Come ogni primavera, Cattedrale dedica una sezione all’interno della rubrica Racconti d’autore che intende riportare l’attenzione dei lettori su libri non proprio freschi di pubblicazione, riproponendo racconti di raccolte ormai sul mercato da qualche tempo. SULLO SCAFFALE è la sezione in cui troverete proposte non recenti, per permettere ai lettori di stare al passo con le numerose uscite e, soprattutto, per permettere ai libri di godere del loro tempo: lento, attento, riflettuto - lontano dalle dinamiche isteriche e istantanee del mercato.
Oggi, vi proponiamo il racconto DUE. NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO, di Andrej Longo contenuto nella raccolta DIECI, pubblicata da Adelphi nel 2007 e ripreso da Sellerio nel 2025 che ha appena pubblicato anche il volume successivo UNDICI.
Buone letture!
DUE. NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO
di Andrej Longo
Una volta tenevo gli occhi neri infuocati e la voce da tenore, che quando cantavo ti veniva il freddo addosso pure se stavano quaranta gradi. All’inizio cantavo in chiesa, durante la messa, oppure ai battesimi, a Natale, a Pasqua. Allora dicevano che ero un angelo mandato dal cielo, che una voce così non si era mai sentita nel quartiere, che poteva essere solo di un angelo di dio.
A diciotto anni ho cominciato con le feste dei potenti. Facevano a gara a chiamarmi. Un matrimonio, una cresima, un compleanno, tutti volevano a Saverio, tutti mi cercavano, e pagavano con le carte da cento, mi offrivano lo champagne, il babà e tutto il resto, m’invitavano alle ville d’estate e sopra agli yacht, m’invitavano da ogni parte e io andavo, non dicevo mai di no, non facevo dispiacere a nessuno, e quando attaccavo a cantare li lasciavo tutti schiantati.
So’ ll’uocchie tuoie
che m’hanno fatto ’nnammurà,
so’ ll’uocchie tuoie
che nun me fanno cchiù durmì.
Una volta ero bello come a un dio, le ragazze me le portavo sotto allo scantinato, e me le pompavo sopra al tavolo dove mio padre impastava i dolci.
«No, Savè, no, che fai?» dicevano.
Intanto si stendevano sul tavolo, e facevano un poco di storie mentre ci allargavo le cosce.
«No, Savè, no, che fai?».
Però si stavano, per quegli occhi infuocati, per quella voce da tenore che non resisteva nessuna.
Una volta tenevo i muscoli scattanti e la forza di un toro, potevo cantare venti ore al giorno, con il caldo e con il freddo, non mi stancavo mai, potevo pompare tutta la notte, non mi fermavo mai, potevo sognare che mi conquistavo il mondo e nessuno mi diceva niente.
Una volta me ne andavo in giro per il paese sopra alla moto, con la giacca di seta e le scarpe firmate originali, con il vento che mi soffiava nei capelli e il fazzoletto intorno al collo, come a un attore di cinema. E tutte che mi guardavano quando passavo, tutte si sognavano che dedicavo una canzone solo a loro, e per scendere un’ora nello scantinato e stendersi sopra al tavolo per impastare avrebbero pagato.
Una volta giocavo a carte senza che mi tremava la mano, e pure con due re potevo farmi il piatto, perché tenevo lo sguardo sicuro e il respiro regolare, e la paura non la conoscevo ancora. E quanti ne ho rovinati dentro a quelle notti d’inverno, quanti ne ho visti che la vita se l’ingoiava, e pensavo: «A me no, a me la vita non m’ingoia né ora né mai».
Una volta m’immaginavo che quando mi ero stancato di fare quello che facevo mi compravo una casa in campagna, con il camino e la terrazza col pergolato, mi allevavo le bufale per farci la mozzarella, e mi trovavo ’na uagliuncella allegra per sfornare a sei o sette figli. I figli giocavano in mezzo agli alberi di mele, io mi fumavo un avana sopra alla poltrona, e dalla cucina veniva l’odore della pasta e fagioli, o dei maccheroni. E ogni tanto facevo un dolce per i bambini, una crostata per esempio, che quella me l’ero imparata bene, e come la facevo io erano capaci in pochi.
