La gola della balena, di Rudyard Kipling

La gola della balena
di Rudyard Kipling

Una volta c’era nel mare una balena che mangiava i pesci. Mangiava il carpione e lo storione, il nasello e il pesce martello, il branzino e il delfino, i calamaretti e i gamberetti, la triglia e la conchiglia, e la flessuosa anguilla con sua figlia e tutta la sua famiglia con la coda a ronciglio. Tutti i pesci che poteva trovare in tutto il mare, essa li mangiava con la bocca…. così! Tanto che non era rimasto in tutto il mare che un solo pesciolino, un Pesciolino-pieno-d’astuzia che nuotava dietro l’orecchio destro della balena, per tenersi prudentemente fuor di tiro.
Allora la balena si levò ritta sulla coda e disse:
– Ho fame. –
E il Pesciolino-pieno-d’astuzia disse con una vocina parimenti piena d’astuzia:
– Nobile e generoso cetaceo, hai mai mangiato l’uomo? –
– No, – disse la balena. – Com’è?
– Squisito! – disse il pesciolino-pieno-d’astuzia: – squisito ma nodoso.
– Allora portamene un paio, – disse la balena, e con la coda fece spumeggiare il mare.
– Uno per volta basta, – disse il Pesciolino-pieno-d’astuzia. – Se tu nuoti fino al cinquantesimo grado di latitudine nord e quaranta di longitudine ovest, (questo è magìa) troverai, seduto su una zattera, in mezzo al mare, con nulla addosso eccetto un paio di calzoni di tela azzurra, un paio di bretelle (non dovete dimenticare le bretelle, cari miei,) e un coltello da tasca, un marinaio naufragato, che – è bene tu ne sii avvertito – è un uomo d’infinite-risorse-e-sagacità.
Così la balena nuotò e nuotò fino al grado cinquantesimo di latitudine nord e quarantesimo di longitudine ovest, più rapidamente che potè, e su una zattera, in mezzo al mare, con nulla indosso eccetto un paio di calzoni di tela azzurra, un paio di bretelle (dovete ricordare specialmente le bretelle, cari miei) e un coltello da tasca, essa vide un unico e solitario marinaio naufragato, coi piedi penzoloni nell’acqua. (Egli aveva avuto da sua madre il permesso di guazzare nell’acqua; altrimenti non l’avrebbe fatto, perchè era un uomo d’infinite-risorse-e-sagacità).
Allora la balena aprì la bocca e la spalancò che quasi si toccava la coda, e inghiottì il marinaio naufragato, con tutta la zattera su cui sedeva, col suo paio di calzoni di tela azzurra, le bretelle (che non dovete dimenticare) e il coltello da tasca. Essa inghiottì ogni cosa nella credenza calda e buia dello stomaco, e poi si leccò le labbra…. così, e girò tre volte sulla coda.
Ma il marinaio, che era un uomo di infinite-risorse-e-sagacità, non appena si trovò nel capace e buio stomaco della balena, inciampò e saltò, urtò e calciò, schiamazzò e ballò, urlò e folleggiò, picchiò e morsicò, strisciò e grattò, scivolò e passeggiò, s’inginocchiò e s’alzò, strepitò e sospirò, s’insinuò e gironzò, e danzò balli alla marinara dove non doveva, e la balena si sentì veramente molto infelice. (Avete dimenticato le bretelle?)
Così disse al Pesciolino-pieno-d’astuzia:
– Quest’uomo è molto indigesto, e mi fa venire il singulto. Che cosa debbo fare?
– Digli di uscire, – disse il Pesciolino-pieno-d’astuzia.
Così la balena gridò dal fondo della gola al marinaio naufragato:
– Esci fuori e comportati onestamente. M’hai messo il singulto.
– No!, no! – disse il marinaio. – Non così; in maniera molto diversa. Portami alla sponda natìa, ai bianchi scogli di Albione, e ci penserò.
E continuò a ballare più che mai.
– Faresti meglio a portarlo a casa – disse il Pesciolino-pieno-d’astuzia alla balena. – Io ti ho avvertito che è un uomo di infinite-risorse-e-sagacità.
Così la balena si mise a nuotare, a nuotare con le due natatoie e la coda, come meglio le permetteva il singulto; e finalmente vide la sponda nativa del marinaio e i bianchi scogli di Albione, si precipitò sulla spiaggia, spalancò tutta quanta la bocca e disse:
– Per Winchester, Ashuelot, Nasua, Keene e le stazioni della ferrovia di Fitchburg si cambia.
E mentre diceva “Fitch” il marinaio sbucava dalla bocca. Ma mentre la balena era stata occupata a nuotare, il marinaio, che era davvero una persona piena-di-infinite-risorse-e-sagacità, aveva preso un coltello da tasca e tagliata dalla zattera una cancellata a sbarre incrociate, l’aveva saldamente legata con le bretelle (ora sapete perchè non si dovevano dimenticare le bretelle) e poi l’aveva incastrata nella gola della balena, recitando il seguente distico, che, siccome non lo conoscete, qui vi trascrivo:
Con le sbarre della grata
nel mangiar t’ho moderata.
E saltò sulla ghiaia, e si diresse a casa della mamma, che gli aveva dato il permesso di guazzare nell’acqua; e s’ammogliò e d’allora in poi visse felicemente. Com’anche la balena.
Ma da quel giorno ad oggi, la grata in gola che essa non può nè espellere, nè inghiottire, le impedì di mangiar tutto quello che voleva, eccetto i minuti pesciolini, ed è questa la ragione perchè le balene non mangiano più uomini, bambine e bambini.
Il Pesciolino-pieno-d’astuzia se la svignò e si nascose sotto la soglia dell’Equatore. Temeva che la balena fosse grandemente adirata con lui. Il marinaio portò a casa il coltello da tasca. Aveva indosso soltanto il paio di calzoni di tela azzurra quando s’era messo a camminare sulla ghiaia. Le bretelle l’aveva lasciate strette alla cancellata; e questa è la fine di questo racconto.

