipe non vuole più restare dove «gli uomini non ci sono più» e lui l’uomo non vuole esserlo. Vorrebbe tornare nel passato dove i ricordi si fanno dolci. Ma la madre lo trattiene in un vortice di violenza inaspettata, proprio sul finale.

E di madri si parla anche in Cristo. Una ragazzina che guarda sua madre e la descrive come «un’altra bambina perduta in un mondo di bambine perdute». L’abbandono familiare, la vita difficile, due figli da mantenere, il mestiere di prostituta come unica via d’uscita dalla fame, la violenza subita «a te, creatura delle botte, figlia della brutalità, principessa delle notti che si concludono come le donne malconce», un uomo da amare nonostante la sua predisposizione alla violenza, la ragazzina costretta a occuparsi di un fratellino malato: tutto sbagliato.

In Passione, Ampuero ci regala un Cristo donna: una madre abbandona la sua bambina che poi crescerà sotto la cura dei suoi nonni. La gente del villaggio gli dice che sua madre è andata a cercare uomini. La bambina cresce e prende una decisione verso i suoi nonni. Diventa un essere vile finché non incontra un uomo che sarà la sua più grande rovina.

 

Quello che è stato, è stato. Quello che è, è. (da Lutto)

 

In Lutto è ancora l’aspetto religioso a essere rilevante. Due sorelle vivono sole, un fratello moribondo che abusava di una di loro, sole «senza un uomo in casa, e dovremmo tremare come cuccioli di una cagna morta». La fede diventa l’unico motore per andare avanti, nelle preghiere la volontà di restare sole. Le due Maddalene ci fanno immergere in un racconto surreale, forse l’unico che ricorda le intenzioni della seconda raccolta di racconti Sacrifici umani (che granvia ha pubblicato nel 2022).

 

In Ali, troviamo il bel racconto delle domestiche che descrivono la loro padrona, come «strana, perfino nella generosità». Ci addentriamo in riti domestici e abitudini consolidate fondati sulla violenza.

 

Sì. La signorina Ali era una bravissima madre, fino a un po’ prima della fine. Poi è andata fuori di testa e non ce la faceva più, non più. (da Ali)

 

Ali ha una madre che per eccesso di preoccupazione invade il suo spazio privato. Ali non parla più, così sua madre per farsi compagnia «si portava le amiche per non annoiarsi, anche se era chiaro che alla figlia non piaceva che venisse gente: «nascondeva la testa sotto il lenzuolo e restava così, come avvolta in un sudario».
Il divario di classe tra le ricche donne e le domestiche si trasforma nel racconto in un divario di sentimenti. L’empatia assente nella madre di Ali è invece forte nell’amore delle domestiche, ma nonostante questo la fine della donna pare segnata.

 

Così vanno le cose, no? Vediamo qualcuno e non sappiamo cos’è successo dietro la porta di casa sua. (da Ali)

Nel successivo Coro i ruoli si invertono e a parlare sono quelle ricche donne amiche della madre di Ali. Tutto assume i toni dell’ipocrisia, non c’è benevolenza ma soltanto pettegolezzo, perché «non dover parlare degli altri significa dover parlare di sé». Coro è il nome della domestica «nera, che lavora in casa, e magari ha un odore diverso perché loro hanno un odore diverso». Sul finire compare una piscina e il racconto successivo si chiama Cloro. Ambientato in un albergo, in una suite, una donna avanti negli anni dalla pelle bianca osserva gli inservienti neri che puliscono la piscina. Il confronto tra l’inutilità della sua vita e quella di quegli uomini destinati a essere dimenticati giunge a conclusioni sporcate di razzismo.

 Giunti all’ultimo racconto Altra i toni chiaroscuri si allontanano dal Sudamerica per avvicinarsi a quelli al neon dei racconti americani statunitensi. Si svolge in un supermercato, una donna è lì per fare la spesa e acquistare quanto necessario al desiderio di suo marito.

 

Mangiare prodotti del supermercato prima di pagarli è una delle poche trasgressioni che ti concedi.
È l’unica che ti concedi.
(da Altra)

In Le bestie, non incontrerete trucchi letterari o parole inverosimili per addolcire la brutalità narrata. Qui dentro troverete morte, sangue, viscere, merda, sperma, sudore: violenza e terrore.
Un libro dell’orrore, dove la casa familiare, quello spazio che costruisce – o distrugge – le persone è una feroce prigione. Tutti gli orrori e le meraviglie racchiusi tra quelle mura: lo spavento e la gloria delle nostre vite quotidiane.

Le piccole cose tutt’altro che da nulla di Claire Keegan

Titolo: Quando ormai era tardi
Autore:Claire Keegan
Editore: Einaudi
Traduzione: Monica Pareschi
pp. 96 Euro 13,00

di Debora Lambrischini

«Elegance is saying just enough. And I do believe that the reader completes the story»
Parlava così Claire Keegan in un’intervista rilasciata al Guardian lo scorso anno, in occasione dell’uscita di So Late in the Day. Stories of Women and Men: poche parole, anche in questo caso, che arrivano dritte al punto della questione e danno un’idea piuttosto chiara della postura autoriale di Keegan, tra le voci più acclamate della narrativa irlandese contemporanea. È alla produzione breve che la scrittura di Keegan si lega indissolubilmente, il racconto o la novella quali dimensioni a lei più congeniali. A portare per primo i suoi testi in Italia fu diversi anni fa l’editore Neri Pozza, con due raccolte di racconti che oggi sono purtroppo introvabili: Dove l’acqua è più profonda nel 2010 (Antarctica, 1999) e nel 2009 Nei campi azzurri (Walk the blue fields, 2007), entrambe tradotte da Massimiliano Morini. Tuttavia, nel nostro paese, il successo di Keegan è cosa più recente, con la pubblicazione per Einaudi di due novelle magistrali, Un’estate (Foster, 2010) e Piccole cose da nulla (Small Things Like This, 2021) entrambe tradotte da Monica Pareschi e uscite tra il 2022 e il 2023. La traduzione di Morini era inappuntabile dal punto di vista formale – e sarebbe davvero un gran regalo per i lettori che entrambe le raccolte Neri Pozza fossero nuovamente disponibili – ma l’incontro con Pareschi è un connubio perfetto, fatto tanto di tecnica che di connessione emotiva e capacità profonda di comprendersi nelle sfumature del testo, nell’apparato di immagini, simboli, rimandi ed echi letterari. È ancora Pareschi, dunque, a dare voce all’ultima raccolta della scrittrice irlandese, Quando ormai era tardi (So Late in the Day. Stories of Women and Men): la raccolta è uscita a fine anno per Einaudi e contiene tre racconti originariamente scritti in tre momenti differenti e qui riuniti in ordine cronologico inverso, dal più recente che dà il titolo al volume, passando per “Una morte lenta e dolorosa” del 2007 e “Antartide” del 1999. Tre storie, quindi, che coprono un arco temporale molto ampio, indipendenti, ma che dialogano tra loro legate dal fil rouge della riflessione sui rapporti umani che anche in questo caso Keegan indaga con lucidità, penetrando anche negli angoli più oscuri e, tutte e tre, avvinte da un’atmosfera di inquieto disincanto. È anche la scrittura a tenere insieme questa breve raccolta, la voce autoriale di Keegan: la narrazione è tesa e misurata, fa ampio uso dell’ellissi e poggia su una generale economia descrittiva che si fonde alle immagini, ai simboli, agli echi della tradizione letteraria. Ogni storia è fatta anche dei suoi spazi bianchi perché, come sosteneva appunto l’autrice nell’intervista citata in apertura, è compito del lettore completarla trovando da sé le proprie risposte. Un’idea di libertà e interpretazione che è propria già della prosa di Keegan, concentrata sulla storia e non sul messaggio da trasmettere. È naturale, dunque, che la forma breve sia quella a lei più congeniale e la cura che dedica alla parola si evince anche da una bibliografia che gli standard editoriali giudicherebbero scarna, con “soli” cinque libri pubblicati dall’esordio nel 1999 a oggi, un’economia di parole che rimarca l’artigianalità della scrittura.
È possibile dunque osservare nel suo quadro complessivo la produzione letteraria di Keegan e notare, nelle varie sfumature della narrazione e nelle evoluzioni della scrittura, una serie di riferimenti e ricorrenze, tematiche e formali. La sua scrittura ha il passo della tradizione irlandese del Novecento, come sottolineava anche la sua traduttrice Monica Pareschi nel corso di un’intervista che le feci lo scorso anno, vicina alle narrazioni di Edna O’Brien, John McGahern, Joyce ma, a mio avviso, in qualche modo anche alla generazione di scrittrici irlandesi contemporanee da Sally Rooney a Naoise Dolan, passando per Eimear McBride, Anna Burns e soprattutto i racconti di Claire-Louise Bennet, pur nelle differenze peculiari di ognuna di loro. C’è dunque nei racconti di Keegan l’eco della letteratura su cui si è formata più o meno direttamente attraverso immagini e citazioni, l’urgenza di raccontare le storture dell’ambiente culturale e sociale entro cui si sviluppano, c’è il discorso di classe, diversi gradi di alienazione e solitudine che ricorrono nelle storie e una tensione costante che pur non sfociando spesso in aperta violenza, anzi proprio per questo, si insinua sottopelle.
I protagonisti delle narrazioni di Keegan sono uomini e donne qualunque, alle prese con un quotidiano che può essere alienante, solitario, teso tra ideale e realtà. Di queste vite l’autrice ci restituisce qualche istante, una porzione piuttosto limitata nel suo dispiego temporale ma profondamente incisiva, costellata di epifanie minime, piccoli gesti, drammi.

Uno dei suoi testi più acclamati, Piccole cose da nulla, è tutto concentrato nella settimana prima di Natale: tanto basta a Keegan nello spazio di meno di un centinaio di pagine per affrontare tematiche profonde e complesse, tratteggiare con poche pennellate mirate uno spaccato dell’Irlanda rurale degli anni Ottanta. A discapito del titolo è la storia di scelte fondamentali che cambiano una vita – più d’una in realtà – ma anche una riflessione profonda su quanto decidiamo di non vedere per proteggere noi stessi e l’equilibrio delle nostre vite, sull’omertà cui è facile finire invischiati per convenienza, quieto vivere, necessità. Un giorno uguale all’altro. Finché non è più possibile fare finta di niente e un gesto, tutt’altro che una “piccola cosa da nulla” ricorda al protagonista quanto la solidarietà possa fare invece la differenza e cambiare il corso di una vita, anche se questo significa mettersi contro le istituzioni religiose, attirarsi il malcontento della propria famiglia, andare incontro a sfide che rischiano di gettare in crisi un’esistenza ordinaria.

 

[…] si ritrovò a domandarsi che senso aveva essere vivi se non ci si aiutava l’un l’altro. Era possibile tirare avanti per anni, decenni, una vita intera senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com’erano e continuare a dirsi cristiani, a guardarsi allo specchio? (Piccole cose da nulla, p. 89)

 

È una novella piuttosto breve, dunque, ma che resta a lungo nella memoria del lettore, per l’incanto della scrittura e la potenza delle riflessioni che porta con sé: possiamo davvero considerarci brave persone se viviamo una vita onesta ma scegliamo di non vedere le ingiustizie intorno a noi? Quali sopraffazioni decidiamo di ignorare? Anche in questo caso Keegan costruisce una narrazione in cui coinvolgere direttamente il lettore, lasciando gli opportuni spazi bianchi della narrazione e un finale aperto, concentrando la storia su quei piccoli momenti decisivi, tra presente e passato, in un arco temporale circoscritto.

Lievemente più disteso il tempo di Un’estate, con la storia che si sviluppa appunto entro il tempo di una stagione, quella necessaria alla piccola protagonista a comprendere il significato di cura, amore, gentilezza. Un’estate è un apprendistato all’affetto dove sono i piccoli gesti a modificare profondamente le cose. La protagonista è una bambina di nove anni, cresciuta in una famiglia affollata, povera, per lo più ignorata; viene mandata a trascorrere l’estate presso la fattoria di certi parenti della madre, un uomo e una donna che hanno perso un figlio molti anni prima. Una novella scarna di parole e dialoghi che si compie magistralmente mediante quei piccoli gesti entro cui è racchiusa ogni cosa: l’estraneità, l’affetto istintivo, la ritrosia, il dolore sepolto ma mai superato, la perdita, la scoperta dell’affetto.

 

Kinsella mi prende per mano. Allora mi rendo conto che mio padre non l’ha mai fatto, nemmeno una volta, e una parte di me vorrebbe che Kinsella mi lasciasse andare, così non sarei costretta a provare niente di simile. È una brutta sensazione, ma andando avanti comincio ad abituarmi alla differenza tra la mia vita a casa e quella che ho qui, e la accetto. (Un’estate, p. 37)

 

Da questa storia – come da Piccole cose da nulla – è stato anche tratto un bellissimo film, The Quiet Girl, per la regia di Colm Bairéad che ne ha saputo rievocare i silenzi, gli spazi sospesi della narrazione, il punto di vista della giovane protagonista, le atmosfere e l’intensità. Non era affatto semplice, ma questo film è un gioiello, al pari della novella di Keegan e la profondità di quello che racchiude entro così poche pagine. Anche in questo caso ciò che lo sguardo dell’autrice inquadra è solo una parte delle vite dei personaggi, quel «moment of truth» che fa il racconto, costellato talvolta di piccole fondamentali epifanie, ma che di lì a poco si appresta a sfumare, togliendo tutto il superfluo, dosando le parole con garbo e attenzione, aprendo le porte al lettore.