Una volta mi pensavo queste e altre cose, nemmeno troppo tempo fa, diciamo cinque anni, forse sei, che mò, a guardarmi dentro allo specchio, stesso io mi dico:
«Savè, ma che cazzo hai combinato?».
Poi cerco di non pensarci, di guardare da un’altra parte, le scarpe, o le mani, e ci resto pure un’ora così, davanti allo specchio, senza che ho voglia di fare niente, senza che mi decido a vestirmi e cominciare un’altra giornata. Me la vorrei prendere co’ qualcuno, vorrei trovare quello che mi ha ridotto così, lo vorrei sparare, e magari dopo mi libero del peso e mi sento più leggero.
Vorrei trovarlo, ma non ci sta nessuno. E non ci sta nessuno perché la colpa è solo mia.
Perciò mi vesto e provo ad arrivare in fondo a un’altra giornata, sperando che è l’ultima, sperando che il patreterno mi fa la grazia di finirla questa tarantella, sperando che davanti a questo specchio non ci passo un’altra mattinata.
Eppure tenevo tutto per conquistarmi la fetta mia di fortuna. Con questa voce e questi occhi potevo veramente diventare qualcuno, che ci voleva? Bastava fare un passo alla volta e tenere un poco di pazienza. Ecco, la pazienza, forse è quella che mi è mancata, ho tenuto troppa fretta, come se la vita mi poteva scappare dalle mani. È come uno che deve andare a un appuntamento con la regina, si mette tutto appaparacchiato e improfumato, e poi, per paura che arriva in ritardo, per paura che la regina se ne scappa, si fa le scale a quattro a quattro, mette male il piede sul gradino, vola giù di sotto, sbatte la testa e non si ricorda più niente.
Tenevo una voce così bella che perfino ai funerali mi mandavano a chiamare. Perché quando cantavo, la gente, per un momento, pure dei morti si scordava. «Savè, se puoi venire» dicevano.
E io andavo, non mi risparmiavo.
Però di andare alle feste e ai matrimoni a un certo punto non mi è bastato più. Di guadagnare otto, novemila euro al mese, non ero più contento.
Volevo ancora di più. Mi credevo che siccome tenevo quella voce speciale ero immortale, e se volevo pure alla morte la imbrogliavo con un gorgheggio e una strofa, pure al patreterno ci cantavo una canzone e lui si metteva a disposizione. Volevo ancora di più. Non volevo aspettare.
Così una sera, durante una festa con i fuochi d’artificio e le luminarie dentro al giardino, dopo che mi ero preso gli applausi e le strette di mano, sono andato dal padrone della villa, che comandava questo e quello, e gliel’ho spiegata la smania che mi tormentava.
«Magari se mi dai una mano» ho detto.
«Savè, e che problema ci sta?».
Si è bevuto un sorso di champagne. Ha detto: «Ti faccio fare un poco di televisione, va bene?». Io non cercavo altro. La televisione. Era il sogno mio. Sì, vabbè, non era la Rai, neppure Canale 5 o Sky, era roba locale, però intanto il nome mio girava, per strada mi riconoscevano pure fuori dal quartiere, mi chiedevano l’autografo, e io firmavo, tutto impettito, tutto fiero, pensavo che era solo l’inizio, che tempo un anno o due diventavo famoso, non mi fermava più nessuno.
Chi capiva niente allora. Tenevo la nebbia in testa e vedevo solo quello che volevo, sentivo solo la voce mia, la voce dell’angelo mandato dal cielo.
Così un poco alla volta torna di nuovo la smania, la frenesia che non potevo aspettare. E alla festa che cresimavano la figlia, vado di nuovo dal padrone della villa.
