La pioggia di fuoco. Evocazione di un disincarnato di Gomorra, di Leopoldo Lugones

Edizioni Arcoiris porta in libreria Ombre del tropico: tredici storie gotiche firmate da tre grandi narratori: Leopoldo Lugones, autore fondamentale per Borges e per il canone letterario argentino, l’uruguaiano Horacio Quiroga, considerato uno dei maestri del racconto latinoamericano, e il “principe delle lettere castigliane”, il nicaraguense Rubén Darío.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti del nel testo, per gentile concessione dell’editore.

La pioggia di fuoco.
Evocazione di un disincarnato di Gomorra

 

Spezzerò la superbia della vostra forza, farò in modo che il vostro cielo sia come di ferro e la vostra terra come di rame[1].

Levitico, XXVI – 19.

 

 

Ricordo che era un giorno di sole splendido, colmo del brulichio popolare, nelle strade assordate dai veicoli. Un giorno assai caldo e di tersa perfezione.
Dalla mia terrazza dominavo una vasta confusione di tetti, verzieri sparsi, un tratto di baia trafitto da alberi di nave, la linea grigia di un viale…
Verso le undici caddero le prime scintille. Una qui, un’altra là – particelle di rame simili ai residui di uno stoppino; particelle di rame incandescente che toccavano il suolo con un leggero crepitio di sabbia. Il cielo restava limpido come prima; il brusio urbano non diminuiva. Soltanto gli uccelli della mia voliera smisero di cantare.
Me ne accorsi per caso, guardando verso l’orizzonte in un momento di astrazione. In un primo momento credetti a un’illusione ottica dovuta alla miopia. Dovetti aspettare a lungo per veder cadere un’altra scintilla, poiché la luce solare le annegava abbastanza; ma il rame ardeva in un modo tale da spiccare ugualmente. Una rapidissima virgola di fuoco, e il lieve colpo sulla terra. Così, a lunghi intervalli.
Devo confessare che, nel constatarlo, provai un vago terrore. Esplorai il cielo con uno sguardo ansioso. La limpidezza persisteva. Da dove veniva allora quella strana grandine, quel rame? Ma era, poi, rame?
Era appena caduta una scintilla sulla mia terrazza, a pochi passi. Tesi la mano: era, sì, senza alcun dubbio, un granulo di rame che impiegò molto tempo a raffreddarsi. Per fortuna, la brezza si alzava, inclinando quella singolare pioggia verso il lato opposto della terrazza. Le scintille erano piuttosto rade, inoltre. A tratti si poteva credere che tutto fosse cessato. Ma non cessava. Una qua e una là, certo, ma continuavano a cadere quei temibili granuli.
In fin dei conti, non sarebbe stata quella pioggia a impedirmi di pranzare, dato che era mezzogiorno. Scesi in sala da pranzo attraversando il giardino, non senza un certo timore per le scintille. È vero che il tendone, abbassato per ripararmi dal sole, mi proteggeva…
Mi proteggeva sul serio? Alzai gli occhi; ma un tendone ha tanti pori, che non potei scorgere nulla.
In sala da pranzo mi attendeva un pasto squisito; poiché il mio fortunato celibato mi aveva insegnato due cose soprattutto: leggere e mangiare. A parte la biblioteca, la sala da pranzo era il mio orgoglio. Stanco delle donne e un po’ gottoso, in fatto di vizi amabili non potevo più aspettarmi nulla se non dalla gola. Mangiavo da solo, mentre uno schiavo mi leggeva storie di esplorazioni geografiche. Non avevo mai potuto comprendere i pasti in compagnia; e se le donne mi stancavano, come ho detto, comprenderete bene che detestavo gli uomini.
Dieci anni mi separavano dalla mia ultima orgia! Da allora, dedito ai miei giardini, ai miei pesci, ai miei uccelli, mi mancava il tempo per uscire. Qualche volta, nei pomeriggi molto caldi, una passeggiata lungo il lago. Mi piaceva vederlo, increspato di luna al tramonto, ma questo era tutto e passavano mesi senza che lo frequentassi.
La vasta città libertina era per me un deserto, dove si rifugiavano i miei piaceri. Pochi amici; visite brevi; lunghe ore a tavola; letture; i miei pesci; i miei uccelli; qualche notte con un’orchestra di flautisti, e due o tre attacchi di gotta all’anno…
Avevo l’onore di essere consultato per i banchetti, e due o tre salse di mia invenzione figuravano tra quelle elogiate. Questo mi dava diritto – lo dico senza orgoglio – a un busto municipale, con la stessa ragione per cui un mio concittadino ne aveva meritato uno per aver inventato un nuovo bacio.
