Le stelle nere, di Giulia Oglialoro

Industria&Letteratura porta in libreria un nuovo Invisibile, la sofisticata collana di narrativa breve curata da Martino Baldi, con il testo di Giulia Oglialoro Le stelle nere.
Un esordio di rara potenza narrativa e immaginifica che sin da subito rivela le stimmate di una scrittrice dalla voce inconfondibile.

Cattedrale vi propone l’incipit del libro, per gentile concessione dell’editore.



Le stelle nere
di Giulia Oglialoro


Le braccia tese in alto, verso il soffitto di legni intrecciati, attraverso cui risplendono le stelle. La testa di poco reclinata indietro, il collo nudo avvolto dal vento che spira alle sue spalle. La schiena dritta di pietra levigata, le gambe inscalfibili, una davanti all’altra, restano i piedi a contenere lo slancio, a chiudere come sigilli un corpo che può diventare qualsiasi cosa. Il piede destro, davanti, rivolto a est, quello sinistro rivolto a ovest, due aperture, due direzioni possibili per un tronco teso che sembra non aver mai conosciuto separazione. Gli spettatori stanno per arrivare, non può vederli ma i loro bisbigli riempiono il buio – dove siederanno? Forse proprio qui, accanto a lei, lungo il palco che si estende ovunque, senza direzione. Agnes. Ecco un primo accordo, lascia un’eco di cristallo. Il braccio destro inizia a scendere, lentamente. Come se non fosse davvero la gravità a richiamarlo, ma fluttuasse nel vento, in questo vento che spira alle sue spalle. Agnes. Il velluto che la ricopre per intero prende a scintillare; la sua pelle è lunare, il vento è sempre più freddo. Il braccio discende ancora, inizia a disfarsi. Inizia dalla punta delle dita, e poi via via i palmi, i polsi, e non c’è altro che questa carne lucente che scompare, si disperde in polvere.
«Agnes».
Apre gli occhi. Nell’oscurità riconosce la voce di Ester.
«L’uomo è qui».
Si rialza dal giaciglio in cui si è accasciata, scavato fra due rocce. Le gambe stanchissime, ancora contratte dalla fatica. Ester la prende per mano; impugnando le torce si fanno spazio tra i cumuli di pietre, nel vento che spira in ogni direzione. Ogni cosa a quest’altezza sembra essersi ritirata, il mondo potrebbe non aver mai avuto inizio. Nessuna luce in lontananza ad annunciare una città oltre la valle, soltanto il cielo buio richiuso come una palpebra sul mondo, e rocce altissime, ovunque guardi, orlate a tratti da scintille di neve. Un odore umido e minerale le riempie i polmoni, come se risalire la montagna fosse stato anche precipitare dentro la terra.
«Wo ist er?»
L’uomo si rivolge a Ester con un accento affilato che Agnes non ha mai sentito prima. «Lei parla solo polacco». Agnes ha una mano sulla spalla della ragazza ora. «Non può capirti».
Avverte il calore della lanterna avvicinarsi al viso. Nella luce fioca e instabile intuisce la pelle bianca dell’uomo, gli occhi privi di ogni colore.
«Dov’è il soldato che guidava il furgone?»
«Ci ha lasciate alla fine del bosco». Parlano così vicini che ad Agnes sembra di poter percepire il tabacco nel suo fiato.
«Ha detto che da quel punto in poi avremmo dovuto proseguire sole. E poi di aspettarti in cima».
L’uomo affila lo sguardo. «Avete incontrato le guardie di frontiera?»
Del viaggio Agnes ricorda solo dettagli scombinati – l’impressione del suo corpo stretto insieme a quello di Ester, lo stridore ghiacciato dei rami contro i finestrini, la luce corpuscolare che trapassava dal telo steso sopra le loro teste. Quando il convoglio aveva smesso di sobbalzare, lo spazio si era riempito di voci straniere: allora si era resa conto del silenzio che possono produrre due corpi assieme quando smettono di respirare. Per un attimo, aveva ripensato alle scene a cui aveva assistito molte volte, in una vita e in una terra lontanissime: il volto dell’animale premuto sul tavolo, la tenue peluria bianca che scintillava sotto il sole, mentre le mani grandi di sua madre assestavano l’ultimo colpo. Si era chiesta se era questo che percepivano gli agnelli della fattoria negli ultimi istanti di vita – il mondo ridotto a presenze striscianti, ombre liquide alla periferia degli occhi.
«Il furgone si è fermato una sola volta prima di lasciarci. Si sono avvicinati degli uomini, ma non ho sentito cosa dicessero».
L’uomo sibila imprecazioni che Agnes non coglie per intero; parole rovinate e appuntite come schegge. Adesso non lo guarda più: tiene gli occhi fissi sui bottoni della sua giacca, tutti diversi e graffiati, minuscoli astri in ottone che scintillano con la luce della lanterna.
«Gli accordi erano che avrei ricevuto l’altra metà del pagamento in cima, e poi vi avrei accompagnate». L’uomo scuote la testa; alcuni fiocchi di neve volteggiano nel vento. «Aprite gli zaini».
Agnes lascia cadere per prima la sacca che si porta sulle spalle: del rovistare dell’uomo non coglie altro che piccoli clangori, lo sfiorarsi dei vetri delle conserve preparate nelle settimane precedenti; avanzi sottratti agli sguardi ubriachi delle guardie del campo, quando si offriva di ripulire e sparecchiare le lunghe tavolate. Lodavano la sua energica disponibilità in una lingua che Agnes comprendeva solo a tratti. «Thank you, sir», rispondeva senza sorridere, raccogliendo le pile di piatti tra le braccia; talvolta si defilava con un passo di lato, sfuggendo alle mani che si aggrappavano ai suoi fianchi, e alle dichiarazioni biascicate che promettevano di portarla via dall’Austria. Nei giorni precedenti alla partenza, tutta la rabbia covata nei mesi si era trasformata in diligente organizzazione: provava persino un certo gusto nel disossare i polli avanzati dai soldati, pelare i pomodori lasciati intoccati dopo un solo morso, cuocere le bucce di patate che avrebbero buttato. Ora le scorte preparate con attenzione lasciano solo smorfie di disgusto nel volto dell’uomo: affonda gli scarponi nella neve, fruga nelle loro sacche, scuotendo la testa, i vetri appaiono e scompaiono nella luce sfarfallante. E poi Agnes avverte le mani di lui scivolare lungo i sottili pantaloni di tela, inumiditi dalla neve; nervose come animali, affondano nelle tasche per estrarne solo polvere e fazzoletti consunti. E quando schiudono i bottoni della giacca, Agnes smette di respirare.
«Non troverai nulla». La voce di Ester risuona ferma e gelida come il vento. «Quello che avevamo, l’abbiamo venduto per pagare il viaggio».
Guarda l’uomo per un tempo che ad Agnes sembra infinito, come se fosse certa che lui, questa volta, potesse capirla. La neve non smette di cadere.
«Spegnete le luci. D’ora in poi proseguiremo al buio».

Rispettabilità, di Sherwood Anderson

Rispettabilità
di Sherwood Anderson

Se avete vissuto in una città e avete fatto un giro al parco in qualche pomeriggio estivo, forse avete notato, mentre sbatteva le palpebre in un angolo della sua gabbia di ferro, un certo tipo di scimmia massiccia e grottesca, una creatura dalla pelle nuda, orribile e cascante sotto gli occhi, e con il sedere di un brillante color porpora. Questa scimmia è davvero un mostro. Nel complesso della sua bruttezza, essa ha acquisito una qual depravata attrattiva. I bambini si fermano affascinati davanti alla gabbia, gli uomini distolgono lo sguardo con un’aria di disgusto, e le donne indugiano per qualche momento, tentando forse di ricordare a quale delle loro conoscenze maschili quell’essere possa vagamente assomigliare.
Se nei primi anni della vostra vita aveste abitato nel paese di Winesburg, in Ohio, per voi non ci sarebbe stato alcun mistero circa la bestia nella gabbia. «È identica a Wash Williams», avreste detto. «Seduta in quell’angolo là, la bestia è esattamente uguale al vecchio Wash, mentre, nelle sere estive, siede sull’erba dello spiazzo davanti alla stazione, dopo aver chiuso il suo ufficio per la notte».
Wash Williams, il telegrafista di Winesburg, era l’essere più orribile del paese. La pancia era immensa, il collo esile, le gambe gracili. Era lurido. Qualsiasi cosa su di lui era sporca. Persino il bianco dei suoi occhi sembrava avere il colore della terra.
Vado troppo oltre. Non qualsiasi cosa su di lui era sporca. Aveva gran cura delle sue mani. Le dita erano grasse, ma c’era un che di sensibile e attraente nella sua mano posata presso il trasmettitore nell’ufficio del telegrafo. Da giovane Wash Williams era stato considerato il miglior telegrafista dello stato e, a dispetto del confinamento nell’oscuro ufficio di Winesburg, andava ancora fiero della sua abilità.
Wash Williams non aveva legami con gli uomini della città in cui viveva. «Non voglio avere nulla a che fare con loro», diceva, guardando con occhi acquosi quelli che seguivano la pensilina della stazione, passando davanti all’ufficio del telegrafo. Di sera risaliva Main Street ed entrava nel locale di Ed Griffith. Dopo aver bevuto incredibili quantità di birra si dirigeva con passo barcollante verso la sua camera nell’Albergo Nuovo dei Willard e si metteva a letto.
Wash Williams era un uomo di coraggio. Gli era accaduto qualcosa che gli aveva reso la vita odiosa, e veramente odiava la vita di tutto cuore, con l’abbandono di un poeta. Innanzitutto, odiava le donne. «Troie», le chiamava. Verso gli uomini esibiva un sentimento un po’ diverso. Li compativa. «Non è forse vero che ogni uomo lascia che sia una di quelle troie a controllare la sua vita?», domandava.
A Winesburg nessuno badava a Wash Williams e alla sua misantropia. Una volta Mrs. White, la moglie del banchiere, si era lamentata con la compagnia del telegrafo, dicendo che l’ufficio di Winesburg era sporco e puzzava orribilmente, ma il suo reclamo non aveva avuto alcun effetto. Qua e là c’erano uomini che rispettavano il telegrafista. Istintivamente costoro sentivano fiammeggiare in lui un risentimento verso qualcosa di cui loro non avevano nemmeno il coraggio di lamentarsi. Quando Wash passeggiava in strada, c’erano uomini che sentivano l’impulso di rendergli omaggio, di togliersi il cappello o di inchinarsi davanti a lui. Uno di quegli uomini era il dirigente responsabile dei telegrafisti della linea che attraversava Winesburg. Aveva messo Wash nell’oscuro ufficio di quel paese per evitare di licenziarlo, e intendeva continuare a tenerlo lì. Quando ricevette il reclamo della moglie del banchiere, stracciò la lettera e rise, un po’ a disagio. Per qualche ragione, mentre faceva a pezzi la lettera, pensava a sua moglie.
Un tempo Wash Williams aveva una moglie. Da giovane si era sposato con una ragazza di Dayton. Lei era alta e snella, aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi. Anche Wash era un bel giovanotto. Amava la moglie di un amore tanto pervasivo quanto l’odio che poi provò per tutte le donne.
In tutta Winesburg c’era soltanto una persona a conoscere la storia degli eventi che avevano reso orribili l’aspetto e il carattere di Wash Williams. Una volta lui aveva raccontato la sua storia a George Willard. Così andò il fatto:
Una sera George Willard stava passeggiando con Belle Carpenter, una modista che lavorava nel negozio di cappellini di Mrs. Kate McHugh. Il giovane non era innamorato di lei che, in effetti, era la fidanzata del barista di Ed Griffith. Nonostante ciò i due, mentre passeggiavano sotto gli alberi, di tanto in tanto si abbracciavano. La notte e i reciproci pensieri avevano acceso in loro qualcosa. Mentre ritornavano verso Main Street attraversarono un prato presso la stazione e videro Wash Williams, apparentemente addormentato sull’erba sotto un albero. La sera successiva il telegrafista e George Willard fecero una passeggiata. Seguirono la ferrovia e si sedettero lungo i binari, su un mucchio di traversine fuori uso. Fu allora che il telegrafista raccontò al giovane reporter la sua storia di odio.
George Willard e lo strano uomo informe che viveva nell’albergo di suo padre erano stati sul punto di parlarsi forse una dozzina di volte. Il giovane guardava l’orribile viso che fissava con malizia la sala da pranzo dell’albergo, ed era divorato dalla curiosità. Qualcosa che aveva scorto in quegli occhi scrutatori gli diceva che quell’uomo, che nulla aveva da dire agli altri, aveva tuttavia qualcosa da dire a lui. In quella sera d’estate, seduto sul mucchio di traversine, George attendeva, pieno di aspettative. Mentre il telegrafista taceva e sembrava non aver più intenzione di parlare, provò a iniziare la conversazione. «È mai stato sposato, Mr. Williams?» cominciò. «Secondo me sì. E sua moglie è morta, non è così?».
Wash Williams vomitò una serie di brutali imprecazioni. «Sì, è morta», confermò. «È morta come sono morte tutte le donne. È una morta vivente, che cammina al cospetto degli uomini e, con la sua sola presenza, rende schifosa la terra ». Mentre fissava negli occhi il giovane, Wash Williams diventava rosso di rabbia. «Non metterti in testa strane idee », ordinò. «Sì, mia moglie è morta davvero. Te l’ho detto: tutte le donne sono morte, mia madre, tua madre, quella mora alta che lavora dalla cappellaia con cui ti ho visto andare in giro ieri – tutte, tutte sono morte. Ti ripeto che in loro c’è qualcosa di marcio. Ero sposato, certo. Mia moglie era già morta prima di sposarmi, era una cosa schifosa venuta fuori da una donna ancor più schifosa. Era una cosa che mi era stata destinata per rendermi la vita intollerabile. Sai, io ero stupido, stupido come sei tu ora, e così la sposai. Mi piacerebbe che gli uomini iniziassero un po’ a capire le donne. Loro ci sono state mandate per impedirci di rendere il mondo degno di essere vissuto. Sono uno scherzo della natura. Uh! Loro strisciano, scivolano, si dimenano, con le loro mani delicate e i loro occhi azzurri. La vista delle donne mi fa vomitare. Non so proprio perché non uccido tutte quelle che vedo».
Un po’ spaventato e tuttavia affascinato dalla luce che ardeva negli occhi dell’orrendo vecchio, George Willard ascoltava, infiammato dalla curiosità. Scese la notte e George si protese in avanti per cercar di vedere il viso dell’uomo che parlava. Quando, per l’oscurità sempre più fitta, non riuscì più a scorgere né il viso rosso e rigonfio né gli occhi brucianti, gli venne in mente una strana idea. Wash Williams parlava in un tono basso e uniforme che faceva sembrare le sue parole ancor più terribili. Nel buio il giovane reporter si sorprese a immaginarsi seduto lungo i binari con un bel giovanotto dai capelli scuri e con neri occhi scintillanti. C’era qualcosa di quasi meraviglioso nella voce di Wash Williams, l’orrendo uomo, mentre raccontava la sua storia di odio.
Il telegrafista di Winesburg, seduto nel buio sulle traversine, era diventato un poeta. L’odio l’aveva elevato a quel livello. «È proprio perché ti ho visto baciare le labbra di quella Belle Carpenter che ti racconto la mia storia», diceva. «Ciò che è accaduto a me potrà accadere anche a te. Voglio metterti in guardia. Forse la tua testa è già piena di sogni. Io voglio distruggerli». Wash Williams iniziò a raccontare la storia del suo matrimonio con la ragazza alta e bionda dagli occhi azzurri che aveva conosciuto a Dayton, quando era un giovane telegrafista. Qua e là la sua storia era segnata da momenti di bellezza, inframmezzati da sfilze di brutali maledizioni. Il telegrafista aveva sposato la figlia di un dentista, la minore di tre sorelle. Il giorno delle nozze, grazie alla sua abilità, fu promosso a una posizione più elevata, gli venne aumentato lo stipendio e fu inviato all’ufficio di Columbus. Là si stabilì con la giovane sposa e cominciò ad acquistare una casa a rate.
Il giovane telegrafista era pazzamente innamorato. Con una specie di religioso fervore era riuscito a evitare le trappole della gioventù, rimanendo vergine fino al matrimonio. William Wash descrisse a George Willard la sua vita nella casa di Columbus con la giovane sposa. «Nell’orto sul retro della casa piantammo la verdura», disse, «sai, piselli e cereali, e cose così. Arrivammo a Columbus all’inizio di marzo, e non appena la stagione si addolcì, io iniziai a lavorare nell’orto. Con la vanga rivoltavo la terra nera mentre lei mi correva intorno ridendo e fingendo di spaventarsi alla vista dei vermi che scoprivo. Alla fine di aprile iniziammo a piantare. Lei stava in piedi nei piccoli spazi fra le aiuole con un sacchetto di carta in mano. Il sacchetto era pieno di sementi. Un po’ alla volta me le passava, in modo che le potessi spargere sulla terra soffice e tiepida». Per un momento la voce dell’uomo che parlava nel buio si incrinò. «Io l’amavo», disse, «non sto certo dicendo che non sono pazzo. L’amo ancora oggi. Là, nel crepuscolo delle sere di primavera, strisciavo sulla terra nera fino ai suoi piedi e mi prostravo davanti a lei. Le baciavo le scarpe, e le caviglie sopra le scarpe. Tremavo se l’orlo del suo vestito mi sfiorava il viso. Quando, dopo due anni di questa vita, scoprii che era riuscita ad avere tre amanti, che venivano regolarmente nella nostra casa quando io ero al lavoro, non volli toccare né loro né lei. Solo, la rimandai a casa da sua madre e non dissi nulla. Non c’era nulla da dire. Avevo quattrocento dollari in banca e glieli diedi. Non le chiesi ragione di nulla. Non dissi nulla. Quando se ne andò via piansi come un bambino stupido. Presto colsi l’occasione per vendere la casa e le mandai il ricavato».
Wash Williams e George Willard si levarono dal mucchio di traversine e camminarono verso il paese seguendo il binario. Il telegrafista terminò la sua storia rapidamente, quasi senza fiato.
«Sua madre mi mandò a chiamare», disse. «Mi scrisse una lettera invitandomi a casa loro a Dayton. Vi arrivai una sera, proprio come adesso».
La voce di Wash Williams si alzò e divenne quasi un grido. «Sedetti nel salotto di quella casa per due ore. Fu sua madre a farmi accomodare nella stanza e a lasciarmi lì. Era una casa elegante. Erano ciò che si definisce gente rispettabile. Nella stanza c’erano sedie rivestite di tessuto ricamato e c’era un divano. Io tremavo tutto. Odiavo gli uomini che credevo l’avessero ingannata. Ero stanco di vivere da solo e la rivolevo con me. Più attendevo e più diventavo vulnerabile e mi intenerivo. Pensavo che se fosse entrata e mi avesse soltanto sfiorato con la mano forse sarei venuto meno. Provavo come il sentimento doloroso di perdonare e di dimenticare».
Wash Williams si arrestò e stette immobile a fissare George Willard. Il corpo del giovane tremava, quasi fosse scosso dalla febbre. Di nuovo la voce dell’uomo si fece quieta e bassa. «Entrò nuda nel salotto», riprese. «Fu sua madre che glielo fece fare. Mentre sedevo lì le toglieva gli abiti di dosso, o forse la convinceva a farlo. Prima sentii delle voci dietro la porta che dava su un piccolo vestibolo. Poi la porta si dischiuse lentamente. Lei era piena di vergogna e stava immobile fissando il pavimento. La madre non entrò nella stanza. Dopo averla sospinta fuori dalla porta rimase nel vestibolo ad attendere, sperando che noi due… beh, vedi, rimaneva lì ad aspettare».
George Willard e il telegrafista sboccarono in Main Street. Le luci chiare delle vetrine dei negozi illuminavano i marciapiedi. La gente andava su e giù ridendo e chiacchierando. Il giovane reporter si sentiva debole e malato. Nella sua mente, si vide anche vecchio e informe. «Non uccisi sua madre», disse Wash Williams, guardando da una parte all’altra della via. «La colpii una volta sola con una sedia. Poi arrivarono i vicini e me la portarono via. È che, sai, urlava fortissimo. Non avrò mai più un’altra occasione per ucciderla. È morta di febbre un mese dopo il fatto».

La festa dei bambini, di F. Scott Fitzgerald

La festa dei bambini
di F. Scott Fitzgerald

Ogni volta che John Andros si sentiva vecchio, trovava sollievo pensando che la vita sarebbe continuata attraverso sua figlia. Le trombe oscure del decadimento squillavano meno forte quando sentiva trotterellare i passi della bambina o ascoltava il suono della sua voce, mentre al telefono gli balbettava pazze frasi senza senso. Ciò accadeva ogni pomeriggio alle tre, quando sua moglie chiamava l’ufficio dalla loro casa fuori città, e lui si era abituato a considerare l’evento come uno dei momenti più brillanti della giornata.
Fisicamente non era vecchio, ma la sua vita era stata una serie di duri sforzi lungo una serie di ripide salite, e ora, a trentotto anni, dopo aver vinto le sue battaglie contro la salute malferma e la povertà, non nutriva che poche illusioni. Persino i suoi sentimenti verso la bambina erano limitati. Lei aveva interrotto la sua storia d’amore piuttosto intensa con la moglie, ed era lei la ragione per cui ora vivevano in una cittadina lontana dal centro, dove pagavano l’aria di campagna con problemi senza fine con i domestici e con la faticosa giostra dei treni per pendolari.
Era la piccola Ede, come simbolo preciso di giovinezza, che lo interessava più di ogni altra cosa. Gli piaceva prenderla in braccio ed esaminarne minuziosamente i morbidi capelli profumati, e gli occhi dalle pupille di un azzurro color del mattino. Resole questo omaggio, John si accontentava che la bambinaia la portasse via. Dopo dieci minuti era la stessa vitalità della bambina a irritarlo. Aveva la tendenza a perdere il controllo quando il corso delle cose veniva alterato: una domenica pomeriggio, quando la bambina, continuando insistentemente a nascondere l’asso di spade, aveva reso impossibile una partita di bridge, aveva fatto una tale scenata che sua moglie era scoppiata a piangere.
Era stata un’assurdità e John si era vergognato di se stesso. Era inevitabile che queste cose accadessero, ed era impossibile che la piccola Ede passasse tutto il suo tempo in casa nella sala dei giochi al piano di sopra, nel periodo in cui, come diceva sua madre, giorno dopo giorno stava diventando “una vera persona”.
Aveva due anni e mezzo e in quel pomeriggio, per esempio, sarebbe andata a una festa. Edith grande, la madre, aveva riferito la notizia per telefono all’ufficio, e Ede piccola aveva confermato la faccenda urlando nell’inconsapevole orecchio sinistro di John: «Vado a una fetta!».
«Per favore, caro, puoi passare dai Markey quando torni a casa?», aveva ripreso la madre. «Sarà divertente. Ede metterà il suo nuovo vestitino rosa…».
La conversazione terminò d’improvviso con un acuto suono stridente, il che indicava che il telefono era stato gettato violentemente sul pavimento. John scoppiò a ridere e decise di prendere il treno in anticipo; la prospettiva di una festa per bambini in casa d’altri lo metteva di buon umore.
«Che razza di confusione!», pensò divertito. «Una dozzina di madri, ciascuna che non ha occhi se non per il proprio figlio. Tutti i bambini che rompono oggetti e afferrano la torta, e ogni mamma che ritorna a casa pensando alla sottile superiorità del proprio figlio su ogni altro presente alla festa». Era di ottimo umore quel giorno. Quando scese dal treno alla sua stazione fece con la testa un segno di diniego a un tassista importuno, e iniziò a risalire a piedi la lunga collinetta in direzione della propria casa, attraversando il frizzante crepuscolo di dicembre. Erano solo le sei ma la luna era nel cielo, splendente nella sua orgogliosa brillantezza sopra la neve sottile che, come zucchero, ricopriva i prati.
Mentre proseguiva il cammino, riempiendosi i polmoni di aria gelida, la sua felicità aumentò e l’idea di una festa per bambini gli sembrò sempre più attraente. Iniziò a immaginare come avrebbe figurato Eve rispetto gli altri bambini della sua stessa età, e se il vestitino rosa che avrebbe indossato sarebbe stato qualcosa di radicale e maturo. Allungando il passo arrivò in vista di casa sua, dove le luci di un ormai defunto albero di Natale ancora fiorivano alla finestra, ma continuò lungo il vialetto. La festa era dai Markey, nella casa accanto.
Mentre saliva il gradino di mattoni rossi e suonava il campanello si accorse delle voci all’interno, e fu felice di non essere arrivato troppo in ritardo. Poi alzò la testa e ascoltò: non erano voci di bambini, ma voci forti, rese acute dalla rabbia; se ne distinguevano almeno tre e una, quella che mentre ascoltava si alzò fino trasformarsi in un singhiozzo isterico, la riconobbe immediatamente: era quella di sua moglie.
«Qui c’è qualcosa che non va», pensò rapidamente.
Giunto alla porta, la trovò aperta e la spalancò.

