Undici, di Andrej Longo

TITOLO: Unidci
Autore:Andrej Longo
Editore: Sellerio
pp. 248 Euro 15,00

di Gianni Montieri

«Aurò, la vita noi mica ce la scegliamo. La vita è quello che viene. Quello che il destino ha scritto». «E noi, questo destino che sta scritto, nunn’ ’o putimmo cagnà, secondo te?». «Io penz’ ’e no, Aurò».

«una sedia / converge tutto il carico del cielo / esplode il suo metallo alla controra»; così chiude una poesia molto bella di Barbara Coacci (in Nessuna nuova, ed. La camera verde). Quella sedia la porto con me da molti anni. È una poesia che parla d’agosto, di controra, di cassonetti dei rifiuti. E che chiude con un oggetto tra i più comuni, che sta là abbandonato o lasciato temporaneamente da qualcuno per strada. La sedia fulcro, centro di gravità che attira su di sé il carico del cielo fino a irradiare lo spazio temporale della controra, a dominarlo, cos’è se non una indirizzatrice di destini? La sedia in quella poesia potrebbe essere anche Dio. Dicevo, la porto con me da anni e qualche giorno fa ho incontrato sua sorella, un’altra sedia, altrettanto importante, innocua come tutte le sedie fino a che un umano qualunque le riveste di importanza, attribuendo loro un peso specifico nell’ambiente e nella storia.  La sedia è una delle protagoniste principali di un racconto di Andrej Longo, contenuto in Undici. Non dimenticare edito da Sellerio. Un libro veramente bello, in cui l’autore fa un uso mirabile delle tecniche della narrativa breve riuscendo, tra le altre cose, a incanalare elementi che vengono dalla realtà, dalla cronaca, dentro una sospensione immaginaria, fatta di gesti e dialoghi, che è propria dei grandi racconti. Longo, con Undici, ritorna dove era già stato con Dieci (riedito sempre da Sellerio), solo che ogni ritorno è indifferente, diversi sono gli spunti, le voci, diversa è la stessa Napoli (e la sua sterminata provincia) che cambia ogni cinque minuti a dispetto di quello che spesso ci vengono a dire.

“Giù per la strada non ci stava più nessuno. Pareva che tutti quanti s’erano annascosti da qualche parte. Manco i motorini si vedevano. Intorno ci stava solo il silenzio. Un silenzio che non l’ho mai più sentito uguale a quella notte. Io, non lo so perché, subito ho pensato a lui. Ho pensato che gli poteva essere capitato qualcosa. Qualcosa di brutto. Di brutto assai”.

La sedia, dicevamo, titolo e fulcro di uno dei racconti più belli e ispirato da un fatto di cronaca. La sedia messa come segnaposto per un parcheggio, sempre là immobile da anni, in una zona dove il posto non si trova mai. La sedia osservata da una ragazzina prima, adulta poi. La sedia oggetto delle sue domande, alle quali i genitori non danno risposta, la sedia sta là, evidentemente, messa da un vicino di casa potente e inattaccabile. La sedia simbolo di potere, che protegge un posto e fa da monito. Sulla sedia c’è seduto qualcuno che non è necessario vedere, qualcuno che comanda. Dall’altra parte la voce narrante, la ragazza che per anni combatte con gli occhi e con le domande contro questa situazione fino al click, fino al precipizio che porta in fondo ad altre domande. Longo è bravissimo a maneggiare il tempo e i tempi, le descrizioni, i dialoghi, i silenzi, i personaggi la storia, tutto è sospeso, tutto ruota, ecco, anni che scorrono come in una lunghissima controra estiva, dove nessuno ha la forza di spostare la sedia, di cambiare le cose. Straordinario.

“La mia vita è questa, niente di speciale, niente da raccontare. Pulizzo il culo ai vecchi, lavo a terra, lavo per le scale, mi dicono quello che devo fare e io lo faccio. Mi chiedono Com’è andata con papà?, e io rispondo Tutt’a posto, nessun problema, che meno problemi ci stanno, e meglio è per tutti”.

Undici donne, undici voci, undici storie, tutte diverse. Storie che riguardano le difficoltà del nascere e vivere (sopravvivere) a Napoli e provincia, soprattutto in certi contesti. Chi scrive questo pezzo è nato a Giugliano e ha sempre pensato di averla scampata per pochi chilometri, nascere un poco più in là e chissà come sarebbe andata. Le donne di Longo sono meravigliose e normali, arrese e desiderose di riscatto, piegate dai fatti e colme di speranza. Sempre pronte alla rinuncia per puntare a qualcos’altro, capaci di desiderio, di scovare il vicolo che conduce fuori dall’ombra. E a volte quella luce è fare a meno di una bambina, altre è trovare una poesia e riconoscersi ancor prima di capirla, senza averne mai lette prima, altre è chiacchierare con un figlio in piena notte dopo averlo tirato fuori dai guai. A volte la luce è solo il fuoco che sta bruciando il tuo corpo perché hai detto no, altre è un omicidio perché il peso di chi abbiamo amato a volte è insostenibile. Ammazzare per salvare una figlia, due figlie, qualcosa.

Le donne narrano la loro storia mentre la fanno, la costruiscono e disfano, si muovono in ambienti domestici, spesso piccoli, e nel paesaggio, si adeguano al contesto, lo subiscono e provano a cambiare lo stato delle cose. Queste donne sono Napoli, eternamente sospese tra rassegnazione e speranza, ingenue e sagge, disposte ad accettare il sopruso e pronte a insorgere. A liberarsi. A volte ci riescono, altre no, Longo lo sa e le libera tutte attraverso la forza del suo racconto. Le storie sono tutte relativamente brevi e consentono all’autore di non indugiare in descrizioni che superflue, i dialoghi sono secchi, di poche parole e, al contempo, ricchi pieni di sfumature, che sfruttano i tempi del dialetto mescolati all’italiano.

“Io mi chiamo Maria. Tengo sette anni, sono la più piccola e mio padre dice sempre che sono arrivata per uno sbaglio. Io non lo so che sbaglio è stato, non me l’ha mai detto. Manco mia madre me l’ha detto mai. E chi lo sa senza quello sbaglio mò dove stavo”.

In più ogni racconto è scritto in un modo completamente diverso dall’altro. L’istante che tutto sospende li accomuna, eppure quell’istante è diverso. Così come sono diverse le modalità con cui Longo sceglie di portarci al finale e di commuoverci o di farci arrabbiare. In queste storie di donne gli uomini spiccano per debolezza, violenza, incapacità di comunicare, per essere criminali, insensibili, o per essere vecchi e soli, o per essere morti troppo presto. Fanno parte del quadro ma non sono il quadro. Le personagge invece sono tutte indimenticabili, le madri, le figlie, le scampate, le bambine. Come la piccola che accarezza una tigre in pieno centro di Napoli, o come l’altra che racconta un fatto drammatico passando di sogno in sogno, perché nel sogno forse non sta accadendo, perché il sogno le consente di sopportare ciò che è troppo doloroso perfino da capire.