I tre racconti recentemente pubblicati da Einaudi nella raccolta Quando ormai era tardi portano in loro un’inquietudine più esplicita delle due novelle poc’anzi citate, la scrittura maggiormente tesa, lo sguardo disincantato. I rapporti umani sono indagati nei loro angoli più bui, la violenza latente pare pronta a esplodere, poco conta se sulla scena o appena fuori campo. Storie indipendenti ma accomunate dalla rappresentazione di una mascolinità negativa, mischiata al patriarcato, alla misoginia, a un costante desiderio di prevaricazione sul femminile, emotivo o fisico. L’uso peculiare del linguaggio nelle narrazioni di Keegan tra immagini e piccoli dettagli disvela nella rilettura tutto il potenziale e il sostrato di rimandi, epifanie, particolari sottesi, forte anche in questo della lezione dei classici della narrativa breve otto-novecentesca. Ecco dunque che una lettura veloce della storia eponima di questa più recente raccolta mostra la malinconia per la fine di un amore; il secondo racconto, “Una morte lenta e dolorosa”, la quiete del ritiro di una scrittrice disturbata da un vecchio professore antipatico; il terzo e ultimo racconto, “Antartide”, le insidie di una relazione extraconiugale. Ma lo stile piano non deve trarre in inganno: dietro ogni parola, ogni omissione, ogni dettaglio in apparenza minimo, c’è un mondo di riferimenti, simboli, particolari importanti. È interessante che nel primo racconto, “Quando ormai era tardi”, Keegan scelga il punto di vista del protagonista della storia, Cathal, con il quale in primo momento siamo portati a empatizzare ma che nel giro di una manciata di paragrafi si rivela un uomo meschino, incapace di reale affetto per la compagna, di cura, di generosità. La storia si scopre in un viaggio a ritroso ed ecco che tutti i pezzi che l’hanno portato a quella solitudine rivelano la misoginia dell’uomo.

 

«È solo che non immaginavo sarebbe stato così, tutto qua, - aveva detto lui. – Pensavo solo al fatto che saresti stata qui, che avrei cenato con te. Forse è solo una dose eccessiva di realtà».
(“Quando ormai era tardi”, p. 24)

 

Quella «dose eccessiva di realtà» è la vita, lo spazio da dare all’altro, i suoi bisogni, i gesti dell’affetto. E dunque di fronte alla troppa realtà, per Cathal resta soltanto l’ingombro delle cose della donna che dice di amare, le stravaganze, le differenze che non si completano ma si fanno distanza. Mentre la relazione diventa più seria da un punto di vista formale, i sentimenti non vanno di pari passo ed è come se in fondo non fossero altro che convenzioni sociali da cui non si è disposti a staccarsi.

Quelle stesse convenzioni, forse, che spingono la donna del racconto finale, Antartide, a restare dentro il ruolo che ci si aspetta da lei, cercando però altrove la passione che manca nella sua vita:

 

Ogni volta che la donna felicemente sposata si allontanava da casa, si chiedeva come sarebbe stato andare a letto con un altro uomo. (“Antartide”, incipit, p. 63)

 

Con la scusa degli acquisti per Natale la protagonista si allontana per qualche giorno, decisa a vivere una passione che nel suo quotidiano ha perduto. La seguiamo al suo arrivo in città, nell’elegante camera d’albergo che ha prenotato, mentre si prepara con cura per uscire alla ricerca di un amante sconosciuto. E quando dunque lo troverà al bancone di un bar, tra fiumi di alcol, non vorrà cogliere i tanti campanelli d’allarme che a noi lettori – soprattutto di oggi – risuoneranno invece potenti. Ciò che sembra dirci Keegan, con questa storia amara e ironica insieme, è che il mondo non perdona una donna che non rispetta le regole.
Il ruolo di una donna e, soprattutto, la delegittimizzazione del suo lavoro, è al centro di “Una morte lenta e dolorosa”, in cui Keegan sceglie il punto di vista di una scrittrice senza nome – anche questo un dettaglio importante – che soggiorna per un periodo nella casa dove Heinrich Böll scrisse alcune delle sue opere e riconvertita in residenza per artisti. Ma il soggiorno che dovrebbe fornirle la pace e l’ispirazione necessaria alla scrittura, è disturbato da uno sgarbato vecchio professore di letteratura tedesca che, si scopre tra le righe, non nutre la minima stima per la scrittura di quell’estranea che si insedia senza tante cerimonie nella casa di un autore della levatura di Böll. Nei modi sempre più apertamente sgarbati dell’uomo, nelle sue frasi spezzate, nel disprezzo malcelato, Keegan sottende una riflessione su un tema che ha radici antiche ma che è tutt’altro che risolto, ossia la legittimazione del lavoro femminile, dell’intelletto e del talento letterario. La donna rivendica il proprio ruolo di scrittrice, finendo anche per usare quell’esperienza, e già il suo soggiorno in quelle stanze rimarca l’esigenza di uno spazio da reclamare per sé; l’uomo, dunque, è archetipo della quotidianità che incombe sul lavoro intellettuale femminile, le esigenze da assecondare, il brusio di sottofondo che toglie concentrazione e il tentativo di delegittimarne il ruolo. 
La prevaricazione maschile, più ancora del discorso sulle relazioni e i rapporti umani, dunque, è l’elemento che lega le tre storie di Quando ormai era tardi, che pur scritte a una certa distanza temporale restano ancora attuali e interessanti da leggersi nella particolare realtà contingente. La violenza di genere si compie qui tanto nei gesti che nelle parole, a riprova di un fenomeno radicato, culturale, e verso il quale continua ad avere un peso significativo la colpevolizzazione delle vittime, il femminile da sminuire, tentare di mettere a tacere. È una violenza verbale, intellettuale, fisica, che porta con sé un retaggio patriarcale da cui è difficile liberarsi davvero ma che la sensibilità contemporanea pare almeno riconoscere.

Ecco, dunque, che le narrazioni di Claire Keegan si dispiegano nello spazio di poche pagine ma in uno sviluppo in profondità difficile da dimenticare. Sono racconti magistrali, piccole cose tutt’altro che da nulla.  

Ghiak. Racconti di sangue, di Dimosthenis Papamarkos

di Elisabetta Garieri

«Smirne sì che era una gran città. Altro che Atene e Salonicco. Le avevo viste tutte e due durante la guerra, ma città come Smirne, caro Gùssia, ce ne sono solo in America».

Una frase emblematica, questa, di ciò che rappresenta Ghiak - Racconti di sangue di Dimosthenis Papamarkos, il caso editoriale più significativo degli ultimi anni in Grecia, uscito a maggio per Crocetti editore, nella traduzione di Valentina Gilardi, dieci anni dopo la pubblicazione in lingua originale. Edito nel 2014 da Antipodes – casa editrice nata nello stesso anno che, dopo il successo iniziale dovuto a Ghiak, si è affermata come uno degli approdi più ambiti per chi scrive narrativa oggi in Grecia, nell’ambito della piccola e media editoria di qualità – e poi acquisito nel 2020 dal colosso Patakis, ha sperimentato un successo virale, passando da bestseller a longseller, è stato adattato per la radio e varie volte per il teatro.

È una frase emblematica perché colloca il libro in una zona apparentemente marginale della Grecia di oggi, per come la conoscono i più: la costa dell’odierna Turchia chiamata un tempo Asia Minore, o Anatolia, antistante le isole greche dell’Egeo. Questa zona ha infatti smesso di essere greca a seguito della pesante sconfitta subita contro i turchi in Asia Minore, nel 1922, culminata proprio con l’incendio di Smirne. Evento chiave della storia greca moderna, assieme al conseguente scambio forzato di popolazioni stabilito nel 1923 dal Trattato di Losanna, la cosiddetta Catastrofe stravolse il tessuto sociale e urbano della Grecia del tempo. Attorno a questa ferita della storia recente ruota Ghiak, il cui successo, incredibile e inatteso, è inedito per almeno due motivi.

Innanzitutto nelle nove storie che raccoglie, tutte in forma di monologo, a parlare in prima persona sono uomini della Ftiotide (antica Locride Opunzia, di fronte all’isola Eubea), che hanno partecipato alla fallimentare campagna d’Asia Minore e che raccontano le atrocità di cui loro stessi sono stati protagonisti. Riconoscere le violenze perpetrate in quel contesto anche dai greci, a fronte di un discorso comunemente incentrato, a tal proposito, sulla furia distruttrice dell’esercito turco, non è una novità assoluta, nella letteratura greca sulla Catastrofe. Se infatti gli autori del periodo tra le due guerre (cfr. in italiano, Ilias Venezis, Il numero 31328, tr. Francesco Colafemmina, Edizioni Medhelan e Stratìs Dukas, Storia di un prigioniero, tr. Francesco Scalora, Edizioni Aiora) «hanno vissuto gli eventi da vicino, trasmettono il sentimento di sconfitta e il vissuto di rifugiati, impiegano la memoria per mettere in risalto la nostalgia per le patrie perdute», come scrive il critico Ghiorgos Perandonakis sulla rivista online “Bookpress”, sulla scia della Megali Idea, ormai naufragata per sempre, l’approccio cambia nei primi decenni del secondo dopoguerra, quando «la distanza cronologica e l’influenza del pensiero di sinistra spingono gli autori a mettere in evidenza la convivenza pacifica che esisteva tra greci e turchi prima della guerra e a sottolineare le responsabilità delle grandi potenze nel fomentare il conflitto», (cfr. in italiano Didò Sotiriou, Addio Anatolia, tr. Maurizio De Rosa, Crocetti editore) scrive sempre Perandonakis. Per la prima volta, però, il punto di vista dei greci come attori di violenze assume un ruolo centrale.

In secondo luogo i narratori sono della Ftiotide ma sono anche greci arvaniti, appartengono cioè a una popolazione di origine albanese, presente in varie zone della Grecia, che ha una propria lingua, un po’ come la comunità arbëreshë in Italia. Ghiak è dunque scritto in una lingua orale, dal registro informale e un po’ antiquato, che è un impasto di parlata locale della Ftiotide, nello specifico di Malessina, paese di origine dell’autore, e di parole o frasi in lingua arvanitica, come il titolo stesso, che significa sangue, parentela, vendetta, razza. Questo aspetto, molto difficile da rendere in traduzione, traspare in parte nella bella versione italiana, quasi fin troppo elegante.

Nemmeno un libro scritto in lingua regionale è una novità assoluta nella letteratura greca contemporanea: già nel 1987 uscì la raccolta di racconti Ntiálith'im, Christákī di Sotiris Dimitriou, che usa il dialetto epirota, con qualche elemento in lingua arvanitica –  come il titolo, che è il verso di una canzone popolare. Per la prima volta, però, un libro tutto scritto in una lingua locale, e dal registro spiccatamente informale, ha un successo così dirompente. La rilevanza di Ghiak, in questo senso, è anche quella di essere stato all’origine di una vera e propria tendenza del panorama letterario contemporaneo, inaugurando un clima da «ritorno alle radici», con le parole di M. Hulot, direttore della testata online “Lifo”. Tra i detrattori di questa tendenza, qualcuno, come la critica Lina Pantaleon sulla rivista “O Anagnostis”, l’ha addirittura definito «l’origine del male», sostenendo che ormai la letteratura sia troppo schiacciata sulla forma a discapito dei contenuti – cosa che senz’altro stupisce, in Italia, dove il dibattito spesso si esprime in termini diametralmente opposti. Interpellato a più riprese in proposito, Papamarkos ha sempre risposto che la voce che si sceglie di dare ai propri personaggi deve essere al servizio dell’opera letteraria, e degli scopi che ci si pone con essa, e non un fine in sé. In ogni caso, dal 2014 a oggi, dall’Epiro a Cipro, i libri che fanno uso di parlate locali non si contano e questa tendenza continua a fiorire, tanto che un altro best-seller, del 2021, Chàthike Velòni (alla lettera Un ago si è perso, con riferimento a un’espressione che riguarda qualcosa di insignificante) di Christos Armandos Ghezos, è scritto per un terzo nel dialetto del nord dell’Epiro parlato nei paesi grecofoni albanesi.

Al di là delle questioni legate allo spazio letterario greco, però, il successo di Ghiak si deve alla sua potenza narrativa – amplificata dal ritmo ammaliante e dal tono vivo e crudo della lingua – e alla capacità di dare respiro universale a vicende storiche specifiche, raccontate per di più dal punto di vista di una minoranza. Quanto all’aspetto formale, ciascun monologo si presenta come lo stralcio di una conversazione iniziata prima del racconto e destinata a continuare dopo la sua fine, e comincia con un’allocuzione del narratore al suo interlocutore, che non prende mai davvero la parola. Quella dello pseudodialogo, o monologo con interlocutore muto, è una tradizione  lunga e luminosa nella letteratura greca moderna, che ha le sue origini nei monologhi della tragedia antica e la sua punta di diamante nella Quarta dimensione di Ghiannis Ritsos.

I nove narratori, tornati a casa, a distanza di anni, raccontano episodi di sangue di cui sono stati protagonisti nella campagna microasiatica, che però si intrecciano quasi sempre con vicende della vita locale e familiare, costellata di violenze. Le violenze che i protagonisti hanno perpetrato durante la guerra si fanno così specchio di un male tutto endogeno alla loro comunità di appartenenza, che è regolata dal Kanoùn, il diritto consuetudinario albanese, sulle cui specificità l’autore si sofferma nella nota che accompagna il testo. Da questi racconti emana allora la sensazione destabilizzante che non ci sia soluzione di continuità tra guerra e non guerra; e che la guerra non faccia altro che esacerbare i comportamenti promossi dagli usi ancestrali di una comunità fondata sulla vendetta. 

Nessuno ti racconterà quello che ha fatto laggiù ma, Andonis, abbiamo disimparato a essere uomini

 dice il narratore del primo racconto, Do t’ a pres kotsìdete (Ti taglierò le trecce). Oltre a come e perché si manifesta il male, un’altra delle domande che il libro sottende infatti è: come si diventa uomini? Tanto da poterlo leggere anche come una radiografia della mascolinità alla luce della violenza patriarcale, di cui le prime vittime sono proprio i maschi: i nove monologhi appaiono accorate grida di disperazione per la morsa di un sistema di credenze e tradizioni che a loro non sembra lasciare vie di scampo. Per di più, si tratta di un sistema a suo modo aleatorio:

Ti ricordi che un tempo non ci davano neanche una moglie se non rubavamo,
e adesso fai il finimondo per niente?

Anche il dialogo con le figure della tradizione ha la funzione di incarnare la condanna di un destino apparentemente ineluttabile: in Tararoura, l’incontro notturno con la creatura soprannaturale che il protagonista chiama vampiro, dalla faccia di cane e le corna di capra, è lo spettro della violenza che lo attende in guerra. L’unica eccezione a questo destino sembra essere la bellissima Ballata popolare, tradotta magistralmente. Scritta in versi decapentasillabi come il corrispondente genere di canto popolare, alla stregua di quest’ultimo riprende motivi della mitologia antica e della fiaba tradizionale, mettendo in scena l’incontro di Caronte, il «Sire tenebroso», con una giovane ragazza, la quale osa sfidarlo perché le ha ucciso il marito, riuscendo infine a farlo scappare: l’unica speranza di salvezza è riposta in una donna, più libera, in fondo, dalle costrizioni di un codice che pure subisce?