La festa iniziava alle quattro e mezzo, ma Edith Andros, calcolando astutamente che il vestitino nuovo avrebbe fatto più sensazione rispetto ad abiti già in disordine, stabilì di arrivare con la piccola Ede attorno alle cinque. Quando le due comparvero, la festa era già in pieno sviluppo. Quattro bambine e nove bambini, ognuno pettinato, lavato e abbigliato con la cura di un cuore fiero e orgoglioso, ballavano al suono della musica di un grammofono. Non ne ballavano mai più di due o tre alla volta ma, essendo tutti in continuo movimento, con corse avanti e indietro verso le proprie madri, l’effetto generale era il medesimo.
Quando Edith e la figlia entrarono, la musica venne temporaneamente attutita da un coro prolungato, composto principalmente dalla parola bellissima all’indirizzo della piccola Ede. La bambina rimase in piedi, guardandosi in giro timidamente e tormentando con le dita gli orli del suo vestitino rosa. Non ricevette baci – era nell’età in cui si dovevano evitare i contagi – ma venne trascinata lungo una fila di mamme, ciascuna delle quali le diceva «sei belliiissima» e le teneva la piccola manina rosa, prima di passarla alla successiva. Dopo qualche incoraggiamento e alcune spintarelle fu coinvolta nelle danze, e divenne un membro attivo della festa.
Edith stava in piedi vicino alla porta, chiacchierando con la signora Markey, e non perdendo di vista la figuretta con il vestitino rosa. La signora Markey non le interessava per nulla, la considerava maleducata e volgare; tuttavia John e Joe Markey erano in eccellenti rapporti e tutte le mattine viaggiavano insieme sul treno per pendolari. Così le due donne si erano costruite un’elaborata finzione di cordiale amicizia. Si rimproveravano sempre per il fatto che l’una non andava mai a far visita all’altra, e progettavano sempre quel genere di feste che cominciavano con «Presto verrete a cena da noi, e poi andremo a teatro». Ma le cose non andavano mai oltre.
«La piccola Ede è un vero amore», diceva la Markey, sorridendo e umettandosi le labbra in un modo che Edith trovava particolarmente repellente. «È così cresciuta… incredibile!».
Edith si chiedeva se l’epiteto di “piccola” Ede si riferisse al fatto che Billy Markey, sebbene fosse di diversi mesi più giovane, pesava oltre due chili in più. Presa una tazza di tè, si sedette con altre due signore su un divano e si lanciò nella vera occupazione del pomeriggio, che naturalmente consisteva nel racconto dei recenti successi e delle birichinate della bambina.
Passò un’ora. Il ballo cominciò ad annoiarli e i piccoli si volsero a passatempi più impegnativi. Si precipitarono in sala da pranzo e tentarono di avvicinarsi alla porta della cucina, da dove furono recuperati grazie a una forza di spedizione di mamme. Appena raggruppati, si dispersero immediatamente, ritornarono di corsa nella sala da pranzo, e ritentarono la via della loro preferita porta a battenti. Si incominciò ad usare l’espressione «sovreccitato». Le piccole fronti bianche vennero asciugate con minuscoli fazzoletti bianchi. Iniziò un tentativo congiunto di fare sedere i bambini, ma loro si divincolarono dalle braccia delle madri con urla perentorie – «Giù! Giù!» – e ricominciò la corsa verso l’affascinante sala da pranzo.
Questa fase della festa terminò all’arrivo dei rinfreschi, una grande torta con due candeline, e coppette di gelato alla vaniglia. Billy Markey, un bambino allegro e tarchiato, dai capelli rossi e le gambe un po’ storte, soffiò sulle candeline e immerse un pollice sperimentatore nella glassa bianca. I rinfreschi furono distribuiti e i bambini mangiarono, con gusto ma senza confusione – si erano comportati piuttosto bene per tutto il pomeriggio. Erano bambini moderni che facevano i loro pasti e prendevano sonno a ore regolari, e per questo la loro disposizione era buona, i loro visi sani e rosati – una festa così tranquilla non sarebbe stata possibile trent’anni prima.
Dopo i rinfreschi iniziò un graduale esodo. Edith guardò ansiosamente l’orologio – erano quasi le sei e John non arrivava. Voleva che vedesse la piccola Ede con gli altri bambini – che vedesse quanto era composta, cortese e intelligente, e che vedesse come l’unica macchiolina di gelato sul suo vestitino le fosse caduta dal mento quando aveva ricevuto una spinta da dietro.
«Sei un amore», sussurrò alla bambina, trascinandola all’improvviso contro il proprio ginocchio. «Lo sai che sei un amore? Lo sai che sei un amore?».
Ede rise. «Bau-bau», disse all’improvviso.
«Bau-bau?». Edith si guardò in giro. «Non c’è il bau-bau».
«Bau-bau», ripeté Ede. «Voglio il bau-bau».
Edith seguì il ditino puntato.
«Quello non è un bau-bau, cara, è un orsacchiotto».
«Orso?».
«Sì, è un orsacchiotto, ed è di Billy Markey. Tu non vuoi l’orsacchiotto di Billy Markey, vero?».
Ede lo voleva proprio.
Scappò alla madre e si diresse verso Billy Markey, che teneva il giocattolo stretto fra le braccia. Ede si arrestò guardandolo con occhi imperscrutabili, e Billy scoppiò a ridere.
Edith grande guardò di nuovo l’orologio, questa volta con impazienza.
La festa aveva perso d’intensità tanto che, oltre a Ede e Billy, erano rimasti solo due bambini – e uno dei due era rimasto soltanto perché si era nascosto sotto il tavolo della sala da pranzo. John era proprio un bell’egoista a non venire. Dimostrava di non essere per nulla orgoglioso della figlia. Gli altri papà, una mezza dozzina, erano arrivati a prendere le mogli ed erano rimasti per un po’ a dare un’occhiata.
All’improvviso si sentì un urlo acutissimo. Ede si era impadronita dell’orsacchiotto di Billy strappandoglielo a forza dalle braccia. Poi, al tentativo di Billy di riprenderselo, casualmente l’aveva spinto, facendolo cadere sul pavimento.
«Ma Ede!», gridò la madre, trattenendosi per non scoppiare a ridere.
Joe Markey, un bell’uomo di trentacinque anni, dalle larghe spalle, aveva preso e rimesso in piedi il figlio. «Sei un bel tipo», aveva detto con allegria. «Lasciare che una ragazza ti metta al tappeto! Sei proprio un bel tipo».
«Ha battuto la testa?», la Markey, un po’ ansiosamente, ritornò dopo aver congedato la penultima delle madri.
«Nooo!» esclamò il padre. «Ha battuto qualcos’altro. Vero, Billy? Ha battuto qualcos’altro».
Billy aveva dimenticato a tal punto la caduta che stava già tentando di recuperare la sua proprietà. Afferrò una zampetta dell’orsacchiotto, che spuntava dall’abbraccio con cui lo circondava Ede, e si mise a tirarla, ma senza successo.
«No», diceva Ede con decisione.
D’improvviso, incoraggiata dal successo della sua precedente manovra quasi accidentale, Ede lasciò cadere l’orsacchiotto, mise le mani sulle spalle di Billy e lo spinse all’indietro facendogli perdere l’equilibrio.
Questa volta Billy cadde in modo meno innocuo; la sua testa colpì il nudo pavimento, appena al di là del tappeto, con un sordo rimbombo, dopo il quale Billy tirò il fiato e proruppe in un urlo di dolore.
Subito la stanza andò in confusione. Con un’esclamazione Markey si precipitò verso suo figlio, ma fu sua moglie la prima a raggiungere il bambino ferito e a prenderlo fra le braccia.
«Oh, Billy!», gridò, «che colpo terribile! Le si dovrebbe dare una bella sculacciata».
Edith, che immediatamente era corsa da sua figlia, sentì l’osservazione, e fece una rapida smorfia appuntendo le labbra.
«Ma Ede!», sussurrò sbrigativamente, «sei stata proprio maleducata!».
Ede alzò d’improvviso la testolina e si mise a ridere. Era una risata forte, una risata trionfante, che esprimeva vittoria, sfida e disprezzo. Sfortunatamente era anche una risata contagiosa. Prima che sua madre comprendesse la delicatezza della situazione, anche lei era scoppiata a ridere. Era una risata ben chiara e distinta, non diversa da quella della bambina, che condivideva i medesimi sentimenti.
Poi, d’improvviso, si arrestò.
Il viso della Markey era diventato rosso dalla rabbia, e il padre, che stava controllando con un dito la parte posteriore della testa del figlio, la fissava accigliato.
«Si sta già gonfiando», disse con un tono di disapprovazione nella voce. «Vado a prendere dell’unguento».
Ma la Markey era fuori dalla grazia di Dio. «Non trovo ci sia nulla di divertente in un bambino che si è fatto male», disse, con la voce che le tremava.
Intanto Eve piccola stava fissando la madre con curiosità. Aveva notato che la sua risata aveva prodotto quella della madre, e ora si domandava se la stessa causa avrebbe prodotto sempre lo stesso effetto. Così scelse proprio quel momento per gettare indietro la testa e mettersi di nuovo a ridere.
Nei confronti della madre questo nuovo scoppio di allegria aggiunse il tocco finale all’isterismo della situazione. Comprimendosi la bocca con il fazzoletto Edith ridacchiava senza potersi fermare. Era più che una reazione nervosa – Edith sentiva, in un modo del tutto peculiare, di ridere con la sua bambina – stavano ridendo insieme.
In certo modo era una sfida – loro due contro il resto del mondo.
Mentre Markey saliva nel bagno a prendere l’unguento, sua moglie camminava avanti e indietro cullando fra le braccia il bambino urlante.
«Per cortesia, se ne vada a casa!», proruppe d’improvviso. «Il bambino si è fatto molto male, e se non ha la decenza di stare zitta, è meglio che se ne vada a casa».
«Benissimo», disse Edith, che cominciava a perdere il controllo, «non ho mai visto nessuno fare una tale montagna da…».
«Fuori!», gridò la Markey con frenesia. «Quella è la porta, se ne vada via… Non voglio vederla mai più in casa nostra. Sia lei che la sua mocciosa!».
Edith aveva preso la figlia per mano e si stava rapidamente dirigendo verso la porta, ma a questa osservazione si arrestò e si volse, con il viso contratto per l’indignazione.
«Non osi chiamarla in quel modo!».
La Markey non rispose ma continuò a camminare avanti e indietro, mormorando qualcosa a sé stessa e a Billy con voce bassissima.
Edith scoppiò a piangere.
«Me ne vado!», singhiozzò. «In vita mia non ho mai sentito nessuno così maleducato e v-volgare. Sono contenta che Billy sia stato buttato a terra – comunque, non è null’altro che un piccolo, stupido grassone».
Joe Markey giunse ai piedi delle scale giusto in tempo per ascoltare queste parole.
«Ehi, signora Andros», disse seccamente, «non vede che il bambino si è fatto male? Dovrebbe davvero controllarsi».
«C-controllarmi!», esclamò Edith con la voce rotta. «Sarebbe meglio che lo chiedesse a lei, di controllarsi. In vita mia non ho mai sentito nessuno così v-volgare».
«Mi sta insultando!» Ora la Markey era livida dalla rabbia. «Hai sentito che cosa ha detto, Joe? Vorrei che tu la sbattessi fuori. Se non vuole andarsene, prendila per le spalle e sbattila fuori!».
«Lei non osi toccarmi!», gridò Edith. «Me ne andrò immediatamente non appena riuscirò a trovare il mio c-cappotto!».
Accecata dalle lacrime fece un passo verso l’ingresso. Fu proprio in quel momento che la porta si aprì e John Andros entrò, pieno di ansia.
«John!», gridò Edith, e si precipitò verso di lui con fare agitatissimo.
«Che cosa succede? Ehi, dico: che cosa succede?».
«Loro mi stanno – mi stanno sbattendo fuori!», piagnucolò la moglie, abbattendosi su di lui. «Lui mi aveva appena preso per le spalle per buttarmi fuori. Voglio il mio cappotto!».
«Questo non è vero», obiettò Markey in fretta. «Nessuno la sta sbattendo fuori». Si rivolse a John.
«Nessuno la sta sbattendo fuori», ripeté. «È lei…».
«Che cosa intende dire con “la sta sbattendo fuori”?», domandò John bruscamente. «In ogni caso, che razza di discorsi sono questi?».
«Oh, andiamo!», gridò Edith. «Voglio andare. Sono così volgari, John!».
Il viso di Markey si oscurò. «Senta un po’. Questo l’ha detto a sufficienza. Si sta comportando come una pazza».
«Hanno chiamato Ede “mocciosa”!».
Per la seconda volta in quel pomeriggio la piccola Ede espresse le proprie emozioni nel momento sbagliato. Confusa e spaventata dalle voci urlanti, scoppiò a piangere. Le sue lacrime ebbero l’effetto di far capire che soffriva per quell’insulto fin nel profondo del suo cuore.
«Che cosa vi è saltato in mente?», esplose John. «Insultate gli ospiti nella vostra stessa casa?».
«A me sembra che sia stata sua moglie a insultarci!», rispose Markey seccamente. «In effetti, è stata la vostra bambina, qui, a iniziare tutto».
John sbuffò con disprezzo. «Sta insultando la bambina?», chiese. «Proprio una cosa da uomo!».
«Non parlargli, John», insistette Edith. «Trova il mio cappotto!».
«Deve essere proprio ridotto male», disse John furioso. «Se sente il bisogno di fare il duro con una bambina inerme».
«In vita mia, non ho mai sentito nulla di tanto dannatamente strampalato», urlò Markey. Se questa vostra moglie chiudesse la bocca per un minuto…».
«Aspetti un attimo! Lei adesso non sta parlando a una donna e a una bambina…».
Ci fu un’imprevista interruzione. Edith aveva rovistato una poltrona in cerca del cappotto, mentre la Markey la scrutava con occhi torvi e infuriati. D’improvviso depositò Billy sul divano, dove il bambino smise immediatamente di piangere e si rimise in piedi, e, avanzando verso l’ingresso, trovò rapidamente il cappotto di Edith e glielo allungò senza una parola. Poi ritornò verso il divano, riprese Billy e, cullandolo fra le braccia, riprese a scrutare Edith con occhi torvi e infuriati. L’interruzione era durata meno di mezzo minuto.
«Sua moglie viene qui e comincia a urlare a tutti quanto siamo volgari!», esplose Markey con violenza. «Beh, se siamo davvero così orribilmente volgari, fareste meglio a starvene a casa vostra! E, soprattutto, ad andarvene da qui subito!».
Di nuovo John sbuffò con disprezzo.
«Non solo lei è volgare», replicò, «lei è evidentemente un terribile prepotente – se ha a che fare con donne e bambini che non possono difendersi. Impugnò la maniglia e spalancò la porta. «Forza, Edith». Dopo aver preso in braccio la bambina, la moglie uscì e John, lanciando a Markey altre occhiate sprezzanti, iniziò a seguirla.
«Aspetti un attimo!», Markey fece un passo verso l’esterno. Tremava piano, con le grandi vene sulle tempie improvvisamente rigonfie di sangue. «Pensa di andarsene via così, eh? Non con me!».
Senza una parola, John liberò la porta, lasciandola spalancata.
Edith, che piangeva ancora, si era avviata verso casa. Dopo averla seguita con lo sguardo fino a che aveva raggiunto il proprio vialetto. John si volse verso l’ingresso illuminato, da dove Markey stava lentamente scendendo i gradini scivolosi. Si tolse il cappotto e il cappello, li lanciò sulla neve lontani dal sentiero. Poi, un po’ incerto sulle gambe sul vialetto ghiacciato, avanzò di un passo.
Al primo pugno, scivolarono entrambi e caddero pesantemente sul marciapiede, poi si rialzarono a metà, e di nuovo si trascinarono l’un l’altro a terra. Trovarono una miglior stabilità sulla neve sottile a lato del vialetto e si lanciarono l’un contro l’altro, entrambi oscillando terribilmente, con la neve sotto le scarpe ridotta a una poltiglia fangosa.
La strada era deserta e, ad eccezione dei brevi, affannosi respiri e dei suoni ovattati che l’uno o l’altro emetteva scivolando nella fanghiglia, lottavano in silenzio, le sagome ben definite dalla luce della luna piena e dal chiarore ambrato che splendeva uscendo dalla porta spalancata. Parecchie volte scivolarono a terra insieme, e allora la lotta proseguì selvaggia sul prato. Per dieci, quindici, venti minuti lottarono lì, insensatamente, sotto la luna. Entrambi si erano tolti le giacche e i gilè durante gli intervalli che si accordavano senza parlare e ora le camicie spenzolavano da dietro le loro schiene in brandelli di poltiglia bagnata. Erano entrambi graffiati e sanguinanti, tanto esausti da poter stare ritti solo quando, grazie alle reciproche posizioni, si sostenevano l’un l’altro – un impatto, un unico sforzo di portare un pugno li avrebbe mandati a terra a quattro zampe.
Ma non fu la stanchezza che arrestò la faccenda, e l’assoluta mancanza di senso della lotta era una ragione per non smettere. Si fermarono perché, quando furono a terra a strattonarsi l’un l’altro, udirono i passi di qualcuno che camminava sul marciapiede. Erano rotolati in qualche modo nell’ombra, e quando udirono i passi smisero di lottare, di muoversi, di respirare, e giacquero, raggomitolati l’uno sull’altro come due ragazzi che giocassero agli Indiani, finché i passi si furono allontanati. Poi, rimessisi in piedi, barcollando, si scrutarono come due ubriachi.
«Non esiste che io continui con questa cosa», gridò Markey con voce impastata.
«Neanche io voglio continuare», disse John Andros. «Ne ho abbastanza di questa cosa».
Di nuovo si scrutarono, questa volta accigliati, come se l’uno sospettasse che l’altro lo volesse costringere a riprendere a lottare. Markey sputò il sangue che gli usciva da un labbro spaccato; poi imprecò a bassa voce e, raccogliendo da terra la giacca e il gilè, ne scosse via la neve con fare sorpreso, come se il fatto che fossero bagnati fosse la sua unica preoccupazione al mondo.
«Vuole entrare e darsi una rinfrescata?», chiese all’improvviso.
«No, grazie», disse John, «devo andare a casa – mia moglie sarà preoccupata».
Anche lui raccolse la giacca e il gilé, e poi il cappotto e il cappello. Bagnato fradicio e inzuppato di sudore com’era, sembrava assurdo che meno di mezz’ora prima indossasse tutti quegli abiti.
«Beh, buona notte», disse esitante.
Improvvisamente si avvicinarono e si strinsero la mano. Non fu una stretta frettolosa: John Andros circondò con il braccio la spalla di Markey, e per qualche momento gli batté dei colpetti sulla schiena.
«Si è fatto male?», disse con voce rotta.
«No. E lei?».
«No. Nulla».
«Beh», disse John Andros dopo un minuto, «Immagino ci si debba dire buona notte».
Zoppicando leggermente e con gli abiti avvolti sul braccio, John Andros si voltò. La luna splendeva ancora mentre lasciava lo spazio brunastro di terra calpestata e camminava sul prato fra le case.
Giù alla stazione, a mezzo miglio di distanza, si poteva sentire lo sferragliare del treno delle sette.

«Ma tu devi proprio essere pazzo», gridava Edith con voce spezzata. «Pensavo che fossi rimasto lì per sistemare le cose con una stretta di mano. Ecco perché me ne sono andata».
«Volevi che le sistemassimo?».
«Certo che no, non li voglio più vedere. Ma naturalmente pensavo che volessi farlo tu». Gli bagnava i lividi sul collo e sulla schiena con la tintura di iodio, mentre lui si godeva placidamente un bagno caldo. «Chiamerò il dottore», diceva con insistenza. «Puoi avere delle lesioni interne».
Scosse la testa. «Neanche per sogno», rispose. «Non voglio che lo sappiano in tutta la città».
«Ancora non capisco come sia potuto accadere».
«Neppure io». Fece un sorriso amaro. «Immagino che queste feste per bambini siano affari molto brutali».
«Beh, una cosa…», suggerì Edith speranzosa, «di sicuro sono felice che domani a pranzo ci sia la costata».
«Perché?».
«Ma naturalmente per il tuo occhio. Lo sai che ci è mancato poco che ordinassi del vitello? Non è stata una bella fortuna?».
Mezz’ora dopo. Completamente rivestito tranne per il fatto che il suo collo non avrebbe sopportato un colletto, John provò a muovere le membra davanti allo specchio. «Credo che mi debba rimettere in una forma migliore», disse meditabondo. «Sto diventando vecchio».
«Intendi dire in una forma tale che la prossima volta lo batterai?».
«Io l’ho battuto», proclamò lui. «Almeno, l’ho battuto tanto quanto lui ha battuto me. E poi non ci sarà una prossima volta. Non iniziare mai più a dare del volgare alle persone. Se c’è qualche problema, prendi il cappotto e vattene a casa. Capito?».
«Sì, caro», disse lei conciliante. «Sono stata molto stupida, ora lo capisco».
Usciti in corridoio, si fermò bruscamente vicino alla camera della bambina.
«Dorme?».
«Profondamente. Ma puoi entrare a darle un’occhiata… giusto per dare la buona notte».
Entrarono in punta di piedi e si piegarono insieme sul lettino. La piccola Ede, le guance rubiconde, le mani rosate strettamente intrecciate, era profondamente addormentata nella camera fresca e scura. John allungò la mano oltre la sponda del lettino e la passò con leggerezza sui morbidi capelli della bambina.
«Dorme», mormorò con fare perplesso.
«Naturalmente, dopo un tale pomeriggio».
«Signora Andros», il rumoroso sussurro della domestica di colore giungeva dal corridoio. «I signori Markey di sotto e vogliono vederla. Il signor Markey, lui, è tagliato a pezzettini, signora. Ha una faccia come il rosbif. E la signora Markey sembra tutta matta».
«Ma che faccia tosta inarrivabile!», esclamò Edith. «Digli solo che non siamo in casa. Per nulla al mondo scenderei giù».
«Oh, certo che lo farai». La voce di John era dura e determinata.
«Che cosa?».
«Adesso andrai giù e, ciò che è di più, qualunque cosa dirà quell’altra, chiederai scusa per ciò che hai detto questo pomeriggio. Fatto questo, non dovrai mai più rivederla».
«Ma… John, io non posso».
«Devi farlo. Ricorda soltanto che probabilmente lei odia il fatto di essere venuta qui almeno il doppio di quanto tu odi il fatto di scendere giù».
«E tu non vieni? Devo andarci da sola?».
«Verrò giù… fra un minuto».
John Andros attese finché lei ebbe chiuso la porta dietro di sé; poi stese le braccia verso il lettino e, presa la figlia, con le coperte e tutto il resto, si sedette sulla sedia a dondolo tenendola stretta fra le braccia. La bambina si mosse un po’, e John trattenne il respiro, ma lei dormiva profondamente, e in un attimo si abbandonò silenziosa nel cavo del suo gomito. Lentamente John piegò il capo finché la sua guancia toccò i biondi capelli della figlia. «Cara piccola bambina», mormorò. «Cara piccola bambina, cara piccola bambina».
John Andros finalmente capì ciò per cui aveva lottato in modo così selvaggio quella sera. Ora lo aveva, lo possedeva per sempre, e per qualche tempo rimase seduto dondolandosi avanti e indietro nell’oscurità.

Ciclopi, di Manuela Piemonte

Nutrimenti porta in libreria Le ciclopi, di Manuela Piemonte. Una raccolta di racconti sul mondo di oggi, sulle donne che lo abitano e che devono barcamenarsi tra lavori precari, sconfitte emotive, cambiamenti imprevedibili e molte incertezze.