L'estraneo, di H.F.Lovecraft

L’estraneo
di Howard Phillips Lovecraft

Quella notte il Barone sognò di molte disgrazie;
E tutti i suoi ospiti guerrieri, con ombra e forma
Di strega, e demone, e grosso verme da bara,
Sarebbero stati incubi a lungo.
John Keats


Infelice è la persona alla quale i ricordi dell’infanzia portano solo paura e tristezza.
Disgraziato è colui che torna col pensiero alle ore solitarie in tetri stanzoni dai tendaggi bruni e dalle esasperanti file di libri antichi, o alle timorose veglie crepuscolari nei giardini di giganteschi alberi grotteschi, carichi di rampicanti, che silenziosamente ondeggiano con rami contorti verso l’alto, distanti. Un tale destino gli dei hanno donato a me – a me, lo stupefatto, il deluso, lo sterile, lo spezzato.
Eppure stranamente sono soddisfatto, e mi aggrappo disperatamente a quei ricordi avvizziti, quando la mia mente per un momento minaccia di andare oltre, verso l’altro.
Non so dove sono nato, a parte il fatto che il castello era infinitamente vecchio e infinitamente orribile; pieno di passaggi bui e con alti soffitti su cui l’occhio poteva trovare soltanto ragnatele ed ombre. Le pietre nei corridoi fatiscenti sembravano sempre orrendamente umide, e vi era un detestabile fetore ovunque, come di cadaveri accatastati di morte generazioni.
Non vi era mai luce, così a volte avevo l’abitudine di accendere delle candele e di fissarle immobile per confortarmi; nemmeno vi era sole all’esterno, dato che alberi tremendi crescevano alti al di sopra della più alta torre accessibile. Vi era una torre nera che saliva più in alto degli alberi nello sconosciuto cielo esteriore, ma era parzialmente in rovina e non vi si poteva salire tranne che con una scalata quasi impossibile del muro a strapiombo, pietra dopo pietra.
Devo aver vissuto per anni in questo luogo, ma non saprei quantificare il tempo. Qualche creatura deve aver badato ai miei bisogni, eppure non posso ricordare nessuno tranne me stesso; o niente di vivo se non i silenziosi ratti, i pipistrelli e i ragni. Penso che chiunque mi abbia nutrito debba essere stato sorprendentemente vecchio, dato che la mia prima concezione di una persona vivente era quella di qualcosa di beffardamente simile a me, seppure distorto, raggrinzito ed in decomposizione come il castello.
Per me non vi era niente di grottesco nelle ossa e negli scheletri che erano disseminati su alcune pietre delle cripte, in profondità tra le fondamenta. Le associavo in modo fantastico agli eventi di ogni giorno, e li consideravo più naturali delle immagini colorate degli esseri viventi che trovavo in molti libri ammuffiti.
Da quei libri imparai tutto quello che so. Nessun insegnante mi ha incoraggiato o guidato, e non ricordo di aver udito alcuna voce umana in tutti quegli anni – nemmeno la mia; perché sebbene avessi letto della parola, non avevo mai pensato di parlare ad alta voce. Anche il mio aspetto era una questione ugualmente impensata, perché non vi erano specchi nel castello, e avevo considerato me stesso puramente per istinto come simile alle figure giovanili che vedevo disegnate e dipinte nei libri. Mi sentivo consapevole della giovinezza perché ricordavo così poco.
All’esterno, attraverso il fossato putrido e al di sotto degli oscuri alberi muti, avevo spesso giaciuto, e sognato per ore di ciò che avevo letto nei libri; con desiderio immaginavo me stesso in un’allegra folla nel mondo soleggiato al di là della foresta infinita. Una volta tentai di fuggire dalla foresta, ma appena arrivai oltre il castello l’ombra divenne più densa e l’aria piena di terrificante minaccia; così che fuggi freneticamente indietro per timore di perdere la strada in un labirinto di notte e di silenzio.
Così attraverso incessanti crepuscoli sognavo e aspettavo, sebbene non sapessi cosa stavo aspettando. Poi nella solitudine piena di ombre il mio desiderio di luce divenne così febbrile che non potevo più attendere, ed alzai le mani imploranti all’unica nera torre in rovina che si ergeva oltre la foresta nell’ incognito cielo esteriore. Ed alla fine decisi di scalare la torre, anche se fossi caduto; dato che era meglio intravedere il cielo e perire che vivere senza aver mai visto il giorno.