Nel frattempo, il mio schiavo leggeva. Leggeva racconti di mare e di neve, che si accompagnavano perfettamente, nella siesta ormai inoltrata, alla generosa frescura delle anfore. La pioggia di fuoco forse era cessata, poiché la servitù non sembrava accorgersene.
All’improvviso, lo schiavo che attraversava il giardino con un nuovo piatto non poté trattenere un grido. Riuscì, tuttavia, ad arrivare al tavolo; ma il suo volto livido tradiva un dolore atroce. Aveva sulla schiena nuda un piccolo foro, in fondo al quale si sentiva ancora sfrigolare la scintilla vorace che lo aveva aperto. La soffocammo con l’olio, e fu portato a letto senza che riuscisse a trattenere i lamenti.
Bruscamente mi passò l’appetito; e sebbene continuassi ad assaggiare i piatti per non demoralizzare la servitù, questa si affrettò a comprendermi. L’incidente mi aveva turbato.
Era circa metà pomeriggio quando salii nuovamente sulla terrazza. Il suolo era ormai cosparso di granuli di rame; ma non sembrava che la pioggia stesse aumentando. Cominciavo a tranquillizzarmi, quando una nuova inquietudine mi sopraffece. Il silenzio era assoluto. Il traffico era paralizzato, senza dubbio a causa del fenomeno. Nessun rumore nella città. Solo, di tanto in tanto, un vago mormorio del vento tra gli alberi.
Era altrettanto inquietante il comportamento degli uccelli. Si erano ammassati in un angolo, quasi gli uni sugli altri. Mi fecero pena, e decisi di aprire loro la porta. Non vollero uscire; anzi, si strinsero ancora di più, terrorizzati.
Fu allora che cominciai a temere un cataclisma.
Pur non essendo grande la mia erudizione scientifica, sapevo che nessuno aveva mai menzionato piogge di rame incandescente. Piogge di rame! Nell’aria non ci sono miniere di rame. Inoltre, quella limpidezza del cielo non permetteva di congetturare la provenienza. E ciò che rendeva allarmante il fenomeno era proprio questo. Le scintille venivano da tutte le parti e da nessuna. Era l’immensità che si sgretolava invisibilmente in fuoco. Dal firmamento cadeva il terribile rame, ma il firmamento restava impassibile nel suo azzurro.
Poco a poco, mi invadeva un’angoscia strana; ma, cosa curiosa, fino a quel momento non avevo pensato di fuggire. Quest’idea si mescolò a spiacevoli interrogativi. Fuggire! E la mia tavola, i miei libri, i miei uccelli, i miei pesci, per i quali avevo appena inaugurato un vivaio, i miei giardini già nobilitati dall’antichità, i miei cinquant’anni di serenità, nella felicità del presente, nella trascuratezza del domani? Fuggire?
E pensai con orrore alle mie proprietà (che non conoscevo) dall’altra parte del deserto, con i loro cammellieri che vivevano in tende di lana nera e si nutrivano solo di latte cagliato, grano tostato, miele aspro…
Restava una fuga attraverso il lago, una fuga breve, dopotutto, se nel lago, come nel deserto, secondo logica, pioveva rame ugualmente; poiché, non provenendo da alcun punto visibile, quel fenomeno doveva essere generale.
Nonostante il vago terrore che mi inquietava, mi dicevo tutto ciò chiaramente, lo discutevo con me stesso, un po’ nervoso a dire il vero per il torpore digestivo della mia consueta siesta. E, dopotutto, qualcosa mi diceva che il fenomeno non sarebbe andato oltre. Tuttavia, nulla si perdeva nel far preparare il carro.
In quel momento l’aria si riempì di un vasto rintocco di campane. E, quasi contemporaneamente, mi accorsi di una cosa: non pioveva più rame. Il suono delle campane era un ringraziamento, quasi subito accompagnato dal brusio abituale della città. Questa si risvegliava, dalla sua fugace atonia, doppiamente loquace. In alcuni quartieri addirittura bruciavano petardi.
Appoggiato al parapetto della terrazza, osservavo con un inedito senso di benessere solidale l’animazione vespertina, che era tutta amore e lusso. Il cielo restava purissimo. Ragazzi indaffarati raccoglievano in scodelle la graniglia di rame, che i calderai avevano già iniziato a comprare. Era tutto ciò che restava della grande minaccia celeste.
Più numerosa che mai, la gente dedita ai piaceri colorava le strade; e ricordo ancora di aver sorriso vagamente a un giovane ambiguo, la cui tunica, rialzata fino ai fianchi da un balzo in un vicolo, lasciò intravedere le sue gambe glabre, intrecciate da nastri.
Le cortigiane, con il seno scoperto secondo la nuova moda e sorretto da un abbagliante corsetto, passeggiavano la loro indolenza sudando profumi.