«Magari se mi dai una mano» dico.
«Savè, e che problema ci sta?».
Si beve la solita coppa di champagne. Dice:
«Ti faccio fare un disco, va bene?».
E vai col disco.
Dentro agli studi di registrazione. Con le cuffie in testa e tutti attorno a me. Hanno pure fatto venire un’orchestra per la base musicale. L’orchestra. I tecnici. Un giornalista per scrivere qualcosa sui giornali a lanciare il disco. Mi sentivo importante come a dio. Mi credevo che potevo fare quello che volevo e non mi capitava niente. Mi credevo che il mondo aspettava solo a me. Che dalla voce mia dipendeva se la terra girava o no.
Il disco andava a mille. M’invitavano a destra e a sinistra. Alle radio nazionali, facevo le tournée, dormivo dentro agli alberghi a cinque stelle, e mi portavo a chi volevo io. Certe ballerine con le gambe lunghe che mi avvolgevano come i serpenti, certe veline con il culo sodo che pareva un tamburo, passavo la notte a pompare, e il giorno appresso a cantare, intanto articoli sui giornali, sulle riviste, pure dentro all’hit parade sono entrato.
Arriva un’altra festa. Io già stavo pensando che potevo chiedere al padrone della villa.
Questa volta invece è lui che mi prende sotto al braccio e mi porta fuori alla terrazza.
«Savè» dice, «io quando ci stava da aiutarti l’ho fatto».
«È vero» dico.
«Mò il piacere lo vorrei io da te».
Non mi sono scomposto. Che mica sono scemo, lo sapevo che qualcosa in cambio mi chiedeva. Anzi, mi ero fatto pure meraviglia che fino a quel giorno non aveva chiesto ancora.
«Che debbo fare?» ho domandato tranquillo.
«Una cosa da niente» dice. «Alla prossima tournée, porti una borsa a un tizio».
«E che problema ci sta?».
Ci facciamo una risata. Un brindisi con lo champagne. Una canzone per gli ospiti.
Alla tournée che viene porto la borsa al tizio.
Un poco di nervosismo è normale, però tutto va bene, tutto funziona come si deve. Uguale a bere un bicchiere d’acqua. Uguale a cantare una canzone.
Per qualche mese non succede niente. La vita mi pare che scivola tranquilla. Mi pare che quello che volevo l’ho avuto. Che non ci sta altro da volere ancora. Però a un certo punto ecco che torna la smania. Ecco che mi viene un’altra fissazione. Sanremo. Mi manca solo quello. Se riesco ad andare là, penso, faccio il salto di qualità. E dopo veramente non mi ferma più nessuno. Dopo andatelo a cercare a Saverio, non lo trovate più.
Gliel’ho detto al padrone della villa:
«Voglio andare a Sanremo».
Questa volta lui non ha risposto subito. Si è messo a guardare i palazzi da sopra alla terrazza, si è girato il bicchiere nelle mani. Dopo che ci ha pensato, ha detto:
«Savè, per ora è meglio se ti accontenti».
Ho capito che non era capace. Che pure se era potente, pure se comandava mezza città, fino a quel punto non arrivava.
Ma io non mi arrendevo, non ci rinunciavo a quell’idea di Sanremo. Ho pensato che se trovavo a uno più potente risolvevo la cosa. Ce ne stavano tanti, bastava quello col giro giusto.
Certo, dovevo starmi attento, un poco di cautela ci voleva, almeno i primi tempi, almeno fino a che arrivavo a Sanremo. Così alle feste continuavo ad andare, se mi chiedevano una canzone non dicevo mai di no, il babà me lo mangiavo sempre, però intanto mi guardavo attorno, mi cercavo l’occasione giusta da pigliare. E l’occasione l’ho incontrata a fine estate, dentro a un locale sulla costiera, dove mi ero andato a svagare tre quattro giorni.