La pietra del gigante, di Andri Snær Magnason

Titolo: La pietra del gigante
Autore:Andri Snær Magnason
Editore: Iperborea
Traduzione: Silvia Cosimini
pp. 160 Euro 17,00


di Debora Lambruschini

Forse per ironia della sorte, quando il mondo alla fine è crollato davvero non è stato per una bomba o un virus, ma per una parola, e principalmente per causa mia.

Per questo sono venuto qui: voglio trovare la Parola. E da questa Parola voglio creare un mondo nuovo. (“Dormi, amore mio”, p. 40)

 

La pietra del gigante, la raccolta di racconti del narratore islandese Andri Snær Magnason appena pubblicata da Iperborea nella traduzione – dall’islandese – di Silvia Cosimini, è un volume piuttosto contenuto nel numero di pagine e racconti inclusi, ma che riesce a racchiudere numerose suggestioni. Ho scelto di partire dalle parole, quelle che mancano al protagonista del racconto “Dormi, amore mio”, quella di cui si mette in cerca e quelle che non possiamo comprendere, nella discrepanza tra testo originale e traduzione. Ho accennato al fatto che Cosimini traduca dall’islandese e non in una versione filtrata da un’altra lingua di passaggio, per esempio l’inglese, come avviene in diversi casi. È un dettaglio importante, a mio avviso, su cui forse non ci si sofferma in modo particolare ma che anche alla luce di quel racconto, il secondo della raccolta, mi pare invece rilevante: perché La pietra del gigante è una raccolta coesa in cui i luoghi, la tradizione, la leggenda e, di conseguenza, la lingua, si intrecciano per dare forma al mondo della narrazione. Ma anche perché su una lingua a me così lontana e impenetrabile, viene istintivo soffermarmi e ragionare appunto sulla voce dell’autore di cui non posso aver coscienza diretta, su che cosa possa significare trasporre un universo linguistico e letterario tanto distante nella lingua italiana, su cosa si perde e cosa arricchisce invece la narrazione. La riflessione sulla lingua, sullo scarto tra originale e traduzione, scatena anche altre considerazioni, a partire dal mistero di una cultura di cui fuori dall’ambito specialistico non abbiamo molta conoscenza, la consapevolezza di un mondo culturale che è per lo più anglocentrico e di quello che tale visione comporta in termini di ricezione, perdita, superficialità. L’Islanda è una terra sconosciuta ai più, al pari della sua cultura e delle sue tradizioni, e della quale ci costruiamo stereotipi basati su una conoscenza appunto superficiale, perlopiù ancorata al passato, quando non al mito. Della straordinaria ricchezza e varietà di questa cultura ne abbiamo oggi un accesso anche grazie all’opera di divulgazione dello studioso e scrittore italiano Roberto Luigi Pagani e al fondamentale lavoro della casa editrice Iperborea, impegnata nel portare nel nostro Paese le voci del Nord tra cui autori e autrici d’Islanda, per mezzo di traduttori preparatissimi come appunto Cosimini. Per superare certi stereotipi e preconcetti, dunque, è anche importante operare una certa selezione nelle proposte editoriali e il caso di Andri Snær Magnason è sicuramente una scelta oculata: la conoscenza del territorio, dall’ambiente alla società, è ben salda ma più che sul mito e sul folklore l’autore punta lo sguardo sulla realtà contemporanea, dagli anni Ottanta ad oggi; la realtà in cui sono calati è fatta di paesaggi e luoghi a noi molto distanti, ma i sentimenti, le dinamiche relazionali, i sogni e le frustrazioni sono ben riconoscibili.
Non voglio affatto dire che il lettore debba ritrovare sé stesso in quello che legge, anzi, è proprio una delle cose che meno mi interessano e che secondo me non dovremmo inseguire: intendo dire, invece, che l’Islanda non è solo quella del mito, terra ancestrale e fissata in un tempo remoto, ma è anche e soprattutto questo oggi, una realtà stratificata, contraddittoria, in cui una natura tanto spettacolare – e ostile, a tratti – è stata spesso trascurata e sfruttata, dove le conseguenze della crisi climatica sono particolarmente evidenti; una società fatta di persone che si interrogano su sé stesse, sulla discrepanza tra la vita immaginata da giovani e quello che è diventata, con peculiarità naturalmente date dal luogo, dalle scelte politiche, dal filtro con cui l’autore sceglie di osservare le cose.
Narratore, poeta, drammaturgo e attivista ambientale, Magnason pone sempre al centro delle sue riflessioni la crisi climatica e qualche anno fa è stato protagonista di un gesto dal forte impatto simbolico: con la sua “Lettera al futuro”, una targa posta sul ghiacciaio Okjokull, il primo in Islanda a essere dichiarato morto, ha sollevato una questione quantomai urgente e che ci riguarda tutti da vicino.
In Italia Iperborea ha portato quindi le sue opere più legate a questo filone, con Il tempo e l’acqua, testo ibrido etichettabile come saggistica narrativa, e La storia del pianeta blu, una “favola ecologica” per ragazzi; La pietra del gigante è una raccolta più variegata dal punto di vista tematico, ma la componente ambientale è senz’altro presente in modo importante e si lega ad altre questioni che ruotano intorno alla parola crisi: la crisi dell’età adulta, delle relazioni, la crisi che nasce dalla difformità tra ciò che immaginavamo sarebbe stata la vita e quello che invece è, la crisi sociale e il profondissimo divario economico e quella ambientale naturalmente.
Due questioni, quindi, mi paiono particolarmente interessanti, e sono appunto la frattura tra il sogno e la realtà della vita adulta e il divario economico delle nostre società.

 

E così eravamo in viaggio per Legoland con i bambini. Loro erano troppo piccoli per capire dove stavamo andando, ma in effetti nemmeno noi sapevamo perché lo facessimo. Doveva avere un valore simbolico visitare la capitale dell’infanzia proprio quando la vita ti si rovescia addosso come un macigno – anche se forse non è la cosa più giusta da dire quando è appena morto qualcuno. (“Legoland”, p. 55)

 

“Legoland” è uno dei racconti più interessanti e stratificati della raccolta, nel quale sono condensati moltissimi spunti di riflessione. La narrazione in prima persona e il punto di vista del protagonista, un uomo di trent’anni circa che sta attraversando un momento di profonda crisi personale, guidano il lettore dentro una storia che si sviluppa – come tipico di questa raccolta – su piani temporali diversi, intervallata da spazi bianchi che segnano i confini della narrazione e che raccontano sentimenti complessi. Il viaggio con la famiglia e alcuni amici verso Legoland, agognata meta dell’infanzia, è ora caricato di emozioni difficili da elaborare e che forse proprio attraverso quei piccoli mattoncini trovano una via di fuga e una chiarificazione. Nella stanza ricolma di tutti i pezzi prodotti da Lego, quella sognata durante l’infanzia, mattone dopo mattone il protagonista dà corpo alle proprie emozioni, ai sentimenti complessi che prendono ora la forma di una scatola nera, in quel mare di colore tra cui scegliere. È la scatola nera del lutto da elaborare, delle scelte prese e da cui ormai non si torna indietro, della paura del futuro, delle ambizioni di scrittura e delle responsabilità.
«Forse non volevo diventare adulto», sono le parole che il protagonista non riesce a esprimere ad alta voce ma che permeano tutta la sua esperienza e che si legano anche al suo essere padre, alla vita ordinata che si è costruito, alle scelte prese, alle rinunce, alle porte delle possibilità «in parte solo accostate e in parte chiuse per sempre». La paternità cambia ogni cosa per il protagonista, rallenta il ritmo della vita nel tentativo di essere prudente, con il fisico che sembra aver «sviluppato anticorpi contro l’adrenalina» per evitare il pericolo, per essere figura presente nella vita del figlio. Il viaggio arriva in un momento particolare della vita di tutti loro, si lega al ricordo, alla perdita di un amico, alle difficoltà di venire a patti con la vita adulta.

 

Così adesso stavamo andando a Legoland per distrarci, ma quel posto, che avrebbe dovuto essere divertente, mi riempiva di nostalgia per gli anni dell’infanzia e per l’innocenza che non sarebbe più tornata, e con noi c’era l’ombra di una persona che se n’era andata per sempre. (“Legoland”, p. 64)

 

Magnason ci conduce nei meandri della nostalgia, in quella crepa profonda che crea la maturità e che per molti dei protagonisti di queste storie significa confrontarsi con la frustrazione, con la disillusione e la rabbia verso una società impregnata di capitalismo e smania di ricchezza in cui per affermarsi pare necessario prevaricare gli altri.
Ricorre spesso in queste storie quindi la riflessione sulla ricchezza e, di conseguenza, sul divario tra vite fatte di un quotidiano ordinario e altre impregnate di soldi, potere, possibilità sempre più estreme. Un estremo raccontato in “Wild Boys”, protagonisti un gruppo di amici e uomini d’affari che hanno «superato qualsiasi limite in fatto di lusso ed eccentricità»: jet privati, star della musica ingaggiate per un concerto privato, bottiglie costose e abiti di lusso a rappresentare uno status conquistato con l’ossessione per il denaro e il potere che ne deriva. Un racconto in cui si intrecciano spunti diversi, dalla bramosia del denaro, alla distanza sempre più netta dalla realtà ordinaria, dalle relazioni e i ruoli da interpretare al discorso anche su rivalsa e desiderio di emanciparsi dalle condizioni di partenza. Filtriamo la storia attraverso lo sguardo della moglie di uno dei wild boys, ai margini del gruppo delle “vedove bianche” come si auto definiscono per il tempo che passano da sole mentre i mariti sono impegnati a far soldi. Un po’ outsider rispetto al gruppo, ha mantenuto il proprio lavoro di insegnante ed è anche questo uno spunto interessante su che cosa dica di noi la nostra professione, quanto il lavoro si intrecci ad altre questioni oltre il dato economico e il sostentamento, quanto per una donna sia fondamentale mantenere la propria autonomia, ma anche la stortura di una società come quella attuale in cui il valore della professione e perfino delle persone pare legarsi sempre più al potere economico.
Noi e loro, le vite ordinarie e quelle dell’1% della popolazione, è un tema che si rincorre quindi in questi racconti e si interseca al discorso ambientale, alla riflessione sui rapporti e la natura umana, ai luoghi e alla crisi. E che, in qualche caso, porta ad azioni impreviste, di cui non vediamo le dirette conseguenze ma tutto ciò che ha portato fino a quel decisivo momento. “La pietra del gigante”, il racconto che dà il titolo alla raccolta tutta, è quindi una storia in cui Magnason gioca con il tempo: non solo la narrazione segue binari differenti, tra presente e passato, ma il tempo appare malleabile. Materia duttile, dalle molteplici implicazioni e possibilità che mi ha richiamato alla mente certe narrazioni di Daina Opolskaitè (avevo scritto qui del suo Le piramidi di giorni, anche questo nel catalogo Iperborea), riflessioni e resa differente ma una comune concezione circa la malleabilità del tempo. Mentre la traiettoria della pietra si compie, Magnason attraversa i momenti che hanno portato il protagonista proprio lì, a scagliare un sasso contro la macchina al cui interno ci sono il cugino e la moglie e un’azione da cui non si tornerà più indietro, a differenza della narrazione che invece segue un filo cronologico non lineare. In quella pietra l’accumulo di tensione, frustrazioni e disagio del protagonista di fronte a un divario sempre più insopportabile tra ricchi e poveri che è anche il ritratto degli aspetti più problematici delle nostre società capitalistiche.  

 

Avevo progettato case di ogni tipo – ville indipendenti, condomini, ville a schiera – e sapevo bene che non tutti avevano le stesse possibilità, che c’erano disuguaglianze nette nel tessuto sociale; ma quella era la prima volta che progettavo case così diverse per lo stesso committente. Mi sentivo un ladro.

(“La pietra del gigante”, p. 108)

 

E forse è necessario rendersi conto, oggi più che mai, delle scelte che compiamo ogni giorno e dell’impatto che hanno sugli altri e sul nostro pianeta. La consapevolezza con cui a un certo punto il protagonista guarda alla propria vita e al percorso che l’ha condotto a quel momento è una riflessione amara ma molto lucida delle derive delle nostre società, che si applica tanto al mondo reale quanto a quello dei social.

 

Ecco l’ideologia. Il cittadino deve essere un consumatore, deve essere in debito con le banche, mandare avanti il sistema economico, dimenticare la qualità e dare profitti a un piccolo pugno di ricchi. Ecco lo spirito dei tempi. La totale insensatezza. (“La pietra del gigante”, p. 111)

 

L’Islanda di Maganson, dunque, è ben lontana dal mito e dal folklore, ma è una realtà complessa e contraddittoria, e i suoi racconti sono spietati, tesi e illuminati da squarci improvvisi. Storie lontane, vicinissime. 

Corpi idrici, di Gerald Murnane

di Fabrizia Gagliardi

Avete mai sentito parlare di Gerald Murnane? La figura dello scrittore australiano sembra tormentata dall’oblio che affligge qualsiasi autore favorito al Nobel per la letteratura. In effetti, è un traguardo che non ha ancora raggiunto, probabilmente perché nelle sue opere si rintraccia uno stile unico e introspettivo che genera nel lettore un giudizio claudicante.
Avrebbe tutti i requisiti per ambire a questo titolo, ma sembra essersi formato nella solitudine di un continente isola. A lui interessa un’introspezione dilagante, calibrata alternativamente dall’eleganza del periodo e da una macchia d’olio che appanna la direzione della storia e il ritmo della narrazione.
Eppure, le opere di Murnane non sono nuove nel panorama editoriale italiano; ci aveva pensato Safarà Editore a portare in Italia i lavori più iconici: il memoir Qualcosa per il dolore. Memorie dal mondo dell’ippica e Le pianure, entrambi tradotti da Roberto Serrai.
Per completare la conoscenza di Gerald Murnane o chissà, iniziare proprio da qui, arrivano per la prima volta in Italia i racconti di Corpi idrici, pubblicati da La Nave di Teseo con la traduzione di Elena Malanga.
Come sempre accade alla prova della forma breve, la raccolta offre un'introduzione perfetta all'universo letterario di Murnane: un approccio narrativo che gravita ossessivamente intorno all'interiorità, all'esplorazione della memoria e alle possibilità infinite dell'immaginazione.

Ne L’entroterra di Gaaldine l’autore svela gradualmente la propria natura, il suo rapporto con la narrativa e con l’idea di un personaggio-autore. Durante la lettura si percepisce la tensione che esiste tra il desiderio di raccontare storie e la difficoltà di esprimere la complessità dell'esperienza umana a partire da una prospettiva che sarà sempre inquinata dal sé.