Un vecchio ruffiano, in piedi sul suo carro, maneggiava come fosse una vela un foglio di stagno, che con pitture appropriate annunciava amori mostruosi tra bestie: unioni di lucertole con cigni; una scimmia e una foca; una fanciulla ricoperta dal delirante piumaggio di un pavone.
Bel manifesto, in fede mia; e garantita l’autenticità delle esibizioni. Animali ammaestrati da non so quale magia barbara, e alterati con oppio e assafetida.
Seguito da tre giovani mascherati, passò un nero amabilissimo, che disegnava nei cortili, con polveri colorate sparse al ritmo di una danza, scene segrete. Depilava anche con l’orpimento e sapeva dorare le unghie.
Un personaggio flaccido, la cui condizione di eunuco si indovinava dalla sua morbidezza, proclamava al suono di crotali di bronzo la vendita di coperte di un tessuto singolare che induceva insonnia e desiderio. Coperte la cui abolizione era stata richiesta dai cittadini onesti. Poiché la mia città sapeva godere, sapeva vivere.
Al calar della sera ricevetti due persone in visita che cenarono con me. Un compagno di studi gioviale, un matematico la cui vita sregolata era lo scandalo della scienza, e un agricoltore arricchito. La gente, dopo quelle scintille di rame, sentiva il bisogno di farsi visita. Di farsi visita e di bere, poiché entrambi se ne andarono completamente ubriachi.
Feci una rapida uscita. La città, capricciosamente illuminata, aveva approfittato della situazione per decretare una notte di festa. Su alcune cornici, lampade d’incenso illuminavano l’aria profumandola. Dalle loro balconate, le giovani borghesi, eccessivamente adornate, si divertivano a soffiare contro i passanti distratti budella dipinte e tintinnanti di sonagli. Ad ogni angolo si ballava. Da un balcone all’altro si scambiavano fiori e gatitos[1]. Il prato dei parchi palpitava di coppie.
Tornai presto e sfinito. Non sono mai andato a letto con una pesantezza di sonno più piacevole.
Mi svegliai madido di sudore, con gli occhi offuscati, la gola arida. Fuori c’era un rumore di pioggia. Cercando qualcosa, mi appoggiai alla parete, e nel mio corpo corse come una frustata il brivido della paura. La parete era calda e attraversata da una sorda vibrazione.
Quasi non ebbi bisogno di aprire la finestra per rendermi conto di ciò che stava accadendo.
La pioggia di rame era tornata, ma questa volta densa e compatta. Un vapore caliginoso soffocava la città; un odore tra fosfato e urinoso appestava l’aria. Per fortuna, la mia casa era circondata da gallerie e quella pioggia non raggiungeva le porte.
Aprii quella che dava sul giardino. Gli alberi erano neri, ormai senza foglie; il suolo, coperto di fogliame carbonizzato. L’aria, solcata da virgole di fuoco, era di un’immobilità mortale; e attraverso di esse si scorgeva il firmamento, sempre impassibile, sempre celeste.
Chiamai, chiamai invano. Penetrai fino agli alloggi della servitù. Erano fuggiti.
Avvolte le gambe in una coperta di raso, corazzandomi le spalle e la testa con una bacinella di metallo che mi schiacciava orribilmente, riuscii a raggiungere le scuderie. Anche i cavalli erano scomparsi. E con una tranquillità che faceva onore ai miei nervi, mi resi conto che ero perduto.
Fortunatamente, la sala da pranzo era piena di provviste; la cantina, colma di vini. Vi scesi. Conservava tutta la sua frescura; fino in fondo non arrivava la vibrazione della pioggia pesante, l’eco del suo greve crepitio. Bevvi una bottiglia e poi estrassi dalla credenza segreta il flacone di vino avvelenato. Tutti quelli che possedevano una cantina ne avevano uno, anche se non lo usavano né avevano ospiti molesti. Era un liquore chiaro e insapore, dagli effetti istantanei.
Rianimato dal vino, esaminai la mia situazione. Era assai semplice. Non potendo fuggire, la morte mi aspettava; ma, con quel veleno, la morte mi apparteneva.
E decisi di vedere tutto il possibile, poiché era, senza dubbio, uno spettacolo singolare. Una pioggia di rame incandescente! La città in fiamme! Ne valeva la pena.
