Titolo: Sorelle
Autore:Ada Negri
Editore: Neri Pozza
pp. 192 Euro 8,99
Di Emanuela Lancianese
In “Vite di uomini non illustri” Giuseppe Pontiggia, richiamandosi alla tradizione di Aubrey e Schwob, testimonia di una ripresa dei racconti brevi che riguarda non pochi narratori del nostro secondo Novecento (da Calvino a Manganelli, da Parise a Cavazzoni). Il romanzo o antiromanzo dello scrittore lombardo si scompone nello studio di caratteri e nel dizionario flaubertiano dei tipi umani.
In Sorelle (raccolta di ventuno racconti uscita nel 1929), Ada Negri, anche lei lombarda e anche lei dotata di uno sguardo acuto e di una prosa asciutta, germinata dal mestiere di giornalista, ha usato lo stesso dispositivo; tranne che andando oltre la letteratura, che deve per obbligo artistico concederle lo spazio che merita, a valere nella storia del femminismo sono le vite di donne non illustri, tanto eroiche e disperate e dure quanto quelle degli uomini (senza escludere dalla prospettiva cosmica la metamorfica qualità adattiva e resistenziale di animali e piante).
Autrice del primo Novecento, uscita fuori dal canone dei grandi autori ma non della grande letteratura, come ritiene giustamente l’editore Neri Pozza ripubblicandola, Anna Negri attinge a una vena poetica che in parte alimenta l’antica passione politica e sociale e la lotta per l’emancipazione delle donne, in parte si fa prosa vibrante di impulsi e fremiti sensuali fusi in uno stile icastico, a tratti puro come la prosa di Manzoni, a tratti commovente come le poesie di Gozzano, sensuale almeno quanto quello di Margherite Yourcenar, per rivelare la durezza (e la bellezza) del mondo femminile di marca urbana e rurale.
Le protagoniste dei racconti sono donne del popolo, forti, determinate e spesso costrette a confrontarsi con difficoltà personali e sociali. Tra queste, spiccano personaggi come Eddie, soprannominata “la Cacciatora”, che sfida le norme di genere adottando un abbigliamento maschile e un comportamento libero; Plautilla, una vedova anziana che affronta la solitudine con estrema dignità; Lionarda, una madre coraggiosa che si prende cura della figlia malata; e la madre del piccolo Fosco, che deve affrontare un dolore inimmaginabile dopo un tragico incidente. Lo sfondo storico è quello degli anni ’20 e ’30 del Novecento dove si riverbera ancora il trauma post bellico della prima guerra mondiale, «in cui nemmeno i pochi proprietari di terre e padroni di fabbrica potevan dire d’essere ricchi; e conducevano, a un dipresso, la rozza vita del popolo» (scrive a proposito di Motta e Besana, paesi in cui ambienta il primo racconto) ma più in generale rievoca una prospettiva storica che ha visto sempre le donne portare sulle spalle, in condizioni impari e ancora più ingiuste degli uomini miserabili, tutto il peso delle cose e l’anticamente dolorosa memoria di specie. “Benedetto Croce, Renato Serra e poi Giuseppe Antonio Borgese: tre giudici severi della nuova letteratura italiana non possono fare a meno di sottolineare – pur tra distinguo – le qualità della scrittrice”, scrive Massimo Onofri nella prefazione alla raccolta.
“Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza trascorsi nel palazzo Barni, (di cui la nonna Giuseppina era custode n.d.r) dove giocava con le figlie del conte, furono importantissimi per Ada, perché la orientarono verso una duplice direzione: nel segno della disposizione alla fantasticheria su quel mondo aristocratico che non era il suo, e che in parte condivideva, ma anche d’un senso d’umiliazione e vergogna per certi compiti che fu costretta ad assolvere come quello di aprire il cancello alle carrozze dei conti e dei loro nobili ospiti. Senza dire delle tante ore passate ad ascoltare sua madre che leggeva
a voce alta alla nonna romanzi d’appendice”.
Grazie a sua madre, vedova e operaia, Ada studia. Nonostante il salario sia davvero molto misero, tanto che sua mamma non può mai permettersi neanche di ammalarsi, Ada riesce a diventare maestra. Insegna a ragazzi rozzi, selvaggi, ma che, come lei stessa dice, le piacciono perché sono creature spontanee e vitali.
«Non mi riconoscevo figlia che di mia madre: sua sola carne, suo solo spirito: lei vedevo sfaticare, logorarsi per darmi pane e gioia: nella mia perfetta innocenza non mi sarei meravigliata né offesa, se m’avessero detto ch’ero nata senza padre», scrive l’autrice nel racconto ispirato tuttavia dalla zia paterna Maurilia, in cui per antifrasi giunge a parlare del padre, alcolizzato e assente, ma tuttavia, se non rimpianto, ricordato con carità e indulgenza di bambina.