«Uè Savè, e tu qua stai?» mi ha detto il pianista che mi conosceva.
Così, due chiacchiere, un martini, finisce che mi trovo vicino al pianoforte con il microfono in mano. Siccome non sono il tipo che si fa pregare, per una mezz’ora stanno a sentirsi solo la mia voce.
So’ ll’uocchie tuoie
che m’hanno fatto ’nnammurà,
so’ ll’uocchie tuoie
che nun me fanno cchiù durmì.
Dopo, è naturale, complimenti, strette di mano, un autografo a chi me lo chiedeva. E poi ci stava una, che teneva sessant’anni. Tutta arrazzata, che quando parlava mi strusciava la coscia sua contro la mia. Non mi dava pace e io cercavo solo una scusa per andarmene, e manco la stavo a sentire, però a un certo punto dice che lei è la moglie di un politico. Mi faccio più attento, le do un poco di spago, e quando capisco che per andare a Sanremo può essere la persona adatta, la invito pure a ballare.
Un’ora dopo stiamo dentro al bagno del locale. Lei con le spalle poggiate contro al muro, che si è voluta tenere addosso solo le scarpe con i tacchi, e io con le mani da sotto alle cosce che la tengo sollevata e me la pompo a tutto andare.
«Dài, non ti fermare, continua, dài».
E lancia certi gridi uguali alle gatte dentro ai vicoli la notte.
«Non ti fermare, dài, non ti fermare».
Insomma, pare che questa veramente può essere che mi fa andare a Sanremo. Ci vuole il tempo che ci vuole, è ovvio, però la signora il fatto suo lo conosce, un appuntamento con tizio, un incontro con sempronio, e tutti a dire che non ci stanno problemi, che dentro al festival mi mettono sicuro.
Intanto ho cominciato a non andare più alle feste e ai matrimoni. Trovavo una scusa, m’inventavo un impegno, un raffreddore, un viaggio di lavoro. Mi pompavo alla signora e pensavo a Sanremo. Mi vedevo già là, sul palcoscenico, che cantavo con la voce mia da tenore. Mi pompavo alla signora e pensavo che finalmente ero arrivato. Mi pompavo alla signora e m’immaginavo che pure il papa mi mandava a cercare.
Mò che il tempo è passato, e quando mi trovo davanti a uno specchio giro la testa dall’altra parte, mò che aspetto solo di morire e non m’importa più di niente, se ogni tanto mi capita un momento di lucidità e penso a come stavo allora, mi rendo conto di quanto ero un coglione. Però a quel tempo non lo capivo, a quel tempo mi credevo ch’ero diventato uguale a dio, che schioccavo le dita e avevo quello che volevo.
Due mesi prima di Sanremo la signora non si è fatta più vedere.
Ho provato a cercarla, ma pareva sfastidiata d’incontrarmi, pareva che solo a sentire il nome mio ci veniva il fastidio. A un certo punto non ha risposto più al telefono. Ho capito che Sanremo me lo potevo scordare.
Mi sono depresso, è normale. Un momento di abbattimento è comprensibile. Per superare l’abbattimento mi tiravo un poco di polvere ogni tanto, diciamo un paio di volte a settimana. Che prima mi era già capitato, ma giusto così, in compagnia, durante le feste, per stare in allegria e non fare la figura di quello che si fa impressionare per una strisciata da zucare. Oppure qualche volta, se la stanchezza del lavoro mi stracquava, o se tenevo da pompare una notte intera. Mi era capitato, ma c’era o non c’era cambiava poco. Mò invece era diverso, mò stavo male e la polvere mi faceva sentire meglio.
Piano piano mi sono ripreso. Ho deciso che tornavo a cantare alle feste e ai matrimoni. E poi ci stavano le tournée, i dischi, la televisione. In fondo non era una brutta vita, mi potevo accontentare. Sì, è vero che da qualche mese non mi chiamavano più, si erano offesi, lo capivo, però se mi scusavo tornava tutto come a prima.