Cattedrale vi propone uno dei testi contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

CICLOPI
di Manuela Piemonte


Era il primo inverno del lavoro in discoteca, le notti del venerdì e del sabato in piedi fino alle sette del mattino. Lei trascorreva ore nel guardaroba a tenere d’occhio giacche e borse, tre giri di sciarpa al collo, in esilio al piano di sopra in un edificio occupato, dal basso l’eco della musica e delle risate, delle chiacchiere e delle grida.
In attesa dei clienti vagava tra gli uffici trasformati in cucine con sei fuochi e pentole da rancio, tra i muri scrostati con una tappezzeria di volantini contro la guerra. Gli slogan alle pareti la rassicuravano rispetto all’imprevisto che l’aveva portata lì: il bisogno di soldi non era una condizione perenne ma una fase. Una fase e nient’altro, improvvisa come la telefonata con cui le avevano detto che non avrebbero potuto mandarle la quota, insolita quanto la domanda di borsa di studio respinta per un cavillo.
Era bastato chiedere alla barista a cui di solito ordinava il gin tonic, presentarsi il giorno di prova, superare la notte, intascare la banconota e tracciare i confini: da un lato la voglia di costruire il futuro, dall’altro la voglia di vivere il presente. In mezzo il cancello da attraversare, un cancello di notti a occhi aperti e ritmi al contrario, negli angoli dell’esistenza che lei aveva sempre immaginato e a trovarseli davanti non avevano niente di speciale, come le persone di cui si sente parlare a lungo e si rivelano una delusione fin dalla stretta di mano.
Quando i clienti ritiravano l’ultimo cappotto c’erano i bagni da pulire, con la segatura e la candeggina. Una volta che ogni venerdì e sabato lavi via le impronte sporche di piscio di mille sconosciuti, non esistono più fatica né livello di insoddisfazione, da lì sarà soltanto una salita in alto fino alla luna.
Dopo toccava alla pista da ballo, assi di legno da cui staccare le macchie con il sapone, l’acqua e la cera, come se la gente in un locale con la musica al massimo volume e le luci soffuse si mettesse davvero a esaminare il grado di brillantezza dei pavimenti.
Il martedì usciva all’ora in cui nel fine settimana era andata a dormire e con tre spiccioli in tasca e i piedi dritti fino al mercato si ripeteva “una frutta e una verdura, una frutta e una verdura” e comprava solo roba in offerta, sul punto di marcire, talvolta quasi regalata, finché aveva scoperto che prima dell’apertura un trasportatore consegnava le cassette dell’orto all’alimentari sotto casa, dove non c’erano telecamere. Lei e le sue compagne d’appartamento prendevano un paio di mele, tre zucchine, una busta d’insalata. L’accortezza di non scegliere primizie e nel portare via quattro vegetali tra i più comuni sentirsi ladre, sì, ma solo al cinquanta per cento. Non avrebbe mai rubato alla luce del giorno, tra le corsie di un supermercato. In questo, almeno, la notte non riusciva a cambiarla. Perché lei contava le monete e dava il resto preciso al centesimo, in discoteca, e parlava con i clienti e augurava buona serata, buon divertimento, a più tardi, anche quando avrebbe voluto scendere in pista e urlare. Invece raccoglieva cappotti, giacconi, caschi per la moto, e dopo la nottata si svegliava quando l’orologio segnava le cinque, con nove o dieci ore di sonno alle spalle e i muscoli tesi dentro le braccia per lo sforzo di passare il sapone, l’acqua e il lucidante.
Un pomeriggio di domenica, dopo due mesi di lavoro-sonno-fame, lei aprì gli occhi e nell’oscurità della stanza capì di aver appena messo a fuoco, fin troppo a fuoco, la serranda socchiusa da cui filtrava la luce. Se riusciva a vederla bene significava che era andata a dormire senza togliere le lenti a contatto. Corse in bagno e le staccò a fatica, le immerse nel piccolo contenitore, inforcò gli occhiali, preparò un caffè e restò a chiacchierare con una coinquilina, e intanto a mano a mano che l’orologio girava, giravano le lacrime, inarrestabili, contro la sua volontà, una fontana dall’occhio sinistro. Lei però non poteva curarsene. Aveva un esame da preparare, una stanza da riordinare, anche se in testa la inseguivano le voci dei clienti che per due notti di fila l’avevano tempestata di richieste di sconti, i flash della luce stroboscopica mentre setacciava tavoli a caccia di bicchieri vuoti, i polpastrelli come mollica di pane mentre sciacquava e risciacquava… tutto doveva scivolare via, lontano da lei, fino a diventare uno spettro senza case da infestare. Ormai era domenica pomeriggio, il corpo voleva ficcare la vita sotto il tappeto, ma l’occhio lacrimava e domandava come ci fosse finita in quell’esistenza, lei che a tredici anni sognava di andarsene di casa e avere una stanza tutta per sé, ma non aveva saputo vedere fino al presente, scovare i rischi e i tranelli, e in fondo aveva sempre osservato la vita con un occhio solo.
Alle nove di sera la coinquilina la costrinse a vestirsi, scendere in strada, attraversare i vicoli e salire scalinate fino al pronto soccorso.
Come mai siete venute qui e non all’oftalmico?, domandò l’infermiera all’accettazione, poi lei si ritrovò seduta davanti a un medico: Signorina, ha un graffio alla cornea, un danno serio, da tenere controllato, dovrà stare per settimane con una benda, le prescrivo una crema che potrebbe, nella migliore delle ipotesi, se avrà molta fortuna, riparare la lesione.
Da quel giorno lei indossava gli occhiali ovunque andasse, dopo aver tanto lottato per non portarli, e invece eccola con una montatura d’alta moda, pagata grazie ai turni in un call center di un’estate fa. Anche in quel caso credere al lavoro come una transizione, una sbornia di poche settimane per un computer e altri risparmi da investire in vacanze ‘mordi e fuggì. Invece adesso non c’erano vacanze all’orizzonte di un occhio bendato, né dell’altro coperto da un miscuglio di azzurro e blu, a ricreare il colore del mare incontaminato. Con l’ombretto e il bendaggio era costretta a uscire in un mondo appiattito alla vista, entrare in università e a lezione, tre volte al giorno applicare il disinfettante, stendere la pomata, riporre la garza e il lungo cerotto per tenerla salda, e ripensare, a ogni gesto, al costo incredibile di quei farmaci, per lei che allo Stato risultava a carico dei genitori da cui era scappata, ai quali non poteva chiedere né raccontare nulla, e così andava con un occhio solo, di nuovo nel fine settimana, nel guardaroba gelido, a ritirare cappotti e borse, di fronte a ragazze con il trucco da diva, e lei con la vista al cinquanta per cento, il corpo freddo al cinquanta per cento, la pancia vuota al cinquanta per cento.
L’unico lusso che poteva permettersi era lasciar scorrere. Le settimane e le notti in discoteca. Le lezioni e gli esami col massimo dei voti. Accantonare le speranze, i baci rubati e respirati, mentre l’occhio si curava e l’inverno si spegneva, e lei e le sue coinquiline portavano a casa una frutta e una verdura, un cesto di fragole, una marea di risate.
Un sabato notte al ritorno dalla discoteca girarono tre quarti d’ora in cerca di un posto per la sua auto degli anni Sessanta con il fondo marcio di pioggia, in cui il cric affondava come coltello nel burro se si tentava di cambiare una ruota.
Erano le sette del mattino, si fermarono in seconda fila e lei spense il motore, disse alle altre di andare, sarebbe rimasta in attesa di una possibilità, ma loro non volevano. Chiusero gli occhi a una a una. Un clacson le svegliò mezz’ora dopo, si poteva parcheggiare, tornare, riposare.
Erano trascorsi due mesi dalla domenica delle lacrime, una settimana dalla visita medica.
Lei ci vede bene, benissimo, aveva detto il dottore, a parte questo lieve difetto di miopia, la cornea è guarita.
Le aveva raccomandato di prenotare subito la visita di controllo e le aveva dato in omaggio un collirio di ultima generazione. Se l’era versato ogni mezz’ora per tutta la notte in discoteca, al guardaroba, mentre raccoglieva bicchieri, li sciacquava, li asciugava, li ordinava sulle mensole di legno, sorrideva ai clienti, salutava, e adesso il mattino entrava fresco dalla finestra socchiusa, la città invadeva la stanza confondendo i confini – di qua la voglia di futuro, di là la voglia di presente, di qua una fase passeggera, di là una condizione perenne –, e lei si struccava, apriva una confezione di lenti a contatto ancora sigillata, si infilava le scarpe da ginnastica, usciva a passo svelto per raggiungere l’edicola e cercava il giornale degli annunci di lavoro.

Ambos Mundos, di Natsuo Kirino

Neri Pozza porta in libreria Ambos Mundos, di Natsuo Kirino, tradotto da Gianluca Coci.
Torna la regina del noir giapponese con una raccolta di storie che, attraverso il fil rouge dell’erotismo, raccontano lʼemancipazione femminile. Tra personalità multiformi e relazioni umane tortuose, Kirino si destreggia in questi suoi mondi paralleli che si toccano di rado e talvolta deflagrano, confermandosi voce originale della letteratura giapponese di oggi.

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Ambos Mundos
di Natsuo Kirino

È la prima volta in vita mia che mi capita di conoscere uno scrittore. Chiedo venia, ma non sono un’esperta e fino a poco fa ignoravo del tutto il suo nome. Ho letto Natsume Sōseki e Akutagawa Ryūnosuke, Yamamoto Yūzō e Miyazawa Kenji, insomma i grandi classici moderni, ma so poco o nulla della narrativa contemporanea. Mi dispiace molto, davvero. Come si fa a scrivere un romanzo? Si prende spunto da eventi e fatti reali? No, non è sempre così, giusto? Lei, nella sua mente, immagina i personaggi e i vari avvenimenti e li descrive dettagliatamente, forgiando al contempo la struttura e lo sviluppo della trama? È un talento formidabile, che solo pochi posseggono. Io non ne sarei mai capace, nemmeno facendo i salti mortali, e perciò nutro una certa invidia, oltre che una straordinaria stima, nei confronti di persone geniali come lei.
Io faccio l’insegnante in un grande e famoso doposcuola privato di Saitama. Evito di farne il nome, ma di certo lo conosce anche lei. Attenzione, non sono affatto una prof di successo, una di quelle giovani e belle che tutti sognano di incontrare. Insegno soltanto giapponese ai ragazzini delle ultime classi delle elementari. Ecco perché leggo Natsume Sōseki e altri scrittori del primo Novecento i cui brani sono riportati nei libri di testo. Mi vergogno un po’ ad ammetterlo, ma non impazzisco per la lettura. In realtà, mi sarebbe piaciuto fare l’insegnante di educazione fisica. Adoro muovermi e tenermi in forma. Comunque, alla fin fine, faccio più o meno lo stesso lavoro che facevo prima, solo che adesso sono in un doposcuola. Ah, mi scusi, non gliel’ho ancora detto, ma fino ad alcuni anni fa insegnavo a scuola. Ho tanto di abilitazione all’insegnamento, in fondo si tratta di una professione che non permette di fare molto altro. Insegnavo proprio in una scuola elementare, ma a un certo punto mi sono resa conto che non faceva per me e ho smesso. Al giorno d’oggi il mestiere del docente è molto duro e stressante: i genitori degli studenti non ti danno tregua e a scuola ne succedono di tutti i colori. Non credo che metterò mai più piede in un’aula. Come mai? Qual era la cosa che mi dava più fastidio? Be’, non è semplice dirlo così, in due parole, ma sono davvero onorata che uno scrittore come lei si stia mostrando interessato al mio discorso. Se mi dilungo troppo, non si faccia scrupolo a fermarmi, la prego. D’altra parte, quando si è in viaggio, si tende a rilassarsi e ci si sente più liberi di esprimersi, no? Comunque, non ci faccia caso e si ritenga assolutamente privo di obblighi nei miei confronti. Ripeto: se la sto tediando, me lo dica pure senza farsi problemi. Sa, il fatto è che ho bevuto un po’ di vino, cosa assai insolita per me, e mi è venuta una gran voglia di parlare con qualcuno. Peraltro non mi pare che ci siano molti altri ospiti in questa pensione, perciò, se non le dispiace, andrei avanti ancora per un poco. Ah, mi conceda una rapida digressione, ma qui il cibo è davvero squisito, non trova? La crostata di mirtilli è favolosa, l’ha fatta la proprietaria della pensione con le proprie mani. Pare che avviare una piccola attività alberghiera sia il sogno di molte giovani donne, però non è facile gestire i clienti e affrontare un impegno quotidiano estremamente faticoso. Io non ci riuscirei mai, un lavoro del genere non fa per me, io che sono sempre più alla ricerca di mondi tranquilli e confortevoli. Man mano che vado avanti con gli anni, mi rendo conto che ci sono cose per cui non sono assolutamente portata e da cui preferisco tenermi il più possibile alla larga. Se una cosa non ti piace, è inutile insistere, perché non se ne trarrebbe nulla di buono. Almeno in questo, credo di pensarla nel modo giusto. Mi sta chiedendo quanti anni ho? Trenta tondi tondi. Dice che per la mia età ho un modo di pensare un po’ troppo maturo? Mah, non saprei, è la prima volta che qualcuno me lo fa notare. Grazie, comunque. No, no, non sono sposata. Sono in viaggio da sola. Credo che di tanto in tanto faccia bene prendere del tempo tutto per sé e partire, come a volersi concedere un premio. Il problema, forse, è che io di premi me ne concedo fin troppi…
Lei, se posso permettermi, è qui per lavoro, per raccogliere informazioni per il suo prossimo libro? Ah, la pesca nei torrenti di montagna? Che meraviglia, dev’essere un hobby fantastico. Lei è sposato, vero? Vedo che porta la fede. Ah, ha anche due figli alle elementari? Che classe fanno? Quarta e sesta? Eh, non deve essere facile… A quell’età, i bambini attraversano una fase molto delicata e non sai mai ciò che pensano e desiderano. Questo mi induce a ripensare al periodo in cui insegnavo a scuola, soprattutto agli inizi, e devo dire che ogni giorno era una vera battaglia nel tentativo di capirci qualcosa.
Perché ho deciso di lasciare la scuola? Sarò sincera, non amo parlarne. Mi deve scusare, ma si tratta di qualcosa che mi ha rovinato la reputazione e anche la vita. Dico sul serio, non sto esagerando. Però, pensandoci meglio, visto che lei è uno scrittore, forse potrebbe trarne ispirazione per scrivere un romanzo… Allora come non detto, mi sa che mi conviene parlargliene, perché potrebbe essere vantaggioso anche per me. Mi perdoni, eh, ma è una questione molto complicata e imbarazzante.
A proposito, prima ha detto che è qui per andare a pesca, giusto? Per caso è diretto al torrente Kiburi? Ho sentito che il corso superiore è ricco di salmerini. Sono molto pratica di questa zona, in passato ho abitato a Kiburi per qualche tempo. Non so se lo sa, è un fatto che risale all’estate di circa quattro anni fa: una ragazzina è morta precipitando da una rupe nei pressi del torrente Kiburi, nel cuore della montagna. La stampa diede un certo risalto all’incidente. Ricordo un titolo che recitava: «Incoraggiano l’amica in fin di vita cantando per tutta la notte». Le dice qualcosa? Mmh, e se invece la mettessi così: “Scandalo in una scuola elementare: maestra coordinatrice di classe e vicepreside segretamente in viaggio all’estero e irreperibili nel giorno dell’incidente mortale di un’alunna”? Ah, vedo che sta annuendo, quindi presumo che abbia capito. Del resto se ne parlò a lungo, non tanto della disgrazia in sé e della verità sul caso, ma dello scandalo montato intorno ai due insegnanti… Sì, la coordinatrice di classe ero io, la maestra Hamasaki.
Non si preoccupi, comprendo benissimo il suo stupore. Del resto io stessa ho cercato di andare avanti restando nell’ombra, mettendo da parte questa triste vicenda ed evitando di parlarne con anima viva. Non ho potuto fare altrimenti, era l’unico modo per non impazzire. Stasera, per fortuna, mi sento serena e di buonumore, pronta a raccontarle tutta la storia. Inutile dire che, se lo vorrà, potrà servirsene per un suo prossimo lavoro. Ne sarei molto felice. Forse, grazie all’abilità di uno scrittore e alla forma del romanzo, finalmente i miei sentimenti potranno essere espressi al meglio. Non so dirle di preciso il perché, ma sento che è così.

© 2005 Natsuo Kirino
© 2024 Neri Pozza Editore, Vicenza

Al buio brillante, di Liliana Colanzi

Gran vía Edizioni porta in libreria Al buio brillante, di Liliana Colanzi, tradotta da Olga Alessandra Barbato.
 I racconti di Liliana Colanzi, premiati da uno dei più importanti riconoscimenti internazionali dedicati alla forma breve, risplendono da quel centro andino che è la Bolivia, meticciato di culture e tradizioni, per trasportarci in un tempo che si dilata e si contrae, unendo fantascienza, distopia e realismo, per porre infine il lettore di fronte al dolore e all’inquietudine della vita, esplorati tuttavia come spazio di resistenza, come luce che si irradia nell’oscurità.

Cattedrale vi propone un estratto del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.


Al buio brillate
di Liliana Colanzi

Traduzione di Olga Alessandra Barbato

Ci misero tutti quanti nello Stadio olimpico. Il quartiere si svuotò, le porte delle case aperte, il cibo pronto e ancora caldo sulla tavola, i cani a ululare per i loro padroni nei cortili. Ci tennero lì per diverse ore senza dirci nulla. Avevo molta paura di stare in mezzo a così tanta gente, Dio mi perdoni, ma anche i bambini mi spaventavano, li volevo lontani da me, lontano da me quelle manine sporche, innocenti e forse mortali. Nessuno sapeva dove, in quale parte del corpo o dei vestiti si fosse depositato il veleno. Siamo stati divisi in file ed è iniziato il controllo.
Ispezionavano soprattutto i piedi: se il rivelatore emetteva un suono, ti mandavano a lavarti più e più volte con sapone di cocco e aceto, finché la pelle non diventava rossa come l’achiote per lo sfregamento. Su di me non trovarono niente, e nemmeno su mia madre, mia sorella Ana Lúcia, lo zio Silas, e neanche su mia cugina Gislene, che entrava e usciva sempre dai bar e si strusciava con gli uomini, ma su mio padre sì. Il mio povero padre, così stupido, era andato a bere nello stesso bar dove c’erano i cercatori di rottami, di nascosto da mia madre e da tutti noi, con la scusa di andare a comprare il jogo do bicho. Qualche volta mia madre gli aveva detto che quella bettola sarebbe stata la sua rovina. E per colpa della mezz’ora in cui era stato in quel bar e per essersi seduto a chiacchierare con quegli sfasciacarrozze e per essere stato contaminato da quella cosa, quella cosa più piccola di un granello di sabbia e fatta di fuoco, ci evacuarono tutti e demolirono la nostra casa: non ci lasciarono portare con noi nemmeno una foto, un ricordo, un capo d’abbigliamento. Mio padre era appena andato in pensione dal suo lavoro di maschera al Teatro Goiânia per potersi godere la casa e il giardino. E da un giorno all’altro non era rimasto un solo mattone di quella casa. Niente di niente.
Una volta, il proprietario della panetteria, don Atílio, incontrò papà sull’autobus e cominciò a dire a voce altissima, in modo che tutti sentissero, che mio padre era uno dei malati, che quello era un affronto, che così metteva tutti in pericolo. I passeggeri iniziarono subito a gridare, guardando papà con facce di disgusto e terrore come se avessero visto una vipera attorcigliata, un ragno peloso, un ratto pieno di vermi, finché l’autista non si fermò e costrinse papà a scendere per aver fatto confusione su un mezzo pubblico. Il governo ci diede una casa in un’altra zona della città, dove non ci conosceva nessuno, ma mio padre non riuscì mai a riprendersi dalla pena che gli provocò l’incidente sull’autobus. Morì nel giro di due mesi, apparentemente per un’insufficienza renale causata dall’alcol, ma io credo che fu il granello di fuoco. Diversi conoscenti cominciarono a morire di malattie rare e fulminanti.
A quel tempo lavoravo come receptionist al Castro’s Park Hotel, quello con quindici piani e due piscine piastrellate. Mi piaceva quel lavoro. Al momento dell’incidente, le squadre internazionali del Gran Premio, che si svolgeva per la prima volta in città, alloggiavano nell’hotel. Uno dei piloti mi disse che girava voce che a Goiânia stesse accadendo qualcosa di grave e che la gara poteva essere annullata da un momento all’altro. Era un uomo molto bello, con i capelli impomatati all’indietro e una catenina con una croce d’oro al collo. Prima di andarsene mi chiese il numero di telefono e mi regalò un pacchetto di sigarette al mentolo che mia cugina mi rubò dal comodino, perché io non fumo.
Non seppi mai se mi chiamò: giorni dopo ero senza casa e vivevo con la mia famiglia in una tenda. La verità è che, quando la voce si sparse, il panico si diffuse e l’hotel si svuotò da un giorno all’altro. Nessuno voleva venire in città qualunque fosse il motivo, il telefono squillava soltanto per cancellare le prenotazioni e l’hotel era diventato un posto triste. Un giorno il direttore mi chiamò nel suo ufficio per licenziarmi. Era la fine del 1987, avevo appena compiuto diciannove anni e mio padre era già sottoterra. Così sono partita per São Paulo con un’amica, senza conoscere nessuno.
Appena arrivate avevamo quasi trovato lavoro in una gioielleria di rua Barão de Paranapiacaba. Mancavano pochi giorni al Natale e la strada tremolava di lucine e ghirlande. Ma non appena la proprietaria scoprì che eravamo di Goiânia si inventò delle scuse e non ci volle assumere. Quando stavamo per uscire ci chiamò. Pensammo per un secondo che avesse cambiato idea. La donna aveva una curiosità, una domanda che le usciva dalla gola.
Al buio brillate?

 

*** IL POSTO DEI ROTTAMI ***

ACQUISTO E VENDITA DI METALLI IN GENERE

TELEFONO 233-9269

 

I raccoglitori di rottami arrivarono con la carriola traboccante di ferraglia: gli dissero che proveniva dalla clinica abbandonata che operava all’incrocio tra le avenidas Paranaíba e Tocantins, ai margini del Setor Aeroporto di Goiânia. Devair si ricordava dell’ospedale perché anni prima aveva visto i medici che entravano e uscivano e la gente in fila per farsi curare il cancro. L’edificio era da tempo in rovina. Un’ala era stata demolita. La parte ancora in piedi non aveva tetto o finestre, e per questo motivo gli sfasciacarrozze non si sognavano nemmeno di trovare i mobili e l’apparecchiatura medica ancora al loro posto. Che tipo di persone poteva permettersi il lusso di abbandonare un ospedale con l’apparecchiatura dentro?, dissero.
A Devair non importava da dove provenisse la ferraglia: gli portavano pezzi di auto antiche, vecchi televisori, pentole usate, manubri di biciclette, merce rubata. La ferraglia pesava circa quattrocento chili. Gli uomini accettarono senza contrattare i millecinquecento cruceiros che offrì loro: sarebbero andati dritti al bar per curarsi il mal di testa con qualche bicchiere. Notò la strana abbronzatura degli uomini – una intensa tonalità zucca –, ma non disse niente, nel quartiere da sempre si vedevano cose ben più strane.
La luce lo sorprese quella notte mentre fumava in cortile, accanto al tetto di zinco del capannone. Sgorgava dalla ferraglia che aveva appena acquistato e si disfaceva in un velo lattiginoso, iridescente, dalle molteplici sfumature, una luminescenza blu come di stella o di fondo del mare. Si spaventò. Pensò ai morti, al diavolo, agli extraterrestri.
Scostò i pezzi e scoprì che il bagliore proveniva da un cilindro delle dimensioni di un ditale: un tesoro in mezzo ai rottami. Girandolo scoprì che la luce raggiungeva l’esterno solo quando coincideva con una minuscola finestra: ora sì, ora no, come un trucco di magia.
Si sedette nell’angolo in cui sventrava gli elettrodomestici, sotto il getto di luce della lampada, con tutti gli strumenti intorno – la chiave inglese grande e quella piccola, il martello, il set di cacciaviti, la chiave a cricchetto, il trapano, la pinza, le tenaglie, la sega con la lama arrugginita e rotta – e batté più volte sullo spioncino con la punta di un cacciavite. La finestrella emise un piccolo crac quando si ruppe. Frugò nell’occhio della capsula con la punta del cacciavite fino a estrarne dei granelli: sotto la luce diretta non erano altro che sali comuni. Potevano essere quei granelli l’origine del bagliore?
Spense la luce: proprio come sospettava, al buio i sali diventarono neve incandescente. Strofinò quella sostanza e il fulgore si estese al palmo della sua mano. Osservò, commosso e perplesso, la combustione celeste. Lì, tra il bagliore blu e le ombre della ferraglia, l’idea emerse nel suo cervello come un fungo che fa capolino dopo la pioggia: avrebbe fatto a sua moglie l’anello più bello, più brillante, più insolito. Sorrise.

* * *

Ero a Goiânia per un progetto del governo quando ho ricevuto la chiamata. Era il direttore dell’ospedale per dirmi che negli ultimi giorni erano arrivati vari pazienti affetti da una malattia sconosciuta: arrivavano con vomito, vertigini, diarrea, bruciature. Le persone davano la colpa a un tubo metallico, un pezzo di ferro del demonio portato dalla moglie dello sfasciacarrozze. E dov’è?, gli chiesi. In uno degli uffici, disse il direttore dell’ospedale. La donna?, specificai. No, il tubo di metallo, mi disse. La moglie non so dov’è. E aggiunse: Lei pensa che sia possibile…?
Il direttore sembrava a disagio, preoccupato di apparire ridicolo. Sa com’è, le persone ignoranti si inventano di tutto, disse. Si aspettava che lo tranquillizzassi, che gli dicessi: Non si preoccupi, non è niente di grave. Chiamai un’agenzia di prospezione dell’uranio con cui avevo lavorato vicino al vulcano di Amorinópolis un anno prima e chiesi in prestito un rivelatore. La segretaria si ricordava di me con simpatia; non mi chiese nemmeno la firma.
Quando sono arrivato all’ospedale ho trovato due pompieri seduti sul marciapiede, che fumavano e scherzavano accanto all’autopompa. Un’infermiera mi ha indicato l’ufficio dove era stato messo il rottame. Il corridoio che portava a quell’ufficio era affollato di pazienti: donne incinte, neonati in braccio, vecchi storpi. A circa ottanta metri dall’ufficio il rivelatore ha cominciato a comportarsi in modo molto strano: l’ago si muoveva così tanto che ho pensato fosse difettoso. Sono tornato all’ospedale con un nuovo rivelatore. Ancora una volta, a ottanta metri da quella stanza, il rivelatore ha cominciato a saturarsi. Poteva significare soltanto due cose. O che entrambi i contatori erano difettosi o che l’ospedale era una bomba radioattiva.
In quel momento uno dei pompieri è entrato nell’ufficio e ne è uscito con una borsa: mi ha sorriso come se avesse un panino con la mortadella in mano. Era la borsa di nylon in cui era conservato il rottame. Non aveva nemmeno i guanti: solo allora mi sono reso conto che il pompiere era poco più che un bambino. Gli ho chiesto cosa stesse facendo. Vado a buttarlo nel fiume, mi ha detto. La segretaria dell’ospedale aveva una radio a pile: mi guardava con occhi sognanti mentre con le unghie smaltate sintonizzava una canzone di Cazuza. Mi sono sentito gridare PER L’AMOR DI DIO! con una voce che era uno stridio, un fischio, il gracchiare di un uccello spaventato e ridicolo.
Abbiamo evacuato immediatamente il pronto soccorso.

* * *

Devair non sapeva a cosa serviva la polvere che aveva trovato dentro il cilindro e che aveva brillato tutta la notte ai piedi del letto. Gabriela, sua moglie, si lamentava che il bagliore le causava mal di testa e sogni stranissimi; lo irritò la sua mancanza di entusiasmo, ma pensò che la situazione sarebbe cambiata una volta regalatole l’anello luminoso. Aveva bisogno di estrarre più sostanza e per farlo doveva rompere la copertura protettiva della capsula.
I suoi dipendenti del deposito di rottami, Israel e Admilson, si organizzarono in turni per fare a pezzi quell’affare, prima con il martello e poi con la mazza, fino a spaccare la copertura protettiva; erano giovani e forti e non ci misero troppo tempo. (Il mese successivo entrambi i ragazzi saranno morti e verranno sepolti in bare di piombo ricoperte di cemento; Admilson trascorrerà la sua agonia gridando il nome di sua madre nell’Ospedale navale di Río de Janeiro, dove verrà trasportato in elicottero, contro la sua volontà.)
Mandò a chiamare amici, parenti e vicini, e distribuì tra tutti il miracolo dei sali fluorescenti. Il suo amico Marcio se ne mise una manciata in tasca e più tardi lo gettò nel recinto degli animali, tra lo schiamazzo di polli e maiali. Don Ernesto regalò i granelli a sua moglie, che si arrabbiò vedendolo arrivare ubriaco e gettò la polvere giù per il water senza guardarla. A Claudio venne in mente che si potesse trattare di un tipo di polvere da sparo progettata dai militari e cercò di dargli fuoco con l’accendino, ma i sali non bruciarono e non si sciolsero. Ivo, suo fratello, si portò alcune pietrine per dipingere di luce il corpo della piccola Leide das Neves, che restò incantata dalla polvere magica; la bambina si sedette a mangiare con le mani coperte di particelle brillanti.
Solo Gabriela si tenne alla larga dai festeggiamenti. Era sospettosa, impaziente, non si fidava di tutta quella allegria. Come un cane che fiuta la tempesta nell’aria, come un uccello che sente lo sparo dall’altra parte del bosco, tutto il suo corpo rispondeva all’avvertimento di pericolo.