Salii sulla terrazza, ma non potei andare oltre la porta che vi dava accesso. Da lì, tuttavia, vedevo abbastanza. Vedevo e ascoltavo. La solitudine era assoluta. Il crepitio non si interrompeva se non per qualche ululato di cane o per un’esplosione anomala. L’ambiente era rosso; e, attraverso di esso, tronchi, camini, case, si stagliavano con una lividezza tristissima. I pochi alberi che conservavano il fogliame si contorcevano, neri, di un nero di stagno. La luce era diminuita un poco, nonostante la limpidezza celeste persistesse. L’orizzonte era, questo sì, molto più vicino, e come soffocato nella cenere. Sul lago galleggiava un denso vapore, che attenuava in parte l’eccezionale aridità dell’aria.
Si percepiva chiaramente la pioggia combustibile, in tratti di rame che vibravano come l’innumerevole cordame di un’arpa, e di tanto in tanto si mescolavano ad essa leggere fiammelle. Fumate nere annunciavano incendi qua e là.
I miei uccelli cominciavano a morire di sete e dovetti scendere fino alla cisterna per portare loro dell’acqua. Il sotterraneo comunicava con quel deposito, un’ampia cisterna che avrebbe potuto resistere a lungo al fuoco celeste; ma dai condotti che dal tetto e dai cortili vi sfociavano, si era infiltrato un po’ di rame e l’acqua aveva un sapore particolare, tra natron e urina, con una tendenza a divenire salata. Mi bastò sollevare le botole di mosaico che chiudevano quei passaggi per tagliare ogni comunicazione della mia acqua con l’esterno.
Quella sera e tutta la notte lo spettacolo della città fu orribile. Bruciava nelle sue abitazioni, la gente fuggiva disperata, per bruciarsi nelle strade e nella campagna desolata; e la popolazione agonizzava barbaramente, con lamenti e grida di una vastità, di un orrore, di una varietà stupefacenti. Non c’è nulla di così sublime come la voce umana. Il crollo degli edifici, la combustione di tante merci e oggetti vari, e, più di tutto, il rogo di tanti corpi, finirono per aggiungere al cataclisma il tormento del suo odore infernale.
Al calar del sole, l’aria era quasi nera di fumo e polveri. Le fiammelle che danzavano al mattino tra la pioggia di rame, ora erano fiamme sinistre. Cominciò a soffiare un vento ardentissimo, denso, come catrame caldo. Sembrava di trovarsi in un immenso forno oscuro. Cielo, terra, aria, tutto finiva. Non c’era più nulla che tenebre e fuoco. Ah, l’orrore di quelle tenebre che tutto il fuoco, il gigantesco fuoco della città in fiamme, non riusciva a dominare; e quella puzza di stracci, di zolfo, di grasso cadaverico nell’aria secca che faceva sputare sangue; e quei lamenti che non so come non finivano mai, quei lamenti che coprivano il rumore dell’incendio, più vasto di un uragano, quei lamenti in cui ululavano, gemevano, ruggivano tutte le bestie con un indicibile terrore di eternità!
Scesi nella cisterna, senza aver perso fino ad allora la mia presenza di spirito, ma completamente agghiacciato da tutto quell’orrore; e vedendomi improvvisamente in quell’oscurità amica, al riparo dalla frescura, di fronte al silenzio dell’acqua sotterranea, mi colpì improvvisamente una paura che non provavo – ne sono sicuro – da quarant’anni, la paura infantile di una presenza nemica e indefinita; e mi misi a piangere, a piangere come un pazzo, a piangere per la paura, laggiù in un angolo, senza alcun imbarazzo.
Non fu se non molto tardi, quando sentii il crollo di un tetto, che mi venne in mente di rinforzare la porta della cantina. Lo feci con la sua stessa scala e alcuni pali della libreria, restituendomi quella difesa un po’ di tranquillità; non perché dovessi salvarmi, ma per la benefica influenza dell’azione. Cadevo continuamente in sonnellini che interrompevano funesti incubi, e passai le ore così. Continuamente sentivo crolli lì vicino. Avevo acceso due lampade che avevo portato con me, per darmi coraggio, poiché la cisterna era abbastanza lugubre. Fino a mangiare, benché senza appetito, i resti di una torta. In compenso bevvi molta acqua.
Improvvisamente le mie lampade cominciarono a spegnersi, e insieme con esse il terrore, il terrore paralizzante questa volta, mi assalì. Avevo consumato, senza accorgermene, tutta la mia luce, poiché non avevo altro che quelle lampade. Non avevo fatto caso, scendendo quel pomeriggio, di portarle tutte con me.
Le luci diminuirono e si spensero. Allora mi accorsi che la cisterna cominciava a riempirsi dell’odore dell’incendio. Non c’era altra scelta che uscire; e poi, tutto, tutto era preferibile a morire soffocato come una bestia nella sua tana.
A fatica riuscii ad alzare il coperchio della cantina che le macerie della sala da pranzo coprivano…

