Buchi neri, di Alessandra Sarchi

TITOLO: Buchi neri
Autore: Alessandra Sarchi
Editore: Industria&Letteratura
Euro 10,00


di Debora Lambruschini

La scrittura di Alessandra Sarchi ha un’eleganza lieve: è la mano dell’artigiano che cesella con cura la materia e tira fuori la vita, plasmata parola dopo parola in un concatenarsi misurato, evocativo eppure allo stesso tempo solido, mai artefatto. È la musica che le parole messe in fila compongono in un fraseggio che sa accompagnare il lettore anche negli abissi più nascosti dei personaggi, nelle storture del mondo, nelle crisi, che insegue le crepe lungo la facciata. È prosa letteraria e al tempo stesso è vita, carne e sangue. E nella misura breve trova la sua dimensione ideale, la più esatta, nell’incastro tra storia e modo di raccontarla. Ora Alessandra Sarchi chiude una collana preziosa e che sicuramente rimpiangeremo: Invisibile, curata da Martino Baldi per Industria&Letteratura, un progetto editoriale dedicato alla novella che in questi anni oltre a due testi di Sarchi ha accolto storie di Rossella Milone, Giordano Meacci, Davide Orecchio e gli esordi notevoli di Giulia Ogliarolo e Andrea Accardi e che si conclude con i Buchi neri di Sarchi appunto. In questa casa hanno trovato spazio racconti e novelle che reggono da sole tutto il carico della narrazione, senza bisogno di etichette fuorvianti, ammiccamenti al lettore, ma neanche di respiri più ampi, sfocature verso il romanzo.

Buchi neri condensa nello spazio breve il momento, la scrittura, l’arte del racconto di cui pare farsi esempio di tutte quelle teorie e spunti che discutiamo tra seminari e laboratori di narrativa: le ellissi, l’uso di punti di vista molteplici e del tempo, il legame con la fotografia, la tensione, l’importanza di incipit e finali: è tutto qui, in questa storia, una lezione aperta di scrittura ma senza mai dare l’impressione di farsi maniera. È quell’eleganza della prosa di Sarchi cui si accennava in apertura e che plasma la realtà, indagando ancora una volta le pieghe dei suoi personaggi, gli sguardi marginali, le zone grigie, i sentimenti scomodi.
Faccio un torto a questa storia dicendo che è il racconto di tre donne, una famiglia, di fronte alla disabilità, semplifico troppo quella che è una narrazione molto più stratificata, ma da qualche parte bisogna pur partire per tracciare le coordinate minime di Buchi neri. Sarchi porta il lettore immediatamente al centro del racconto, l’apertura in media res, in quella casa di donne – le sorelle Lavinia e Alice, la madre Giulia rimasta vedova da tempo – tra le pieghe del quotidiano, nei legami affettivi, nei desideri inespressi. Sono soprattutto le voci e i punti di vista di Lavinia e Alice a dare forma alle cose, mentre quella di Giulia si sforza per farsi da parte, per non ingombrare con il peso delle sue preoccupazioni di madre.
Lavinia soffre di una malformazione del sistema nervoso, ha progressivamente perso la capacità di muoversi e anche parlare è difficile.  

 

Ricorda quando da piccola la madre per spiegarle la condizione di Lavinia le aveva detto che alla nascita era successo qualcosa per cui i fili del sistema nervoso che si allungano dal cervello al midollo spinale si erano ingarbugliati – gesto delle mani di madre che si contorcono – e così Lavinia non riusciva più a camminare, a reggere gli oggetti, a emettere suoni distinti. Tutto in lei era un po’ confuso e aggrovigliato.

 

La mente però è lucidissima, va veloce, distanzia quel corpo che non risponde. Lavinia è affascinata dalla matematica, dall’ordine dei numeri, da come le rispondono meglio del proprio corpo.
Buchi neri è anche una storia di corpi, di carne e desiderio: è il corpo di Lavinia, maneggiato da tutte quelle persone che se ne devono prendere cura per lei, ma anche su cui si posano da sempre i gesti d’affetto della sorella, i gesti di cura. Quel corpo su cui lei stessa si interroga, riflesso distorto di quello della sorella, mentre indugia sul significato della bellezza. Un corpo non conforme, comunque un corpo. Quello di una ragazza, quello del desiderio. Buchi neri si inserisce nelle pieghe del desiderio, tanto di Lavinia quanto di Alice, che prende forme diverse, si nutre di esperienze proprie e si scontra con qualche tabù che la letteratura sta cercando di abbattere quando la nostra società non sembra mai essere pronta e preferisce ignorare.
C’è una straordinaria normalità in questa storia che di ordinario potrebbe aver poco e in cui il discorso sulla disabilità è solo una delle sue componenti, per certi versi nemmeno la più importante. È, soprattutto, la storia di due sorelle, dei codici di comunicazione di un legame profondissimo, e della brama di essere anche altro da quel rapporto. Sarchi maneggia l’intreccio tra felicità e senso di colpa, racconta sentimenti complessi e la vergogna del riconoscerli, del nominarli. Si addentra in quelle pieghe stando ben attenta a non giudicare e costruendo una storia che si sviluppa in profondità, verso quell’iceberg di hemingwayana memoria la cui solida struttura sorregge il peso di quello che vediamo sulla pagina, superficie minima di tutto ciò che resta sommerso.
Passando da Lavinia ad Alice, Sarchi esplora il desiderio, la ricerca di indipendenza, la malattia, la perdita, il corpo, la felicità e la colpa, con una lingua malleabile e misurata, pienamente sintonizzata sui personaggi, che costruisce il codice di comunicazione tra le sorelle, quel filo che le lega.

 

Come si funziona quando ti mancano i pezzi, chi o cosa li compensa per te? Lavinia pensa ad Alice, è lei il suo intero, la sua compensazione.

 

Ma che cosa resta di Alice? Sarchi spinge il lettore a interrogarsi su questo, scacciando sentimentalismi e narrazioni stereotipate, inutili buonismi, per raccontare la complessità dei rapporti, l’amore che consuma, lo spazio per sé stessi. Per Alice l’esplorazione del desiderio e di una felicità intera, fuori dalle mura di casa, fuori dal rapporto con Lavinia e il suo ruolo di sorella che si prende cura, coincide con la scoperta di meccanismi complessi, significa fare i conti con il senso di colpa.

 

Sull’autobus che la porta a casa, Alice si accascia su un sedile, all’improvviso svuotata: potrebbe sentirsi meno in colpa del piacere che prova, della felicità che l’attraversa, ma come? Cos’è il senso di colpa, se non una macchia pronta a ricordarti che anche la gioia che provi è guasta, si dice, mentre con un dito traccia cerchi concentrici sul vetro sporco dell’autobus.

 

Come si fa a essere felici? Come si convive con quella parte di sé che ha desideri inconfessabili, la libertà da certi pesi, da certe responsabilità? Come quella volta da bambine, mentre spingeva Lavinia sull’altalena e per un attimo ha pensato di «spingerla così forte da farla volare via». E lei, Lavinia, che lo aveva capito, ha sempre visto quella parte della sorella, quella «malvagità» e l’ha perdonata. Forse è proprio Alice che non l’ha fatto, che non ne è capace. Alice, che prova a essere intera e sogna la fuga.