Nell’umido crepuscolo scalai le consunte e vetuste scale di pietra fino a raggiungere il punto in cui terminavano, e da allora in poi mi aggrappai pericolosamente a piccoli appigli rivolti verso l’alto. Agghiacciante e terribile era quel morto cilindro di pietra senza scale; nero, in rovina, abbandonato e sinistro, con pipistrelli stupefatti le cui ali non facevano rumore. Ma più agghiacciante e terribile ancora era la lentezza del mio progredire; per quanto mi sforzassi nella salita, l’oscurità sopra il mio capo diventava più spessa, ed un nuovo brivido mi assalì come se forme stregate e venerande mi avessero assalito. Rabbrividii mentre mi meravigliavo del perché non raggiungessi la luce, ed avrei guardato in giù se ne avessi avuto il coraggio. Immaginai che la notte fosse giunta rapida su di me, in vano cercavo a tentoni, con una mano libera, la feritoia di una finestra, per poter sbirciare al di fuori e al di sopra, e tentare di giudicare l’altezza che avevo raggiunto.
All’improvviso, dopo un’infinità di grandiose e cieche contorsioni su per quel concavo e disperato precipizio, sentii che la mia testa aveva toccato qualcosa di solido, e capii che dovevo aver raggiunto il tetto, o almeno un qualche tipo di pavimento. Nell’oscurità sollevai la mano libera ed esaminai la barriera, trovandola di pietra e inamovibile. Allora cominciò un giro mortale della torre, nel quale mi afferrai a qualsiasi appiglio il viscido muro potesse offrire; fino a che finalmente la mia mano trovò una barriera cedevole, e mi girai verso l’alto di nuovo, spingendo la lastra o la porta con la testa, dato che usavo entrambe le mani per la spaventosa ascesa.
Non vi era luce rivelata al di sopra, e mentre le mie mani andavano più in alto sapevo che la mia salita era per l’occasione finita; dato che la lastra era la botola di un’apertura che portava ad una superficie di pietra di circonferenza maggiore di quella della torre più in basso, senza dubbio il pavimento di qualche elevata e capiente sala di osservazione. Vi strisciai attraverso con attenzione, e tentai di impedire che la pesante lastra scivolasse di nuovo al suo posto; ma fallii nell’ultimo tentativo. Mentre giacevo esausto sul pavimento di pietra udii l’inquietante eco della sua caduta, ma speravo, nel caso fosse necessario, di fare leva per aprirla di nuovo.
Credendo di essere ora ad un’altezza prodigiosa, ben al di sopra dei detestabili rami del bosco, mi trascinai su dal pavimento e cercai a tentoni le finestre, così da poter cercare per la prima volta il cielo, la luna e le stelle di cui avevo letto. Ma sotto ogni aspetto ero deluso; dato che tutto ciò che trovai erano vasti scaffali di marmo, che reggevano odiose casse oblunghe di dimensioni inquietanti. Sempre più riflettevo, e mi chiedevo quali antichi segreti potessero dimorare in questo appartamento elevato, a così tanti eoni di distanza dal castello al di sotto. Poi inaspettatamente le mie mani giunsero ad un accesso dove era appeso un portale di pietra, ruvido, con strani fregi.
Toccandolo lo trovai chiuso; ma con un supremo sforzo superai tutti gli ostacoli e lo tirai aprendolo verso l’interno. Appena lo feci provai la più intensa estasi che avessi mai conosciuto; perché brillando tranquilla, attraverso un’ornata grata di ferro in fondo ad a un breve viottolo di gradini che salivano dalla porta appena scoperta, vi era una radiante luna piena, che non avevo mai visto prima tranne che nei sogni e in vaghe visioni che non osavo chiamare ricordi.
Immaginando ora di aver raggiunto proprio il pinnacolo del castello, comincia ad affrettarmi su per i pochi gradini oltre la porta; ma l’improvviso velamento della luna da parte di una nuvola mi fece inciampare, e sentii il mio percorso più lento nell’oscurità. Era ancora molto buio quando raggiunsi l’inferriata – che tastai con attenzione e trovai aperta, ma che non spinsi per paura di cadere dalla stupefacente altezza fino alla quale ero salito. Poi uscì la luna.