L’infanzia da una parte e la figura della madre dall’altra, saranno del resto i motivi ricorrenti di tutta la sua opera. In “Donna con bambina” le due polarità della vita femminile, giovinezza e vecchiaia sono sintetizzate in un doloroso battito di ciglia che racchiude l’arco di una piccola e grande ingiustizia.
“Sotto la ricchezza dello zibellino e la luminosità delle perle, nervi di donna insoddisfatta, esasperati dalle troppe raffinatezze della vita fisica e spirituale: tutti gli splendori apparenti, nessuna gioia reale, di quelle per cui la creatura diviene un frutto a perfetta maturanza, nutrito a sazietà del proprio succo”.
Del primo racconto di Sorelle, “La cacciatora”, di gran lunga il più esteso, è sorprendente l’incipit, così come lo è il personaggio eponimo, disegnato al di là d’ogni convenzione, tanto più se si pensa che nell’Italia fascista e concordataria del 1929, anni in cui l’amicizia contratta nella redazione del Popolo d’Italia con Margherita Grassini Sarfatti le permise comunque di godere di una certa protezione politica, la donna è unicamente moglie e madre.
“Di che colore erano gli occhi della Cacciatora? Non riesco, per quanto mi ci sforzi, a ricordarmene. Forse, azzurri. Forse, grigi. Piccoli, certo, e vaghi: non mai risolutamente fermi su una persona o una cosa: tanto da far pensare come mai ella potesse avere, cacciando, così giusta mira”.
Si chiama Eddie ed è, con ogni probabilità, americana. La voce narrante è quella stessa di Ada Negri, fresca maestrina diciottenne a sessanta lire al mese, che sente di vivere gli anni più belli e pieni della sua vita, mentre la poesia la visita quasi ogni notte «con apparizioni singolari». La Cacciatora è generosa. Vagabonda per i boschi fra la Motta e il Ticino con la sua cagna «dagli occhi umani, che lei chiamava Miss», ma sono pochi gli uccelli e le lepri che ammazza. Enigmatica figura racchiusa in un suo mistero inespugnato, nell’inviolabilità di un tempo che appartenne all’amore, chiusa in mute lontananze appunto una «terra lontanissima dalla sua», la Motta, paese in cui la Cacciatora non è l’unica personalità forte ed eccentrica: basterebbe citare Caterina Domprè, che raccoglie ogni confessione del paese, meglio del prete e la doppiamente vedova e anarchica Nanetta dei Rissi, Nanetta dei Rissi: «una contadina bruciata non soltanto dal sole, ma da un’inquieta, indomabile fiamma d’intelligenza, per cui s’era alla bell’e meglio istruita da sé, su tutt’i fogli che aveva trovati e che ce l’ha coi sciôri, senza averne mai visto uno».
Serra dice che lo stile di Ada risuona di echi dannunziani, ma sembra piuttosto, in grazia di uno sguardo fatto di muliebre comunione panica con il creato, che la scrittrice lo plasmi all’evidenza che è un corpo di donna, il suo appunto, a rispondere agli impulsi creaturali della natura, degli animali. A conferma del privato afflato mistico con il vivente, queste poche frasi del racconto sul gatto Michelangelo: «Le prode davano più mammole che erba. Gialli mazzetti di primule, senza stelo, occhieggiavano ai piedi dei tronchi: nel coglierli mi restava nelle mani la zolla, fresca, granulosa, còrsa da rapidi insetti».
Forza e debolezza, schiavitù e libertà, allegria e malinconia dipanano il rocchetto di queste vite che attraversano la tessitura dello spazio e del tempo, la morte dei figli, la caduta in disgrazia, il dissesto familiare, la malattia e la violenza, della sorte e dei mariti, come quello della Barila che «sa di averle lasciato sul corpo i segni che la faranno riconoscere il giorno del Giudizio». Durezza di amianto e fortezza d’animo di chi è dotato al massimo grado di questa virtù teologale, per rivelarci solo in parte un privato, ultimo, mistero.
Donne che parlano, ridono, odiano, desiderano pregano e si apprestano a morire sempre in profonda comunanza con la terra che calpestano, attraversate dal colore e dalla luce dei campi, scolpite nella sensualità ferina dei loro corpi flessuosi, delle cuciture erotiche delle calze, anche inginocchiate davanti all’altare in confessione di peccati forse mortali, di fronte a un dio che tace. Turbinio di polarità opposte e di interne crepe nell’alba della giovinezza o nel pallore della fine, ancora e fino in fondo ebbre di vita.