…Per la seconda volta aveva cessato la pioggia infernale. Ma la città non esisteva più. Tetti, porte, una gran parte dei muri, tutte le torri giacevano in rovina. Il silenzio era colossale, un vero silenzio da catastrofe. Cinque o sei grandi colonne di fumo ancora si levavano verso il cielo; e, sotto il cielo che non si era mai intorbidito neanche per un momento, un cielo la cui durezza azzurra certificava indifferenze eterne, la povera città, la mia povera città, morta, morta per sempre, puzzava come un vero cadavere.
La singolarità della situazione, la vastità del fenomeno, e senza dubbio anche la gioia di essermi salvato, unico tra tutti, inibivano il mio dolore sostituendolo con una curiosità cupa. L’arco del mio ingresso era rimasto in piedi e afferrandomi alle imposte riuscii a salire fino alla sua sommità.
Non restava neanche un singolo residuo combustibile e ciò somigliava molto a uno scorrimento vulcanico. In alcuni tratti, nei luoghi dove la cenere non copriva, brillava con un rosso fuoco il metallo piovuto. Verso il lato del deserto, risplendeva fino a perdersi a vista un’arenaria di rame. Sulle montagne, dall’altra riva del lago, le acque evaporate di quest’ultimo si condensavano in una tempesta. Erano loro che avevano mantenuto l’aria respirabile durante il cataclisma. Il sole splendeva immenso, e quella solitudine cominciava a opprimermi con una profonda desolazione, quando, verso il lato del porto, percepii una figura che vagava tra le rovine. Era un uomo, e mi aveva certamente visto, poiché si dirigeva verso di me.
Non facemmo nessun gesto di sorpresa quando arrivò, e salendo attraverso l’arco venne a sedersi con me. Si trattava di un pilota, salvo come me in una cantina, ma che aveva pugnalato il suo proprietario. Gli era appena finita l’acqua e per questo stava uscendo.
Assicurato su questo punto, iniziai a interrogarlo. Tutte le navi erano bruciate, i moli, i depositi; e il lago era diventato amaro. Anche se notai che parlavamo a bassa voce, non osai – non so perché – alzare la mia.
Gli offrii la mia cantina, dove c’erano ancora due dozzine di prosciutti, alcuni formaggi, tutto il vino…
All’improvviso notammo una nuvola di polvere verso il lato del deserto. La polvere di una corsa. Forse qualche gruppo che veniva inviato, chissà, in soccorso dai connazionali; da Adama o da Seboim[1].
Ma presto dovemmo sostituire questa speranza con uno spettacolo tanto desolante quanto pericoloso.
Era un branco di leoni, le bestie sopravvissute del deserto, che accorrevano verso la città come verso un’oasi, furiose di sete, impazzite dal cataclisma.
La sete, e non la fame, le rendeva furiose, poiché passarono accanto a noi senza accorgersene. E in che stato erano ridotte! Nulla come loro rivelava così lugubremente la catastrofe.
Pelati come gatti randagi, ridotta a pochi stracci la criniera, asciutti i fianchi, in una sproporzione di comici a metà vestiti con la testa bestiale, la coda acuminata e arricciata come quella di un ratto in fuga, le unghie pustolose, grondanti sangue – tutto ciò diceva chiaramente dei loro tre giorni di orrore sotto la frustata celeste, alla ricerca di caverne incerte che non erano riuscite a proteggerli.