Il più diabolico di tutti gli choc è quello dato da ciò che è atrocemente imprevisto e grottescamente incredibile.
Niente di ciò che avevo mai vissuto poteva paragonarsi in terrore a ciò che vidi; con la bizzarra meraviglia che quella vista implicava. La visione stessa era tanto semplice quanto stupefacente, perché era puramente questa: invece di una vertiginosa prospettiva delle cime degli alberi visti da una torreggiante altitudine, si distendeva intorno a me in piano attraverso l’inferriata niente di meno che la solida terra, ricoperta e diversificata da lastre di marmo e colonne, e oscurata da un’antica chiesa di pietra, la cui guglia in rovina baluginava spettrale al chiaro di luna.
Semi incosciente, aprii l’inferriata e vacillai al di sopra del sentiero di ghiaia che si allungava in due direzioni. La mia mente, sbalordita e caotica com’era, ancora manteneva la frenetica bramosia per la luce, e nemmeno la fantastica meraviglia accaduta poteva modificare la mia rotta. Non sapevo né mi importava sapere se la mia esperienza fosse follia, sogno o magia; ero determinato a posare il mio sguardo sulla luce e la gaiezza ad ogni costo.
Non sapevo chi fossi o che cosa fossi, o cosa i dintorni potessero essere, sebbene mentre proseguivo incespicando affiorava uno spaventoso ricordo latente che rese il mio avanzare non del tutto casuale. Passai al di sotto di un arco fuori da quella zona di lastre e colonne, e vagai nell’aperta campagna, a volte seguendo la strada visibile, ma a volte lasciandola per percorrere curioso i campi in cui solo rovine occasionali rivelavano l’antica presenza di una strada dimenticata. Una volta nuotai attraverso un fiume, dove una sgretolata e muschiosa muraglia raccontava di un ponte da lungo tempo svanito.
Più di due ore dovevano essere passate prima che io raggiungessi quella che sembrava essere la mia meta, un venerando castello coperto di edera in un parco nascosto da un fitto bosco, di una familiarità esasperante, e pure colmo di sconcertante stranezza per me. Vidi che il fossato era pieno, e che alcune delle ben note torri erano demolite; mentre nuove ali esistevano per confondere l’osservatore. Ma ciò che osservai con grande interesse e piacere erano le finestre aperte – gloriosamente risplendenti di luce dalle quali emanava il suono della più allegra baldoria. Avanzando verso una di queste vidi una compagnia bizzarramente abbigliata, che faceva festa e chiacchierava allegramente. Apparentemente non avevo mai udito una parola umana prima di allora; e potevo solo vagamente immaginare che cosa veniva detto. Alcuni dei volti sembravano avere espressioni che evocavano ricordi incredibilmente remoti; altri mi erano totalmente alieni.
Passai attraverso la finestra bassa all’interno della stanza illuminata, avanzando dal mio unico momento di luminosa speranza verso la più nera convulsione di disperazione e consapevolezza. L’incubo giunse rapido, perché appena entrai accadde immediatamente una delle più terrificanti manifestazioni che io avessi mai concepito.
A malapena avevo attraversato il davanzale che discese sull’intera compagnia un’improvvisa e inattesa paura di atroce intensità, che distorse ogni volto ed evocò orribili grida da quasi ogni gola. La fuga fu universale, e nel clamore e nel panico molti persero i sensi e furono trascinati via dai loro compagni follemente in fuga. Molti si coprirono gli occhi con le mani e precipitarono alla cieca o caddero goffamente nella loro corsa per fuggire; ribaltando i mobili e inciampando contro i muri prima di riuscire a raggiungere una delle molte porte.
Le grida erano sconvolgenti, e mente restavo in piedi nel salone luminoso, solo e confuso ascoltando la loro eco che svaniva, tremavo al pensiero di ciò che poteva essere in agguato non visto vicino a me. Ad una fuggevole ispezione la stanza appariva deserta, ma quando mi diressi verso una delle nicchie pensai di avere rilevato una presenza laggiù – un accenno di movimento oltre al dorato arco d’ingresso che portava verso un’altra stanza simile.