Ho letto molti testi nella mia vita: molti più di quanti non ne abbia scritti. Ogni volta che leggo un testo ho un’immagine del personaggio che ha fatto in modo che il testo venisse alla luce: l’autore implicito, come lo chiamo io. Quest’immagine fantomatica del personaggio è il risultato della lettura di alcuni dettagli all’interno del testo. Spesso, leggendo un testo, mi ritrovo a non fidarmi dell’autore implicito e scopro che lui o lei non mi piace. Non appena mi succede una cosa del genere smetto di leggere. Leggendo altri testi scopro che l’autore implicito mi piace e che mi fido di lei o di lui. Quando mi succede una cosa del genere vado avanti a leggere e a volte mi sento così vicino all’autore implicito che mi pare di capire perché abbia scritto quel testo. Leggendo le pagine della ventiquattrore mi è parso di capire che l’autore implicito di quelle pagine – la persona che ha scritto quelle pagine nella mia mente – le abbia scritte per evocare nella mente dell’uno o dell’altro lettore o lettrice l’una o l’altra immagine di un personaggio che al lettore o alla lettrice pare più simpatico.

 

I racconti presentano personaggi complessi, plasmati dal cambiamento, per lo più intrappolati tra il presente e il passato, la cui vita interiore viene svelata con una lentezza meditativa e un'attenzione quasi ossessiva per i dettagli. In questo flusso si intrecciano spesso i temi dell'ansia, dell'imbarazzo, della vergogna e della gioia, trattati con una precisione disarmante. Murnane esplora con disciplina e raffinatezza i segreti sepolti nella mente, catturando l’attenzione del lettore con uno stile che, a tratti, sa essere dolce e brutale​ nello stesso tempo.

Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, il protagonista diventa una pellicola di ricordi: le sovrapposizioni temporali della sua vita sono immagini scaturite da un dettaglio visivo. Il luogo che accoglie un’installazione chiamata corpi idrici ricorda la forma di un cuore umano intravisto dal disegno di un gioiello; il gioiello porta il ricordo dei cataloghi di bigiotteria posseduti dalle sorelle del padre; l’adagiarsi di una collana sul décolleté di una donna; l’immagine della scollatura e di un reggiseno rivelato al fratello del protagonista in una delle tante case abitate durante l’infanzia.

In Primo amore un misterioso viaggiatore reitera la capacità di raccontare diverse storie mentre scrive dallo scompartimento della carrozza di un treno. Il risultato si allontana da un esperimento stilistico alla Esercizi di stile di Queneau e si avvicina alla misurazione di quanta esperienza simulata è in grado di creare un'interiorità unica e immobile.

Vi scrivo dallo scompartimento della carrozza di un treno. Davanti a me e un po’ più in alto rispetto ai miei occhi una strada chiara attraversa la cima sabbiosa di una collina. Sulla strada c’è un’auto ferma: un’auto con la capote e i finestrini laterali fatti di un materiale duro e color ocra che non è vetro. Vicino all’auto c’è un uomo. L’uomo ha folti baffi, e un panciotto e la catenella di un orologio sotto la giacca. Si trova fra me e una macchia sfocata di dune, mare lontano e nuvole caliginose. Ai piedi dell’uomo c’è una scritta che copre tutta la strada nella sua ampiezza: Warrnambool e Lady Bay.

Vi scrivo dallo scompartimento della carrozza di un treno. Davanti a me, esattamente all’altezza dei miei occhi, una prateria ocra sale e scende, si gonfia e si affloscia e si sposta di continuo da sinistra a destra. Sulla destra la prateria scompare, fra impennate e avvallamenti, dietro il cappello di feltro grigio con una piuma di pavone nel nastro, il volto rasato e l’abito a tre pezzi di un uomo di sette anni più giovane di me. Sulla sinistra la prateria ocra si rinnova di continuo, ma l’uomo con la piuma di pavone nel nastro del cappello mi dice che da dove si trova lui riesce a vedere la fine delle pianure di Keilor e l’inizio del monte Macedon.

Non è un caso che i critici di Gerald Murnane spesso ricorrano al racconto del suo stile di vita, come a voler provocare un confronto incredulo. L’autore non ha mai viaggiato in aereo né ha mai lasciato l'Australia, non ha mai avuto un senso dell'olfatto, non possiede una televisione, guarda raramente film, non frequenta gallerie o musei, non indossa occhiali da sole, non sa nuotare, non sa usare una macchina fotografica, non ha mai utilizzato un computer e non naviga su internet.
Ciò che rende Murnane unico è il modo in cui è riuscito a dimostrare una fantasia così sconfinata a partire dalle sue esperienze intenzionalmente limitate. Il suo progetto artistico cerca di rappresentare, nei minimi dettagli, la sua specifica prospettiva sul mondo.
Tutti i racconti si posizionano ambiguamente tra narrativa e saggistica perché il contenuto attinge alle sue esperienze personali, poco convenzionali e quasi anacronistiche.
Come rilevato dal Guardian molti fan di Murnane considerano la noia una parte cruciale della sua estetica. Ben Lerner sostiene che «le frasi di Murnane sono piccole dialettiche di noia e bellezza, piattezza e profondità», e il piacere di leggerle deriva proprio da questa oscillazione tra noia e splendore visionario. C'è un languore nella sua scrittura che rende i suoi libri sia piacevoli che unici, ma per apprezzarlo è necessario che i lettori siano aperti a esperienze letterarie insolite.
La sua opera ha suscitato ammirazione a livello internazionale, pur rimanendo più controversa in patria, perché sembra essere vittima del cosiddetto cultural cringe. Nel campo degli studi culturali e dell'antropologia sociale, il termine si riferisce a un complesso di inferiorità interiorizzato in cui le persone liquidano la propria cultura come inferiore rispetto alle culture di altri paesi.
Alcuni critici considerano Gerald Murnane un genio, altri trovano il suo stile troppo esoterico e criptico per i lettori comuni. Questo contrasto emerge anche nell’accoglienza di Corpi Idrici, una raccolta che richiede un lettore paziente, disposto a immergersi in un flusso di coscienza, senza aspettarsi narrazioni lineari o finali risolutivi​.
Lo stile di Murnane, con le sue ripetizioni ipnotiche e l'attenzione minuziosa agli stati d’animo, viene paragonato a quello di scrittori come Proust e Beckett, ma con una qualità profondamente visiva e spaziale.
I racconti di Corpi Idrici non cercano di risolvere misteri o di fornire risposte definitive, piuttosto tentano di evocare domande e riflessioni. Parte del successo di Murnane risiede nella sua capacità di mitizzare le fascinazioni apparentemente banali, una vita qualunque e quotidiana che tutti abbiamo a disposizione.

Come sottolineato dalla Chicago Review of Books, la narrativa di Murnane ha una qualità "liquida", un po' come i corpi idrici che danno il titolo alla raccolta: fluisce da un’immagine all’altra, da un ricordo all’altro, senza una direzione chiara, ma con una logica interna che diventa evidente solo a chi è disposto a seguirla fino in fondo​.
Al centro delle sue narrazioni c’è sempre una profonda riflessione sull'atto stesso di scrivere e di ricordare. L'autore non racconta semplicemente storie, ma sembra voler analizzare come nascono, come si formano nella mente, come si legano ai paesaggi interiori e ai ricordi. Questo lo rende un maestro dell'introspezione, capace di esplorare infiniti territori emotivi. Tuttavia, proprio questa attenzione ossessiva ai dettagli mentali e psicologici può risultare alienante per alcuni lettori, che potrebbero trovarlo eccessivamente cerebrale o stilisticamente impenetrabile.
Murnane non offre risposte facili, ma invita il lettore a intraprendere un viaggio nella propria mente, nei propri ricordi, nei propri sogni. Come osservato da The Paris Review, la sua scrittura è un'arte solitaria, una sorta di avanguardia domestica che resiste alle etichette e alle convenzioni del mercato editoriale​.
In conclusione, Corpi Idrici di Gerald Murnane è una raccolta affascinante e impegnativa, che richiede una lettura attenta e riflessiva. È un libro che non si accontenta di raccontare storie, ma cerca di esplorare l’atto stesso della narrazione, con uno stile unico che può incantare o frustrare, ma che di certo non lascia indifferenti.

Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico, di Senko Karuza

Titolo: Isola, storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico
Autore: Senko Caruza
Editore: Bottega errante Edizioni
Traduzione: Ginevra Pugliese
pp. 232 Euro 17,00

di Giordana Restifo

Un’isola con la sua vita lenta che scorre tra il mare, i campi, le vigne, e che nella stagione estiva viene presa d’assalto da una moltitudine di turisti. È lei la protagonista della raccolta di racconti appena pubblicata da Bottega Errante Edizioni, Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico, di Senko Karuza, tradotta da Ginevra Pugliese. Proprio la nota finale della traduttrice svela che l’edizione italiana è frutto di una miscela di racconti provenienti da una prima raccolta, Vodič po otoku (Guida all’isola), uscita nel 2005 in Croazia, e da una selezione dell’ultima, Prsa u prsa (Petto contro petto), del 2016. Il risultato finale è un volume con più di ottanta storie diviso in due parti: Guida all’isola, che contiene cinquantasei racconti brevissimi, e Camera obscura, con trentuno racconti più lunghi. La differenza non sta solo nella lunghezza: nella prima parte l’autore porta i lettori alla scoperta dei luoghi, del cibo, del rapporto degli isolani con il mare, con i venti; nella seconda, invece, si immerge in elucubrazioni sulla quotidianità della vita sull’isola, su un passato che sta svanendo e un presente vissuto tra i ricordi e i rimpianti, ma riflette anche su un’economia che è sempre più vocata al turismo.
Vis, in italiano Lissa, è un’isola dell’Adriatico, situata al largo di Split (Spalato), in Croazia; è qui che Karuza ha trascorso la sua infanzia e la sua giovinezza, ed è qui che ha deciso di tornare a vivere, dopo aver frequentato le scuole a Spalato e la facoltà di filosofia a Zagabria. Un’emigrazione al contrario. Da siciliana, che vive in Sicilia, leggendo Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico, non posso far altro che pensare alla mia di isola, ma anche alle isole Eolie, alle Egadi, a quelle della Grecia e della Spagna. Vis racchiude in sé tante isole, di sicuro quelle del Mediterraneo. Hanno tutte in comune un presente che prova a resistere alla globalizzazione, alla frenesia delle città, alla recessione economica, che cerca di ancorarsi a un passato quasi estinto. Un tempo di cui ci si è vergognati e che ora si vuole riscoprire, recuperare. 
Ci sono due tipi di isolani: chi nasce su un’isola, si sente appartenente a quel posto, a quella terra galleggiante, che quando arriva su un’altra isola si trova immediatamente a proprio agio, perché è come se fosse a casa; e chi ci vive perché la sceglie, nondimeno questi ultimi sentono di appartenere a quel luogo, lo vivono in tutte le stagioni e ne conoscono bene gioie e dolori. Queste due tipologie, che formano anche la comunità degli isolani di Vis, sono il “noi” narrante che conduce i lettori nell’opera di Karuza.
Poi ci sono i turisti.
Da cosa sono attratti tutti questi turisti che ogni anno sbarcano sull’isola croata? Dall’odore di pesce alla griglia innaffiato di olio d’oliva e da quello della kapula (cipolla) che proviene dalle strade, dalle terrazze; dalle acque cristalline che circondano il perimetro dell’isola; dal modo di vivere lento e ostinato degli abitanti; dal ritrovarsi in piazza a sorseggiare caffè guardando il mare; dagli antichi rituali della vendemmia e della raccolta dei pomodori per fare tutti insieme la salsa. D’altronde, come si fa a non essere sedotti da tutto ciò? Si potrebbe pensare di ricreare questo paradiso, questo giardino in mezzo al mare, nelle città, ma la verità è che anche se si esportassero gli alberi, le ricette, le bevande, mancherebbe il legante, e cioè il tempo. Il tempo che sembra fermarsi non appena si mette piede sull’isola. Quel tempo scandito dalla pennichella dopo pranzo, un rituale al quale non si può rinunciare. D’estate il calore rende lascivi e obbliga all’orizzontalità, d’inverno la sensazione di abbandono, di svuotamento, spinge a cercare riparo nel sonno. In quei brevi o lunghi pisolini si sognano tutti gli scuri della cittadina aperti, tutti i mestieri di una volta ricomparsi, tutte le persone andate via e tornate, i saperi tramandati, e sembra di stare in paradiso con gli anziani che tranquillizzano i più giovani: tutto è tornato al proprio posto, non è un miracolo, tutto è come una volta; ma quando ci si sveglia si è di nuovo in purgatorio (dal racconto Il purgatorio). Quel tempo che gli isolani, mentre sono sulla loro barca e si scostano dalla riva per andare sul loro “scoglio”, non scambierebbero con nulla al mondo perché sentono «molto bene che questa gita di solitudine in solitudine, da isola a isola» non la cambierebbero «per nessun tesoro o città» (dal racconto Lo scoglio). Il rapporto con il mare, e tutto ciò che implica (la pesca, la barca, i venti), è molto forte per chi vive su un’isola. Un legame inscindibile, come nel racconto La barca:

 

«La barca rimane imprigionata in noi o noi in lei, è indifferente, perché non si possono contare i momenti in cui dipendevamo l’uno dall’altra e ci imponevamo di lasciar perdere, di metter giudizio, di obbedire, sull’orlo della tragedia, in una qualche terribile tempesta, o in un improvviso impeto di dispetto, quando dovevamo mostrare al mondo, e un po’ anche a noi stessi,

cosa possono un uomo e una barca quando diventano una cosa sola».

 

Il mare e la sua vita condizionano quasi totalmente l’esistenza degli isolani, così quando muore qualcuno sull’isola, gli altri che restano si sentono come dei naufraghi, anche se non sono rimasti senza barca (da La veglia). Quando i venti soffiano forte e agitano il mare non si può uscire. Nelle giornate in cui compare lo scirocco, un vento caldo proveniente da sud-est che lascia la pelle appiccicosa, gli abitanti di Vis si sentono come se fossero a Utopia, anche se Tommaso Moro non l’hanno mai letto. Trasformano l’isola in terraferma, hanno il loro dottore e il loro prete, i loro vigneti e le loro pecore, il loro pesce, le barche, le bandiere e le fabbriche, insomma la loro Città reale e la loro Città perfetta, e si chiedono cosa gli manchi per essere uno Stato.