Eldrop e Appleplex, di T.S. Eliot

Eeldrop e Appleplex
di T.S. Eliot

Eeldrop e Appleplex affittarono due piccole camere in una zona malfamata della città. A volte andavano lì per incontrarsi al calar della sera, lì a volte dormivano e, dopo aver dormito, cucinavano avena e se ne andavano alla mattina per destinazioni sconosciute l’uno per l’altro. Qualche volta dormivano, più spesso conversavano, o guardavano fuori dalla finestra.
Avevano scelto le stanze e il vicinato con grande cura. Vi sono cattivi circondari rumorosi e cattivi circondari silenziosi, ed Eeldrop e Appleplex preferirono questi ultimi, in quanto erano peggiori. Era una strada ombrosa, le finestre erano coperte da pesanti tendaggi; e sopra di essa aleggiava la nube di una rispettabilità che ha qualcosa da nascondere. Eppure aveva un vantaggio rispetto ai più rissosi quartieri nelle vicinanze: Eeldrop e Appleplex sorvegliavano dalle loro finestre l’entrata di una stazione di polizia dall’altra parte della strada. Questa, da sola, possedeva un’irresistibile attrattiva ai loro occhi. Di tanto in tanto il silenzio della strada veniva spezzato; ogni qualvolta un malfattore veniva catturato, un’ondata di eccitazione montava attraverso la via e si infrangeva sulle porte della stazione di polizia. Allora gli abitanti si soffermavano in vestaglia, sugli usci; allora visitatori sconosciuti sostavano nella strada, in berretto; molto dopo che l’origine del fastidio era stato rinchiusa nella sua cella. Allora Eeldrop e Appleplex lasciavano i loro discorsi e correvano fuori per mescolarsi alla folla. Ognuno seguiva la propria linea di inchiesta. Appleplex, che aveva avuto il dono di uno straordinario ascendente su entrambi i sessi delle classi più basse, faceva domande agli astanti, e di solito ne ricavava storie piene ed incoerenti; Eeldrop manteneva un atteggiamento più passivo, ascoltava le conversazioni delle persone tra di loro, registrava nella sua mente i loro giuramenti, la loro ridondanza di frasi, i loro modi di sputare, e le grida della vittima dall’aula di giustizia all’interno. Quando la folla si disperdeva, Eerdrop e Appleplex ritornavano alle loro stanze: Appleplex registrava i risultati delle sue indagini in grandi bloc-notes, catalogava secondo la natura dei casi, dalla A (adulterio) alla Y/Z (zooerastia).
Eeldrop fumava in modo riflessivo. Si potrebbe aggiungere che Eeldrop era uno scettico, con un gusto per il misticismo, ed Appleplex un materialista con un’inclinazione verso lo scetticismo; che Eeldrop era dotto in teologia, e che Appleplex studiava le scienze fisiche e biologiche.
Vi era una ragione comune che portava Eeldrop e Appleplex a separarsi così, di tanto in tanto, dai campi delle loro occupazioni quotidiane e delle loro solite attività sociali. Entrambi stavano tentando di sfuggire non i luoghi comuni, rispettabili o persino domestici, ma le aree troppo bene incasellate, troppo scontate, troppo sistematizzate e – nel linguaggio di quelli che loro cercavano di evitare – desideravano “comprendere l’animo umano nella sua concreta individualità”.
«Perché», disse Eeldrop, «quel grasso spagnolo che sedeva a tavola con noi questa sera, e ascoltava la nostra conversazione con occasionale curiosità, perché è stato lui stesso per un momento oggetto di interesse per noi? Portava il tovagliolo ficcato sotto il mento, faceva rumori spiacevoli mentre mangiava, e anche mentre non mangiava, la sua maniera di sbriciolare il pane tra le dita grasse mi rendeva estremamente nervoso: indossava un panciotto caffelatte, e stivali neri con punta marrone. Era rozzo e volgare in modo opprimente; apparteneva a un tipo: poteva facilmente essere classificato in qualsiasi cittadina della Spagna di provincia. Eppure nelle circostanze – quando stavamo discutendo del matrimonio, e lui all’improvviso si era sporto verso di noi e aveva esclamato: “Anch’io ero sposato, una volta” – fummo in grado di distinguerlo dalla sua classificazione e considerarlo per un attimo come un essere unico, un’anima, per quanto insignificante, con una sua propria storia, una volta per tutte. Sono questi i momenti che noi teniamo in grande considerazione, e che da soli sono rivelatori. Poiché nessuna vitale verità è impossibile da applicare ad un altro caso: l’essenziale è unico. Forse questo è il motivo per cui è così trascurato: perché è inutile. Ciò che noi abbiamo imparato dell’ispanico non può essere applicato a nessun altro ispanico, o neanche richiamarlo con le parole. Con il declino della teologia ortodossa e la sua ammirevole teoria dell’anima, l’unica importanza degli accadimenti è sparita. Un uomo è importante solo se è classificato. Perciò non vi è tragedia, o nessuna cultura della tragedia, che è la stessa cosa. Avevamo parlato del giovane Bistwick, che tre mesi fa ha sposato la domestica di sua madre e che ora è consapevole del fatto. Chi apprezza la realtà? Nemmeno i parenti, perché sono mossi solo dall’affetto, dalla considerazione degli interessi di Bistiwick, e principalmente dal loro senso collettivo della disgrazia famigliare. Non il generoso e premuroso estraneo, che la considera semplicemente come prova della necessità di una riforma della legge sul divorzio.
«Bistwick è classificato tra le persone sposate infelicemente. Ma ciò che Bistwick sente quando si risveglia alla mattina, che è il fatto veramente importante, nessun estraneo distaccato lo immagina. Il tremenda peso della rovina di una vita è trascurato. Agli uomini è concesso di essere felici o infelici in classi. In Gopsum Street un uomo assassina la sua amante. Il fatto importante è che per l’uomo l’atto è eterno: benché per il breve spazio che ha da vivere, lui è già morto. Lui è già in un mondo diverso dal nostro. Ha attraversato la frontiera. Il fatto importante è che è stato fatto qualcosa che non può essere disfatto – una possibilità che nessuno di noi realizza fino a che noi stessi la affrontiamo. Per il vicino dell’uomo il fatto importante è: con cosa l’uomo l’ha uccisa? E precisamente a quale ora? E chi ha trovato il corpo? Per il “pubblico illuminato” il caso è semplicemente una prova della questione “Bere”, o “Mancanza di lavoro”, o qualche altra categoria o cosa da riformare. Ma il mondo medievale, insistendo sull’eternità della punizione, ha espresso qualcosa di più vicino alla realtà».
«Ciò che dici», replicò Appleplex, «suscita la mia misurata adesione. Dovrei pensare, nel caso dello spagnolo e in molti altri casi interessanti che sono venuti alla nostra attenzione alla porta della stazione di polizia, che ciò che noi catturiamo in quel momento di pura osservazione di cui ci facciamo vanto non è alieno al principio della classificazione, ma più profondo. Potremmo, se ci piacesse, fare eccellenti commenti sulla natura degli spagnoli di provincia, o sull’indigenza (come viene chiamata dai filantropisti la miseria), o sulle case per ragazze lavoratrici. Ma non è questa la nostra intenzione. Puntiamo all’esperienza nei centri specifici in cui è solo il male. Evitiamo le classificazioni. Non le neghiamo. Ma, quando un uomo viene classificato, qualcosa si perde. La maggioranza della gente vive di valuta di carta: usano dei termini che sono buoni semplicemente per tale realtà, non vedono mai il conio reale».
«Andrei anche oltre questo», disse Eeldrop. «Le persone che compongono la maggioranza non solo non hanno un linguaggio che possa esprimere altro che l’uomo generico; sono per la maggior parte inconsapevoli di loro stesse per altro che non sia l’uomo generico. Sono prima di tutto funzionari governativi, o pilastri della chiesa, o sindacalisti, o poeti, o disoccupati; questo catalogare non è soddisfacente soltanto per le altre persone, per motivi pratici: è sufficiente per loro stessi, per la loro “vita dello spirito”. Molti non sono del tutto reali in nessun momento. Quando Wolstrip si è sposato, sono sicuro che abbia detto a se stesso: “Ora sto compiendo l’unione di due delle migliori famiglie di Filadelfia”».
«La domanda è», disse Appleplex, «quale deve essere la nostra filosofia. Questo deve essere stabilito tutto in una volta. La signora Howexden mi raccomanda di leggere Bergson. Lui scrive in modo molto coinvolgente sulla struttura dell’occhio della rana».
«Affatto», lo interruppe il suo amico. «La nostra filosofia è piuttosto irrilevante. L’essenziale è che la nostra filosofia deve sorgere dal nostro punto di vista, e non tornare su se stessa per spiegare il nostro punto di vista. Una filosofia riguardo all’intuito è in qualche modo probabilmente meno intuitiva di ogni altra. Dobbiamo evitare di avere una piattaforma».
«Ma come minimo», disse Appleplex, «noi siamo…»
«Individualisti. No! Nemmeno anti-intellettualisti. Anche queste sono delle etichette. L’”individualista” è un membro di una folla così pienamente come qualsiasi altro uomo: e la folla di individualisti è la più spiacevole, perché ha pochissimo carattere. Nietzsche era un uomo della folla, proprio come Bergson è un intellettualista. Non possiamo sfuggire all’etichetta, ma facciamo che sia una che non porti distinzioni, e non susciti imbarazzo. È sufficiente che troviamo etichette semplici, e non le sfruttiamo ulteriormente. Io sono, vi confesso, nella vita privata, un impiegato di banca…»
«E dovreste, secondo la vostra stessa visione, avere una moglie, tre bambini, e un orto in periferia», disse Appleplex.
«Questo è esattamente il caso», replicò Eeldrop, «ma non avevo ritenuto necessario menzionare questo dettaglio biografico. Dato che è sabato sera, dovrò tornare alla mia periferia. Domani lo trascorrerò in quell’orto…»
«Andrò a far visita alla Signora Howexden», borbottò Appleplex.

II

Di domenica la sera dei sobborghi era grigia e gialla; i giardini delle casette, a sinistra e a destra, erano ricoperti di edera, di erba alta e cespugli di lillà; la vegetazione tropicale di Londra Sud era polverosa di sopra e stantia di sotto; l’aria tiepida brulicava di mosche. Eeldrop, alla finestra, accoglieva l’aroma affumicato dei lillà, i grammofoni, il coro della Cappella Battista e la vista di tre fanciulline che giocavano a carte sui gradini della Stazione di Polizia.
«In una notte così», disse Eeldrop,«“penso spesso a Scheherazade, e mi chiedo che cosa ne sia stato di lei».
Appleplex si alzò senza parlare e si voltò verso i raccoglitori che contenevano i documenti per la sua “Indagine della Società Contemporanea.” Estrasse la pratica contrassegnata Londra tra le pratiche Barcellona e Boston, dove era stata malriposta, e voltò le carte rapidamente. «La signora a cui accenni», replicò alla fine, «che io ho elencato non sotto la S. ma come Edith, alias Scheherazade, ha lasciato solo alcune prove in mio possesso. Ecco un vecchio conto di lavanderia che ha lasciato per te da pagare, un assegno emesso da lei e segnato R/D?, una lettera da sua madre a Honolulu (su carta a righe), una poesia scritta sul conto di un ristorante – “Ad Attide” – ed una sua lettera, sulla miglior carta da lettere di Lady Equistep, contenente alcune dannose ma divertenti informazioni su Lady Equistep. Poi vi sono poche mie osservazioni su due fogli protocollo».
«Edith» mormorò Eeldrop, che non si era occupato di quel catalogo. «Mi chiedo che cosa ne sia stato di lei. “Non piacere, ma pienezza di vita… per bruciare sempre con una fiamma adamantina”, quelle erano le sue parole. Quale curiosità e passione per l’esperienza! Forse quella fiamma ora ha estinto se stessa».
«Dovresti informarti meglio», disse Appleplex con severità. «Edith cena qualche volta con la signora Howexden, la quale mi dice che la sua passione per l’esperienza l’ha portata da un pianista russo a Bayswater. Si dice anche che sia spesso presente alla Sala da tè Anarchica, e di solito la si può trovare di sera al Caffè de l’Orangerie».
«Beh», replicò Eeldrop, «confesso che preferisco interrogarmi su ciò che le è successo. Non mi piace pensare al suo futuro. Sherazade invecchiata! La vedo divenuta pienotta, col petto florido, i capelli biondi, vivere in un piccolo appartamento con una domestica, passeggiare nel parco con un pechinese, andare in auto con un agente di borsa. Con un robusto appetito per il cibo e le bevande, quando tutti gli altri appetiti se ne sono andati tranne l’insaziabile crescente appetito della vanità; rotolando su due gambe larghe, rotolando su automobili, rotolando verso una fine diabetica in un acquatica località sulla costa».
«Proprio ora hai visto quella fiamma lucente estinguersi», disse Appleplex. «Ora la vedrai sgocciolare spessa, il che prova che la tua visione è basata sull’immaginazione, non sul sentimento. E la passione per l’esperienza – sei rimasto così inespugnabilmente Preraffaellita da credere in questo? Quale persona reale, con una genuina risorsa di istinto, ha mai creduto nella passione per l’esperienza? La passione per l’esperienza è un’opinione dei sinceri, un credo solo per gli istrioni. La persona appassionata è appassionata di questo o di quello, forse della cosa meno significativa, ma non di esperienza. Ma Marius, des Esseintes, Edith…»
«Però considera», disse Eeldrop, attento solo ai fatti della storia di Edith e forse mancando il punto delle osservazioni di Appleplex, «la sua insolita carriera. Figlia di un accordatore di pianoforte a Honolulu, si è assicurata una borsa di studio all’Università della California, dove si è laureata con lode in Etica Sociale. Ha poi sposato un famoso professionista del biliardo a San Francisco, dopo una conoscenza di dodici ore, ha vissuto con lui per due giorni, è entrata nel coro di una commedia musicale e ha divorziato in Nevada. È spuntata fuori diversi anni dopo a Parigi ed era conosciuta da tutti gli americani e gli inglesi al Café du Dome come Signora Short. Riapparsa a Londra come Signora Griffits, ha pubblicato un piccolo volume di versi ed era accettata in diversi circoli da noi conosciuti. E ora, come ancora insisto, è sparita del tutto dalla società».
«Il ricordo di Scheherazade», disse Appleplex, «è per me quello della crema Bird con prugne in una pensione di Bloomsbury. Non è mia intenzione rappresentare Edith come semplicemente poco raccomandabile. Non è neppure una figura tragica. Voglio sapere perché manca. Non posso analizzarla del tutto “in una combinazione di elementi conosciuti”, ma mi manca toccare qualcosa di sicuramente inanalizzabile.
«Nonostante il suo passato romantico, Edith sta inseguendo con risolutezza qualche suo nascosto proposito? Le sue migrazioni ed eccentricità sono il segno di qualche inimmaginabile costanza? Trovo in lei una quantità di accorte osservazioni, un’eccellente riserva di critiche, ma non posso collegarle in alcuna peculiare visione. Il suo sarcasmo a spese dei suoi amici è delizioso, ma ho il dubbio che si tratti più di un tentativo di plasmarsi dall’esterno, dall’impatto delle ostilità, per enfatizzare il suo isolamento. Tutti dicono di lei: “Com’è perfettamente impenetrabile!”; sospetto che dentro di lei vi sia solo la confusione di una polverosa soffitta».
«Io esamino la gente», disse Eeldrop, «dal modo in cui la immagino quando si sveglia al mattino. Non disegno a memoria quando immagino Edith svegliarsi in una stanza disseminata di vestiti, carte, cosmetici, lettere e alcuni libri, l’odore di Violette di Parma e di tabacco stantio. La luce del sole che penetra dalle tapparelle rotte, e le tapparelle rotte che tengono fuori il sole fino a quando Edith può costringersi a essere presente un altro giorno. Eppure la visione non mi dà molto dolore. Penso a lei come a un’artista senza la minima forza artistica».
«Il temperamento artistico…» iniziò Appleplex.
«No, non quello». Eeldrop afferrò l’occasione. «Intendo che ciò che tiene l’artista insieme è il lavoro che fa; separatelo dal suo lavoro ed egli si disintegrerà o solidificherà. Non vi è alcun interesse nell’artista se non la propria opera. E vi sono, come hai detto, quelle persone che forniscono materiale all’artista. Ora la poesia di Edith “Ad Atthis” dimostra senza alcuna ombra di dubbio che lei non è un’artista. D’altra parte ho spesso pensato a lei, come questa sera, se presenta possibilità per scopi poetici. Ma le persone che possono essere materiale per l’arte devono avere in sé qualcosa di inconscio, qualcosa che non comprendono o capiscono completamente; Edith, nonostante ciò che chiamano la sua maschera impenetrabile, si presenta troppo bene. Non posso usarla; lei usa se stessa troppo pienamente. In parte per la stessa ragione, penso, smette di essere un’artista: non vive per niente d’istinto. L’artista è in una sua parte un vagabondo, alla mercé delle proprie impressioni, e un’altra sua parte permette che questo accada a beneficio del fare uso dell’infelice creatura. Ma in Edith la divisione è semplicemente la razionale, fredda e distante parte dell’artista, essa stessa divisa. Il suo materiale, la sua esperienza sono quelli, è già un prodotto mentale, già digerito dalla ragione. Perciò Edith (io soltanto in questo momento arrivo a comprenderlo) è realmente la persona più disciplinata che esiste, e la più razionale. Niente le accade mai; ogni cosa che le succede è opera sua».
«Motivo anche per cui», continuò Appleplex, riprendendo il filo, «Edith è la meno distaccata di tutte le persone, dato che essere distaccati significa essere distanti da se stessi, stare da parte e criticare freddamente le proprie passioni e vicissitudini. Ma in Edith la critica sta addestrando il combattente».
«Edith non è infelice».
«È insoddisfatta, forse».
«Ma di nuovo, io dico, lei non è tragica: è troppo razionale. E nella sua carriera non vi è alcuna progressione, declino o degenerazione. La sua condizione è una volta e per sempre. Non c’è e non ci sarà catastrofe.
«Ma sono stanco. Mi chiedo ancora che cosa Edith e la Signora Howexden abbiano in comune. Questo invita alla considerazione (potreste non percepire la connessione) dei gruppi e delle società, un argomento cui ci possiamo dedicare domani sera».
Appleplex sembrò un po’ mortificato. «Cenerò col Signor Howexden», disse. «Ma rifletterò sull’argomento prima che ci rivedremo di nuovo».

Peter, di Willa Cather

Peter
di Willa Cather

 

«No, Antone, non so quante volte te l’ho detto, no, non lo venderai finché sarò vivo.»
«Ma ho bisogno di soldi; a cosa ti serve quel vecchio violino? Anche i corvi ti ridono dietro quando provi a suonare. Ti tremano le mani che non riesci neanche a tenere l’archetto. Domani verrai con me a tagliare la legna al fiume Blu. E vedi di alzarti presto.»
«Come, nel giorno del Signore, Antone, quando fa così freddo? Sento così tanto freddo, figlio mio, non andiamoci domani.»
«Sì, domani, vecchio scansafatiche. Io non la taglio la legna nel giorno del Signore? M’importa se fa freddo? Taglierai la legna e la caricherai pure, e quanto al violino, te lo ripeto, lo venderò lo stesso.» Antone rincalcò il berretto lacero sulla fronte bassa e pronunciata e se ne andò.
Il vecchio avvicinò una panca al fuoco e si sedette sfiorando il violino con le dita tremanti, e a fior di labbra disse: «Non finché campo, non finché campo.»
Erano arrivati cinque anni prima, Peter Sadelack e sua moglie, e il figlio maggiore Antone, e gli innumerevoli Sadelack più piccoli, lì nella parte più tetra del sud-ovest del Nebraska, e avevano preso una fattoria. Antone era il padrone indiscusso del posto e la gente diceva che era un giovane promettente e che si sarebbe portato bene. Che fosse cattivo e infido lo sapevano tutti, ma poco importava. Curava il granturco meglio di chiunque altro nella contea, e il grano gli fruttava sempre più che a qualunque altro uomo.
Nessuno sapeva granché di Peter, né aveva una buona parola da spendere sul suo conto. Beveva ogni volta che poteva nascondersi da Antone abbastanza a lungo da dare in pegno il cappello o il cappotto per il whisky. In effetti solo due cose non avrebbe dato in pegno: la pipa e il violino. Era un vecchio pigro e distratto che si divertiva di più a suonare il violino che ad arare la terra; comunque, a dire il vero, Antone riusciva sempre a far lavorare tutti fin troppo. Nella casa di cui era proprietario, dal bambino di tre anni al vecchio di sessanta, tutti si guadagnavano il pane. Eppure la gente continuava a dire che Peter non valeva niente, e che era un grande peso per suo figlio Antone, che non aveva mai bevuto, e che era un uomo migliore di quanto suo padre fosse mai stato. A Peter non importava che cosa dicesse la gente. Non gli piaceva il paese, né la gente, e men che meno gli piaceva arare la terra. Aveva tanta nostalgia della Boemia. In tempi lontani, secondo il calendario soltanto otto anni prima, ma a Peter sembravano otto secoli, era stato secondo violinista in un grande teatro di Praga. Era entrato a teatro da ragazzino e ci era rimasto tutta la vita, finché non aveva avuto un colpo apoplettico che gli aveva talmente indebolito il braccio da rendergli l’archeggio esitante. Così gli avevano detto che poteva andarsene. Era stato un periodo fantastico, quello a teatro. Non gli mancava certo da bere, allora, e indossava la marsina ogni sera, e c’erano sempre feste dopo lo spettacolo. Suonava, a quei tempi, sì che suonava! Non era mai riuscito a leggere bene le note, perciò non aveva mai avuto un ruolo di primo piano; però il suo stile… aveva davvero stile, così aveva detto Herr Mikilsdoff, il direttore d’orchestra.
Ogni tanto Peter pensava che avrebbe potuto arare meglio la terra se solo avesse potuto chinarsi come un tempo. Aveva visto le donne più belle del mondo, i più grandi cantanti e musicisti. Era nell’orchestra quando aveva recitato Rachel, e quando al concerto di Liszt la Contessa d’Agoult era seduta nel palco di proscenio e il Maestro le aveva lanciato gigli bianchi. Una volta una donna francese era venuta a recitare per settimane, non ne ricordava più il nome. E non ne ricordava bene nemmeno il volto, perché era così mutevole, non era mai uguale una volta con l’altra. Ma era così bello, e il desiderio che la sua vista suscitava negli uomini, quello lo ricordava. Più di tutto ricordava la sua voce. Non conosceva il francese, e non capiva una parola di ciò che diceva, ma gli sembrava che stesse parlando la musica di Chopin. E la sua voce, pensava che l’avrebbe riconosciuta anche all’altro mondo. L’ultima sera aveva recitato in un’opera in cui un uomo le sfiorava il braccio e lei lo pugnalava. Mentre Peter sedeva là, sotto le luci della ribalta, tra i getti fumanti delle lampade a gas, con il violino sul ginocchio, l’aveva guardata e aveva pensato che sarebbe stato felice di morire anche lui, se avesse potuto sfiorarle il braccio una volta e farsi pugnalare in quel modo. Quella notte Peter era tornato a casa da sua moglie ubriaco marcio. Anche a quei tempi era uno sciocco che pensava solo alla musica e ai bei volti.
Era tutto ben diverso, adesso. Non aveva niente da bere e poco da mangiare, e lì non esisteva nient’altro che il sole, e l’erba, e il cielo. Ormai aveva dimenticato quasi tutto, ma alcune cose le ricordava abbastanza bene. Amava il violino e la vergine Maria e, soprattutto, temeva il Maligno e suo figlio Antone.
Il fuoco era basso e il freddo aumentava. Peter rimase fermo accanto al fuoco a ricordare. Non ebbe il coraggio di buttare altre pannocchie nel fuoco; Antone si sarebbe arrabbiato. Non voleva saperne di tagliare la legna il giorno seguente: sarebbe stata una domenica, e voleva andare a messa. Forse Antone gliel’avrebbe permesso. Con il violino sotto al mento rugoso e i capelli bianchi che ci cadevano sopra, cominciò a suonare l’Ave Maria. La mano gli tremava più che mai, e alla fine si rifiutò di manovrare l’archetto.
Se ne rimase seduto intorpidito per un po’, poi si alzò e, portando con sé il violino, entrò di soppiatto nella vecchia stalla. Dal piolo staccò il fucile a tre canne di Antone e, al chiaro di luna che penetrava dalla porta, lo caricò. Si sedette sul pavimento sudicio e appoggiò la schiena sul muro sudicio. Sentiva i lupi ululare in lontananza, e il vento della sera sibilare mentre spirava sulla neve. Attorno a sé udiva il respiro regolare dei cavalli nel buio. Si mise il crocifisso sul cuore, e con le mani giunte e la voce rotta recitò tutto il latino che conosceva: “Pater noster, qui in coelum est.” Poi alzò la testa e sospirò: “Nemmeno un kreuzer Antone li pagherà perché preghino per la mia anima, nemmeno un kreuzer, è così attento ai soldi, è Antone, non li spreca per bere, è un uomo migliore di me, ma duro, alle volte. Fa lavorare troppo le ragazze, e le donne non sono fatte per lavorare così; ma non ti venderà, violino mio, non posso più suonarti, ma non ci divideranno; abbiamo visto di tutto insieme, e insieme ce ne dimenticheremo, la Francese e tutto il resto.” Tenne il violino per un attimo sotto al mento, dove l’aveva posato tante volte, poi se lo mise su un ginocchio e lo sfondò. Si tolse il vecchio scarpone, tenne il fucile tra le ginocchia con la bocca da fuoco contro la fronte, e premette il grilletto con un dito del piede.
All’alba Antone lo trovò rigido, congelato in una pozza di sangue. Non riuscirono a raddrizzarlo più di tanto per farlo entrare nella bara, così lo seppellirono in una cassa di pino. Prima del funerale Antone portò in città l’archetto del violino che Peter aveva dimenticato di rompere. Antone era un gran taccagno, e un uomo migliore di suo padre.