Appena mi avvicinai all’arco iniziai a percepire la presenza più distintamente e col primo ed ultimo suono che mai emisi – un agghiacciante ululato che mi rivoltò così intensamente come la sua malefica causa – scorsi in piena, spaventosa vividezza l’inconcepibile, indescrivibile, ed impronunciabile mostruosità che aveva con la sua semplice comparsa trasformato un’allegra brigata in una torma di fuggitivi in delirio.
Non posso neanche accennare a come fosse, perché era un composto di tutto ciò che è immondo, inquietante, indesiderato, anormale e detestabile. Era l’ombra macabra del decadimento, dell’antichità e della desolazione; il putrido, fradicio spettro di una malsana rivelazione, l’orribile svelamento di ciò che la pietosa terra dovrebbe sempre occultare. Dio sa che non era di questo mondo – o non più di questo mondo – eppure con orrore, vidi nei suoi smangiati contorni da cui si intravedevano le ossa, una malvagia, ripugnante caricatura della figura umana, e nel suo ammuffito disintegrato abbigliamento un’indicibile essenza che mi agghiacciò ancor di più.
Ero quasi paralizzato, ma non così tanto da non poter fare un flebile sforzo verso la fuga; un’esitazione all’indietro mi fece fallire il tentativo di rompere l’incanto in cui il mostro senza nome mi teneva. I miei occhi stregati dalle vitree orbite che li fissavano in modo ripugnante, rifiutavano di chiudersi, sebbene fossero pietosamente annebbiati, e mi mostrarono il terribile oggetto indistintamente dopo il primo choc. Tentai di alzare la mano per nascondere la vista, eppure così sbalorditi erano i miei nervi che il mio braccio non poteva completamente obbedire alla mia volontà. Il tentativo comunque fu sufficiente a disturbare il mio equilibrio, così che dovetti barcollare in avanti di qualche passo per evitare di cadere.
Appena lo feci divenni improvvisamente e in modo lancinante consapevole della vicinanza di quella carogna, il cui orrendo, cupo, respiro immaginai di poter sentire. Quasi folle, mi scoprii capace di allungare una mano per allontanare la fetida apparizione che mi incalzava così da vicino; quando in un catastrofico istante da incubo cosmico e infernale disgrazia le mie dita toccarono la corrotta zampa del mostro distesa oltre l’arco dorato.
Non urlai, ma tutti i demoniaci spettri che cavalcano i venti notturni urlarono per me nello stesso istante in cui precipitò sulla mia mente un’unica a e fugace valanga di ricordi che mi annichilirono l’anima. Seppi in quel momento tutto ciò che era stato, ricordai lo spaventoso castello e gli alberi, e riconobbi l’edificio alterato nel quale ora stavo: riconobbi, più terribile di tutto, l’empio abominio che stava lascivo di fronte a me mentre ritraevo le mie dita macchiate dalle sue.
Ma nell’ordine universale vi è un balsamo così come vi è l’amarezza, e quel balsamo è nepente. Nel supremo orrore di quell’istante dimenticai cosa mi aveva terrorizzato, e l’esplosione di ricordi oscuri svanì in un caos di immagini echeggianti. In un sogno fuggii da quel cumulo spettrale e maledetto, e corsi svelto e silenzioso nella luce della luna. Quando tornai al cimitero di marmo e scesi i gradini trovai la botola di pietra inamovibile; ma non me ne dispiacqui, perché odiavo l’antico castello e gli alberi. Ora cavalco con spettri beffardi e amichevoli sui venti della notte, e gioco di giorno tra le catacombe di Nephren-Ka nella chiusa e sconosciuta valle di Hadoth vicino al Nilo. So che la luce non è per me, tranne quella della luna sopra le tombe di roccia di Neb, e nemmeno l’allegria, a parte gli innominabili festini di Nitokris al di sotto della Grande Piramide, eppure nella mia nuova condizione di selvaggia libertà quasi accolgo l’amarezza della mia estraneità.
Perché sebbene nepente mi abbia calmato, so sempre di essere un estraneo, uno straniero in questo secolo e tra coloro che sono ancora uomini. Questo l’ho saputo sin da quando ho allungato le mie dita verso l’abominio all’interno di quella grande cornice dorata; ho allungato le mie dita e ho toccato una fredda e rigida superficie di vetro lucido.