Sono andato alla villa per parlare.
«Savè, porta pazienza» mi ha detto lui. «Mò teniamo un altro cantante.
Non è bravo comm’a te, però è un amico. Magari più in là vediamo». Non mi ha offerto lo champagne. E neppure il babà.
Ho pensato che si volevano togliere lo sfizio di lasciarmi un poco sulle spine, che si trattava solo di tenere duro qualche mese, che alla voce mia non ci potevano rinunciare.
Intanto ci stava la televisione locale, la radio, qualche tournée da arrangiare. Alla televisione, però, dopo un paio di volte, hanno detto che a farmi lavorare non tenevano l’autorizzazione. Alla radio che non ero più attuale. E di tournée ne ho fatta una che ci ho preso solo le spese. All’improvviso sembrava tutto finito, sembrava che nessuno si ricordava di me. Mi è venuta un poco di paura.
Per farmela passare mi sono messo a tirare la polvere più spesso. Prima un giorno sì e uno no. Poi tutti i giorni. Tiravo, pensavo che a smettere riuscivo quando volevo, pensavo che prima raddrizzavo le cose e poi smettevo. Nel frattempo i soldi stavano finendo e non sapevo come fare. Ho trovato ancora qualche
festa di paese, un matrimonio dove mi chiamavano, ma era roba da niente, era roba da grigliate in giardino, con il vino acido e qualche tric trac sparato dopo cena.
Forse, a quel momento, stavo ancora in tempo a salvarmi. Forse potevo tornare dentro allo scantinato a impastare dolci con mio padre, che un poco ci sapevo fare, soprattutto le crostate mi venivano bene. Forse mi potevo ancora trovare una ragazza a posto, farmi una famiglia come tutti, con le rate da pagare e i soldi che non bastano mai, senza avana e senza giardino, va bene, ma pure era una cosa, pure al confronto di adesso era una bella vita.
Mi sono depresso e con la polvere ci ho dato dentro di brutto.
Ho fatto qualche debito. Cinque seicento euro, non di più.
«Savè» mi ha detto il padrone della villa, «ti voglio aiutare».
E mi ha proposto di portare la polvere a certe feste nei paesi dove andavo.
Ho pensato, è una cosa da niente, una situazione momentanea, ora si aggiusta tutto, passa questo periodo storto e la fortuna torna a girare. Non lo capivo che mò le scale le scendevo a quattro a quattro. Che la vita mi stava ingoiando e non me ne accorgevo. Un poco alla volta, all’inizio. Poi sempre più veloce.
La voce, a causa della polvere si è rovinata, si è fatta un poco stridula. Lo sguardo è diventato insicuro, il nero degli occhi meno infuocato. Per continuare a fare la vita che facevo, per continuare a tirare tre volte al giorno, ho iniziato a fare i viaggi fino al nord. Uno al mese all’inizio, poi ogni quindici giorni, ogni sette. Ormai stavo a servizio loro, e ancora mi credevo che me ne uscivo, che prima o poi girava il vento. Ma il vento non girava mai, mi soffiava in faccia e non mi faceva capire dove stavo andando, dove stavo scendendo. Intanto tiravo, tiravo, pareva che solo a tirare trovavo un momento di pace.
«Savè» mi ha detto una sera il padrone della villa, «Savè, stai sotto di seimila euro».
Ho detto se mi lasciava un poco di tempo.
Che presto mi mettevo un’altra volta a cantare, che già tenevo un contratto e dentro a un mese sistemavo tutto. Per l’amicizia di una volta, un mese me lo doveva lasciare.
Un mese, e tutto tornava a posto. «Un mese, Savè, solo perché sei tu».
Non sapevo come fare, non sapevo dove trovarli i soldi.
