SULLO SCAFFALE: Una vita in cui non succede mai niente, di Mazen Maarouf

Come ogni primavera, da oggi Cattedrale inaugura una sezione all’interno della rubrica Racconti d’autore che intende riportare l’attenzione dei lettori su libri non proprio freschi di pubblicazione, riproponendo racconti di raccolte ormai sul mercato da qualche tempo. SULLO SCAFFALE è la sezione in cui troverete proposte non recenti, per permettere ai lettori di stare al passo con le numerose uscite e, soprattutto, per permettere ai libri di godere del loro tempo: lento, attento, riflettuto - lontano dalle dinamiche isteriche e istantanee del mercato.

Inauguriamo questa sezione con grande orgoglio, proponendovi il racconto Una vita in cui non succede mai niente contenuto nel libro di Mazen Maarouf, Come un giorno di sole in panchina, pubblicato da Sellerio, uscito nel novembre del 2024 e tradotto da Barbara Teresi.

Buone letture!

Una vita in cui non succede mai niente
di Mazen Maarouf

Durante la guerra, mio padre non era mai spaventato a meno che non ci fossimo noi nei paraggi. Quando era solo, non gli importava. La sua paura era che morissimo davanti a lui, e questo lo faceva pensare per tutto il tempo a noi, cosa che non voleva. L’ho sentito mentre lo diceva a mia madre, aveva aggiunto che credeva di essere una di quelle persone nate per sopravvivere mentre tutti gli altri intorno muoiono. Gli scontri si facevano più cruenti e lui alzava il volume della radio per nascondere il frastuono dei bombardamenti, e così non abbiamo mai dubitato, neppure per un istante, che avesse paura. Riusciva sempre a trovare una canzone che non avevamo sentito prima. Pop, rock, folk, jazz, classica… Sempre musica. Noi gli chiedevamo di spiegarci il significato della canzone e lui diceva che parlava di un tale che viveva una vita in cui non succede mai niente. Era la stessa canzone che avevamo sentito la volta prima. Per noi bambini era incredibile come mio padre riuscisse a imbattersi tutte le volte nella stessa canzone, ma con una melodia diversa. E pensavamo che la sua insistenza per farci scendere al rifugio fosse dovuta al fatto che lui, invece, stava andando a combattere con i miliziani. Con tutte le fazioni armate che pullulavano intorno a noi, non capivamo chi fossero gli «eroi» e chi i «malviventi», ma di sicuro mio padre era dalla parte degli «eroi». La verità, però, era l’esatto contrario. Non appena scendevamo al rifugio, mio padre si stendeva sul pavimento del salotto, rivestito da cinque pesanti coperte ignifughe che avevamo ricevuto dagli aiuti umanitari, tenendo accanto a sé il suo quaderno degli schizzi. Voleva diventare un disegnatore di fumetti. Tuttavia, la sua immaginazione non gli era affatto d’aiuto nello scrivere storie. Continuava a disegnare personaggi che non dicevano niente, come nei disegni dei piccoli. Erano per lo più immagini di uomini armati e di bambini. Senza testi. Sosteneva di non poter scrivere perché nella sua vita con noi non succedeva mai niente.
Un giorno, mentre i ragazzi parlavano del fatto che nessuno conosceva il volto dei miliziani che andavano in battaglia (non gli stessi che giravano per le strade), ho detto che mio padre andava a combattere quando noi scendevamo al rifugio. Uno di loro mi ha chiesto di descrivere la sua uniforme, così ho preso in prestito l’immagine di una divisa da miliziano che avevo visto disegnata sul suo quaderno. Giorni dopo, al ritorno da scuola, abbiamo saputo dai vicini che alcuni uomini armati avevano portato via mio padre da casa nostra, che stavano cercando un’uniforme militare – identica a quella che avevo descritto allo studente – e che mio padre aveva sorriso dicendo che finalmente nella sua vita sarebbe successo qualcosa. Ho detto ai miei compagni di scuola che mio padre era stato rapito dai miliziani, ma che gli eroi lo avrebbero salvato. E invece sono passate settimane, poi mesi e anni, ma di mio padre non c’era traccia.