Il cavaliere del secchio, di Franz Kafka

Il cavaliere del secchio
di Franz Kafka

Consumato tutto il carbone. Vuoto il secchio. Inutile la pala. La stufa che respira aria gelida. La stanza gonfia di gelo. Davanti alla finestra, gli alberi rigidi nella brina. Il cielo, uno scudo d’argento contro chi cerca da lui un aiuto. Devo procurarmi del carbone. Non posso certo morire congelato. Dietro di me la stufa impietosa, impietoso il cielo davanti a me. Perciò devo andare al trotto in mezzo a loro, e nel frattempo, cercare aiuto dal carbonaio. Questi però è ormai indurito contro le mie solite preghiere. Devo dimostrargli con chiarezza che non ho più neppure la più piccola particella di carbone, e che dunque lui rappresenta per me il sole nel firmamento. Devo arrivare come il mendicante intenzionato a morire sulla soglia rantolando di fame, e al quale perciò la cuoca si decide a lasciare i fondi dell’ultimo caffè. Similmente il carbonaio, pur schiumante di rabbia, ma sotto il raggio del comandamento "Non uccidere!", dovrà scaraventarmi nel secchio un’intera badilata.
Già il mio decollo sarà decisivo, e dunque mi metto a cavalcare sul secchio. Da cavaliere del secchio, la mano in alto sull’impugnatura, che è la briglia più semplice, scendo con difficoltà le curve della scala; quando però sono giù, il mio secchio allora sale splendido, splendido. I cammelli sdraiati, stesi per terra, quando il bastone del padrone li incita, non si sollevano con maggiore eleganza. Trottando a velocità adeguata percorro le strade congelate. Spesso mi sollevo fino all’altezza del primo piano. Non scendo mai fino alle porte d’ingresso. E a straordinaria altezza mi libro sulle arcate della cantina del carbonaio, dove questi sta rannicchiato laggiù al suo tavolino scrivendo. Per lasciar defluire l’eccessivo calore ha aperto la porta. "Carbonaio!" grido con voce arsa e arrochita dal freddo, avvolto dalle nuvole di vapore del mio respiro, "per favore carbonaio, dammi un po’ di carbone. Il mio secchio ormai è tanto vuoto che ci posso cavalcare sopra. Sii buono. Appena posso te lo pago." Il carbonaio mette la mano all’orecchio. "Ho sentito bene?" chiede da sopra la spalla a sua moglie, che lavora a maglia vicino alla stufa, "ho sentito bene? Ci sono clienti.
"Io non sento proprio niente", dice la donna, respirando tranquilla sopra i ferri, piacevolmente riscaldata sulla schiena. "Oh sì", grido io, "sono un cliente, un vecchio cliente, un cliente fedele, solamente, per il momento, impossibilitato a pagare." "Moglie", dice il carbonaio, "è così, c’è proprio qualcuno, non posso ingannarmi fino a questo punto; dev’essere un vecchio, un vecchissimo cliente se sa toccarmi così profondamente il cuore." "Che ti prende, marito?" chiede la donna, e riposandosi un attimo preme sul petto il suo lavoro a maglia, "non c’è proprio nessuno, il vicolo è vuoto, tutti i nostri clienti sono stati riforniti, potremmo anche chiudere il negozio per giorni interi e riposarci." "Ma io sono qui, seduto sul secchio" grido, e lacrime insensibili di freddo mi velano lo sguardo, "per favore, guardate in su; mi troverete subito; vi prego, datemi una palata di carbone; e se me ne darete due, mi farete felice oltre misura. In fondo, tutti gli altri clienti sono riforniti. Ah, se lo sentissi già risuonare nel secchio!" "Vengo", dice il carbonaio e con le sue gambe corte vorrebbe già salire le scale della cantina, ma la moglie gli è già vicina, lo ferma prendendogli il braccio e dice: "Resta qui. Se non la finisci con questa idea, salirò io stessa. Ricordati che tosse hai avuto stanotte. Per un affare, e per di più immaginario, dimentichi moglie e figli e metti in pericolo i tuoi polmoni. Vado io." "Allora però digli tutti i tipi di carbone che abbiamo in magazzino; io da sotto ti dirò i prezzi." "Va bene", dice la moglie, e sale nel vicolo. Naturalmente mi vede subito. "Signora carbonaia", grido, "i miei saluti più devoti, solo una palata di carbone, subito, qui nel secchio, me la porto a casa da solo, una palata del peggiore. Naturalmente la pago a prezzo intero, non subito però, non subito." Che suono di campane, nelle due parole "non subito", e come disorienta il loro mescolarsi con le campane serali che proprio ora cominciano a suonare dal vicino campanile. "Allora, cosa vuole?" grida il carbonaio. "Niente", gli risponde la moglie, "non c’è nessuno, non vedo nessuno, non sento nessuno, solo hanno suonato le sei e noi chiudiamo il negozio. Il freddo è terribile, c’è da prevedere che domani avremo molto lavoro." Non vede niente e non sente niente, però scioglie il grembiule e agitandolo cerca di soffiarmi via. Purtroppo ci riesce. Il mio secchio ha tutti i vantaggi di qualsiasi buon animale da cavalcare, ma non ha capacità di resistenza, è troppo leggero. Basta il grembiule di una donna per cacciarlo a gambe levate. "Cattiva!" le grido dietro, mentre lei, voltandosi verso il negozio, agita la mano in aria un po’ sprezzante, un po’ soddisfatta di se stessa, "cattiva! Ti ho chiesto una palata di carbone del peggiore e tu non me l’hai data." E dicendo così salgo nelle regioni delle montagne di ghiaccio e mi perdo per non tornare mai più.