 

«Ma lo sapete, annunciano alcuni saccenti, che a Dubrovnik, ai tempi della sua indipendenza, non si poteva prendere nessuna decisione importante quando soffiava il vento di scirocco? Certo che lo sappiamo, rispondiamo prontamente, ma chiedi loro come ha fatto a diventare una città-Stato! Quelli che non lo sanno abbassano lo sguardo, noi calciamo il piede in avanti e guardiamo verso il cielo, che si veda che lo scirocco non ci può ottenebrare il raziocinio e che, ora più che mai, abbiamo il diritto di essere padroni di noi stessi. Qualcuno guarda l’ora, è mezzogiorno, ora di pranzo, in silenzio ci lasciamo, lo Stato si sfascia, ma se nel pomeriggio non arriva la bora, si potrebbe trovare con facilità il presidente» (Dal racconto Lo scirocco).

 

Come in ogni paradiso che si rispetti, gli umani convivono con gli animali, galline e galli, pecore, agnelli, capre, gatti e asinelli. Bastet protegge l’umanità anche a Vis, come in tutte le isole del Mediterraneo, manifestandosi nei molti gatti che scorrazzano liberi e indisturbati, dormono per strada, vengono accuditi dagli abitanti e fotografati dai turisti. Gli asini, invece, sono meno comuni dei felini, sull’isola non ve ne sono più molti, proprio questa rara presenza lascia esterrefatti i forestieri che, non appena ne avvistano uno, lo circondano per fotografarlo e mettergli i loro bambini in groppa.
Di anno in anno, sempre più vacanzieri approdano nella stagione estiva sull’isola, occupando massicciamente gli spazi, reclamando a gran voce “esperienze tipiche”, dando consigli non richiesti agli abitanti, interessandosi ai lotti di terreno, alle abitazioni e alle konobe (taverne, trattorie), per acquistare un pezzo di quell’eden. Non c’è bisogno di fantasticare troppo per immaginarlo, abbiamo visto tutti quest’estate i video di Santorini con frotte di turisti che scendono dai traghetti e affollano le strette vie dell’isola delle Cicladi. L’arrivo di capitale estero non ha portato a Vis nuova linfa, gli isolani che ne hanno guadagnato sono andati a vivere sulla terraferma, li si rivede solo per la bella stagione o non tornano proprio più; quelli rimasti aguzzano l’ingegno per sopravvivere, alcuni diventano nullatenenti ma l’arte di arrabattarsi è millenaria, e anche in momenti di penuria di cibo, in agosto soprattutto di pesce, il loro spirito arguto permane:

 

«Giù al nostro molo è attraccato un motoscafo con un uomo che guarda verso la nostra terrazza, vede che stiamo mangiando. C’è un’aragosta, chiede. Nostro cugino si alza e allarga le braccia, non c’è, compare, dice, c’è la recessione, ci sono rimaste solo le sardelle. E allora possiamo venire a mangiare le sardelle? chiede. No, compare, gli risponde di nuovo nostro cugino, le abbiamo appena mangiate!»
(da La bomba atomica).

 

L’isola ha anche il potere di far fare buoni propositi, esprimere desideri, sussurrare sogni, ma «non è immune ai cambiamenti globali», anche se nessuno degli abitanti di Vis li comprende; «in quei due mesi estivi tutti quanti accendono desideri che non hanno nulla a che fare con noi, e che in inverno lentamente evaporano e riscaldano i corpi con un calore illusorio e irragionevole» (da Sotto zero), aggiungerei almeno fino all’estate successiva, quando i desideri si rinfocolano non appena sbarcati, un po’ come i propositi di capodanno.
Chissà qual è a Vis il momento che segna il cambio di stagione. Nella mia città la fine dell’estate e l’esodo si rivelano attraverso le lunghe code agli imbarchi delle navi che dalla Sicilia portano in Italia, regolate dal suono dei fischietti dei vigili urbani che entra dalle mie finestre in casa; alle isole Eolie è la festa del santo patrono che indica la fine del periodo di massima apertura verso l’esterno, come dice un caro amico.
Durante l’inverno, al caldo dello špaher (stufa), si ha il tempo di immergersi in pensieri profondi sull’esistenza, sulla resistenza e sulla resa. Privati dei propri scogli, delle proprie baie, dei vitigni e dei terreni «stiamo zitti e non reagiamo a nulla, non vediamo nulla e non sappiamo nulla. La domanda è se esistiamo» (da La concessione). Non è solo questo, ogni autunno e inverno che passano, l’isola si spopola sempre più, le famiglie vanno via, i giovani sono tutti andati a studiare o a lavorare nelle grandi città, chi resta si prepara per il pianto invernale ascoltando le lamentele degli altri. Ogni tanto a qualcuno viene “l’idea folle” di rinnovare e riavviare le antiche tradizioni, per non perdere la vera ricchezza della gente e del sapere dei luoghi, o semplicemente per non annoiarsi e deprimersi.
Pescare nel torbido, La scomparsa, I bisogni, Cosa nostra, La crisi, La tradizione, sono solo alcuni dei racconti attraverso i quali il lettore può farsi un’idea su come gli abitanti di Vis trascorrono la stagione fredda.

 

«Abbiamo avuto tempo questo inverno, come mai prima d’ora, per riflettere attentamente e a fondo sulla nostra vita, sulle catene e sulle ancore a cui abbiamo dato nomi, e non sono più sconosciuti nemmeno i concetti romantici dei canti popolari, tantomeno le persone reali e gli usi e costumi che non possiamo abbandonare, figuriamoci sostituire» (da Sotto zero).

 

Già, perché l’isola ti tiene ancorato a sé. C’è una domanda sulla copertina di Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico: Che cos’è l’Isola e perché ci lega a sé a doppio filo? L’isola è come un guinzaglio che si allenta e lascia andare via i propri abitanti a esplorare la terraferma, il mondo fuori, poi si blocca e inizia a tirare finché non si torna indietro. Non c’è solo la questione del tempo, ma anche quella dello spazio. Guardando l’immensità del mare si ha la percezione di spazi vasti, si possono sognare e immaginare orizzonti perduti o sconosciuti, mondi lontanissimi. Sull’isola c’è tutto, ci sono i quattro elementi: terra, aria, acqua, fuoco. Ci sono i vulcani, le spiagge, le montagne, a Vis arriva anche la neve a volte, elemento spiazzante che rallegra e imbarazza gli isolani, ci sono le campagne. Gli abitanti non resistono negli spazi angusti e chiusi degli uffici, delle città.
Infine, riprendendo un concetto del racconto Addio mare (modo di dire dalmata che sta per “acqua passata”), anche se credo che le nostre sensazioni non siano dissimili, spero che gli isolani di Vis mi perdonino se non sono riuscita a immaginare l’isola a modo loro.

Parti e omicidi, di Murata Sayaka

Titolo: Parti e omicidi
Autore: Murata Sayaka
Editore: e/o
Traduzione: Gianluca Coci
pp. 160 Euro 11,99

di Fabrizia Gagliardi


C’è chi dice di voler essere la psicologa di Murata Sayaka, altri confermano con convinzione il soprannome dell’autrice («Crazy Sayaka»), altri ancora si esprimono con un semplice «Mind blow».
In effetti, le recensioni di Parti e omicidi, l’ultima raccolta di racconti dell’autrice giapponese pubblicata da Edizioni e/o (traduzione di Gianluca Coci), non sono particolarmente elaborate e non richiedono grandi giri di parole per riassumere la sensazione dominante: un senso di straniamento tra orrore e curiosità.

In un futuro indefinito il governo giapponese ha adottato il Sistema di parti e omicidi: per risolvere il problema del calo demografico uomini e donne possono scegliere di diventare “gestanti”. Coloro che portano a termine, con successo, dieci gravidanze, guadagnano il diritto di uccidere una persona a loro piacimento (la persona scelta rientrerà a sua volta nella categoria sociale dei “morenti”). La protagonista, Ikuko, non è del tutto d’accordo con il presente perché fa parte della generazione che ha vissuto un passato in cui l’omicidio era condannato. Tuttavia, nella sua diversità, non si oppone alla norma e comprende che il nuovo ordine offre una possibilità di riconoscimento alla sorella, da sempre emarginata:

Io sento lontani da me sia il mondo di prima che quello di adesso. Il mondo cambia sfumatura a poco a poco, all’interno di un tempo sconfinato, e, per quanto il passato sia agli antipodi rispetto al presente, tutto resta sempre collegato come milioni di tonalità in una stessa cartella di colori. Ecco perché la “normalità” del mondo di oggi non è altro che un istante.

Come nella precedente raccolta di racconti, La cerimonia della vita, lo sguardo di chi scrive espande solo uno dei possibili risvolti del mondo. L’equilibrio di coloro che credono di essere nel giusto, o che hanno decretato cosa è normale e cosa non lo è, può essere sconvolto da un momento all’altro.

In Triade, per esempio, una ragazza scopre i piaceri di una relazione a tre e rimane sconvolta quando la normalità ampiamente tollerata prevede, al contrario, una relazione a due. Un matrimonio pulito racconta di una coppia di sposi che desidera un figlio, ma che ha concordato di non avere rapporti sessuali.
Vita, morte, sessualità, sono i temi che l’autrice dispone su un foglio bianco lasciando al lettore il pensiero di svilupparli. La prosa estremamente precisa e metodica diventa quasi un reportage clinico che amplifica il senso di distacco emotivo. La scelta di un linguaggio sobrio e diretto contribuisce a creare un'atmosfera inquietante, dove la normalizzazione dell'orrore quotidiano diventa palpabile.

Il percorso verso l’alienazione dei suoi personaggi è iniziato gradualmente con La ragazza del convenience store, la storia di Keiko, una ragazza che rifiuta le aspettative sociali per dedicarsi ai ritmi di un konbini. Nel 2021 è poi arrivato I terrestri, romanzo in cui la protagonista è alla ricerca di un luogo in cui sentirsi casa, ed è convinta di essere stata contattata dagli alieni che costituiscono una via di fuga da una società cieca e spietata.
In effetti, la voce di Murata Sayaka si fa notare tra gli sguardi orientali che offrono percezioni nuove agli occhi dell’Occidente, come hanno fatto autrici come Mieko Kawakami e Matsuda Aoko o gli emergenti come Bora Chung con Coniglio maledetto.
In piena coerenza con la cultura nipponica, dove è lodata la capacità di rispettare il proprio posto all’interno della società e dove il gruppo, la forza lavoro unita da un obiettivo comune, scoraggia qualsiasi possibilità di elevazione del singolo, i personaggi di Murata Sayaka sono spesso ingranaggi in balia di un sistema più grande. Incarnare le contraddizioni della società in cui vivono e tentare di opporsi non è sempre sinonimo di una vera e propria opposizione morale. Ecco perché durante la lettura è frequente la sensazione di assenza di profondità emotiva e di eccessivo distacco.
L’invito dell’opera è mettersi in ascolto all’interno del cambiamento inaspettato – anche quando ci sono tracce, per quanto piccole e innocue, nel tempo presente –, vestire i panni di chi discrimina o di chi è discriminato e chiedersi cosa si sarebbe disposti a fare se all’improvviso si passasse dalla parte della minoranza.
Il gioco della distanza critica da ogni narrazione non propone una rivoluzione, ma suggerisce di spostare l’attenzione verso chi a quella rivoluzione si è arreso. Nessun protagonista è coraggioso o particolarmente innovativo, i nascosti e gli emarginati subiscono il presente fino ad accettarlo, consapevoli che si tratta di un momento nell’infinita casualità dell’esistenza umana.
In fondo, le storie di Murata Sayaka parlano alla normalità di tutti smuovendola con la lente della distopia: chi di noi sarebbe in grado di alzare la testa e risalire le maglie della propria solitudine per reagire?

Com'è stato per me, di Andrew Sean Greer

Titolo: Com’è stato per me
Autore: Andrew Sean Greer
Editore: La Nave di Teseo
Traduzione: Elena dal Pra
pp. 288 Euro 20,00

di Debora Lambruschini

«Tutti bramano grandezza». Si chiude così “La vita è là”, uno dei racconti di Com’è stato per me, la raccolta di racconti dello scrittore premio Pulitzer Andrew Sean Greer appena pubblicata da La nave di Teseo nella traduzione di Elena dal Pra, da sempre voce italiana dell’autore. «Tutti bramano grandezza», ma è la vita – il quotidiano teso tra disillusioni e tentativi, piccole felicità, lavoro, relazioni quasi sempre sbilanciate – a impregnare queste pagine, dargli forma, dargli corpo. Sono racconti scritti da Greer lungo tutto il corso della propria carriera, molti dei quali quindi risalenti agli esordi, alla giovinezza: un dato da tenere a mente quando qui e là avvertiamo una qualche incertezza nella scrittura, una tendenza a insistere su certe tecniche narrative. Allo stesso tempo, quello sguardo di uno scrittore agli esordi, quell’urgenza di narrare e la vicinanza ai personaggi, a certi meccanismi della gioventù, rappresentano anche la forza delle storie, non tutte parimenti riuscite ma molte di notevole interesse. A partire proprio da “Com’è stato per me”, il racconto che dà il titolo alla raccolta italiana ma anche a quella americana con cui Greer esordì nel 2000 (How it was for me).   