In seguito, siamo stati costretti a lasciare il palazzo, insieme agli altri inquilini, perché eravamo profughi e non avevamo il diritto di rimanere lì dopo la fine della guerra. Mia madre ha attaccato alla porta un foglio con l’indirizzo della nostra nuova casa, perché mio padre lo leggesse al suo ritorno. Il cartello è rimasto lì per mesi, finché il proprietario dell’edificio non lo ha strappato durante i lavori di ristrutturazione. Quando l’ha saputo, mia madre mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul giornale per spingere mio padre a tornare. Le ho detto che papà era scomparso. «Di sicuro è vivo», mi ha risposto, «ma quello scemo potrebbe pensare che siamo morti e non impegnarsi abbastanza per cercarci. Scrivi qualcosa, fagli sapere che la nostra non è una vita in cui non succede mai niente, come diceva sempre. Ma fa’ in modo che abbia ogni volta una forma diversa, tuo padre è un artista, e se vede che scriviamo sempre lo stesso annuncio penserà che non lo apprezziamo abbastanza. E che ha fatto bene a lasciarci».
E così ho fatto.
Quello è stato il mio primo tentativo di scrittura. Un semplice testo di tre o quattro righe che pubblicavo sul giornale ogni mese. Mia madre non ha mai letto quello che scrivevo né fatto domande in proposito. Lavorava e si limitava a pagare le spese di pubblicazione. Diceva che, se lo avesse letto, avrebbe provato dolore. Uno strano presentimento glielo faceva pensare. Ma era convinta che quello che scrivevo avrebbe dato i suoi frutti. E così, con quelle righe striminzite, ho continuato a parlare di un solo argomento, sempre lo stesso, ma in forme diverse. Esattamente come le canzoni che mio padre metteva alla radio durante i bombardamenti. Finché un giorno non è accaduto quello che mia madre si aspettava, e mio padre è tornato da noi.
Era in condizioni pietose, sul viso un misto di ansia, stanchezza e tristezza, ma neppure mezz’ora dopo il suo ritorno tutto questo si è trasformato in rabbia, e abbiamo litigato. Quel giorno mi ha detto che, se avessi deciso di diventare uno scrittore, avrei dovuto evitare la scrittura autobiografica, perché in quella non ero bravo; mi ha detto che se mai l’avessi impiegata, era sicuro che ne avrei fatto un uso improprio. Mi ha sfidato a scrivere di lui per dimostrare di avere ragione, così avremmo visto dove sarei andato a parare. Nonostante il suo tono di sfida, avevo la sensazione che in realtà mi stesse chiedendo qualcos’altro. Aiuto. Ma io non ho fatto nulla. Ho persino smesso di scrivere. Adesso, dopo tutti questi anni, seguire me stesso nel passato è come seguire un’ombra che in qualunque momento potrebbe assumere le sembianze di qualcun altro.
Per questo, di solito finisco per parlare di altre persone che avrei voluto essere. Mio padre, naturalmente, non è una di queste. Eppure, è più di ogni altro la persona di cui avrei voglia di scrivere, consapevole del fatto che non riuscire a catturare la sua personalità mi permette di apparire come se stessi davvero facendo un cattivo uso della scrittura, come aveva detto lui; quindi scrivo di qualcun altro. Qualcuno che mio padre avrebbe voluto essere.
Se vi state chiedendo cosa pubblicassi sul giornale, sperando di attirare l’attenzione di mio padre in quelle poche righe e senza spendere troppo, ebbene si trattava di necrologi nella pagina degli annunci mortuari. Ogni mese pubblicavo il necrologio per la morte di uno dei miei tre fratelli. All’inizio loro se ne erano avuti a male, ma poi avevamo preso a riderci su. «Quando scriverai un necrologio a tuo nome?», scherzavano dandomi dell’ossessivo. Secondo loro è una qualità utile se voglio diventare uno scrittore.
Mio padre non ha mai più disegnato fumetti. E oggi ascolta musica molto di rado. È anche convinto che io scriva solo per ricordare il periodo in cui ci ha abbandonati. Ma ogni volta che stiamo per metterci a litigare, io apro un’app con una playlist sul cellulare e alzo il volume, e allora lui si avvicina e mi dice: «Hai paura, eh? Paura. Dillo! Dillo!».

Le case editrici che desiderano aderire a SULLO SCAFFALE, possono scrivere a: rivistacattedrale@gmail.com