Bestiario del sogno, di Franco Santucci

Wojtek porta in libreria Bestiario del sogno, di Franco Santucci. Una raccolta di sedici storie in cerca di illuminazione. Animismo e riflessione storica, il dominio della macchina e l’ineffabilità dei legami amorosi: con un misto di ponderazione e spregiudicatezza, Santucci usa i mezzi e i temi della letteratura fantastica per forzare una via verso l’inconscio.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

Serpente bianco
di
Franco Santucci

Dissi a mio figlio di non togliersi le ciabatte perché potevano esserci dei pezzi di vetro. Alle spalle ci lasciavamo il molo e una luce giallo tenue che né il bianco della banchina né i riverberi sull’acqua del canale erano riusciti a scaldare. Di fronte, una dozzina di persone ammiravano delle ossa di dinosauro: uno scheletro era eretto con la naturalezza statica di un’impalcatura da museo; l’altro, una femmina, parzialmente sommerso, eccetto che per l’enormità di costole che lottavano con la sabbia e il tempo.
Era una specie di tirannosauro, ma volli affrettarmi per evi tare che il bambino vi sostasse troppo. La nostra meta era la f ine del lido privato dove gli spazi si sarebbero allargati e gli ombrelloni divenuti meno frequenti, nello stesso luogo in cui andavo con i miei fratelli e i miei genitori, ognuno armato di zaini o sedie.
Superato quel punto trovammo due uomini e una donna intenti a guardare sulla sabbia un serpente bianco sdraiato sul dorso, la lingua protrattile in un movimento continuo e ripetitivo. La grandezza era quella di un grosso biacco, ma la posizione riversa e la sua immobilità non mi permettevano di capire di quale specie fosse, anche se dalle squame ventrali, biancastre, si intuiva che il lato nascosto era dello stesso colore. Lo oltrepassai temendo che mio figlio potesse essere morso e che quella catalessi fosse una tecnica dell’animale, una specie di tanatosi malriuscita; il piedino fu ai limiti del capo rovesciato del rettile e sembrò che la sua lingua mobile lo toccasse impercettibile proprio nell’attimo del passaggio.
Chiesi alla donna in costume se fosse una specie velenosa e quale nome avesse e lei, amareggiata e affranta per il serpente, e sorpresa dalla mia richiesta, pronunciò una parola che iniziava con la O seguita da un molteplicità irriproducibile di consonanti che avrebbe dovuto essere un nome ma era un proposito. Piangendo afferrò l’ofide che, nel momento della presa, aveva non una ma due teste, capovolte entrambe e con la lingua in sincrono, e lo lanciò in mare.
Vidi l’animale volare via e affondare nelle onde vicino alla riva, in un palmo d’acqua limpida nella luce pomeridiana. Biasimai la donna per tutta quella foga, al serpente non sarebbe servito a molto, era venuto per morire sulla spiaggia, attendere e conoscere mio figlio, sfiorargli la pelle come in un bacio e sibilare la nostra distanza, allora guardai il mare e ne sentii la voce, anche mia: «Ci siamo detti addio senza salutarci».

Statue viventi, di Günter Grass

La Nave di Teseo porta in libreria Statue viventi di Günter Grass, tradotto da Nicoletta Giacon e con i disegni originali dell’autore.
Un racconto lungo inedito del Premio Nobel per la Letteratura, con i disegni originali dell’autore. Inizialmente concepito come un capitolo della sua autobiografia, questo testo inedito è stato scoperto solo recentemente negli archivi dell’autore dalla sua storica collaboratrice, Hilke Ohsoling. Statue viventi è una storia conturbante di come un’opera d’arte può lavorare nella mente di uno scrittore, ossessionarlo, fino a prendere vita in modo imprevedibile.

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto per gentile concessione dell’editore.

Oggi, i resti non sono che pezzi da museo duri come il cemento armato. Quando il Muro, alla cui presenza ci si era ormai abituati, esisteva ancora, nonostante le potenze da entrambi i lati della sua ombra continuassero – se pure in toni moderati – ad abbaiarsi addosso, ricevetti per posta un invito che accettai senza farmi troppe illusioni. I nomi di antiche città – Magdeburgo, Halle an der Saale, Jena ed Erfurt – lasciavano presagire un viaggio che avevo già fatto molti anni addietro. Mi si chiedeva di pazientare, le domande di ingresso erano già state spedite per posta. Mentre aspettavamo l’autorizzazione ad attraversare il confine con il prestigioso Stato degli operai e dei contadini, iniziai a passare in rassegna, con una certa esita zione, i miei ricordi sul medioevo, immaginando tavolate con commensali sempre diversi, piatti di carne fortemente speziati, salumi di ogni tipo che accompagnavano la zuppa di grano saraceno e di miglio addolcito con il miele. Quando, dopo i soliti ritardi – l’autorizzazione era stata rifiutata due volte – i documenti arrivarono con tanto di timbro, l’itinerario era rigorosamente stabilito, ma offriva la possibilità di una breve visita a Quedlinburg e a Naumburg, luoghi il cui passato giaceva sepolto nei libri di scuola della mia giovinezza.
Mi era già capitato di invitare a tavola dei personaggi storici. Una volta mi ero trovato in compagnia di un boia e della sua “clientela” a mangiare la trippa, e prima ancora a un lungo tavolo con dei commendatori. Dorothea von Montau portò in tavola l’aringa della Scania, un piatto del venerdì. Dopo il pasto a base di aringhe, Dorothea, che era un personaggio alquanto stravagante, recitò dei versi in alto-tedesco medio che noi, profondi conoscitori di letteratura, scoprimmo essere influenzati, pur mantenendo la loro peculiarità, dalla poesia del Minnesänger Wizlaw von Rügen. L’aringa della Scania ha dato il titolo al capitolo di un mio romanzo.
La nostra prima tappa fu Magdeburgo. Dopo una lunga e paziente corrispondenza, scritta e orale, con i vari uffici ecclesiastici e non, un pastore luterano di nome Tschiche, i cui figli – avendo rifiutato il servizio militare nell’Armata popolare nazionale – dovevano prestare servizio civile come soldati edili, aveva finalmente ottenuto una risposta positiva: avevamo il permesso di entrare nella Repubblica Democratica Tedesca, dove avrei potuto leggere, nelle chiese e nei centri parrocchiali, alcuni passaggi dal mio ultimo libro, che parlava di uomini e ratti. Mi è sempre piaciuto leggere ad alta voce. Se necessario, in luoghi sacri, la cui acustica è collaudata da tempo. Il medioevo – continuavo a ripetermi – è per noi più lontano di quanto non lo sia l’impero romano. A est dello Harz, per esempio a Quedlinburg, c’è molto di più da scoprire che nelle catacombe paleocristiane sulla via Appia. Trovammo alloggio in case parrocchiali che avrebbero avuto urgente bisogno di ristrutturazioni, e nelle quali i pasti erano preceduti d una breve preghiera. Le assi del pavimento scricchiolanti. La muffa nelle fondamenta. Le energiche mogli dei parroci. Durante il nostro viaggio, la sorveglianza da parte dello Stato rimase, tutto sommato, contenuta, persino la volta in cui fummo costretti ad abbandonare la sala parrocchiale di Halle, perché troppo affollata, e riparare in una vicina chiesa cattolica, dotata di un sistema di altoparlanti, che si riempì spontaneamente fino all’ultimo posto. Pagina dopo pagina, descrivevo nei minimi dettagli come i ratti sopravvissuti si esercitavano a camminare in posizione eretta. Ogni volta leggevo per un’ora buona. Dopodiché il pubblico, seduto stretto sui banchi della chiesa, faceva delle domande, in un primo momento esitanti, poi sempre più esplicite: “Dobbiamo restare? Dobbiamo fare domanda di espatrio?” E io rispondevo: “Anche dall’altra parte è solo un’altra parte.” Ma quelli che ponevano le domande non lo avevano ancora sperimentato.
Il passaggio da un secolo all’altro non era poi così grande. A Erfurt, dove Lutero – ai tempi in cui era monaco agostiniano – aveva imparato a conoscere il dubbio, il mio incontro con il pubblico si tenne in mezzo ad antiche mura. All’inizio, un gruppo di punk dell’Est fece di tutto per interrompere la lettura, ma poi iniziò ad appassionarsi alla mia storia sui ratti. Si svolgeva al tempo dei flagellanti, quando gli ebrei – a quanto si diceva – avevano subdolamente portato nel paese la peste. Al momento, lo Stato e i suoi organismi sembravano indeboliti. Il pastore di Jena, la moglie e i figli avevano un cavallo che, come nelle favole, si affacciava dalla porta della stalla. Eretici perseguitati da tempo immemorabile. E poi le guerre, datate e archiviate. Si diceva che in Turingia ci fossero dei valdesi fuggiti dalla Boemia. La canonica si ergeva, sbilenca, in una zona invasa dalla vegetazione, vicino agli storici campi di battaglia di Jena e Auerstedt. Un cartello indicava la strada. Ovunque, il medioevo gotico e tardo gotico si stava sgretolando. E anche il presente, nonostante la sua pretesa di stabilità politica e sociale, cominciava – iniziando dai margini della società – a diventare superato.
Ma chi avrei dovuto invitare a tavola?

© Steidl Verlag, Göttingen 2022
© Günter und Ute Grass Stiftung, Lübeck
Published by arrangement with Berla & Griffini Rights Agency
© 2024 La nave di Teseo editore, Milano

Beneficio dell’alcolismo di Michail Afanas'evič Bulgakov

Beneficio dell’alcolismo
di Michail Afanas'evič Bulgakov

Nella stazione nr. ..., all’assemblea indetta per eleggere il mestkom, il membro del sindacato Mikula si è presentato ubriaco fradicio. La massa dei lavoratori gridava: «È inammissibile!», ma il presidente dell’učk ha preso le difese di Mikula, chiarendo che l’ubriachezza è una malattia sociale, e che quindi si può eleggere anche un beone tra i componenti del mestkom...
(«Il rabkor» 2619)

 

Prologo

«Sbattete fuori dall’assemblea quell’ubriacone! È una cosa inammissibile!» gridava la massa operaia.
Il presidente continuava ad alzarsi e a sedersi come se avesse ingoiato una molla.
«Do la parola!» gridava allargando le braccia. «Silenzio, compagni!... Do la paro... compagni, silenzio!... Do la pa... silenzio, compagni! Compagni! Vi prego di ascoltare il rappresentante dell’učk.»
«Fuori Mikula!» gridava la folla. «Bisogna farla finita con quell’ubriacone!»
Dietro il tavolo della presidenza comparve il volto del rappresentante dell’učk. Un volto circonfuso da un sorriso benevolo. La massa continuò per qualche istante ad agitarsi come un oceano, poi si placò. «Compagni!» esclamò il rappresentante dell’učk con una piacevole voce baritonale.

«Io sono il presidente.
Solo un’onda Del mar che siete voi, massa sovietica!
Mar burrascoso, massa frenetica;
Come può dell’učk non essere turbato
Se con lui tutto il mare è agitato?»

Questo esordio blandì straordinariamente la folla.
«Parla in versi!»
«Sei il nostro benefattore!» esclamò una vecchina entusiasta, e scoppiò in singhiozzi. Quando l’ebbero portata fuori, il rappresentante dell’učk continuò:
«Perché tumultuate, o campioni del popolo?».
«È per via di Mikula che tumultuiamo!» rispose la folla.
«Bisogna sbatterlo fuori! È una vergogna!»
«Compagni! È proprio di Mikula che intendo parlare!»
«Giusto! Digliene quattro a quell’alcolizzato!» «Innanzitutto dobbiamo porci un interrogativo: è davvero ubriaco il menzionato Mikula?» «Oh-oh-oh-oh-oh!» cominciò a gridare la massa.
«Va bene, d’accordo, è ubriaco» convenne il rappresentante dell’učk.
«A questo proposito non sussiste dubbio alcuno. Ma a questo punto dobbiamo porci una domanda di rilevanza sociale: quali sono le cagioni dell’ubriachezza dell’esimio membro del sindacato Mikula?»
«È il suo onomastico!» rispose la massa.
«No, cari cittadini, non è questa la causa. La radice del male sta molto più a monte. Il nostro Mikula è ubriaco perché è... malato.»
La massa restò impietrita come una colonna di sale. Mikula, paonazzo, aprì un occhio completamente offuscato e guardò terrorizzato il rappresentante dell’učk.
«Proprio così, carissimi compagni, l’ubriachezza altro non è che una malattia sociale, come la tubercolosi, la sifilide, la peste, il colera e... prima di parlare di Mikula pensiamo un attimo a cos’è l’ubriachezza e a che cosa è collegata. Un tempo, cari compagni, l’allora principe Vladimir, soprannominato “rosso solicello” per la sua inclinazione verso le bevande alcoliche, ebbe ad esclamare: “Egli è il bevere, il nostro diletto!”.» «L’ha rivoltata proprio bene!»
«Meglio di così è difficile. I nostri storici hanno messo nel giusto valore le parole dell’inobliabile principe, e hanno incominciato a poco a poco a bere, esclamando in aggiunta: “Ubriaco ma attento / ha più d’un talento”.»
«E il principe?» chiese la folla, vivamente interessata alla relazione del segretario.
«Morì, poverino. La vodka lo bruciò tutt’a un tratto» spiegò con aria afflitta il segretario-cacasenno.
«Pace all’anima sua! È già in paradiso!» squittì una vecchierella. «Sarà stato anche sovietico, ma è sempre un santo.»
«Tu, nonnina, non propagare l’oppio religioso nelle assemblee» la rimbeccò il segretario. «Qui non ci sono anime né paradisi. Vado avanti, compagni. In seguito, nella società borghese sbevazzarono tutti per novecento anni di fila, senza alcun riguardo per i bambini e per gli orfani. “Per sapere devi bere” disse una volta Turgenev, un famoso poeta del periodo borghese. In seguito si sviluppò tutta una serie di proverbi di umorismo popolare in favore dell’alcolismo, come “bocca ubriaca, bocca sincera”, “non ti mettere in cammino se la bocca non sa di vino”, “non è il vino ma il tempo che ubriaca l’uomo”, “chi fa da sé fa per tre” e quali diavolo altri?...»
“Il tè non è la vodka, non ne puoi bere più che tanto”» rispose la massa, straordinariamente interessata. «Già, merci. “Meglio la botte della bottiglia”, “Bevono persino le galline”, “Si muore a bere, e anche a non bere”, “Versa, compagno, versa, un bicchiere alla salute!”...»
«Dio-solo-sa cosa sta succedendo...» gorgheggiò in accompagnamento Mikula, sbronzo fino agli ocelli. «Compagno ammalato, siete pregato di non cantare durante l’assemblea» disse cortese il presidente. «Andate avanti, compagno oratore.»
«Preghiamo» continuò l’oratore, «preghiamo il creatore, prima ci facciamo un bicchierino, e poi anche un cetriolino, oh, signor mio, gendarme, siate buono con me, portatemi in guardina se ancora un posto c’è, i signori avventori sono pregati di non bestemmiare e di non dare mance, di febbraio di ventinove me ne son scolate nove, tutti i giorni antipasti freschi assortiti, trallallera trallallà...»
«Dove state andando, voi?» ringhiò ad un tratto il presidente. Cinque persone improvvisamente avevano lasciato di soppiatto il loro posto ed erano sgattaiolate via.
«Non hanno retto il discorso» spiegò la massa in estasi, «li ha convinti con l’eloquenza. Son corsi in birreria, prima che chiudano.»
«Dunque!» sbraitava l’oratore. «Guardate a che punto siamo infetti di questa malattia sociale. Ma non turbatevi, compagni. Prendete, per esempio, quel talento innato che fu il nostro Lomonosov nel diciottesimo secolo: amava moltissimo alzare il gomito, e ciononostante risultò un eccellente scienziato e un buon compagno, tanto che gli hanno fatto il monumento davanti all’edificio dell’università, in via Mochovaja. E potrei portarvi tanti altri esempi lampanti, ma non ne ho più voglia... Concludo e passo alla votazione.»

Epilogo

... e pertanto la massa operaia ha eletto fra i candidati al mestkom un noto alcolizzato, che ancora il giorno dopo se ne stava seduto sul binario ubriaco come un tegolo sollazzando con le sue freddure i perdigiorno e raccontando che bere è lecito a patto che non ci siano danni.

 
(Dalla stessa lettera del «rabkor»)

Il rapporto di Ogata Ryōsai, di Ryūnosuke Akutagawa

Il rapporto di Ogata Ryōsai
di Ryūnosuke Akutagawa

Di recente, nel mio villaggio, i seguaci del cristianesimo stanno confondendo le menti delle persone con la loro dottrina dannosa e malvagia. Ecco perché ho deciso di denunciare quanto ho visto e sentito, con la speranza che le autorità possano presto adottare i provvedimenti del caso.
Allora, il VII giorno del III mese di quest’anno Shino, la vedova di un contadino di nome Yosaku, è venuta da me supplicandomi di visitare sua figlia Sato, una bambina di nove anni gravemente malata. Shino, la terzogenita del contadino Sōbei, si è sposata dieci anni fa, rimanendo vedova poco dopo la nascita della figlia. In seguito alla morte del marito non ha voluto legarsi a nessun altro, riuscendo comunque a sopravvivere tessendo e facendo altri piccoli lavori che poteva svolgere in casa. Sennonché, abbagliata chissà da cosa, dopo il trapasso del marito si è convertita al cristianesimo e ha iniziato a frequentare con assiduità un certo padre Rodrigo, un prete che abita nel villaggio accanto al nostro. Per questo è incorsa nel biasimo generale, e qualcuno ha cominciato a denigrarla lasciando intendere che fosse diventata l’amante del prete. Suo padre, Sōbei, e i suoi fratelli hanno cercato in tutti i modi di farla rinsavire ma lei, sostenendo che nessuno è più degno di venerazione del dio cristiano, si è rifiutata di ascoltarli e, dimenticando perfino di visitare la tomba del suo defunto marito, ha continuato insieme alla figlia ad adorare mattina e sera un amuleto a forma di piccola croce che lei chiama «crocefisso». Ecco perché i suoi familiari hanno smesso di frequentarla, e perché in paese si è iniziato a vagliare la possibilità di bandirla.
Trattandosi di una persona del genere, quando è venuta da me per chiedermi di visitare la figlia, io le ho risposto che non potevo assolutamente farlo. Quel giorno lei se ne è andata in lacrime, ma il giorno seguente è tornata a trovarmi per dirmi che se avessi acconsentito a visitare la figlia, lei mi sarebbe stata riconoscente per tutta la vita. Io ho continuato a rifiutare, e allora lei, non accettando la mia decisione, si è prostrata in lacrime nell’ingresso della mia abitazione e, con una voce carica di rancore, mi si è così rivolta: «Le condizioni di mia figlia sono gravi. Perché non volete visitarla? Non capisco. Non è forse compito di un medico curare chi è malato?».
«Ciò che dite è vero, − ho risposto. − Tuttavia la mia decisione di non aiutarvi non è infondata. Se posso essere sincero, non mi piacciono i vostri modi, soprattutto quando accusate me e gli altri abitanti del villaggio di essere posseduti dal demonio solo perché veneriamo kami e buddha. Se la vostra fede è quella giusta e voi siete così pura, perché chiedete a un uomo succube del diavolo come me di curare vostra figlia? Non dovreste forse rivolgervi alla divinità in cui adesso credete? Se davvero desiderate che io visiti vostra figlia, prima dovete rinunciare alla fede cristiana. In caso contrario, continuerò a negarvi la mia assistenza, anche perché, per quanto la mia professione mi imponga di essere compassionevole, anch’io temo la punizione che le mie divinità potrebbero infliggermi»
Shino è rimasta ad ascoltarmi in silenzio dopodiché, incapace di ribattere, è tornata a casa triste e sfiduciata.
All’alba del giorno seguente, il IX del III mese, è iniziato a piovere con una tale intensità che per le strade del villaggio non si vedeva anima viva. Verso l’ora del coniglio Shino si è presentata di nuovo alla mia porta per rivolgermi la medesima supplica del giorno precedente. Non avendo l’ombrello, era bagnata come un pulcino.
«Anche se sono un semplice medico, sono un uomo di parola −, ho ribadito. − È una decisione difficile, lo so, ma dovete scegliere: o rinunciate al vostro dio o alla vita di vostra figlia!».
Udendo quelle parole Shino ha iniziato a sragionare e, prostratasi più volte davanti a me a mani giunte, con la voce rotta dal pianto mi ha implorato: «Avete perfettamente ragione, ma se abbandono la fede cristiana, il mio corpo e la mia anima saranno dannati per l’eternità. Vi prego, abbiate pietà di me. Acconsentite, almeno per questa volta, a visitare mia figlia».
Nonostante pratichi una confessione eretica, il suo amore per la figlia era così sincero che ho provato pietà per lei. Non potevo però permettere ai sentimenti di ottenebrare il buon senso, quindi ho ribadito con assoluta fermezza che non avrei visitato la figlia fino a quando lei non avesse abiurato. Shino mi ha fissato per alcuni attimi con un’espressione indescrivibile, dopodiché è scoppiata in lacrime e si è gettata ai miei piedi a mani giunte, per supplicarmi. A quel punto con un filo di voce ha pronunciato qualcosa che, a causa del rumore della pioggia, non sono stato in grado di comprendere. Per tre volte l’ho pregata di ripetere quanto aveva detto, e alla fine ho capito che, pur a malincuore, avrebbe acconsentito ad abiurare. Quando poi le ho detto che avevo bisogno di una prova che lo dimostrasse, lei, senza dire una parola, ha estratto dallo scollo del kimono la croce, l’ha posata sulle assi di legno che rivestono l’ingresso e in silenzio l’ha calpestata tre volte. Non sembrava particolarmente turbata, e aveva anche smesso di piangere; ciononostante fissava la croce che aveva sotto i piedi con lo sguardo di chi ha la febbre molto alta, la qual cosa ha fatto rabbrividire sia me sia il mio aiutante.
A quel punto, essendo riuscito a farle accettare le mie condizioni, il mio aiutante si è messo in spalla la cassetta dei medicinali e tutti insieme ci siamo incamminati sotto una pioggia torrenziale verso la casa di Shino. Sato era coricata in una stanzetta molto angusta, con il cuscino rivolto verso sud. Era sola, e delirava a causa della febbre alta. Con le sue piccole e graziose manine non faceva che tracciare in aria il segno della croce, ripetendo senza sosta la parola «Alleluia»: sembrava farneticare, ma era felice e radiosa. Shino, seduta in lacrime accanto al giaciglio della figlia, mi ha spiegato che «Alleluia» è un’invocazione simile al nenbutsu che i cristiani usano per rendere omaggio al compassionevole amore del loro dio. Ho visitato immediatamente la bambina, e non mi ci è voluto molto per capire che era affetta da una forma molto grave di febbre tifoide. La malattia era in uno stadio così avanzato da indurmi a pensare che la bambina non sarebbe arrivata al giorno seguente. Quando l’ho detto alla madre, questa ha perso il lume della ragione e, prostrandosi a mani giunte ai miei piedi e a quelli del mio aiutante, ha ripetuto più volte:
«Se ho abiurato è stato solo perché ero certa che in questo modo avrei salvato la vita di mia figlia. Ma se morirà sarà stato tutto inutile. Se riuscite a capire la sofferenza che mi dilania per aver voltato le spalle a Dio, fate in modo di salvarla!».
Quello che mi chiedeva travalicava le mie capacità. Per fortuna aveva smesso di piovere; così, dopo averla rassicurata che aveva preso la decisione giusta, le ho dato tre bustine di decotto. Mentre stavo per tornare a casa, Shino si è aggrappata a una manica della mia veste per impedirmi di andarmene. Le sue labbra si muovevano come se cercasse di dire qualcosa, ma senza riuscirci. Pochi istanti dopo è impallidita e ha perso i sensi. Trasecolato, con l’aiuto del mio aiutante ho provato a farla rinvenire. E difatti poco dopo si è ripresa, ma era troppo debole per alzarsi e, in un mare di lacrime, ha detto:
«A causa della mia superficialità, ho perso mia figlia e il mio dio!». Ho cercato in tutti i modi di consolarla, ma visto che le mie parole non sortivano l’effetto sperato e che non avrei potuto fare nulla per salvare la figlia, accompagnato dal mio aiutante mi sono incamminato verso casa. Quello stesso giorno, poco dopo l’ora del montone , sono andato a visitare la madre del capo villaggio Tsukagoshi Yazaemon, da cui ho appreso che la bambina era morta e che la madre, per il dolore, era uscita di senno. Secondo le parole del capo villaggio, sembra che Sato fosse deceduta un’ora dopo che l’avevo visitata e che Shino, già verso il primo quarto dell’ora del serpente , andasse in giro come una pazza stringendo tra le braccia il corpo senza vita della figlia salmodiando a voce alta una incomprensibile preghiera occidentale. Tutto era avvenuto sotto gli occhi di Yazaemon e di tre contadini del posto, Kaemon, Tōgo e Jihei, per cui i fatti dovevano essersi realmente svolti nel modo in cui mi erano stati riportati.
Dalle prime ore del giorno successivo, il X del III mese, ha iniziato a cadere una leggera pioggia, ma nella seconda parte dell’ora del drago i tuoni della primavera hanno lasciato spazio al bel tempo. Yanase Kinjūrō, un samurai del villaggio, mi ha inviato un cavallo affinché lo potessi raggiungere nella sua abitazione per un consulto medico. Io sono salito subito in groppa, ma quando sono giunto davanti alla casa di Shino sono stato costretto a fermarmi perché un gran numero di persone bloccava la strada e inveiva contro preti e cristiani. Senza smontare da cavallo ho guardato allora verso l’abitazione della donna vedendo, di fronte alla porta d’ingresso spalancata, un occidentale e tre giapponesi. Indossavano tutti una tonaca nera e, mentre stringevano in una mano il crocifisso e nell’altra un oggetto che sembrava un incensiere, acclamavano il loro dio intonando all’unisono la parola «Alleluia». Ma non solo: Shino era riversa in terra, come svenuta, davanti ai piedi dell’occidentale: aveva i capelli in disordine e tra le braccia stringeva la figlia. La cosa che più mi ha colpito è stato vedere che Sato, le mani strette attorno al collo della madre, intonava con la sua voce infantile una volta il nome della madre e l’altra l’esclamazione «Alleluia». Non posso affermarlo con certezza, visto che mi trovavo a una certa distanza, ma ho avuto l’impressione che Sato avesse un bel colorito e che ogni tanto staccasse le mani dal collo della madre per cercare di afferrare il fumo che fuoriusciva da quella specie di incensieri.
Sono smontato da cavallo e ho chiesto alle persone lì presenti di raccontarmi i particolari della sua resurrezione. Sono venuto così a sapere che quella mattina padre Rodrigo, insieme a tre diaconi, aveva lasciato il proprio villaggio per presentarsi a casa di Shino. Dopo aver ascoltato la confessione della donna, hanno iniziato a pregare, hanno acceso uno strano incenso e hanno spruzzato su madre e bambina dell’acqua consacrata. Poco dopo la donna si è tranquillizzata e Sato è tornata in vita, mi hanno riferito tutti con evidente sgomento.
Nel corso della storia, non sono state poche le persone tornate in vita dopo la morte. Nella maggior parte dei casi, però, si è trattato di morti causate da malattie febbrili e da etilismo. Non è mai accaduto che una persona malata di tifo, come Sato, sia tornata in vita. Ormai è chiaro che il cristianesimo è una dottrina diabolica, e credo che i tuoni primaverili che hanno iniziato a rimbombare quando padre Rodrigo è arrivato nel villaggio possano essere interpretati come un segnale di quanto il Cielo disdegni questo prete.
Quel giorno Shino e sua figlia hanno abbandonato il villaggio per trasferirsi in quello di padre Rodrigo. Subito dopo, Nikkan, l’abate del tempio Jigen, ha ordinato che la loro casa fosse data alle fiamme. Ma di questo vi avrà di certo informato il capovillaggio Tsukagoshi Yazaemon, per cui non mi dilungherò oltre. Se in futuro dovessi rammentare particolari che ora mi sono sfuggiti, sarà mia premura comunicarveli con un secondo rapporto. Non ho altro da aggiungere.