All’improvviso mio padre è morto. Quella è stata l’ultima occasione che la vita mi ha regalato. Ho venduto lo scantinato per i dolci. Ce la facevo ancora a pagare i debiti e mi restava pure qualcosa. Però i soldi me li sono mangiati dentro a niente. Dentro a una notte che pioveva, dentro a una mano di poker che m’illudevo di rifarmi del tempo perduto.
Dopo tre mesi stavo da sotto dodicimila euro, e non tenevo manco un centesimo, manco gli occhi per piangere.
«Savè» mi ha detto il padrone della villa, «al prossimo viaggio, a quello, la borsa con la roba non gliela devi dare».
E mi ha messo una pistola in mano.
«Va bene» ho detto.
La verità, però, non lo pensavo veramente.
Pensavo che fino a quel punto non ci sarei arrivato, pensavo che me ne scappavo lontano con il carico di polvere e me ne andavo a vivere al Sudamerica, ai Caraibi, all’Australia, credevo ancora che quando volevo me ne uscivo.
Che mi accompagnava qualcuno non me lo aspettavo. Come se mi avevano letto nel pensiero che li volevo fottere.
E mò che dovevo fare?
Savè, mi sono detto, se non lo fai tu lo fa un altro. E poi quello che devi sparare mica è un santo, è una merda qualunque, che quasi quasi dopo il mondo ti ringrazia. Lo fai questa volta e poi trovi una soluzione.
Ma la soluzione non esisteva più. Non ci stava più niente. Ci stava da fare solo quello che mi ordinavano. Io mi sforzavo di non pensare e lo facevo, aspettando che mi tiravo un’altra strisciata di polvere, aspettando che mi stordivo per non pensare.
Alla fine ha cominciato a tremarmi la mano.
Non ce la facevo più a tenerla ferma, misforzavo, ma quella tremava. Vedevo il sole che si spaccava e diventava nero, vedevo una bocca che si apriva e ci cadevo dentro, sentivo le voci che mi chiamavano, Savè, Savè, io mi tappavo le orecchie e quelle continuavano a cercarmi.
Così è finita pure la storia della pistola. Non ero più buono manco a sparare. Non tenevo più la maniera di guadagnare niente. Non tenevo più i soldi per farmi e senza farmi non ce la facevo a stare. Mi sembrava d’impazzire ancora di più, mi sentivo una mano che mi strappava le budella, e mi buttavo a terra sperando che il padrone della villa s’impietosiva e mi regalava una dose.
«Savè» ha detto, «ti voglio aiutare».
«Faccio quello che volete» ho detto.
«Vieni domani alle dieci che dobbiamo provare una partita nuova di roba».
«Ma io non tengo i soldi» ho detto.
«Savè, tu non devi pagare, tu fai da cavia.
Provi la roba per vedere se è buona».
Ecco qua, stavo all’ultimo gradino. Ero diventato un visitor, che gli regalano la dose quotidiana per vedere se muore o resta vivo dopo che si è fatto. Se resta vivo hanno tagliato bene e possono vendere, se muore hanno incasato troppo la mano e debbono alleggerire un poco.
Così ora mi alzo tutte le mattine e me ne salgo sopra al 157. Mi metto vicino al finestrino, con la testa poggiata in faccia al vetro.
Un poco guardo la strada, le macchine che passano, un poco mi addormento.
Al capolinea scendo. Mi appoggio al muro per tenermi in piedi, e piano piano arrivo fino allo spiazzo. Mi siedo al sole, o sotto alla pioggia, tanto è lo stesso, e aspetto gettato contro a una colonna insieme agli altri. Aspetto che mi portano la siringa già caricata, mi cerco una vena che tiene ancora spazio, infilo l’ago e spingo da dentro. E loro intanto controllano l’effetto che fa, per vedere se muoio o resto vivo.
Mi guardo un momento dentro allo specchio, poi giro la testa e provo a camminare, provo ad arrivare in fondo a questa giornata, sperando che è l’ultima, sperando che il patreterno mi fa la grazia di finirla una volta per tutte questa tarantella.