 

Quando Percy ci aveva esposto i fatti, nella rimessa per gli attrezzi puzzolente di insetticida, renderci conto che le nostre insegnanti di pianoforte erano streghe era stato uno shock.
(Com’è stato per me, p. 73)

 

L’apertura in media res caratterizza buona parte di questi racconti e quando, come in questo caso, Greer sceglie di raccontare la storia dal punto di vista di un ragazzino pare aver già trovato la sua misura più felice, più riuscita. L’eco di quello che forse è il più bel racconto – lungo – sul tema dell’amicizia, sulla perdita dell’innocenza, ossia “The body” di Stephen King, risuona in questo e più in generale nel modo stesso dell’autore di connettersi al mondo dell’infanzia e della pre-adolescenza da cui osservare anche il mondo degli adulti, con tutte le complicazioni e i misteri che rappresenta. In “Com’è stato per me” quattro bambini di dieci anni si convincono che le rispettive insegnanti di musica siano delle streghe, non «streghe vere e proprio ma praticanti di qualche sottile macchinazione» contro di loro e costruiscono quindi un marchingegno per annientarle e mettersi al sicuro dal loro potere. Sono il simbolo del contrasto-distanza tra mondo dell’infanzia ed età adulta:

 

Sembrava l’antidoto perfetto al mondo adulto che stavamo combattendo, al puntuale sabotaggio a cui venivano sottoposte le nostre vite, non solo da parte delle maestre di pianoforte, ma da ogni capriccio degli adulti, che parevano tutti complicati senza un perché.
(Com’è stato per me, p. 86)

Greer, mediante il suo narratore-bambino, osserva il mistero che il mondo degli adulti rappresenta, fatto di regole che ai loro occhi sono impossibili da decifrare, di complicazioni, di cose non dette. Come il mistero della madre del protagonista-narratore: 

 

Ma come mai ero senza madre? Ancora adesso non lo so; mio padre non me ne ha mai parlato. […] Magari era un po’ matta anche lei. Ma il suo talento principale era quello di sparire, cosa che poi fece per sempre. (Com’è stato per me, p. 79)

 

E quando l’illusione si infrange e resta la realtà tutto assume contorni nuovi. “Com’è stato per me” è innocenza e verità, è la fiducia assoluta nei legami che si creano a quell’età e che non hanno bisogno di farsi domande. Ma sono anche le crepe che corrono lungo la facciata. Le insegnanti-streghe rappresentano il pretesto per combattere contro quello che non si comprende, forse la stessa vita adulta, la perdita dell’innocenza che di lì a poco sarà inevitabile. Non c’è un cadavere come nel racconto di King, ma ci sono epifanie e svolte altrettanto dolorose a segnare il passaggio. E i piccoli segnali della vita adulta che è lì ad attenderli e che inevitabilmente metterà una distanza nella loro amicizia. Sprazzi di futuro che appaiono nella narrazione, una tecnica che, proseguendo nella raccolta di Greer, si farà via via fin troppo insistente ma che in questo momento, in questo racconto, funziona perfettamente.  

Come funziona, ancora, in “La vita è là”: in una narrazione che lievemente ricorda “Kew Gardens” di Virginia Woolf, Greer sorvola un campo da calcio dove dei ragazzini sono impegnati in un torneo, i genitori accalcati ai bordi, concentrati sul gioco; un gruppetto, poco distante, intento in altri giochi, un’avventura da far sembrare reale. Come per Woolf è un narratore esterno che pare sorvolare la scena, avvicinandosi di volta in volta a un gruppetto di loro, per poi soffermarsi su ognuno di quei ragazzi fuori dal campo da calcio, concentrati nei loro giochi al fiume. Una zoomata, per osservare meglio Debbie e la sua improbabile barchetta fatta con una scatoletta di tonno, mentre commenta «Nelle pieghe del tempo così tante volte che no sa neanche dire quante» e sogna avventure che non capitano mai a ragazzine come lei. Per osservare Martin, lasciato in panchina per tutta la stagione, e si applica a perfezionare la sua barca di legno di pino, mentre borbotta incessantemente i versi di una poesia di Dickens da recitare durante un’assemblea a scuola; parole che si inseguono e che non comprende, come quasi tutto quello che riguarda il mondo degli adulti, le regole scritte in un codice tutto loro. O, ancora, Kristin, avventurosa e ribelle, che si cala nell’acqua gelida del fiume con i pantaloni arrotolati: tutti «la trovano strana», i bambini e pure gli adulti che li mettono in guardia da quelle come lei.  

 

Guardate com’è già avventata la sua vita. Qualche anno dopo, suo fratello, ora sul campo da calcio, sarà investito da una macchina. Tutto il vicinato resterà paralizzato dall’orrore, e lei in cucina si girerà verso la madre e vedrà quel viso per un attimo svelato. La madre mostrerà qualcosa di scandaloso in un genitore; mostrerà la propria antipatia per la figlia. Ma subito le si nasconderà rapida dentro il viso, e lei correrà ad abbracciare la figlia. Però Kristin l’avrà vista e lo saprà.
(La vita è là, p. 130)

 

Eccola qui, ancora, la prolessi cara a Greer, sprazzi di un futuro che sta già prendendo forma nell’istante in cui siamo e che ne “La vita è là” funziona perfettamente mentre lo sguardo si sposta dall’uno all’altro, dai bambini agli adulti, tra ciò che è il momento presente e le rovine che per qualcuno di loro già rappresenta. Tra chi è fuori posto, tra i segreti che qualcuno custodisce, la rabbia, il dolore, lo sgomento. E forse quel codice di regole per la vita adulta neppure loro, gli uomini e le donne, lo conoscono davvero.

Di certo, sembra sottintendere questo Greer degli anni giovanili, anche il codice delle relazioni è un mistero e i suoi personaggi sembrano decisi a ignorare tutti gli avvertimenti del disastro imminente. C’è una bellezza struggente in “Vieni a vivere con me e sii il mio amore”, il racconto d’apertura della raccolta, perché sappiamo fin da principio che qualcosa è andato storto e il matrimonio tra i due protagonisti è la copertura di altri sentimenti e inclinazioni impossibile da confessare e vivere apertamente senza perdere la sicurezza delle vite cui aspirano. Ma c’è molto più di questo, c’è un’intera vita comune che nel frattempo si compie fino a quando non sa più tenersi insieme:

 

Quello che mi ricordo è che parlammo così, per tutto il pomeriggio, come se stessimo cancellando un cocktail party, e non una vita.
(Vieni a vivere con me e sii il mio amore, p. 43)

 

È forse il racconto più intenso e maturo di tutta la raccolta, nel quale Greer dimostra una spiccata capacità di indagare le pieghe delle relazioni, addentrarsi nei meandri dei propri personaggi e restituirne l’anima e il corpo, scevri da stereotipi o sterili caratterizzazioni. La materia narrativa non è nuova – una relazione eterosessuale per mascherare l’omosessualità di entrambi – ma la trattazione è meritevole e si infonde di rinnovati spunti. Una narrazione in prima persona, dal punto di vista del marito, che ancora una volta gioca su piani temporali diversi nel raccontare la storia di quel matrimonio, delle persone amate, delle crisi. E, soprattutto, delle innumerevoli sfumature dell’amore. Una storia di scelte, di addii e di ritorni, di sentimenti complessi come lo sono nella vita vera: per questo il racconto funziona, indipendentemente dalla soggettività dell’argomento, per la vita che Greer gli ha saputo infondere. È questo, alla fine, l’elemento più importante di tali racconti e, di contro, la loro debolezza quando viene a mancare: la vita che si respira nelle storie. La felicità, la disperazione, la rabbia, l’amore, l’incomprensione, lo spettro intero dei sentimenti umani che fa vibrare le pagine. Dove è nata la voce di un autore come lo conosciamo oggi.   

Coniglio maledetto, Bora Chung

Titolo: Coniglio maledetto
Autore: Bora Chung
Editore: La Nave di Teseo
Traduzione: Andrea De Benedittis
pp. 288 Euro 19,00

di Fabrizia Gagliardi

Nella distopia c’è una distanza che rassicura il lettore: in fondo la storia è una versione possibile del futuro in cui tutte le tendenze più distorte e indesiderabili del presente hanno trovato la strada della realtà nella finzione. Cosa succede quando le storie del presente diventano ticchettii che segnano l’imminente compimento di quella rappresentazione immaginaria? Sarebbe un po’ come osservare un disastro nel momento in cui ogni idea risolutiva diventa rimpianto, fino a creare il paradosso di essere stati testimoni e complici del collasso.

È un monito che percorre i dieci racconti di Coniglio maledetto di Bora Chung (traduzione di Andrea De Benedittis, La Nave Di Teseo) dove realismo magico, horror e folklore si intrecciano dando vita a narrazioni che assecondano le convenzioni dei generi letterari per ritrarre storture sociali ed economiche.
L’opera, tradotta in ventidue lingue, è stata selezionata per il Booker Prize 2022 e il National Book Award 2023 per la letteratura tradotta, ed è comparsa nella lista dei migliori libri  del 2022 sul New Yorker. Una serie di traguardi di visibilità che hanno alzato l’attenzione su storie tangenti a una tragica realtà: in Sud Corea l’ingiustizia socioeconomica ha guadagnato da anni neologismi satirici, diffusi tra gli internauti, come “Hell Joseon” (traducibile in una formula come “La Corea è una società infernale e senza speranza”), o anche “Tal-Jon” (una crasi che significa “Fuggi dall’inferno”).

La prosa di Bora Chung ricalca il tono delle favole e del racconto popolare e si muove su un confine poroso tra l’assurdo e il terrore più sottile, tanto da creare un ibrido tra Sayaka Murata e Angela Carter.
Una delle storie più emblematiche è Testa, in cui una giovane donna scopre una testa senza corpo nel suo bagno. Questo macabro ritrovamento è generato dai suoi rifiuti corporei e la tormenterà fino alla vecchiaia.
In Mestruo una ragazza assume una dose eccessiva di anticoncezionali fino a scatenare l’effetto contrario e rimanere incinta. Il racconto è una corsa alla ricerca del futuro padre per un bambino che rischia di non nascere.

“Be’, come prima cosa dovrà mettersi alla ricerca di qualcuno che gli faccia da papà.”
“Da papà? Oddio, e perché?”
“Se ha concepito un bimbo…” replicò sgarbatamente la dottoressa, “avrà diritto o no di avere un padre?”
“Ecco, ma in caso contrario… se non ne avessi uno a disposizione che accadrebbe?”
“Data la situazione, considerando che non si tratta di un concepimento normale, nel caso in cui lei non avesse un partner di sesso maschile, l’embrione non riuscirebbe a formarsi e a crescere regolarmente. Sa, è lo stesso che capita tra le uova: infatti ce ne sono di fertili e di non fertili. È praticamente lo stesso principio,” le spiegò la dottoressa come seccata e fulminandola con gli occhi. “Se l’embrione non riesce a crescere regolarmente, allora si rischia di non riuscire a portare avanti normalmente la gravidanza, ma questo potrà avere delle ripercussioni sulla partoriente. Capisce?”

La voce delle donne è oscurata dal controllo del corpo: quando urlano i loro timori vengono costantemente derubricati, quando sono confuse vengono accusate della loro paura e generano disgusto.
A pensarci bene, nella raccolta ogni lettore può riconoscere elementi che almeno una volta ha incontrato nella realtà: il sorriso di conservazione dello status quo “perché qui funziona così, da sempre”; la tendenza crescente, nel mondo circostante, a minimizzare qualsiasi preoccupazione lecita (lavorativa, sentimentale, relazionale) che denota poca empatia e connessione con l’altro; l’appiattimento verso l’individualismo estremo in cui ogni sentimento è passato al vaglio della stranezza o della solitudine senza possibilità di essere compresi.
Sono i racconti costruiti come favole a generare la sensazione più straniante e, forse, ad apparire come ammonizioni più esplicite per peccati contemporanei. Ne La tagliola l'avidità capitalista si avvale della metafora del sangue dorato di una volpe catturata casualmente da un uomo. Da quel momento in poi la vita del protagonista è votata al profitto, in una spirale crescente di omicidi, cannibalismo e incesto.
Nel racconto che dà il titolo alla raccolta la fiaba della buonanotte raccontata dal nonno si trasforma in un incubo: il declino del CEO di un’azienda di liquori e della sua famiglia s’innesca dopo aver ricevuto un oggetto maledetto che punisce la spietatezza passata.
In Casa, dolce casa! una donna è convinta di poter vivere di rendita acquistando un intero edificio da mettere in affitto, ma una serie di sfortunati eventi sembrerà ostacolarla continuamente.

Lei stessa ammetteva di andare controcorrente, ma d’altronde non era mai stata il tipo che si metteva a seguire il resto del gregge. Gli altri desideravano una vita da sballo: guadagnare soldi a palate, comprare case e automobili più grandi, mandare i figli in asili internazionali con rette astronomiche e in scuole private stra-competitive, per poi farsi dei bei viaggetti all’estero ogni tre mesi. Ma questo non era ciò che lei voleva per sé. Lei ambiva a una vita tranquilla, tra persone senza troppe pretese, ma affettuose… a un’esistenza che le consentisse di vivere in pace con sé e con gli altri.
E ora pensava finalmente di averla trovata.

Un’immaginazione ricca e una prosa dritta e descrittiva mescolano sogno, memoria traumatica e orrore in uno stile semplice. Chung riesce a unire influenze e generi in un modo che destabilizza le aspettative formali sia della narrativa pulp che della letteratura più intellettuale. Questa fusione porta il lettore a navigare tra le macerie di convenzioni sociali e letterarie per trovare nuovi terreni da esplorare e abbattere.
Coniglio maledetto non è solo un esercizio stilistico aderente all’horror e alle favole surreali, ma è un sistema composito di riflessioni sul conformismo, sulle maledizioni da infrangere attraverso nuove forme di umorismo nero e di reazione.