Il XXVI giorno del III mese dell’anno della scimmia
Villaggio di Uwa della provincia di Iyo
Il medico locale: Ogata Ryōsai

Anna ha le ali, di Stefano Serri

Ortica editore porta in libreria Bradipismi, di Stefano Serri. Dieci racconti, manifesti di una rivoluzione lenta, in cui si evincono inviti e occasioni: inviti a ripensare il nostro agire e le nostre relazioni, occasioni per decidere, adesso, che ritmo dare alla nostra esistenza.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Anna ha le ali
di Stefano Serri

Un giorno Anna prese le ali.
Prima, il corpo le si gonfiava e sgonfiava più regolare delle maree, per colpa del suo appetito anomalo, di quello stomaco dotato di anima. I capelli si fecero lisci; gli occhiali sparivano a intermittenza; infine comparve quello di cui parlo: le ali. Non erano come pensate, là dietro, sulla schiena, bianche e piumate, appuntite e veloci. Le ali erano nel petto, due rosee e morbide ali gonfie di latte e serene da lotte: perché le ali migliori sono nascoste, le ali migliori sono nelle costole.

Forse è perché suo padre è un animale, ma Anna, fin dall’inizio, ha voluto volare. Una cosa che suo padre aveva detto quando era bambina, due parole appena, una frasetta che l’aveva toccata troppo, uscita come una mano dalla bocca, lui col viso pesante e i pugni sul mento: Sono triste, aveva detto. E lei non aveva mai pianto.
Nel suo cappotto di velluto e spettinata, nonostante tutti e tutto, ha continuato la scuola; s’è dovuta fermare, un anno, perché non riusciva a studiare, ma poi è ripartita e si è laureata. È diventata infermiera. Perché ha scelto proprio questo lavoro, questo starsene sempre tra sangue e lamenti? Forse è perché, un brutto giorno, ha dovuto portare suo padre al macello, come un bue marezzato di angoscia; forse per quello capisce i malati, che si ritrovano di colpo in discarica senza poterne uscire da soli. Ma lo stesso, vuole volare, e impara, Anna, impara che le ali non sono tutta la libertà. E che non servono ali agli umani, perché per volare camminano in verticale.

Anna un giorno incontrò l’uomo suo, che era suo perché un po’ diverso dagli altri: un elettricista, si chiamava Giulio, anche lui con il viso un po’ triste.
A volte deve vivere lei per tutti e due; deve arrampicarsi, ma non come in Romeo e Giulietta: ha da scalare molto più di un balcone, scala il gran monte della depressione, anzi, non lo scavalca, e attende con pazienza che Giulio si affacci. In quel momento, lo acciuffa, rimette le ali e porta via tutti e due.
Senza inseguire castelli e principesse, senza Capuleti e Montecchi, con Giulio torna a credere che le case, anche la sua, sono scatole di felicità, forse un po’ bucate, e le porte, ereditate dai genitori, enormi per le nostre piccole chiavi.

Non l’ho ancora detto? Il tuo migliore amico, Anna, è un barattolo di vetro, vuoto, con l’etichetta infeltrita; un barattolo di cioccolata tenuto nell’armadio, dietro i vestiti: le vestaglie l’accarezzano, una sciarpa gli fa le fusa, riposa lì, ben custodito. Un barattolo vuoto dove infili quel che non va e poi lo conservi (chiamalo: vomito, o chiamalo: no!), e vedi come diventa quello che dentro era brutto, o se cambia colore al contatto con l’aria. Duro, tirare fuori il cibo dell’ora prima; esistono trucchi perché lo stomaco si redima, esistono dita violente e respiri in ostaggio, esistono in commercio estintori per l’ansia, ma anche pompe per decomprimere l’anima che, in un angolo, avanza. Oltre l’orlo di ceramica del cesso dove vomiti, ecco il tuo barattolo, il tuo abisso portatile. Alcune, da ragazze, credono che basti vomitare per non diventare madre. Il tuo barattolo di vetro, il tuo trofeo di anoressica, lo conservi, anche oggi che sei guarita, tra le scarpe, come monito: come il vetro, la verità che ti faceva male scivola e, se passa troppo tempo, fa la ruggine e non si svita più.

Questo, però, è un racconto, e i racconti non finiscono come un romanzo: non sono un lungo spettacolo di fuochi d’artificio, un racconto è un unico razzo sparato a suon di spinte e sputi d’esistenza, più su che riusciamo con la nostra speranza. E, se vuoi essere razzo fino in fondo, devi scoppiare. Serve fiducia per schiantarsi nel cielo: devi credere che i tuoi pezzi, passando davanti agli occhi della gente a naso in su, lascino tracce. Forse ti scorderanno, ma almeno con quel botto avrai sollevato su da terra la loro faccia.
La nostra storia, Anna, finisce così: in una metamorfosi, con la marea del tuo fisico instabile che non so più dipingere, pelle bianca, ali, letto. Finisce che sei incinta: sparisci un bel giorno, scivolata in una fessura, scomparsa in ostetricia. Esci con una figlia e le racconti che aveva un padre, un animale triste, poi le mostri le ali, le tue, le sue: le ali, non ingrassano né dimagriscono, ma mangiano il tempo, te l’assicuro, mangiano vita, di continuo la vita.

Madre nel cassetto, di Sergio La Chiusa

Nella collana L’Invisibile di Industra&Letteratura troviamo, tra gli altri, Madre nel cassetto, di Sergio La Chiusa. Una novella di irresistibile affabulazione intrisa di humor nero e gustosissima letterarietà.

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto per gentile concessione dell’editore.

Madre nel cassetto
di Sergio La chiusa

Mamma tentava di suicidarsi tutte le settimane. Le domeniche, di preferenza. Forse perché papà era a casa e poteva intervenire, per evitare il peggio. «Te ne pentirai», ammoniva lungimirante tagliandosi le unghie davanti al televisore mentre mamma rovistava tra i coltelli minacciando di tagliarsi le vene. «Mi rimpiangerai, non lo troverai un altro che sopporti le tue scenate», ribadiva papà, immaginando che la matta confidasse in qualche martire con cui sistemarsi nell’altro mondo. Dopo di che, riposto in tasca il tagliaunghie, si schiodava sospirando dal divano e si sfilava solennemente la cintura. Poi andava in cucina e la batteva per bene. Fino a che mamma smetteva di gridare e dibattersi sotto i colpi rieducativi di papà e si placava, definitivamente domata.
Non che mamma tentasse sul serio di suicidarsi, in verità. Faceva la scena, la protagonista. Almeno una volta la settimana voleva uscire dalle ombre della cucina in cui l’aveva confinata papà, sottrarsi al suo ergastolo di padelle, teglie e tegami e salire sul palcoscenico, sentirsi importante, darsi arie da diva tragica sotto le luci della ribalta domestica. Io li spiavo disgustato dal basso dei miei sette anni, nascosto sotto il tavolo, e mi dicevo mai, mai sarò come lui. Adesso che ho la stessa età di mio padre, e anzi l’ho addirittura superato, posso vantarmi d’aver tenuto fede ai miei propositi d’allora. Non ho preso nulla del suo temperamento. Non porto pesi sulla coscienza, io… Arianna, per esempio, non ha mai minacciato il suicidio. Nemmeno nei periodi più bui della nostra convivenza. E nemmeno dopo la separazione, che io sappia, sebbene fosse stata proprio lei a lasciarmi, e il rimorso avrebbe potuto ragionevolmente scombussolarle il cervello e spingerla verso l’irreparabile. E invece nulla, mai una scenata, mai che scrutasse meditabonda la strada dall’alto del nostro sesto piano per studiare il punto d’impatto, la soluzione di tutti i conflitti. Anche se negli ultimi tempi avevo a volte l’impressione che certe ombre scure, vagamente sinistre, le passassero sugli occhi e Arianna pareva perdersi in fantasticherie equivoche mentre fissava le forbici insanguinate con cui aveva appena sventrato la spigola. La spigola. Aveva preso anche lei la riprovevole abitudine di preparare tutte le domeniche il pesce, e in particolare la spigola, che io detestavo; esattamente come mamma, che aveva una specie di venerazione per il pesce, che faceva bene al cervello, diceva, benché fosse lecito dubitarne viste le condizioni di perenne squilibrio in cui versavano lei e papà; e così Arianna, che però s’era fissata con le virtù degli omega-3 solo dopo la morte di mamma, e soprattutto durante gli ultimi mesi di convivenza, tanto che inclino a credere che la sua più che una vera convinzione scientifica fosse una forma di ritorsione subliminale, dato che sapeva che il pesce era stato al centro di aspri dibattiti tra me e mamma, e in particolare la spigola, che io vedevo con sospetto, e non senza ragioni, credo, altrimenti perché in certe regioni la chiamerebbero lupo? e in altre, più illuminate, ragno, tessitore di trappole? A ogni modo, la vedevo eviscerare con una rabbia primitiva e meticolosa, da rito vudù, che mi nauseava e mi dava da pensare. «Perché non li prendi già puliti», suggerivo, ma lei niente, pareva provarci gusto a trafficare con le interiora. A volte pensavo che con quelle sue unghie minuziose volesse stuzzicarmi l’anima, e perfino estirparla, e che l’anima mia – e l’anima di tutti – fosse viscida e sanguinolenta, come i visceri dei pesci, e che in definitiva un corpo spinato e svuotato d’anima fosse un corpo più pulito, più commestibile, più adatto alla compravendita.
Ma non divaghiamo. Non è di anime che intendo parlare. E nemmeno di compravendite. E tantomeno di Arianna. La parassita. Figuriamoci. Le passavo la maggior parte dello stipendio eppure si lamentava, le pareva poco, m’infilava perfino le mani in tasca per controllare se mi trattenessi qualcosa. Le mani. Le stesse con cui trafficava nei ventri dei pesci e che poi ricopriva di profumi costosi perché evidentemente non sopportava l’odore del vizio. Profumi comprati con il mio stipendio, che svaporava in essenze promiscue, e massaggi, trattamenti estetici, ristoranti con le amiche. D’altronde le spese erano tante, per la manutenzione del corpo e dello spirito, e io invece le proponevo una vita da lombrichi. A saperlo, si sarebbe messa con Nardi, s’era lasciata sfuggire una volta... Nardi! Attilio Nardi! Vi rendete conto? L’imbecille che la corteggiava fin dai tempi della scuola, e con cui in effetti si è messa dopo la separazione… «Una pausa di riflessione», aveva detto, in verità. Perché aveva bisogno di stare un po’ da sola. Perciò aveva lasciato passare una settimana prima di traslocare nell’appartamento di Nardi, in centro.
D’altra parte Attilio possedeva una casa al mare e una in montagna, e una appunto in centro, arredata in stile moderno, proprio come piaceva a lei, e una decapottabile sportiva con cui spostarsi rapidamente di casa in casa, mentre io possedevo solo questo trilocale al sesto piano d’un palazzo senza ascensore, trilocale che peraltro era stipato di mobili antiquati che gli davano un’aria da casa di riposo, senza contare che le pareti, su cui comparivano misteriose muffe, erano rivestite d’una carta da parati a fiorami del secolo scorso e decorate da vecchie stampe in bianco e nero ereditate dai nonni, simili a quelle che si trovavano negli scompartimenti dei treni di seconda classe. Roba da vergognarsi. Inoltre Attilio le faceva sempre dei regali, perfino una borsetta Louis Vuitton in vera pelle di vacca una volta, e non per calcolo, perché lei non gli aveva mai dato speranze, mai… E mentre mi presentava l’immagine del corteggiatore perfetto, pieno d’iniziative filantropiche e proprietà immobiliari, non ricordava più la faccia da ritardato con cui nella realtà Attilio le investigava le tette ai tempi della scuola, gli occhiali da masturbatore imbranato e volenteroso che gli davano un’aria da scorfano in agonia, dagli occhi lessi, stolidamente dilatati dalle lenti, la bocca sempre socchiusa per via della sinusite e d’un ritardo congenito di comprendonio, la pelle deturpata dalla foruncolosi dell’adolescenza, che non aveva mai davvero superato, nemmeno dopo la laurea in giurisprudenza e la tesi in diritto fallimentare, il tirocinio nello studio del padre, l’apertura di uno studio tutto suo in centro, nei pressi del Tribunale, dove riceveva in effetti clienti altolocati, nonostante i foruncoli.

Come il capitano celebrò il Natale, di Thomas Nelson Page

Mattioli porta in libreria ‘Natale nella vecchia Virginia’ di Thomas Nelson Page, tradotto da Livio Crescenzi e Ursula Miotto. Thomas Nelson Page – autore finora inedito in Italia – era convinto che i vittoriosi Nordisti avessero dato una rappresentazione distorta della storia e della gente del Sud, e con la sua opera mira a restituire dignità e verosimiglianza storica alla cultura del Vecchio Sud. Questa l’ispirazione per alcuni dei suoi racconti natalizi, in cui si parla dell’importanza dei propri luoghi d’origine. Atmosfere e scene della ‘Ole Virginia’ (la Vecchia Virginia), intrise di un’intensa nostalgia.

Cattedrale vi propone l’estratto del primo racconto del libro, per gentile concessione dell’editore.

Come il capitano celebrò il Natale
di Thomas Nelson Page

Mancavano solo pochi giorni a Natale e, com’era naturale, intorno al grande caminetto del circolo gli uomini avevano iniziato a parlarne. Erano tutti uomini nel fiore degli anni, e tutti, o quasi, provenivano da altre parti del paese: uomini giunti nella grande città per farsi strada nella vita e che, tutto sommato, in un modo o nell’altro ce l’avevano fatta, riuscendo in diversi campi in modo così brillante da poter essere definiti uomini di successo. Tuttavia, man mano che procedeva, la conversazione aveva assunto un tono rievocativo. Quando era iniziata, avevano partecipato solo in tre, due dei quali, McPheeters e Lesponts, stavano seduti in poltrona, con i piedi protesi verso il caminetto, mentre il terzo, Newton, dava le spalle al grande focolare, con le falde della redingote ben aperte. Gli altri uomini erano sparpagliati per la sala, un paio intenti a scrivere ai tavoli, tre o quattro che leggevano i giornali della sera, e i restanti che chiacchieravano sorseggiando whisky e acqua; tra questi, alcuni chiacchieravano e basta, mentre altri si limitavano a sorseggiare i loro whisky e acqua. Tuttavia, man mano che la conversazione procedeva attorno al camino, uno dopo l’altro gli uomini si unirono al gruppo, finché la cerchia non incluse tutti i presenti nella sala.
Era stato Lesponts a iniziare. Dopo aver fissato per qualche istante Newton in piedi davanti al fuoco con le gambe ben divaricate e gli occhi fissi sul tappeto, aveva rotto il silenzio chiedendo all’improvviso:
“Vai a casa?”
“Non lo so” rispose Newton, con aria dubbiosa, richiamato da qualche parte nel mondo dei sogni, ma così lentamente che parte dei suoi pensieri era rimasta ancora lì.
“Non ho ancora deciso… non sono sicuro di poter andare fino in Virginia, e ho un invito in un luogo delizioso, un ricevimento in una casa qui vicino.”
“Newton, chiunque capirebbe che sei della Virginia” disse McPheeters, “dal modo in cui stai davanti a quel camino.” Newton disse:
“Già.”
E poi, mentre svaniva il mezzo sorriso suscitato da quella battuta, aggiunse, lentamente:
“Stavo solo pensando a quanto mi sentivo bene, ed ero tornato a casa e mi trovavo nel vecchio salotto, la prima volta che notai mio padre fermo in quella posizione; ricordo di essermi alzato e di essermi messo in piedi accanto a lui, un ragazzino nemmeno alto così, cercando di mettermi proprio come faceva lui, e sentivo il calore del fuoco, e anche adesso lo sento, proprio come quella sera.
È stato… trentatré anni fa” disse Newton, lentamente, come se stesse calcolando gli anni a memoria. “Newton, tuo padre è vivo?” chiese Lesponts.
“No, ma mia madre sì, e vive ancora nella vecchia casa di campagna.”
Da qui il discorso era proseguito, e quasi tutti avevano partecipato, anche i più reticenti, coinvolti dalla cordialità generale suscitata dall’argomento. La grande città, con tutti i suoi molteplici interessi, fu dimenticata, e gli uomini di successo tornarono alla loro infanzia e ai primi anni di vita in piccoli villaggi o in vecchie piantagioni, e raccontarono episodi del tempo in cui il mondo al di là del loro orizzonte gli era sconosciuto, e ogni cosa aveva quelle grandi e strane proporzioni create dalla mente durante l’infanzia. Vennero ricordati i vecchi tempi e furono raccontate senza sosta le esperienze natalizie di una volta, e quel periodo fu considerato, senza alcuna voce di dissenso, come assai migliore del Natale per com’era ormai diventato. Dopo un poco, uno di loro disse:
“Qualcuno di voi ha mai trascorso un Natale in treno? Se non l’avete fatto, ringraziate il Cielo e pregate d’esserne risparmiati d’ora in poi, perché a me è capitato, e vi assicuro che è quasi come stare in purgatorio. Una volta ne ho passato uno bloccato in un cumulo di neve, o quasi bloccato, perché eravamo in ritardo di dieci ore e perdemmo tutte le coincidenze, e il Natale che m’aspettavo di trascorrere con gli amici, lo passai in una carrozza lercia con un burbero capotreno, uno sfacciato facchino mulatto e un sacco di idioti, che avrebbero potuto uccidersi a vicenda, per non parlare poi di un neonato che piangeva, ammazzare il quale forse sarebbe stata l’unica cosa a cui tutti avrebbero partecipato volentieri.”
L’asprezza di queste parole dimostrava che l’argomento era quasi esaurito, e un tale, entrato giusto in tempo per udire colui che aveva parlato per ultimo, aveva appena azzardato l’osservazione – imitando debolmente l’accento inglese – che i sottufficiali in questo paese erano una massa di gente burbera e maleducata in ogni caso, e sempre scortese quanto ardiva essere, quando Lesponts, che aveva guardato pigramente chi aveva parlato, disse:
“Sì, a me è capitato di trascorrere un Natale in un vagone letto e, strano a dirsi, ne conservo un bellissimo ricordo.”
Cosa alquanto sorprendente, tanto da incuriosire tutti, ma il ricordo di quell’episodio era evidentemente così forte da far superare a Lesponts ogni ostacolo, per cui proseguì.
“Qualcuno di voi ha mai preso il treno notturno che va da qui a Sud attraverso le valli di Cumberland e Shenandoah, o si è mai recato a Washington per prendere quel treno?”
A quanto pare a nessuno era capitato, per cui continuò: “Beh, fatelo, e potete farlo persino a Natale, se trovate il capotreno giusto. Vale la pena farlo alla prima occasione che vi capita, perché quello che si attraversa è quasi il territorio più bello del mondo; non ho mai visto niente di più incantevole delle valli del Cumberland e dello Shenandoah, e la New River Valley è altrettanto magnifica – lo sfondo blu oltre quelle dolci colline, e tutto il resto – hai presente, McPheeters?”
McPheeters annuì e Lesponts continuò…

Vita, di Anna Voltaggio

Neri Pozza porta in libreria La nostalgia che avremo di noi di Anna Voltaggio. Una commedia umana, un libro di racconti polifonico, un sasso che, lanciato in acqua, espande in cerchi concentrici la sostanza misteriosa del desiderio.

