La cattedrale di nebbia, di Paul Willems

Titolo: La cattedrale di nebbia
Autore: Paul Willems
Editore: Safarà
Traduzione: Giuseppe Grimonti Greco, Federico Musardo
pp. 112 Euro 16,00

di Fabrizia Gagliardi

Se la scrittura fosse una risposta ci sarebbe bisogno di leggere davvero poco. Due o tre libri fondamentali per rispondere alle domande del lettore, e poi altro sarebbe superfluo perché non aggiungerebbe niente a interrogativi ampiamente scandagliati. In effetti, gli scrittori si occuperebbero del bianco e del nero, mostrare senza dire un mondo ordinato, in cui anche lo sconosciuto sarebbe chiuso in confini ben precisi.
Fortunatamente non è così, perché scrivere è «un atto di fede sempre deluso. Al tanto sospirato orizzonte non arriviamo mai neanche lontanamente e ciò che crediamo di aver afferrato svanisce non appena gli diamo un nome. Se le illusioni non fossero indistruttibili, non scriveremmo più».
Sono le parole di Paul Willems nel saggio Scrivere contenuto ne La cattedrale di nebbia. Safarà editore porta per la prima volta in Italia la traduzione di sei racconti e due saggi di uno degli esponenti più importanti del teatro poetico e fiabesco europeo.


Drammaturgo belga, nato a Edegen, Anversa, nel 1912 ha avuto una vita da viaggiatore essendo Direttore del Palais des Beaux-Arts e presidente delle Jeunesses Musicales, coinvolto spesso in scambi culturali che hanno contribuito a concepire opere teatrali percorse da realismo fantastico.
Nella Cattedrale di nebbia, la traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Federico Musardo, restituisce un mondo di magia sottile e oscura, dove il materialismo abbandona le convinzioni del lettore e sfuma le percezioni di sogno e realtà immergendolo in atmosfere surreali e magiche.
In qualche racconto la malinconia e la fine delle illusioni che sopraggiunge in età matura lacerano con il loro realismo viaggi e incontri inaspettati. Nel racconto Čerepiš, per esempio, seguiamo un on the road spirituale verso un monastero. Il protagonista e l’etnologo Hector continuano a conoscersi intervallando racconti personali e incontri lungo il percorso.

Nell’occhio del cavallo racconta di un padre che ha creato una lingua speciale per la figlia non più in vita:

«Da allora» dice Sergej «questa faccenda delle parole mi ossessiona. Sì. Le parole si consumano; anzi, peggio: si guastano. Tutte queste parole che vediamo ogni giorno sui giornali. Automobili usurate. Non c’è niente da fare. Troppo tardi. Anche noi siamo consumati e non abbiamo più radure per erigervi delle stele. Me ne rendo conto ogni giorno di più da quando ho perduto Maŝa. Mia figlia.
[...]E continua a parlarmi nella lingua segreta di Maŝa. È una lingua intessuta di lacrime e d’aria, nella quale i silenzi che separano le parole sono di un rosso cupo che vira al nero. Il vento che attraversa il racconto di Sergej fa tintinnare dei campanelli di carta e risuonare tamburi di sabbia.

Le parole sono intrinsecamente illusorie perché pretendono di delimitare qualcosa che una volta nominato rischia di sparire. Lo stile di Willems si fa giocoso: con maestria e inventiva fa intuire la libertà sterminata della lingua che però si riconfigura continuamente rispetto al passato; fa uso della metafora per suggerire collegamenti immaginifici («Victor viveva come un aquilone, ovvero legato a un filo. Le tempeste – che si era goduto fino ai venticinque anni – tendevano, senza spezzarlo, il filo che lo teneva ancorato all’infanzia») e pensa alla sinestesia accostando il materiale e l’immateriale.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta è l’apice della sua poetica perché ci immergiamo in un luogo magico ed enigmatico, dove la nebbia stessa diventa architettura.

La navata centrale era meravigliosa. Centocinquantaquattro colonne di nebbia fluivano verso l’alto per poi ricongiungersi in sette chiavi di volta. Il vapore vi si condensava in gocce d’acqua, che cadevano una a una secondo un ritmo casuale e che venivano accolte, al suolo, da meravigliose iris scolpite dall’orafo Wolfers. Queste iris di un azzurro intenso erano ricoperte di lamine d’acciaio vibratile che si animavano di suoni impalpabili al cadere di ogni goccia.
[...] Qui e là, verso l’alto, da ogni parte, i rami degli alberi che cingevano la radura attraversavano le mura e la volta di nebbia. Sembravano tenere l’intera chiesa sospesa tra cielo e terra. Questa impressione era rafforzata dalla presenza dell’edera che, non potendo aderire alle pareti, ricopriva il suolo di uno spesso tappeto il cui colore verde era esaltato da una luce diffusa di un grigio finissimo. Nonostante la protezione degli alberi, nei giorni di grande tempesta la chiesa si disperdeva. Si riformava soltanto al crepuscolo, con il calare del vento.

È attraverso queste immagini suggestive che Willems ci trasporta in mondi di pura meraviglia e incanto. I racconti si fermano all’ingresso del soprannaturale, senza mai addentrarcisi davvero ed ciò che rende difficile inquadrare un autore che dissemina la narrazione di simboli.
Probabilmente, dovremo prenderla come scrive lui stesso nel saggio Leggere e cioè che ogni lettura è una creazione e tutti i libri di una biblioteca sono, a tutti gli effetti, la creazione di un mondo, un mondo interiore da rispettare come fosse un luogo sacro.
«Io leggo come immagino si preghi».