Giravano intorno agli erogatori secchi con uno smarrimento umano negli occhi, e di colpo riprendevano la corsa alla ricerca di un altro deposito, anch’esso esaurito, fino a sedersi infine attorno all’ultimo, con il muso bruciato in alto, lo sguardo vagante di desolazione e di eternità, che lamentandosi al cielo, sono sicuro, cominciarono a ruggire.
Ah… niente, né il cataclisma con i suoi orrori, né il clamore della città morente, era così orribile come quel pianto di bestia sulle rovine. Quei ruggiti avevano una evidenza verbale. Piangevano chi sa quali dolori di incoscienza e di deserto a qualche divinità oscura. L’anima concisa della bestia aggiungeva ai suoi terrori di morte, il terrore dell’incomprensibile. Se tutto era uguale, il sole quotidiano, il cielo eterno, il deserto familiare – perché bruciavano e perché non c’era acqua? E mancando di ogni idea di relazione con i fenomeni, il loro orrore era cieco, cioè più spaventoso. Il trasporto del loro dolore li elevava a una vaga nozione di provenienza, sotto quel cielo da cui era piovuta la pioggia infernale; e i loro ruggiti sicuramente chiedevano qualcosa a quella cosa tremenda che causava la loro sofferenza. Ah… quei ruggiti, l’unica cosa grandiosa che ancora conservavano quelle bestie diminuite: come commentavano il terribile segreto della catastrofe; come interpretavano nel loro dolore irrimediabile la solitudine eterna, il silenzio eterno, la sete eterna…
Quello non doveva durare molto. Il metallo incandescente cominciò a piovere di nuovo, più compatto, più pesante che mai.
Nel nostro improvviso abbassamento, riuscimmo a vedere che le bestie si disperdevano cercando rifugio sotto le macerie.
Arrivammo alla cantina, non senza che ci raggiungessero alcune scintille; e comprendendo che quella nuova pioggia avrebbe consumato la rovina, mi preparai a concludere.
Mentre il mio compagno abusava della cantina – per la prima e l’ultima volta, di certo – decisi di approfittare dell’acqua della cisterna per il mio bagno funebre; e dopo aver cercato invano un pezzo di sapone, discesi da essa per la scalinata che serviva a effettuare la sua pulizia.
Avevo con me il flacone di veleno, che mi procurava un gran benessere, appena turbato dalla curiosità della morte.
L’acqua fresca e l’oscurità mi restituirono le voluttà della mia esistenza da ricco che stava appena per concludersi. Immerso fino al collo, il piacere della pulizia e una dolce impressione di domesticità finirono per tranquillizzarmi.
Sentivo fuori l’uragano di fuoco. Cominciavano di nuovo a cadere macerie. Dalla cantina non arrivava il minimo rumore. Percepivo in questo un riflesso di fiamme che entravano dalla porta del sotterraneo, il caratteristico odore di urine… Portai il flacone alle labbra, e…

 


[1] La traduzione italiana cattolica ufficiale della Bibbia a cura della CEI, la Conferenza Episcopale Italiana, riporta in questo punto, in trasposizione dall’ebraico antico, la parola “bronzo”, mentre nella citazione in esergo all’edizione originale argentina del racconto di Leopoldo Lugones si trova la parola spagnola “cobre”, ossia rame; la stessa che ricorre nel testo e che si è deciso di privilegiare per questa traduzione [Nota della Traduttrice].

[2] Dolcetti a base di arachidi e cioccolata [Nota della Traduttrice].

[3] Città nominate nell’Antico Testamento che formavano una pentapoli della valle di Siddim con Sodoma, Gomorra e Zoar [Nota della Traduttrice].