Cattedrale pubblica uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

VITA
di Anna Voltaggio

Sente ridere forte, Vita, mentre costeggia la stazione trascinandosi dietro il trolley. È un pomeriggio buio, le luci rosse degli stop si parlano con quelle piccole e colorate appese alla meno peggio sui balconi delle palazzine, sotto il portico ci sono i barboni, uno accanto all’altro e mal riparati, buttati a terra in modo scomposto su pezzi di cartone e coperte marcite. Vita cammina sul marciapiede cercando di tenersi a distanza da loro e non vorrebbe guardarli. Tiene lo sguardo dritto davanti a sé come se fosse tutto normale: le luci che oscillano, la puzza, le persone sfinite a terra.
Va avanti e il trolley la segue con il suo rumore, continua a ignorarli ma non le riesce del tutto e allora li spia, con la coda dell’occhio li passa in rassegna, qualcuno si rigira nei pensieri acidi, una donna ha un braccio monco, dal gomito in giú non c’è piú niente, indossa un abito lungo e logoro ma sotto il grigio scuro della polvere addensata e dell’asfalto si vedono i fiori piccoli e rossi. Sono corpi in disordine, esistenze storte con la pelle del viso indurita, sembra corteccia quella pelle, fanno paura, pensa Vita, le persone che non hanno niente da difendere.
L’odore che attraversa è nauseante perché trabocca di verità e la fa sentire a disagio, Vita lo sa bene e vorrebbe sempre evitarla, la verità. La linea dei taxi bianchi intanto scintilla e aspetta quelli che arrivano a festeggiare. Il Natale, pensa infine, mette troppa pressione.
Vita è in orario e comunque, come ogni giorno, cammina veloce. Cammina come chi ha qualcosa di urgente da fare, come chi ha accumulato ritardo su una tabella di marcia, come chi ha un problema da gestire.
Non ce ne sarebbe ragione ma Vita sente di avere poco tempo e cammina veloce. Ha rimandato molte volte questo viaggio verso Trieste, non le piace viaggiare ed è brava a trovare scuse che sembrano ragioni. Certe volte le pare di conoscere il futuro e tenta di ingannarlo, ha cambiato il biglietto, ha posticipato due volte la data e tre volte l’orario come se, ad avere piú tempo, un evento imprevisto potesse riservare una sorpresa e il futuro diventare un nuovo futuro di cui Vita non conosce niente.
Il trolley ha una ruota storta che sfrigola e trita le pietruzze che incontra sul tragitto. Vita non vorrebbe neanche averlo un trolley.
Non le piace partire, a dicembre poi, in mezzo alle famiglie che si vogliono riunire per festeggiare in quella forma di nevrosi che investe tutto: gli oggetti, le strade, l’aria stessa. Studenti fuorisede con il cibo accatastato dentro le buste plastificate, gli anziani confusi, i bambini stanchi, i militari ancora in divisa. Sono tutti piú aggressivi a Natale.
Sarebbe rimasta volentieri a Roma tra le sue cose da risolvere, questioni private, faccende emotive. Cammina e l’aria umida le appiccica la mano alla valigia. I ragazzi sulla panchina hanno le giacche tirate fino al mento, fumano e non si parlano, gli passa davanti pensando che probabilmente si tratta di spacciatori a cui chiederebbe roba da fumare, da sniffare, roba qualsiasi con il potere di farla sentire piú a suo agio nel mondo. Se li lascia alle spalle e fissa il lampione in lontananza, con la lampadina che si accende a intermittenza come il flash di una macchina fotografica che punta su di lei.
Pochi minuti fa ha parlato al telefono con Sarah.
Alla fine della telefonata si è sentita stanca e irrisolta.
Si erano ripetute le stesse cose, con lo stesso tono grave delle ultime volte, con le lunghe pause e i respiri pesanti delle ultime volte, con i giri di parole che iniziavano comprensivi e finivano accusatori. Queste discussioni sono diventate castelli di carte, pensa Vita.
«Non parliamo piú di fatti, Sarah. I nostri problemi non hanno piú una consistenza reale, continuiamo ad architettare teorie. Il problema siamo noi».
«Abbiamo tutto, come fai a non vedere che abbiamo tutto?»
Vita è rimasta zitta. Sarah le ha chiuso il telefono in faccia.
La sua carrozza è lontana, l’ultima.
Quando la raggiunge appoggia il trolley sul primo gradino e si ferma un momento per alzarsi i capelli e liberare il collo. Il freddo dell’inverno soffia sulla nuca e per un momento Vita sente sollievo.
«Vuoi aiuto?» chiede una voce alle sue spalle.
Vita si lascia ripiombare i capelli addosso, solleva la valigia e sale.
«Non c’è bisogno, grazie».
Un neon smisurato illumina il treno. Vita fissa i numeri e avanza, come tutti ha fretta di prendere posizione, capita in un posto a quattro con il tavolino in mezzo. Due ragazze sono già comode e stanno facendo la Settimana Enigmistica.
In questo periodo Sarah conduce un laboratorio teatrale. Legge testi di Sarah Kane e Mark Ravenhill, non fa che pianificare performance.
L’anno scorso si era intestardita a produrre un video in cui si mostrava completamente nuda con un asterisco disegnato sul sesso e leggeva con una voce impostata male, fintamente naturale, un testo di Rebecca West. Poi l’ha messo su YouTube e aspetta ancora che diventi virale.
Vita pensa ai capelli neri che le scendono sulle spalle incurvandosi, alle volte che le ha spostato una ciocca dietro l’orecchio per liberarle il viso e vederla meglio, ai momenti in cui ha sentito di amarla e che voleva eterni. Pensa che Sarah abbia ragione a insistere con le sue domande e che lei abbia torto a non risponderle per la naturale angoscia che l’afferra all’idea di perdere chiunque.
Pensa di non sapere andare oltre l’inizio di una relazione.
Pensa, Vita, di finire con l’essere un buco nero che ingoia tutto e sparisce in sé stesso.
Le viene in mente che quando era poco piú che una bambina, camminando a fianco di suo padre verso la scuola di danza, pensava che non sarebbe piú tornato a prenderla. Che avrebbero raggiunto l’ingresso, lui l’avrebbe salutata con un bacio sulla guancia, raccomandandole di chiudere l’armadietto a chiave. E non sarebbe tornato mai piú.
Poi pensa che suo padre si sarà dimenticato che sta per arrivare, e anche che è Natale.
Il treno intanto è partito come una possibilità dall’esito incerto. La sicurezza di farcela è solo un calcolo di probabilità, pensa Vita, una questione statistica, tra il punto di partenza e quello di arrivo ogni cosa è precaria, la perfetta linearità dei binari non conta niente quando un treno ci corre sopra a trecento chilometri all’ora.
Guarda le ragazze assorte sulla Settimana Enigmistica, una cosa difficilissima da fare in due. Origlia i discorsi e si fa l’idea che siano intelligenti, ma anche cretine, che in fondo è come siamo tutti, pensa, e allora fissa lo sguardo sulle lettere che si incrociano, sulle parole spezzettate. Legge i suoni appesi nelle caselle che cercano un significato nell’incastro perfetto.
Concepisce la sua esistenza come un cruciverba in cui un errore di stampa rende impossibile il completamento.
Dal finestrino non vede l’esterno perché è buio, solo il riflesso del neon e il riflesso di sé stessa, ma fatica a riconoscersi. I capelli lisci le appaiono piú lunghi e scendono oltre le spalle, Vita li sposta da un lato, guarda il collo scoperto che nel riflesso è eccessivamente stretto, segue con gli occhi una vena che pulsa non di sangue ma di angoscia e che arriva all’attaccatura dell’orecchio, con la mano destra si stringe il collo per farla smettere. Suo padre un giorno aveva aperto la porta della sua stanza e l’aveva trovata a sfogliare un giornaletto per adolescenti che si chiamava Cioè.
L’aveva guardata con disprezzo.
«In questo modo diventerai una donna che preferirei non conoscere in futuro» aveva detto.
E adesso che il futuro era arrivato, Vita si chiedeva se era andata cosí.
Scrive sul taccuino: treno per Trieste, h. 19.00, ultimo viaggio verso casa di mio padre. Sono incapace di scegliere come vivere (figuriamoci con chi), quindi chi essere, e il tempo stringe, ho dunque paura di morire, senza, in definitiva, essere stata nessuno.
Al distributore automatico ci arriva barcollando come un’attrice ubriaca, guarda avanti e si tiene l’orlo del vestito per non farlo salire.
C’è un uomo che sta aspettando il caffè. Vita fissa il suo profilo contratto che lo fa sembrare impensierito, le rughe intorno agli occhi sono disegnate come in un ritratto a carboncino. Una manica del maglione scuro è appena sollevata e scopre un tatuaggio sul polso dove c’è scritto My heart is full.
È davanti al distributore e si gira un attimo verso di lei, uno sguardo che a Vita sembra distratto, non si sposta per lasciarle spazio.
«Caffè?» le chiede.
«Amaro». Vita risponde porgendogli una moneta che lui non prende.
Bevono il caffè insieme.
«Non volevo infastidirti prima».
Lo guarda senza capire.
«Quando ho cercato di prendere la tua valigia».
«Sei stato gentile».
«Arrivi fino a Trieste?»
«Sí. Mio padre sta morendo» dice e, mentre lo dice, le sembra assurdo.
«Mi dispiace». Vita si limita a un’espressione di circostanza ma vorrebbe scusarsi di questa intimità a cui lo ha costretto. «E tu?»
«Mi fermo a Venezia, dove abito da qualche anno».
«Mi sono sempre chiesta come si vive a Venezia».
«Si vive nell’acqua».
Il cellulare vibra, sono messaggi di Sarah.
Ho provato a chiamarti ma non prende. Sei arrivata?
No.
Mi chiami appena puoi? Devo dirti una cosa importante.
Appena posso.
No, chiamami adesso. Devo dirtela adesso.
Scrivila.
Non ti perdonerò mai.

L’uomo aspetta. Vita sente i suoi occhi e controlla il corpo, inclina la testa verso la spalla e porta i capelli da un lato mentre digita sul cellulare.
Sta osservando la linea dell’ovale, il collo in tensione e i movimenti delle dita.
Quando il treno fischia violentemente sembra all’improvviso che i binari non siano piú dritti, dondola quasi. Non è normale, pensa Vita e mentre lo pensa perde l’equilibrio, sente i tonfi delle valigie che cadono, anche Vita cade, il caffè finisce per terra e le macchia le scarpe, lui è instabile ma le afferra un braccio per sorreggerla prima che sbatta contro la parete. Punta i piedi e sostiene entrambi.
Il fischio è ancora fortissimo, spaventoso, fa pensare a un’esplosione imminente. Qualcuno, dalle carrozze, grida. Un gatto con la coda gonfia passa da una carrozza a un’altra in una corsa isterica e piomba sul distributore che lampeggia.
Vita è diventata pallida, ancorata a lui con entrambe le mani vorrebbe chiamarlo per nome ma non lo sa, gli stringe il maglione all’altezza dei fianchi, mentre cade con le ginocchia per terra, come se lo stesse implorando.
Il treno, lentamente, si ferma. Un annuncio informa che due estranei in corsa hanno attraversato i binari, il conducente ha attivato il freno d’emergenza, tranquillizza i passeggeri, comunica che sarà effettuato un controllo per accertare la buona salute di tutti e che il treno riprenderà al piú presto la corsa verso Trieste. «Stai bene?»
«Sí» risponde incerta sentendo di colpo, per la prima volta, il pesante senso dell’incertezza della vita. «Dovremmo bere qualcosa di piú forte adesso» sorride, mentre allenta la presa.
Vita sente un disordine attraversarle il corpo.
«Dovresti scendere a Trieste allora» dice, riprendendo faticosamente il controllo di sé, mentre una nausea dolciastra le sale dallo stomaco alla bocca.
«Mi piacerebbe poterlo fare».

Attraversa la stazione, passa sotto gli enormi archi per uscire dall’ingresso principale, in piazza della Libertà. C’è freddo e silenzio, potrebbe prendere un taxi e rintanarsi un attimo. Resta qualche momento ferma in quest’indecisione e accende la sigaretta.
Vuole arrivare a piedi, pensa Vita che camminare sia la scelta giusta. Camminare e pensare sono in un rapporto costante di reciproca intimità. È una frase che crede di ricordare nel momento in cui la sta pensando. Una frase che la riguarda.
Riva Tre Novembre è lunga e cosí ampia e il mare sullo sfondo è cosí scuro che se Vita si guardasse da una finestra dei palazzi allineati si vedrebbe molto piccola camminare sull’orlo del precipizio.
Il Caffè degli Specchi è chiuso. Quella notte non avrebbero bevuto qualcosa insieme, pensa, e non lo avrebbero fatto mai.
Quando Vita apre la porta di casa tutte le luci sono spente, tranne quella della cucina.
«Iniziavo a pensare che non saresti venuta» dice suo padre quando la vede entrare.
«Ho fatto tardi perché mi sono persa, scusa».

Vita guarda il mare fuori dalla finestra mentre tiene in mano la mela che era sul tavolo, suo padre le si mette vicino, ha un sorriso semplice e malinconico che Vita vorrebbe riuscire a trattenere.
«La marea sta salendo di nuovo, papà».

Gioco di bambole, di Kianny N. Antigua

Il racconto che vi proponiamo, per gentile concessione dell’editore, è contenuto in due raccolte pubblicate da Arcoiris edizioni: Club Silencio e Bestiole.
"Club Silencio" è il secondo volume della collana tReMa e ha come elemento conduttore (liberamente declinato da ogni autore) il film  Mulholland Drive di David Lynch e il tema del deragliamento identitario, del doppio, della deformazione della narrazione.
I protagonisti di Bestiole sono individui intensamente umani, animali complessi con più volti, capaci di assistere e godere del dolore altrui e in cui la malvagità prevale e sembra vincere la partita.

Di seguito potete leggere il racconto di Kianny N. Antigua, autrice caraibica vincitrice di svariati premi e autrice di numerose raccolte, romanzi, libri per bambini, poesie.

Gioco di bambole
di Kianny N. Antigua.

Traduzione di Barbara Stizzoli

Quando ero bambina adoravo giocare con le bambole: fare i loro vestiti, pettinarle e immaginare per loro mondi meravigliosi.
Rubavo i collant di mia nonna e facevo vestiti attillati per le mie barbie, ah, perché mi piaceva giocare solo con le barbie; le altre bambole non erano belle come le barbie e non erano magre come le barbie e non erano bianche come le barbie né avevano i capelli belli come quelli delle barbie. Le barbie erano bellissime e io adoravo giocare con loro.
Quando mamma scappò a Porto Rico, l’unica cosa che le chiesi fu di portarmi tante barbie nuove quando sarebbe ritornata perché, nonostante avessi cura delle due che già avevo, stavano diventando brutte; una aveva i capelli molto corti perché un giorno si erano impigliati e avevo dovuto tagliarglieli per togliere il nodo e adesso i capelli le si drizzavano. All’altra, Ivé aveva morsicato le mani, anche se ancora oggi dice di non essere stata lei, io so che è stata lei, per questo bruciai la camicia della sua uniforme scolastica e dopo, siccome le presi per colpa sua, affogai il gattino che le aveva regalato la sua madrina.
Ecco, l’unica cosa che volevo era che mamma mi portasse un sacco di barbie da New York e mi assicuravo di ricordarglielo ogni volta che telefonava; fin quando smise di telefonare e basta. La cosa buona fu che un giorno venne mia zia, la madre di Ivé, da Curaçao, a farci visita.
Oltre a essere arrivata, bellissima, con i capelli stirati, ci ha portato i vestiti e una barbie per una. L’unica cosa è che la stramaledetta ha portato una barbie bianca e una nera e ha dato la bianca a Ivé.
—Ma Ivé è più negra di me.
—Si, ma è più piccola. E comunque, tutte e due le bambole sono belle e hanno anche gli stessi vestiti.
Ed era vero, le bambole erano identiche, come se fossero state gemelle, ma a una l’avevano lasciata bruciare nel forno. Avevano addirittura lo stesso vestito lungo e rosato. Ma a me non importava, la mia era nera e la iettatrice di Ivé me l’avrebbe pagata. E glielo dissi, «continua così, tanto tua madre se ne va di nuovo». E lei che fece, niente, continuò a giocare con la sua bambola bianca, mettendola a sedere sotto il cespuglio di dalia, facendola camminare in aria in modo da non farle sporcare il vestito, facendole il bagno nuda nel serbatoio dell’acqua, provocando in me invidia solo perché sua madre era lì, a fare il bagno con lei, pettinandola con gocce profumate (non quella merda che puzzava di cocco che mi metteva mamma sulla testa e che non scioglieva niente, mi lasciava soltanto la testa oleosa e che colava). Ci portava anche a mangiare pizza e gelato. Io andavo perché in quei giorni nonna non cucinava, ma me le stavo segnando tutte le cose che faceva Ivé, una per una.
E come tutti sapevamo, due settimane dopo, sua madre andò via di nuovo e la lasciò sola come il gatto. Alla barbie nera la decapitai e, alla fine, furono tre.

 

Pane senza sale, di Fatemeh Piravi Vanak

Polidoro edizioni porta in libreria Iran under 30, un’antologia di giovani scrittrici e scrittori iraniani, un inaspettato e vivido spaccato dell’Iran raccontato dalle nuove generazioni a cura di Giacomo Longhi e con la prefazione di Ginevra Lamberti. Traduzioni dal persiano di Melissa Fedi e Federica Ponzo.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nell’antologia, per gentile concessione dell’editore.


Pane senza sale
di Fatemeh Piravi Vanak

Immergo la mano nella fontana, mi sciacquo la faccia e mi passo la mano sulla testa rasata. Mi guardo nello specchio rotto appeso all’albero lì vicino: sembro un kiwi. C’è un sacchetto di plastica pieno di pane secco appeso a un altro ramo dell’albero. Non ci arrivo. Saltello su e giù. Un dito si aggancia al sacchetto che si spacca, il pane si rovescia sulle mattonelle del cortile. Le urla della mamma mi fanno sobbalzare, vedo che brandisce una ciabatta di plastica e me la do a gambe levate verso la porta di casa. Mi guardo indietro, chiudo la porta, sento la ciabatta che si schianta. Quando si accorge di me, la mamma di Mansur stringe gli occhi tondi e mi chiede: «Tuo papà non è tornato?». 
Mansur di per sé è un buon amico, è sua mamma che è un’impicciona. Io e lui giochiamo sempre nella creta. La mamma di Maryam dice che non sono più di vent’anni che questo posto lo chiamano così. Un anno sono arrivati qui, hanno rivoltato il terreno ma la creta l’hanno trovata solo su questo pezzo. La creta è proprietà della mamma di Maryam. Molte delle case in fango e mattoni di qui sono state costruite proprio con questo tipo di argilla e, a forza di continuare, dove c’è l’argilla si è formata una buca. Dio ha messo in piedi un buon affare per la mamma di Maryam.
Noi ragazzi ci riuniamo a giocare nella creta da tutto il paese. La casa di Mansur è due isolati più giù rispetto alla nostra. Così come io mi sposto due isolati più giù per andare a trovare Mansur, sua madre si sposta due isolati più su per fare le sue strane domande, e mica è contenta di come vanno le cose dove abita lei. Comunque la mattina la passa da noi mentre il pomeriggio se ne sta con le sue vicine. Da casa nostra a casa di Mansur è pieno di gelsi che d’estate fanno diventare tutto appiccicoso per terra. Prendo a calci un sassolino fino alla casa di Mansur, poi lo prendo e lo picchietto contro il cancello del cortile. È da quando sono nato che il campanello è rotto, forse anche da prima.
Arriva Mansur. Gli è venuta la faccia come la mia: siamo tutti costretti a tagliarci i capelli con la macchinetta di agha Jasem. Agha Jasem è il preside della scuola. È stato un ragazzo del paese anche lui. A scuola se la prende con i capelloni. Aspetto che vada in bagno a prendere la palla. Il cortile di Mansur è grande come quello di casa nostra, ma c’è più spazio, perché sua mamma compra il pane dalla mia.
Da noi c’è un forno a gas che occupa metà cortile. Dall’altro lato del cortile ci buttano gli attrezzi della macchina di papà. Il papà e la mamma litigano sempre per colpa del forno e delle cianfrusaglie che lui lascia in giro. Alla mamma piace cuocere il pane, mentre papà lo detesta: odia i vestiti della mamma sporchi di impasto, odia il caos in cortile, il viavai delle vicine che vengono a comprare. Ma la mamma non lo sta a sentire.
Quando arriva Mansur, do un colpo alla palla che tiene sottobraccio e ridacchio. Ce la passiamo fino alla creta. Quando arriviamo, ci sono già tutti. Costruiamo la porta con i mattoni e facciamo le squadre. Maryam la Cicciona capita con noi, allora propongo di metterla in porta: è grassa, quindi la palla non passa. Io, Mansur e altri due ci mettiamo in difesa e in attacco. Solo il portiere ha un compito preciso, noialtri corriamo dietro alla palla finché qualcuno non riesce a segnare. Anche per la squadra avversaria è lo stesso. C’è una ragazza vicino al cumulo di terra, non sappiamo come si chiama, non parliamo con lei, dicono tutti che è strana. Da qualche mese vive con la mamma nella casa sulla strada per il cimitero che nessuno vuole comprare, e nessuno va a trovarle. La mamma dice che non hanno un papà, ma la mamma di Mansur dice di aver visto un uomo dall’aria circospetta che passa spesso di lì.  
Ogni giorno la ragazza si presenta alla creta con un panino, e la sua bambola ci guarda. Ha i capelli più lunghi che abbia mai visto ed è sempre pulita e ordinata, al contrario di noi.
Mansur non riesce a deviare la palla che finisce dritta in faccia a Maryam la Cicciona. Diventa paonazza e scoppia a piangere: il nostro portiere se ne va via tutto arrabbiato. Non sappiamo che fare. Io sono dell’idea di far giocare la ragazza con il panino. Gli altri non sono d’accordo, ma io voglio continuare la partita. Mi faccio avanti. Mi fissa con i suoi occhioni color miele. Dico: «Hai visto cos’è successo. Vieni a giocare al posto di Maryam, rimango io in porta e giochi tu».  
Sorride, appoggia il panino e la bambola accanto al cumulo di terra e si unisce alla partita. Mansur le chiede ad alta voce: «Come ti chiami?».
La ragazza risponde piano: «Khorshid».
Ed è un sole veramente, proprio come dice il nome. I suoi occhi, perfino i capelli, sono uguali ai soli che mi disegnava papà. Sto in porta, mentre lei corre dietro alla palla insieme a Mansur e agli altri. Non subiamo gol, ma nemmeno li facciamo. Tutti stanchi di giocare, ci buttiamo in un angolo. Il sole è alto nel cielo e i suoi raggi mi arrivano dritti in faccia. Chiudo gli occhi, mi sento come all’ombra. Li apro. Khorshid spezza a metà il suo panino e me lo offre. Lo accetto e do un morso, ha il sapore del pane della mamma.
Quando Mansur dice che è ora di andare, ci diamo una scrollata e ci incamminiamo. La palla è di Mansur ed è lui che decide quando si gioca e quando si va via. Saluto Khorshid. Mansur mi lancia la palla, la porto sottobraccio fino a casa sua e intanto parlo di Khorshid. Lui dice: «Se non c’era lei almeno un gol lo facevi».
Mansur va a casa e io raggiungo il nostro isolato facendo il sentiero appiccicoso. Fa un caldo rovente, il sudore mi cola sulla fronte e lungo la schiena. Il cancello è aperto. Quando entro vedo la mamma, è seduta in cortile e si tiene la testa tra le mani. Ci sono anche la mamma di Mansur e le altre donne. Le guardo sorpreso e mi siedo vicino alla fontana. La mamma di Mansur dice alla mamma: «Non avere paura, Dio è grande».
La mamma ha cambiato il sacchetto di plastica del pane secco, come se non fosse caduto tutto per terra la mattina. Di nuovo non ci arrivo. Salto su e giù per prendere un pezzo di pane, quando di colpo mi sento la schiena che brucia. La mamma mi sta prendendo a ciabattate così forte che a momenti mi sfonda. La mattina l’avevo scampata, ma adesso mi becco tutte le sue grida: «Tuo papà è andato a portare il carico a Bam, dove c’è stato il terremoto, e nessuno ha sue notizie. Che ti possano ammazzare!».
La mamma di Said le si è seduta vicino: «È un bambino, ha solo fame. Che ti ha fatto? Secondo me devi fare un voto, vedrai che Dio ti aiuta».
La casa della mamma di Said sta di fianco alla moschea e tutti quelli che vogliono fare un fioretto vanno da lei, la vicina del Signore. La mamma le chiede: «Ma che voto posso fare?».
La mamma di Jasem le dice: «Io una volta ho fatto un’offerta a quarantadue vergini e il Cielo mi ha ascoltato. Tu sai preparare il pane. Devi andare a prendere un bicchiere di farina dalle quarantadue vergini una per una, poi ci fai il pane e adempi il voto».
Io finora la mamma di Jasem a fare un voto non l’ho mai vista, secondo me puntava ad avere il pane gratis. La mamma piange e a me si stringe lo stomaco. Neanche fossero le sue ultime volontà, porta un bicchiere, carta e penna. È la penna dorata che papà appoggiava sempre accanto al quaderno nero sul tavolino della televisione, vicino al mazzo di chiavi. Amo il portachiavi di papà: luccica, è un cerchio dorato e splendente. Fantastico sempre sul giorno in cui si romperà e allora prima che lo butti diventerà mio. Toccare le cose di papà equivale a prenderle di santa ragione. Quando papà deve andare via, solo la sua penna resta a casa. Alla fine la danno alla figlia della vicina per farle scrivere i nomi. Davanti a ogni nome mette un pallino. Mi danno un bicchiere e mi dicono di andare a casa del primo nome della lista a dire che si tratta di un voto di quarantadue vergini e prendere un bicchiere di farina. La più felice dell’iniziativa è la mamma di Jasem.
Busso, arriva la vicina e apre la porta. Le dico: «È un voto: quarantadue persone devono darci della farina».
 «Che voto?».  
«A Bam c’è stato un terremoto e mio papà si trova lì. È un voto per salvarlo».
Papà è in viaggio tutti i santi giorni. Ne torna a casa giusto due o tre, pianta un casino perché la mamma fa il pane e io in mezzo a tutto ciò mi prendo pure un paio calci, dopodiché se ne va via di nuovo. La donna mi prende il bicchiere dalle mani, ci versa la farina e me lo riporta. Protesto: «Mica è pieno!».
«Tu portalo, non ti preoccupare».
I bicchieri di farina si riempiono e si svuotano e i pallini accanto ai nomi delle vicine vengono spuntati uno dopo l’altro. È l’imbrunire. La mamma di Jasem ha detto che dobbiamo prendere tutti i quarantadue bicchieri di farina entro la sera, così con il richiamo alla preghiera del mattino la mamma prepara l’impasto e domani come prima cosa si mette a fare il pane. La mamma piange: non c’è una vicina da cui non abbiamo preso la farina, eppure manca un bicchiere. Non ho mai visto la mamma piangere per papà, col fatto che non faceva altro che ripetere che sperava che in casa non ci rimettesse più piede pensavo che se lui non fosse tornato davvero sarebbe stata felice. Le vicine se ne sono andate tranne la mamma di Maryam e la mamma di Jasem, rimugino un po’ e alla fine chiedo: «Perché non abbiamo preso la farina dalla mamma di Mansur?».
La mamma perde la pazienza e si toglie una ciabatta, la mamma di Jasem le afferra la mano e rivolta a me dice: «Dobbiamo prenderla solo da chi ha figlie femmine, in paese non c’è più nessuno che ne abbia». «Beh, ho un’amica che gioca con noi nella creta, potremmo prenderla da lei».
La mamma si è avvicina e mi chiede: «Chi?».
Le racconto di Khorshid che gioca con noi nella creta, con la mamma di Jasem si guardano ed esclamano che proprio se l’erano dimenticata. Ecco che di nuovo mi danno un bicchiere da riempire di farina. Si è fatto buio e la casa di Khorshid si trova vicino al cimitero. È un vecchio camposanto, nessuno ha i parenti sepolti laggiù. Quello nuovo si trovava alle porte del paese. Non c’è mai un’anima viva da quelle parti. La mamma di Maryam, che è quella con più anni di tutte, dice che quando era bambina suo papà si era appropriato a poco prezzo di un terreno dalle parti del vecchio cimitero e ci aveva costruito una casa, e quando ci sono andati ad abitare, sua mamma è morta di parto e dopo tre mesi gli spiriti si sono presi pure il bambino che aveva messo al mondo. Ma mia mamma dice che ha infarcito il racconto con una miriade bugie e che la mamma della mamma di Maryam e il suo bambino sono morti di malattia. Però mia mamma non è coetanea della mamma di Maryam. Dice che dopo tutto quello che era successo, suo papà ha lasciato la casa, dove adesso ci abitano Khorshid e sua mamma senza spendere un soldo.
Le storie terribili che la mamma di Maryam mi racconta sulle strade e le case dei dintorni prendono vita nella mia immaginazione e fanno diventare tutto spaventoso. La mamma di Maryam vive qui da quando ancora il paese non esisteva, e tutte le storie di paura le racconta lei. Suo papà pure era pazzo, e per non pagare si è costruito la casa al cimitero, così adesso mi tocca andare là a fare visita a Khorshid. Le luci della casa sono accese, si è fatto buio e il loro bagliore è l’unica cosa che mi indica la via di casa sua. Per terra ci sono un sacco di grossi sassi su cui ogni tanto inciampo. Maledico la mamma di Jasem. Mica poteva dirmi che tutti i bicchieri di farina andavano riempiti entro stasera? E perché quarantuno non andavano bene mentre quarantadue sì? Raggiungo la casa arrugginita. Si capisce che l’ha costruita il papà della mamma di Maryam: non è altro che un pezzo di lamiera spoglio e scolorito. Busso alla porta. Qualcuno grida: «Chi è?».
«Sono io, il figlio di Mehri la panettiera».
Ci vuole un po’ prima che vengano ad aprire. La porta resta socchiusa, è la mamma di Khorshid. Mi viene da pensare che si chiami Khorshid anche lei, hanno gli stessi occhi e la stessa capigliatura. Ha la fronte sudata e si morde le labbra. Khorshid fa capolino dalla fessura della porta e mi sorride. Nella scarpiera noto un paio di scarpe da uomo. Dalla porta socchiusa si intravede la tavola, c’è profumo di cotolette. La mamma di Khorshid mi chiede cosa voglio. Le spiego che voglio della farina perché la mamma ha fatto un voto e le ripeto tutto quello che aveva detto la mamma di Jasem. Con un sospiro di sollievo prende il bicchiere e sorride: «Aspetta».
Khorshid la segue. Sulla tavola ci sono tre piatti, uno è più pieno degli altri. Anche da noi ogni volta che la mamma prepara le cotolette, la porzione più grande spetta al papà. Le cotolette vanno a nozze con il pane della mamma e le verdure del cortile. Sotto alla finestra vicino alla tavola c’è un tavolino di legno con sopra un quaderno nero dietro al quale c’è qualcosa che brilla. Sbircio meglio, è un portachiavi dorato luccicante. La mamma di Khorshid appoggia il bicchiere sul tavolo, spezza il pane, ci mette sopra due cotolette, lo arrotola a mo’ di panino e me lo porge insieme al bicchiere di farina. Prendo il panino e il bicchiere. Esclama: «Buon appetito!».
Chiude la porta. Schiaccio il panino in tasca, mi assicuro il bicchiere sotto il braccio e, per quanto possibile, mi metto a correre. La farina nel bicchiere sballonzola tutta, e il vento un po’ se la porta via. Quando arrivo sulla soglia di casa il bicchiere è mezzo vuoto. La mamma me lo strappa bruscamente dalle mani e mi dà una tirata d’orecchi. Lancia un’occhiata alla chiazza di unto che il panino mi ha lasciato sulla tasca dei pantaloni e dice: «È per riempirti la pancia che ci è voluto così tanto?». Io la guardo. Molla la presa dall’orecchio. Vado a sedermi in un angolo. Aggiunge il bicchiere di farina al resto dell’impasto e con entrambe le mani ci dà dentro. Schiaccia la pasta con i pugni mentre il sudore le scorre dalla fronte e dagli occhi le lacrime. Guardo il ramo dell’albero, non c’è appeso niente. La mamma ha lasciato il sacchetto del pane secco sulla veranda. Butto il panino dall’altra parte del muro del cortile e infilo la mano unta nel sacchetto. Prendo un pezzetto e lo mordo. Scrocchia. Poi mi tiro su le maniche, mi lavo le mani e vado dalla mamma. Affondo le mani nell’impasto e l’aiuto a impastare. Mi guarda e sorride.