Ti piacerà quando ci arrivi, di Elizabeth Taylor

Titolo: Ti piacerà quando ci arrivi
Autore: Elizabeth Taylor
Editore: Racconti Edizioni
Traduzione e curatela: Paola Moretti
pp. 288 Euro 18,00

di Debora Lambruschini

Dove se ne stava nascosta Elizabeth Taylor? Non l’attrice, ma quella «famosa per non essere più nota» come sottolineava causticamente il critico Ben Schwarz su The Atlantic? Era nascosta in bella vista e ora che una selezione dei suoi racconti è finalmente approdata per la prima volta anche nelle librerie italiane non ci sono più ragioni per ignorarla. Racconti edizioni scova queste gemme di humor e disperazione, raccolte nel libro Ti piacerà quando ci arrivi, intrise di una englishness che la traduzione di Paola Moretti (a cui si deve tutta la curatela della raccolta) riesce a rendere abilmente in italiano. Per la verità qualcosa di Taylor era già stato pubblicato in Italia, ma pochissimo e ancora meno quello che risulti attualmente reperibile: i romanzi La colpa, A casa di Mrs Lippincote (forse il suo testo più celebre), Mrs Palfrey all’hotel Claremont (anche questo abbastanza noto), Mossy Trotter (il suo unico libro per ragazzi), La gentilezza in persona, Una ghirlanda di rose, Angel. È nella forma breve, però, che il talento letterario, l’arguzia e quell’uso «preciso del linguaggio» intrecciato a uno stile sobrio si fanno davvero peculiari e ammalianti.
Nata Elizabeth Coles (Reading, 3 luglio 1912 – Penn, 19 novembre 1975), prende il cognome dal marito John, conosciuto negli anni Trenta, scegliendo di usare proprio quel nome per la pubblicazione dei suoi lavori, inconsapevole dell’omonimia che di lì a poco l’avrebbe accostata – portando a non pochi equivoci – a una tra le attrici più famosa dei tempi, la diva dagli occhi viola. Cresciuta fuori Londra in una famiglia appartenente alla classe medio bassa, frequenta tuttavia le migliori scuole femminili del posto, distinguendosi soprattutto in inglese, ma l’avversione per la matematica ne comprometterà l’accesso all’università. Ancora adolescente inizia a scrivere e recitare in spettacoli teatrali amatoriali: sarà proprio durante uno di questi spettacoli che rimarrà ferita da un fuoco d’artificio che le danneggia irrimediabilmente la vista dall’occhio sinistro. A seguito del rifiuto da parte delle principali università per via delle sue lacune in matematica, studia stenografia e poi inizia a lavorare come governante, maestra d’asilo, bibliotecaria. Si dedicherà anche alla carriera politica, aderendo al partito comunista, per poi scegliere la vita coniugale e la scrittura, ragionando sempre su come la domesticità influenzi la creazione letteraria, soprattutto per le donne, argomento che ricorre spesso in forme diverse nei suoi scritti.  
Autrice di dodici romanzi, una novella, un libro per ragazzi e svariati racconti, Taylor è stata quindi riconosciuta come una delle maggiori scrittrici britanniche del Novecento, accostata ad autrici quali Elizabeth Jane Howard, Ivy Compton-Burnett, Elizabeth Bowen, Barbara Pym. E Jane Austen, da cui tutto ha avuto origine. La prosa di Taylor è intrisa di humor ma anche di disperazione, retta da un uso peculiare della lingua, lo stile capace di raccontare tanto la realtà tangibile quanto il mondo delle emozioni, soffermandosi sul dettaglio rivelatore, accogliendo le varie sfumature di linguaggio e classe sociale di cui fuori dal contesto britannico forse non si riesce a coglierne appieno la portata ma basta anche un’eco per restarne affascinati. Questi quattordici racconti, selezionati da Paola Moretti, sono scelti come i più rappresentativi, il meglio della produzione breve di Taylor: un microcosmo di storie autonome, attraversate da temi e modi comuni nei quali il confine tra umorismo e grevità è spesso labile. È un sorriso amaro, intrecciato a un’ironia caustica a tratti, ma mai cattiva, tutt’altro. Uno sguardo pieno di umanità per quegli uomini e, soprattutto, per quelle donne protagoniste delle storie. Racconti scritti tra gli anni Quaranta e Sessanta del secolo scorso e apparsi su riviste come Vogue, New Yorker, Harper’s Bazaar, in cui tuttavia la connotazione temporale appare sospesa, dai contorni sfumati, e sono alcuni dettagli – la televisione, la macchia, i telefoni – a riportarci nel tempo in cui sono collocati; una sospensione temporale che si intreccia allo spazio geografico e sociale della narrazione, quella middle class suburbana che è il cuore della riflessione letteraria di Taylor.
Il centro nevralgico di queste storie sono infatti le donne della classe media dei sobborghi, il quotidiano che diviene domesticità, le increspature sulla superficie all’apparenza regolare. Storie in cui più del plot è lo spaccato di vita che rappresentano a fare la narrazione e che grazie allo straordinario orecchio di Taylor si compone in un microcosmo di personaggi, voci, pub decadenti e antiche dimore, cottage, giardini. È la provincia inglese con il suo cicaleccio costante, il quotidiano impresso sulla pagina. Storie autonome ma accomunate da un’occorrenza di tematiche e spunti: la maternità – quasi sempre mancata – , l’alcol, la solitudine, l’insoddisfazione coniugale, la complessità delle relazioni.
Emblematico, il lungo racconto con cui si apre la raccolta, Hester Lilly, un portento di stile, ironia e dramma, minuzia di dettagli e sospensione.     

 

La prima sensazione di Muriel fu quella di un sollievo beffardo. Il nome, Hester Lilly, le aveva dato l’impressione di una delicatezza preraffaellita con un che di tiroideo. Questo, insieme alla giovane età e alla tenerezza che suscitava, avrebbe rappresentato un pericolo per qualsiasi moglie, mentre nei mariti poteva ispirare senso di protezione e galanteria: i nemici più difficili da combattere, rispetto ai quali la semplice ammirazione non era nulla. «Se fa leva sulla compassione» rifletteva, «così giovane e orfana, qualsiasi mia rimostranza sembrerà oltremodo insensibile».

 

Ma Muriel, la moglie protagonista di questa storia, non potrà fare a meno di guardare con sospetto l’arrivo della giovane cugina del marito, accolta in casa loro perché rimasta senza famiglia; Hester Lilly è una creatura timida, spaventata, che Muriel finge di prendere sotto la propria ala ma verso la quale ha sentimenti di natura assai meno caritatevole di quanto vada declamando. Una sottile, feroce gelosia la investe e si insinua nel suo matrimonio. «È chiaro che sei innamorata di Robert»: la brutalità con cui Muriel rivolge a Hester queste parole apre uno squarcio nella finzione, nel rispettoso equilibrio costruito su piccole falsità e non detti. Tutto è destinato a guastarsi. Che la giovane sia effettivamente innamorata del cugino Robert, che tra i due possa o meno nascere qualcosa di romantico, non importa: il dramma al centro della narrazione è la rappresentazione di un matrimonio le cui crepe sono sempre più marcate, logoro di distante e silenzi, convenzioni, perbenismo, dove ogni sentimento d’amore se c’era sembra essere perduto per sempre.

 

«Se Hester non fosse mai arrivata! Se fosse rimasto tutto come prima!»

«Lei non c’entra niente. È del tutto innocente».

«La sua innocenza è velenosa. Ci ha corrotti»

 

È la funebre scoperta del loro disamore, della spaccatura che si è creata nel matrimonio, un abisso nel quale gettare parole «come a volerlo chiudere prima che fosse troppo tardi».
Intorno, i tentativi di Hester di affrancarsi dallo sguardo e dal giudizio di Muriel, la strampalata frequentazione con la vecchia alcolizzata dal paese, un corteggiamento… Ce la faranno Muriel e Robert? Ce la farà il loro matrimonio? È su questi dubbi che Taylor costruisce la narrazione, sulle solitudini e le distanze della coppia, usando nelle storie anche registri diversi: in Gravement Endommagé marito e moglie partono per una vacanza sperando che questo tempo insieme possa riavvicinarli, ma il lungo e monotono viaggio in macchina sembra invece acuire le tensioni e la distanza; in Una tara di famiglia, forse, i rumori familiari del pub sono il canto delle sirene di un neo marito che dimentica completamente la moglie ad attenderlo in camera; o, ancora, in Il rossore la protagonista dimostra un innegabile aplomb di fronte alle bugie della vita coniugale della sua domestica.
Ogni racconto – o quasi – rappresenta una sfumatura dell’indagine di Taylor sulle relazioni, sulla vita coniugale e le sue frustrazioni, con un registro che sa farsi ora ironico ora greve, e dove la solitudine è il fardello comune degli uomini e delle donne ritratte. L’insoddisfazione coniugale è resa al suo massimo nella storia Un uomo devoto, laddove la coppia protagonista non è neanche davvero sposata: è una facciata, una bugia orchestrata per trarne vantaggio, ma che gli si ritorcerà contro. Nella ricerca di Silcox ed Edith di un luogo di lavoro più consono ai loro standard di rispettabilità, si intreccia una rete di bugie che lentamente sembrano confondersi sempre più con la realtà:

 

Avevano sofferto gli orrori della gente comune e questa fuga verso l’eleganza era importante per entrambi. I pericoli che li minacciavano non avevano a che fare con il lavoro, che entrambi padroneggiavano dall’inizio, ma con la loro vita privata. Per Edith era un’agonia pensare che ci si aspettasse
che passassero il loro tempo libero insieme.

 

Alla riflessione sulla vita coniugale, l’autrice alterna anche l’interessante rappresentazione del piccolo mondo della comunità che lo popola: il rituale del pub – l’alcol, una costante di queste storie, tanto per gli uomini quanto per le donne – , le visite tra vicini, il pettegolezzo; lo sguardo di Taylor si posa su questi duplici aspetti, descrive minuziosa l’interno di una casa e le abitudini della sua proprietaria, per poi spostarsi altrove, raccontando un’altra storia ancora (La benefattrice), in un cambio di punti di vista e piani narrativi arditi e funzionali. Curiosa, poi, la scelta di inserire il racconto La carta moschicida, che si discosta dal resto della produzione qui selezionata per la sottile tensione che via via si fa strada nella storia, fino all’ambiguo finale. È una virata interessante, ma non del tutto fuori luogo: è solo l’altra faccia della realtà suburbana, quella più oscura che, pur con le dovute differenze del caso, trova eco in certi racconti di Patricia Highsmith (penso per esempio a Un uomo tanto gentile, contenuto nella raccolta Donne, La Nave di Teseo).
Inseguendo questo filo rosso che lega i racconti di Elizabeth Taylor ad altre storie, ad altre scrittrici – oltre alle influenze più esplicite ricordate in apertura – quella capacità di osservazione della realtà si lega per alcuni versi alle storie di Bette Howland (Storie di vite diverse, Sem), il dettaglio carico di significato e le vite minime di certi racconti di Hilma Wolitzer, fino alla feroce ironia di Dorothy Parker nella rappresentazione della solitudine.
Storie diverse, autrici diverse per contesto geografico, narrazioni, sguardo, ma in qualche modo legate da quel filo. Da Jane Austen a Elizabeth Taylor, che scrisse per sé forse il nome sbagliato ma pesò ogni altra parola con estrema cura.   

Gotico rosa, di Luca Ricci

Titolo: Gotico rosa
Autore: Luca Ricci
Editore: La Nave di Teseo
pp. 256 Euro 18,00

di Francesca Piovesan

Se c’è uno scrittore italiano,contemporaneo, che ha cercato di dare significato e senso al moto dell’amore, quello scrittore è Luca Ricci.
Dopo la Quadrilogia delle Stagioni, torna in libreria con una raccolta di racconti: Gotico Rosa, La Nave di Teseo.
Ricci ritorna alla forma breve per “indagare le passioni delle donne e degli uomini dopo la fine del romanticismo. Perché l’amore fa bene ma può, e forse deve, farci anche male.”
Sappiamo tutti benissimo che il “fare male” non è parte della ricerca, che tutti con ostinazione cerchiamo di scansarlo, ma la maggior parte delle volte è inevitabile, sembra quasi indispensabile alla costruzione di un amore, ed è proprio qui che, Ricci, scava e indaga grazie alla sua scrittura.

 La raccolta inizia con “Deliquio veneziano”, un racconto ambientato a Venezia, una morte a Venezia, morte voluta, simulata in gondole durante un’estate rovente, morte non più così tanto voluta di fronte alla passione improvvisa, inaspettata, di fronte a un essere che si nutre di fantasia, scrigno di antichi miti.

 

Ma eravamo tutti così, uomini che nel momento esatto in cui venivano messi al mondo perdevano la loro parte divina, serbandone tuttavia una memoria labile nei miti classici.
Eravamo tutti l’avanzo di una divinità.

 

Ogni storia di amore e di sesso contiene la sua piccola morte.
“Racconto della pioggia” è il racconto di due amanti in undici temporali.
Il dipanarsi della loro storia, della loro passione, del diventare inevitabilmente e fatalmente coppia, lungo stagionalità di pioggia, un albergo in una città d’arte a metà strada, lungo l’immaginario che ogni pioggia porta con sé.

 

Pioveva anche la prima volta che ci siamo visti”, osserva lei, e io capisco con piacere che stiamo già lavorando alla costruzione di una storia, la nostra storia, che sarà fatta di numeri, analogie, ricorrenze, coincidenze che vogliamo trasformare in destino, ogni relazione tenta questa impresa stupefacente, l’edificazione di un tempio, ogni coppia di amanti prova a inventare la religione del proprio amore…

 

Gli amori non sono tutti uguali, così come non lo sono le piogge, il loro tasso d’umidità, i rumori che richiamano, il loro effetto su corpi asciutti o bagnati, sudati.
La tematica dell’amore proibito, clandestino, che si trasforma in “tempio dell’amore” è uno dei temi che sono più cari a Luca Ricci, che cerca di sviscerare, di farlo proprio con la scrittura, di renderlo godibile al lettore, specchio riflettente.
“Vitalità dell’amore” è uno di questi casi, dove ancora una volta, qualcosa di moralmente perseguibile perde quel fascino di piccola perversione domestica, da zona bene di Roma, per trasformarsi in innamoramento, in invaghimento. La vitalità, la giovinezza di un’adolescente, che incontra la maturità, la voglia di trasgredire ancora le regole, di un uomo adulto, uno stimato professionista.

 

A una certa età si è confortati più dai vizi che dalle virtù. È una questione di prospettiva: le virtù si occupano del futuro, e chi invecchia sa di averne sempre meno.

 

Un’altra ragazza giovane percorre le righe dell’ultimo racconto della raccolta, “Trascurate Milano”, dove la metropolitana fa da sfondo a una storia che si consuma in pochi minuti, che è sempre prima volta e ultima, cupa nei sotterranei e piena di aria pulita, di ossigeno, che in superficie non può durare, non esiste, resiste.
“Tutto marcia diligente verso il Natale, eccetto noi…”.
Milano marcia diligentemente verso il Natale con i suoi regali, i panettoni, mentre sotto, nei vagoni, il palcoscenico porta sulle scene due ruoli definiti e intercambiabili, in cui vittima e carnefice si possono confondere.
Gotico Rosa ospita anche storie di fantasmi, e di maledizioni, come il racconto che da il titolo alla raccolta, dove due giovani sposi vengono posseduti da una coppia morta, antica, confluita nell’oro colato delle loro fedi nuziali.
C’è spazio anche per l”Adolescente (s.m). Convalescente dall’infanzia”, che in “Ferragosto addio!”  incontra il primo amore, la prima vera attenzione rivolta all’altro sesso, durante un’estate calda, lenta, pigra, attorniata da ville con piscina e voglia di distruzione.
Incontriamo anche la pandemia, forse una delle prime produzioni italiane che leggo in merito.
Il nero abisso esistente tra noi” vede un uomo sfregiato dalla vita che, dietro una mascherina FFP3, sperimenta di nuovo il potere della conquista, la clandestinità che in tempo di virus risulta amplificata.
Una passione che, mancante della conoscenza anche fisica dell’altro, lascerà degli strascichi inaspettati.
Luca Ricci riesce, ancora una volta, attraverso la forma breve a rendere tutte le dinamiche del rapporto amoroso. Oscure e confuse, impaurite e in preda alla giostra dei destini umani, le emozioni  vestono ancora nel gioco dell’amore il loro abito irrazionale.