Bairro Alto, di Fabio Iuliano

Radici edizioni porta in libreria Oceans, di Fabio Iuliano: un racconto che sa di saudade e serendipity, di sale dei mari del Nord. Tre città e tre tempi, per illuminare con i riflettori lo spicchio di palco occupato da chi cerca di lasciarsi alle spalle le proprie cicatrici.

Cattedrale pubblica un estratto dell’incipit per gentile concessione dell’editore.

Bairro Alto
di Fabio Iuliano

Ci rivedremo in quel luogo dove le ruote del tempo si incrociano
Leiji Matsumoto

Lisbona, 7 gennaio 2019

“Do not feed the musicians”. Scritto in rosso, su un cartello bianco che finisce con una freccia orientata verso il percussionista. Dovrebbe chiamarsi César. Célia, l’altra metà del duo in acustico, ha messo il cappello a terra, tra l’ampli della Fender e l’asta del microfono. È rivolto verso l’alto, con piazzato dentro un biglietto: “Tip”.
“Do not feed the musicians” – non dare da mangiare ai musicisti – ma lascia pure un’offerta, se vuoi, non fiori, opere di bene, pensa Simone seduto davanti a una Sagres.
La birra scende molto meglio della musica: l’esecuzione di Redemption Song è stramba, più vicina alla versione ubriaca di Strummer che a quella di Marley. Simone avrebbe voglia di pescare le noccioline dai piattini sul bancone e giocare a fare centro col cappello delle mance.
L’interpretazione è tanto maldestra da farlo tornare con la mente alle jam sul palco dell’Uplands Tavern, ai tempi dei giovedì anonimi di Swansea, la città dove ha imparato davvero a suonare la chitarra.
Una borsa di studio da spendere per un corso universitario di specializzazione in Creative Music Technology. Un ingaggio garantito – sessanta sterline a serata per almeno un concerto a settimana – e un campus niente male, con bacheche su cui affiggere annunci di ripetizioni di pratica e solfeggio e alzare altri soldi per spese varie ed eventuali. Da un docente del Cymraeg Department si era fatto scrivere dei biglietti promozionali in gallese e guadagnava qualche ulteriore sterlina pubblicando articoli su testate musicali, cartacee e online.
Mesi a fare la spola tra le Uplands, il Taliesin Art Centre e la Main Library, per poter un giorno raccontare ai nipoti che il Galles valeva il prezzo del biglietto, al di là delle immancabili dosi di rugby, beer, sheep, hens e videoritratti di Catherine Zeta-Jones.
Aveva stretto una relazione con Christelle, una biondina còrsa della Ty Beck House, dottoranda in Economia. Si erano incontrati durante una festa di musica revival organizzata per degli studenti Erasmus che frequentavano l’ateneo. Era una di quelle serate nei pub che avevano raccolto l’eredità e le playlist dell’Hungry Bear, chiuso nel 2006, col dj che spaziava dai Bon Jovi a Boy George, da Livin’ on a Prayer a Karma Chameleon e poi in mezzo Edie Brickell con What I Am e le Spice Girls con Wannabe. A volte ti ritrovavi a ballare The Bad Touch dei Bloodhound Gang oppure le hit da donna-che-non-deve-chiederemai di Shania Twain. Quando il dj era particolarmente in forma, si arrivava a fine serata con Darude e la sua tempesta di sabbia.
C’era intesa fra Simone e Christelle. Si volevano bene, al punto da immaginarsi nella stessa casa, quando non nello stesso letto, almeno per i successivi vent’anni, mese più mese meno. Gli occhi chiari della ragazza, severi ma rassicuranti, lo cullavano in quella proiezione, regalandogli l’illusione di vivere nel migliore dei momenti possibili.
Fino a quella notte di giugno, quando arrivò lei a riempire tutto il vuoto che Simone neanche sapeva di avere dentro.
Dopo quella notte, il buio.
Sono già passati tre anni, ma è come se avesse albeggiato da non più di tre ore. Quella notte è rimasta impressa a fuoco nella sua anima, più bruciante delle manette che gli avevano stretto ai polsi a Parigi, vent’anni prima. Il riverbero di quegli strani mesi, che avevano fatto seguito agli attentati alle Twin Towers, avrebbe condizionato pensieri, reazioni e comportamenti di milioni di persone e aveva investito in pieno la psiche di un Simone poco più che ventenne.
Era stato fermato dalla Gendarmerie per aver gettato a terra una Harley Davidson parcheggiata davanti a una fermata della Metro, mentre cantava la Marsigliese a torso nudo. Così, senza alcun motivo apparente. Un muro di nebbia nella testa che si dissolveva in tre complesse di Carbolithium® da 300 milligrammi ciascuna o, in alternativa, in due compresse di Lithium Resilient™ a lento rilascio, ponendo un freno agli sbalzi di umore tipici del disturbo bipolare con il quale, dopo quel disastro, aveva giocoforza imparato a convivere, ça va sans dire.
“È acqua passata”, si è ripetuto negli anni, affidando quella storia di obiettivi, telecamere e trattamenti sanitari obbligatori all’Espace Maison Blanche alle pagine di un taccuino, che era passato nelle mani di un collega empatico e poi in quelle di un giovane editore tanto coraggioso da pubblicarla. Che strana sensazione veder scorrere la tua vita fra le dita di altri. È come specchiarsi nella parte concava di un cucchiaio in cui l’immagine appare capovolta sia in orizzontale sia in verticale.
L’episodio di Parigi è parte di un racconto da guardare ormai con occhi adulti. Un gioco fatto di regole prestabilite, senza molte possibilità di scelta.
“Acqua passata non macina più”, vorrebbe poter dire anche ora, davanti alla sua birra, ripensando a quella notte di tre anni fa che invece si sente ancora serpeggiare dentro indifeso come un bambino. Un gioco le cui regole sono da creare, da cui sarebbe bello poter tornare indietro. Ma non si può.
Ne è consapevole e si accontenta di passare da un pensiero al successivo con la stessa velocità con cui César e Célia switchano da Bob Marley alle note di Mr Jones dei Counting Crows.
Célia, portoghese – a volersi fidare del manifesto – ha un bell’American accent. Dicono che il vedere film in lingua originale possa fare la differenza.
“Non sarebbe male vivere da queste parti”, pensa Simone appoggiando sul tavolo i suoi sensi stanchi e mischiandoli con la ginjinha, un liquore a base di amarene che ha imparato ad apprezzare appena sbarcato all’aeroporto Portela. Alle 9 del mattino. Da quando Slash ha inciso quel suo It’s Five O’Clock Somewhere, è sempre più facile incontrare baristi capaci di trasformare in qualunque momento il bancone di un aeroporto in uno dei peggiori bar della città. Tanto da qualche parte del mondo saranno pure le cinque del pomeriggio.
La ginjinha lo trasporta con la mente a casa, perché è simile alla ratafià, un liquore dolce tipico della sua zona. Non sono poche le cose che Lisbona e L’Aquila hanno in comune. Sono unite dal legame con la terra e le sue sventure – hanno subìto terremoti che le hanno segnate e ridisegnate – ma anche dal baccalà, che nella città lusitana si cucina in mille modi e nel capoluogo abruzzese, invece, rappresenta da sempre la rara possibilità di mangiare pesce in montagna. Era stata sua zia Maria a spiegargli che il baccalà all’Aquila era un piatto tradizionale della festa grande e che arrivava dalla costa insieme alle aringhe. Si cucinava baccalà nelle ricorrenze e all’entrata della Quaresima.
Ma un fil rouge tra le due città si ritrova, per molti versi, nel carattere degli abitanti: chiuso in una iniziale diffidenza che si apre progressivamente e con genero sità. Persino il modo di parlare non è troppo diverso, specie nel suono delle “sh” e delle “nd”, tipico dell’entroterra abruzzese. Un dialetto che si ostenta in branco e che ci si sforza di attenuare mentre si flirta, stemperando una birra sfacciatamente tiepida con una citazione sfacciatamente aulica.
Simone, comunque, si è sempre considerato un montanaro atipico. Uno di quelli nati con la malinconia del mare lontano, delle notti scandite dalle onde e dagli accordi di un canzoniere. Notti umide sulla spiaggia. Le sagome delle barche dei pescatori all’alba, in lontananza. Una chitarra e una sfilza di Peroni vuote, allineate sui bordi di un pattino a riva. Nei mesi più freddi gli ha sempre attraversato le vene quella mancanza. La nostalgia delle vacanze estive. Sulla sabbia, del resto, aveva avuto anche la prima esperienza con una ragazza, poco più grande ma molto più esperta di lui.
Le sinapsi rimbalzano nella testa di Simone che, puntando i gomiti sul legno del bancone, osserva una vecchia bicicletta fissata al soffitto, da cui pende una quantità notevole di reggiseni di ogni misura e foggia. È una trovata dei gestori del bar: per le clienti disposte a sfilarsi il reggiseno e consegnarlo, tre shottini in omaggio!

L’ufficio delle correzioni storiche, di Danielle Evans

Dal 20 Ottobre, minimum fax porta in libreria L’ufficio delle correzioni storiche, di Danielle Evans, tradotto da Assunta Martinese.

Danielle Evans, tra le più acclamate giovani autrici statunitensi, si concentra su specifici momenti nelle vite dei suoi personaggi in cui sembra che un equilibrio fragilissimo sia sul punto di spezzarsi, finestre in grado di illuminare l’inestricabile intreccio di colpa, resistenza, vergogna, forza, cordoglio, potere e amore di cui si compone la storia americana. Sette toccanti racconti che ci costringono a confrontarci con i temi della razza, della cultura, e soprattutto della storia.

Cattedrale propone un estratto del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

L’ufficio delle correzioni storiche
di Danielle Evans

Il nostro ufficio era nascosto in fondo a un corridoio in uno dei labirintici edifici brutalisti della città. Non mi era mai dispiaciuta l’architettura imponente di Washington; quando ho capito che avrei dovuto trovarla brutta e non funzionale e accogliente ero ormai al college. Ma ero cresciuta in mezzo a quell’architettura, ero cresciuta idealizzando le persone che lavoravano in edifici come questo, e comunque ci tenevo sempre a precisare che la parola brutalismo non era nata da un giudizio estetico ma da «cemento grezzo» in francese. Da quando avevo iniziato a lavorare all’istituto avevo dovuto correggere già sette volte alcune affermazioni sull’etimologia del termine. Di solito queste piccole correzioni mi facevano sentire penosa e pedante, ma quella in particolare mi piaceva farla, mi piaceva immaginarci – non solo i miei colleghi in ufficio ma tutti i funzionari pubblici in città – come persone impegnate a creare qualcosa di solido col materiale grezzo che ci era stato dato, mi piaceva pensare che ci trovavamo nell’ambientazione giusta per svolgere il nostro lavoro.
Naturalmente, essendo un’agente operativa, è raro che io trascorra tutta la giornata in ufficio. Normalmente quella libertà mi sembrava un lusso, ma adesso era giugno – non ancora la parte peggiore dell’estate, ma faceva già così caldo che uscivo dai miei giri quotidiani imperlata di sudore ed ero in costante ricerca di pretesti per stare al chiuso. Certi giorni entravo in negozi pieni di souvenir kitsch e correggevo le date sbagliate solo per godermi l’aria condizionata. Alla fine di tutto, avrei ricordato quanto spesso mi ero annoiata all’inizio di quell’estate, quanto mi ero preoccupata che il nostro lavoro stesse diventando insignificante, quante volte mi ero chiesta se mi sarebbe capitato di nuovo nella vita di sentirmi parte di un’impresa rilevante.
L’Istituto per la Storia Pubblica mi aveva reclutata quando insegnavo storia alla George Washington University, e in origine il progetto aveva una visione grandiosa. Un’ambiziosa deputata neoeletta aveva chiesto dei fondi per mettere una persona laureata in storia in ogni distretto del paese, per contrastare quella che lei definiva «l’attuale crisi della verità». Fu presentato come un nuovo progetto occupazionale in ambito pubblico destinato alla classe intellettuale, visto che molti di noi ultimamente si erano ritrovati a fare gli autisti, consegnare la spesa e svolgere lavoretti su commissione per arrivare a fine mese. I nuovi posti di lavoro nel dipartimento governativo avrebbero messo a frutto quelle lauree e sarebbero stati relativamente ben pagati. La deputata immaginava una rete nazionale di storici e fact-checker, un cordiale esercito di cittadini devoti a rendere la verità talmente accessibile e allettante che sarebbe stato impossibile ignorarla. Eravamo partiti come istituto di ricerca, sotto la direzione della Library of Congress: una specie di National Institute of Health per far fronte a un altro tipo di emergenza sanitaria. Eravamo la soluzione a decenni di cattiva informazione e deliberata disinformazione. Il nostro compito era proteggere la memoria storica e non attaccare briga (Direttiva 1) o correggere le interpretazioni che le persone davano alle notizie di cronaca recenti (Direttiva 2).
L’energia postelettorale che ci aveva creati si era esaurita quasi immediatamente; l’ex deputata adesso faceva l’opinionista in televisione. All’istituto eravamo quaranta in tutto, venti dei quali di stanza a Washington. Ora che i parametri della nostra missione erano stati ridimensionati capitava spesso che la gente ci scambiasse per guide turistiche troppo zelanti o logorroici impiegati museali che si erano allontanati dalla casa base. Alcuni miei colleghi ci marciavano. Bill gironzolava attorno ai monumenti correggendo i turisti che avevano nozioni sbagliate, spesso limitandosi a leggere ad alta voce le targhe che avevano sotto gli occhi; Sophie raramente si allontanava dai giardini dello Smithsonian; Ed passava tutta la giornata in qualche birreria, ma ogni settimana presentava un verbale con l’elenco delle correzioni apportate, ed era talmente lunga e plausibile che nessuno avrebbe saputo dire se era un alcolizzato particolarmente funzionale o un talentuosissimo scrittore di dialoghi fittizi.
A quel punto lavoravo all’Istituto per la Storia Pubblica da quattro anni, e volevo prendere il mio incarico molto sul serio. Per evitare di scivolare nella routine, ogni mese mi assegnavo un quartiere diverso di Washington. A giugno ero a Capitol Hill, e poco dopo aver corretto un turista convinto che il Rayburn Building fosse intitolato a Gene Rayburn, mi resi conto che era ora di pranzo. La zona dove mi trovavo era piena di ristoranti i cui nomi erano giochi di parole che vendevano costosissimo comfort food da banconi cromati ostentatamente vintage; tutto mi appariva sinistro, e avevo appena optato per la pizza quando passai vicino a una pasticceria con la tenda rosa all’ingresso sulla quale in un corsivo arzigogolato che imitava la glassa c’era scritto: bella e tonda. Il nome era orrendo – voleva essere un doppio senso e io stentavo anche a capire il primo – ma era il compleanno di Daniel, e in vetrina notai un elaborato alberello di cupcake, con collinette rosse e dorate e color cioccolato. I cupcake erano una cosa leggera e offrivano la possibilità di scegliere, pensai, quindi entrai e passai in rassegna i gusti prima di decidere che i cupcake non andavano bene: portare un vassoio di cupcake gli avrebbe fatto pensare che ero una bambina incapace di decidere, oppure lo avrebbe portato a immaginare lo scenario opposto – una me in versione casalinga che entrava trionfante con un vassoio all’incontro scuola-famiglia, come se stessi aspettando che lui mi offrisse quel futuro. Avanzai lungo il bancone, oltre le torte nuziali e le riproduzioni iperrealistiche dei monumenti di Washington, e le torte a forma di scarpe e bottiglie di champagne e cartoni animati, cercando qualcosa di un po’ più discreto.
L’errore era così piccolo che la me di quattro anni prima lo avrebbe giudicato trascurabile. Su una delle torte c’era scritto juneteenth con la glassa rossa, circondata da fuochi d’artificio e stelle rosse bianche e blu. Il volantino appiccicato sul banco sopra la torta incoraggiava i clienti a ordinare per tempo una torta per la festa del Juneteenth: Il Quattro Luglio lo conosciamo tutti!, diceva il foglietto. Ma perché non iniziare a celebrare la libertà con qualche settimana di anticipo e festeggiare l’anniversario del Proclama di Emancipazione? Dillo con una torta! Una delle due ragazze dietro il banco era nera, ma intuivo che i proprietari non lo fossero. Il quartiere, i prezzi, la stucchevole musica acustica diffusa dalle casse lucide: conoscevo tutte le parole della canzone, ma ogni singolo dettaglio in quel posto dichiarava a chi fosse diretta. I miei ricordi della festa di Juneteenth a Washington erano i miei genitori che mi portavano a una grigliata in giardino a casa di amici, a mangiare budino alla banana e crostata di pesca e torta alla fragola fatta con il mix Jell-O; a nessuna di quelle grigliate avevo visto una torta di pasticceria da 75 dollari che aggiungendo un sovrapprezzo poteva essere realizzata a forma di borsa griffata. L’incipit del volantino – quel lo conosciamo tutti – non era rivolto a quelli che già festeggiavano il Juneteenth, ma ai capufficio che si sarebbero sentiti obbligati a non trascurare una festività afroamericana, o che semplicemente volevano una scusa per un dessert diverso.
«Mi scusi», dissi, con il dito ancora poggiato sul bancone sopra il volantino. La ragazza nera si voltò.
«Vuole quella?», chiese.
«No», dissi. «Ciao. Sono Cassie. Sono dell’Istituto per la Storia Pubblica».
La donna bianca si voltò, ma entrambe mi fissarono senza dare segno che quel nome dicesse loro qualcosa.
«Una sciocchezza», dissi. «Non diamo ordini né niente. Siamo un servizio pubblico. Come il 311! Ma ho pensato che magari vi è utile sapere che il volantino non è del tutto corretto. Il Proclama di Emancipazione è stato emesso nel settembre 1862. Il June­teenth è diventato la festa di tutti gli schiavi liberati e adesso si celebra a livello nazionale, ma in realtà commemora la data in cui gli schiavi del Texas appresero che erano liberi, a giugno 1865, dopo la fine della guerra civile».
«Uhm, ok», disse la donna bianca.
«Vi lascio un biglietto. Una piccola correzione».
Tirai fuori il nostro sticker ufficiale – con la costosa stampa di una foca sollevata su carta olografica; era facile farne delle imitazioni ironiche, ma quasi impossibile farne repliche accurate. Digitai la correzione nell’unico lusso futuristico concessoci dall’ufficio – la stampante portatile che avevano dato a tutti noi quando ci avevano assunti – e ci infilai lo sticker per stampare il testo. Apposi la data e la firma, staccai la pellicola e lo appiccicai al bancone accanto al volantino.
«Ecco», dissi. «Niente di che».
Sorrisi e guardai negli occhi entrambe le donne. Quando chiedevamo alle persone di dedicarci il loro tempo non dovevamo essere aggressivi – dovevamo correggere le informazioni sbagliate nel modo più rapido e gentile possibile (Direttiva 3) – ma dovevamo mostrarci disponibili a fornire ulteriori informazioni o a intrattenere una conversazione più lunga se qualcuno desiderava saperne di più (Direttiva 5). Dovevamo essere pronti a citare le fonti (Direttiva 7).
«Vuol comprare una torta?», mi chiese la ragazza nera. «O è venuta per il volantino?»
«Ah», dissi. «Sì. Sto uscendo con un ragazzo ed è il suo compleanno. Cercavo di decidere che torta prendere. Ma non lo so, forse sono meglio i cupcake? Lei cosa mi consiglia?»
«Signora, se va a casa di uno con una torta di compleanno e quello si lamenta allora mi sa che non ci esce più. A prescindere dalla torta».
«Ha ragione», dissi. «Mi dia quella».
Indicai una torta che si chiamava blackout. «Come un Oreo senza la crema», diceva la descrizione. Potevo dire a Daniel che gli avevo comprato la torta più nera che avevano. Le scatole erano rosa con elaborate scritte in oro; chiesi quella con la scritta bella e tonda. Avrei lasciato decidere a lui se fare la battuta sconcia o lamentarsi del fatto che negozi di proprietà dei bianchi facevano appropriazione culturale, o optare per il commento scontato sugli Oreo. Avrei tralasciato la parte in cui avevo fatto una correzione. Daniel era un giornalista, scettico sia per indole che per mestiere, e il mio lavoro gli sembrava – nella migliore delle ipotesi – sospetto.
Non era l’unico. Prima di andarmene dalla George Washington University per venire a lavorare all’istituto avevo una traiettoria in ascesa, ero stata fortunata. Potevo recitare a memoria il discorso di avvertimento che mi avevano fatto e che io avrei dovuto fare agli studenti più promettenti: se si voleva lavorare nel proprio campo bisognava essere pronti ad andare ovunque, a lasciare chiunque, e lavorare per stipendi ridicoli, e anche facendolo i posti a disposizione erano scarsi, e ancora più scarse le possibilità di essere scelti tra i mille dottorati che si candidavano. Ma io avevo ottenuto un contratto di quattro anni come visiting professor in un’università del Midwest, e dopo appena un anno mi avevano offerto un lavoro ben pagato che mi avrebbe avviata alla carriera accademica, un posto all’università non solo in una città importante, ma nella città dove ero nata. La Washington della mia infanzia non esisteva più, ovviamente, e se adesso molte parti della città mi sembravano familiari era solo perché cominciavo a dimenticare com’erano prima, ma restava l’unico posto in cui mi fossi mai sentita a casa. La serendipità di ottenere un posto accademico proprio lì rasentava la magia, in un mercato in cui essere «professori» quasi sempre significava tenere sette corsi in quattro campus diversi senza assicurazione medica e senza il minimo sindacale.
Quando partii sentii la mancanza dei miei studenti e dei miei colleghi, mi mancava lavorare ai manoscritti di cui nessuno mi chiedeva più niente – i miei anni di ricerca su Odetta Holmes ancora negli archivi. Mi mancava l’eterna preadolescenza delle feste universitarie e, lo ammetto, mi mancava il fatto di essere sulla vetta – l’intera impalcatura si stava sgretolando, ma io mi sentivo sulla vetta. Tuttavia, quando si era presentata l’opportunità di lavorare per l’Istituto per la Storia Pubblica, avevo mollato tutto per andare a fare qualcosa che, nell’immediato, mi sembrava più importante.
I miei genitori si erano beati nel dire a tutti che ero la professoressa Jacobs, docente universitaria di storia, e adesso non sapevano più cosa dire quando qualcuno chiedeva che lavoro facessi. Avevo provato a spiegargli che professore, perfino nella sua più rosea incarnazione, ormai significava sottostare anno dopo anno alla tirannia di valutazioni e tassi di iscrizione, significava tradurre le cose che amavi perché le amavi e alle quali davi valore perché avevano valore in aziendalese, per convincere gli amministratori che i tuoi studenti erano utili al mercato del lavoro. Significava sentirti dire che il problema eri tu, perché coccolavi troppo gli studenti, tu, la loro ultima possibilità di arrivare preparati a un mondo di squali, ma il problema eri tu anche quando gli studenti entravano in crisi, perché non avevi allertato immediatamente qualcuno del fatto che uno studente costituiva un rischio per se stesso, perché non avevi un piano pronto per mettere al sicuro la tua classe nel caso in cui uno studente si fosse presentato armato in un edificio vecchio di cinquant’anni dove le porte non si chiudevano più. Significava sentirti dire ogni anno con tono trionfante che la facoltà non era mai stata così inclusiva e poi qualche mese dopo, durante una cupa riunione, vederti consegnare un elenco di tutte le misure di autoregolamentazione che non era più il caso di lasciare al giudizio dei docenti e di tutti i parametri valutativi oggettivi che da quel momento in poi andavano osservati in modo più fiscale. Significava ricevere consigli benintenzionati da colleghi più anziani che si rifiutavano di ammettere che l’istituzione alla quale avevano consacrato la loro vita non esisteva più per come l’avevano conosciuta, e sentirti dire da colleghi più precari che eri stata fortunata e non avevi di che lamentarti.
Era stato difficile convincere la gente, perfino i miei colleghi all’isp che erano stati reclutati tra le schiere di disoccupati con un dottorato – che davvero avevo scelto io di andarmene. Il modo migliore in cui riuscivo a spiegarlo era che amavo il mio lavoro e stavo male a vederlo sparire.

© Danielle Evans, 2020 Published by arrangement with The Italian Literary Agency and Ayesha Pande Literary 
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