Gotico londinese, di Nicholas Royle

Titolo: Gotico londinese
Autore: Nicholas Royle
Editore: 8tto edizioni. Traduzione: Cristina Cigognini
pp. 240 Euro 18,00

di Debora Lambruschini

Che cos’è reale? Che cosa non lo è? È intorno a questo nucleo che si muovono i racconti di Gotico londinese, dello scrittore ed editor inglese Nicholas Royle, tra «i maggiori esperti britannici della narrativa breve», tradotti da Cristina Cigognini per 8tto edizioni. Quindici racconti esemplari, che compongono una raccolta organica per tematiche e spunti, ambientati nella capitale inglese dagli anni 2000 a oggi, in cui l’ordinario, il quotidiano, è incrinato dall’elemento perturbante che attraversa ogni storia, pronto a deflagrare. Il richiamo alla tradizione gotica è evidente fin dal titolo – che traduce esattamente l’originale, London gothic – segnale di un’influenza mai venuta meno, mutata nel tempo per istanze e modalità narrative ma sempre adatta a raccontare il presente, le sue contraddizioni, i lati più oscuri e problematici. A lungo considerato letteratura meramente popolare che nulla aveva a che spartire con il novel e snobbato dalla critica, è stato dagli anni Settanta del Novecento che il gotico entra invece nel discorso critico, grazie soprattutto alle ricerche del bulgaro Todorov che per primo ne rivendicava una funzione psicanalitica, mezzo ideale per esorcizzare le paure della società entro cui il genere si sviluppa. E pochi generi invero riescono al pari del gotico a raccontare i turbamenti del contemporaneo, riflettere ansie e paure dell’essere umano, accogliere le istanze più problematiche della società, affrontare argomenti scomodi e intrecciarsi a riflessioni, per esempio, su femminile e patriarcato, tecnologia, scienza, fede, malattia mentale… L’influenza del gotico affonda le radici nel Settecento inglese (la sua fondazione si fa generalmente coincidere con la pubblicazione del romanzo The Castle of Otranto, di Horace Walpole, nel 1764, non a caso in pieno Illuminismo) e arriva dunque fino al contemporaneo, in testi che ne riprendono atmosfere, personaggi, istanze, scegliendo di volta in volta chiavi di lettura differenti. Ciò che del gotico affascina critica e lettori contemporanei è proprio la sua natura mutevole, che attraversa mode e correnti letterarie rinnovando atmosfere e sollecitazioni delle origini; materia viva, insomma, che in mani esperte può portare a esiti particolarmente interessanti e riusciti, come dimostrato dai racconti di Royle che si muovono in un contesto letterario codificato reinterpretandolo. In Gotico londinese l’autore concentra la propria attenzione sullo spazio urbano e sul perturbante che irrompe a scardinare l’ordine del quotidiano, mettendo in discussione tutto ciò che consideriamo reale, confondendo i confini di forma come quelli tra bene e male, giusto e sbagliato, realtà e incubo. Una raccolta sperimentale, organica nelle occorrenze tematiche e nel setting generale ma polifonica e particolarmente interessante nell’uso peculiare dei mezzi narrativi, del punto di vista mutevole – anche all’interno di una singola storia – , dei diversi registri espressivi, dei piani narrativi, delle influenze di altre forme espressive, dall’arte al cinema alla scrittura professionale. Molteplici, quindi, le chiavi di lettura per addentrarsi in queste storie, in cui riconoscibili alcuni temi e spunti comuni: l’altrove, la riflessione sul tempo – o meglio, sulle «scollature» nel tempo – , l’ossessione, l’incubo, la domesticità quale luogo principale del perturbante, il mistero delle relazioni, la pornografia della violenza, le relazioni. La materia è viva, plasmata dalla lingua che di volta in volta sceglie la forma più idonea a raccontare la storia, ad avvicinare il lettore giocando sull’empatia che sa creare, per poi deflagrare in una violenza annunciata da piccoli dettagli.
Emblematico il racconto d’apertura, “Benvenuti”:

 

Ciao! Benvenuti nella vostra nuova casa! La porta d’ingresso si inceppa un po’. Mi spiace. Tiratela verso di voi prima di provare ad aprirla. Dovrebbe funzionare. Vi abbiamo lasciato una bottiglia di vino – speriamo che vi piaccia il rosso! – e una pianta grassa portafortuna. Datele da bere di tanto in tanto (non il vino!), ma non esagerate. Non fatela morire! (“Benvenuti”, incipit, p. 11)

 

Scritto come un biglietto di benvenuto ai nuovi proprietari di casa, il tono ironico e la leggerezza dell’atmosfera muta presto in qualcosa di altro, di ben diverso, a partire dall’accenno, quasi casuale, a una macchia di sangue nell’ingresso. Proprio lì, sulla soglia della casa, sulla soglia della storia – sulla soglia della raccolta tutta, in effetti – , i nostri sensi si mettono in allerta, avvertono il mutare dell’atmosfera. Cogliamo gli indizi di un mistero che non sarà mai pienamente svelato ma i cui macabri contorni ci appaiono piuttosto chiari. O, almeno, così pare, come sarà spesso in questa raccolta, dove è il nostro stesso sguardo di lettori, una certa direzione che decidiamo di dargli, a fornire una precisa interpretazione delle cose, del tono della narrazione laddove i confini sono sbiaditi e lo svelamento solo parziale. Sarà il richiamo al gotico ben impresso già nel titolo, saranno gli indizi, certe atmosfere, le ossessioni di taluni personaggi, l’abilità con cui Royle dice e non dice, ma i nostri sensi sono tutti votati a una determinata interpretazione.
Ma Gotico londinese è anche una raccolta di architetture, di strade, di luoghi, di passeggiate per una Londra multiforme, nascosta, gotica appunto, innesco di un progetto narrativo che parte dalla capitale inglese per poi attraversare anche Manchester e Parigi, altre città in cui Royle ha vissuto.
Narratore abile, soprattutto quando si misura con l’ambiguità, con il dettaglio. Come nel racconto “L ONDON”, volutamente staccato, dove i preparativi per il matrimonio si scontrano con il numero degli invitati: «dobbiamo togliere due nomi dall’elenco». Nulla di più normale. Nulla di più ambiguo. La violenza resta come sempre in questi racconti fuori scena, il mistero non svelato, ma sentiamo, sappiamo, che qualcosa è accaduto e per tutto il racconto ci chiediamo come siano andate davvero le cose e chi altri è consapevole di quella verità celata.
Le cose quasi mai sono quello che appaiono, specie in racconti come questi, dove perfino il tempo è mutevole, materia da plasmare, soggetta a «scollature che generano scenari diversi, turbamenti, e dove i contorni del reale e della fantasia si annullano l’uno nell’altra:

 

Mentre indietreggia dalla scena dell’omicidio, e le immagini dello scontro con l’uomo alto dal cappotto scuro con la macchia chiara sul fondo le scorrono di nuovo in testa, Sarah rovista in cerca del telefono. Chiama Tim, ripassando per la sala dei lavorati in ferro, ma parte in automatico la segreteria. Vuole raccontargli dell’uomo alto, il sosia di Eberlin, come se avesse bisogno di essere rassicurata di non essersi persa in una fantasia creata da lei. (“Scollature nel tempo”, p. 140)

 

Fantasia, realtà, concretezza, sogno, si confondono nei racconti di Royle, l’eco della tradizione su cui si posano, i richiami letterari, storie come scatole cinesi: le istanze del gotico, dunque, ma anche una certa brutalità di Flannery O’Connor, le ambiguità di Shirley Jackson, il perturbante domestico di Samantha Schweblin, le alienazioni di Patricia Highsmith. Echi diversi, simile presa salda sulla parola che dà forma al mondo. In questo intreccio si inserisce la riflessione sulla scrittura e la rappresentazione di uno spaccato di mondo ben noto all’autore, editor di lungo corso. Nulla di più adatto della scrittura, dell’invenzione letteraria e del mistero che porta con sé, per raccontare l’ambiguità, la parzialità del punto di vista, la mutevolezza dell’interpretazione, come in “L0nd0n”, che è anche un’interessante riflessione sul ruolo dello scrittore, sul confine tra realtà e invenzione, autore e opera.
Royle e i suoi narratori sono ambigui, inaffidabili, tra svelamento e sottintesi lasciano un certo grado di segreto, il dubbio su quale sia il confine tra verità e menzogna, colpa e innocenza. È in questa ambiguità che si innesca la storia, in queste distanze dal reale che il gotico trova forme e modi nuovi. È lì, tra quelle pieghe, che guardiamo chiedendoci quanto di quel mistero sia possibile svelare, quanto della realtà ci è davvero conoscibile, dove si sconfina nell’ossessione. E dove la realtà è molteplice, le istanze del gotico ancora profondamente perturbanti. 

La cattedrale di nebbia, di Paul Willems

Titolo: La cattedrale di nebbia
Autore: Paul Willems
Editore: Safarà
Traduzione: Giuseppe Grimonti Greco, Federico Musardo
pp. 112 Euro 16,00

di Fabrizia Gagliardi

Se la scrittura fosse una risposta ci sarebbe bisogno di leggere davvero poco. Due o tre libri fondamentali per rispondere alle domande del lettore, e poi altro sarebbe superfluo perché non aggiungerebbe niente a interrogativi ampiamente scandagliati. In effetti, gli scrittori si occuperebbero del bianco e del nero, mostrare senza dire un mondo ordinato, in cui anche lo sconosciuto sarebbe chiuso in confini ben precisi.
Fortunatamente non è così, perché scrivere è «un atto di fede sempre deluso. Al tanto sospirato orizzonte non arriviamo mai neanche lontanamente e ciò che crediamo di aver afferrato svanisce non appena gli diamo un nome. Se le illusioni non fossero indistruttibili, non scriveremmo più».
Sono le parole di Paul Willems nel saggio Scrivere contenuto ne La cattedrale di nebbia. Safarà editore porta per la prima volta in Italia la traduzione di sei racconti e due saggi di uno degli esponenti più importanti del teatro poetico e fiabesco europeo.


Drammaturgo belga, nato a Edegen, Anversa, nel 1912 ha avuto una vita da viaggiatore essendo Direttore del Palais des Beaux-Arts e presidente delle Jeunesses Musicales, coinvolto spesso in scambi culturali che hanno contribuito a concepire opere teatrali percorse da realismo fantastico.
Nella Cattedrale di nebbia, la traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Federico Musardo, restituisce un mondo di magia sottile e oscura, dove il materialismo abbandona le convinzioni del lettore e sfuma le percezioni di sogno e realtà immergendolo in atmosfere surreali e magiche.
In qualche racconto la malinconia e la fine delle illusioni che sopraggiunge in età matura lacerano con il loro realismo viaggi e incontri inaspettati. Nel racconto Čerepiš, per esempio, seguiamo un on the road spirituale verso un monastero. Il protagonista e l’etnologo Hector continuano a conoscersi intervallando racconti personali e incontri lungo il percorso.

Nell’occhio del cavallo racconta di un padre che ha creato una lingua speciale per la figlia non più in vita:

«Da allora» dice Sergej «questa faccenda delle parole mi ossessiona. Sì. Le parole si consumano; anzi, peggio: si guastano. Tutte queste parole che vediamo ogni giorno sui giornali. Automobili usurate. Non c’è niente da fare. Troppo tardi. Anche noi siamo consumati e non abbiamo più radure per erigervi delle stele. Me ne rendo conto ogni giorno di più da quando ho perduto Maŝa. Mia figlia.
[...]E continua a parlarmi nella lingua segreta di Maŝa. È una lingua intessuta di lacrime e d’aria, nella quale i silenzi che separano le parole sono di un rosso cupo che vira al nero. Il vento che attraversa il racconto di Sergej fa tintinnare dei campanelli di carta e risuonare tamburi di sabbia.

Le parole sono intrinsecamente illusorie perché pretendono di delimitare qualcosa che una volta nominato rischia di sparire. Lo stile di Willems si fa giocoso: con maestria e inventiva fa intuire la libertà sterminata della lingua che però si riconfigura continuamente rispetto al passato; fa uso della metafora per suggerire collegamenti immaginifici («Victor viveva come un aquilone, ovvero legato a un filo. Le tempeste – che si era goduto fino ai venticinque anni – tendevano, senza spezzarlo, il filo che lo teneva ancorato all’infanzia») e pensa alla sinestesia accostando il materiale e l’immateriale.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta è l’apice della sua poetica perché ci immergiamo in un luogo magico ed enigmatico, dove la nebbia stessa diventa architettura.

La navata centrale era meravigliosa. Centocinquantaquattro colonne di nebbia fluivano verso l’alto per poi ricongiungersi in sette chiavi di volta. Il vapore vi si condensava in gocce d’acqua, che cadevano una a una secondo un ritmo casuale e che venivano accolte, al suolo, da meravigliose iris scolpite dall’orafo Wolfers. Queste iris di un azzurro intenso erano ricoperte di lamine d’acciaio vibratile che si animavano di suoni impalpabili al cadere di ogni goccia.
[...] Qui e là, verso l’alto, da ogni parte, i rami degli alberi che cingevano la radura attraversavano le mura e la volta di nebbia. Sembravano tenere l’intera chiesa sospesa tra cielo e terra. Questa impressione era rafforzata dalla presenza dell’edera che, non potendo aderire alle pareti, ricopriva il suolo di uno spesso tappeto il cui colore verde era esaltato da una luce diffusa di un grigio finissimo. Nonostante la protezione degli alberi, nei giorni di grande tempesta la chiesa si disperdeva. Si riformava soltanto al crepuscolo, con il calare del vento.

È attraverso queste immagini suggestive che Willems ci trasporta in mondi di pura meraviglia e incanto. I racconti si fermano all’ingresso del soprannaturale, senza mai addentrarcisi davvero ed ciò che rende difficile inquadrare un autore che dissemina la narrazione di simboli.
Probabilmente, dovremo prenderla come scrive lui stesso nel saggio Leggere e cioè che ogni lettura è una creazione e tutti i libri di una biblioteca sono, a tutti gli effetti, la creazione di un mondo, un mondo interiore da rispettare come fosse un luogo sacro.
«Io leggo come immagino si preghi».