Invocazione, un racconto di Alfredo Zucchi

Edicola Edizioni porta in libreria Demolition job. Lettere all’usurpatore di Alfredo Zucchi. Cinque racconti che partono dall’evidenza della deflagrazione per restituire un’inattesa utopia della costruzione.
Alternando lo sviluppo dell’azione, spesso sospesa e decontestualizzata, alla riflessione teorica, Alfredo Zucchi sceglie la strada dell’accumulazione e dell’esplosione formale per affrontare temi come l’autorità e la morte, il desiderio e l’amore, il sogno e il linguaggio.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.


INVOCAZIONE
di Alfredo Zucchi

Tornare ogni volta è stupendo, è rimasto tutto uguale: le pozze sul basalto tra i vicoli sanno di pesce vivo, c’è un’aria salata che viene da est e sembra di stare in un grembo acquatico appena sguainato, apri gli occhi e le cose non sono ancora putrefatte. Per strada la gente saluta e spinge, ti assalta, saltella, sputa per terra e sorride. Voglio andare al mercato coperto in zona porto, dove andavo sempre, chi sa se c’è ancora – c’è un odore di cose ammontonate appena morte e non capisci se hai fame o vuoi scopare: è il mare nostro affollato di corpi, anime e piante, cozze, polpi e bagnanti, e chi va per strada sogna il deliquio perché chi vive vuole morire godendo.
Per strada la gente saluta e spinge, ti assalta, saltella, sputa per terra e sorride. Voglio andare al mercato coperto in zona porto, dove andavo sempre, chi sa se c’è ancora – c’è un odore di cose ammontonate appena morte e non capisci se hai fame o vuoi scopare: è il mare nostro affollato di corpi, anime e piante, cozze, polpi e bagnanti, e chi va per strada sogna il deliquio perché chi vive vuole morire godendo.

C’è un affare nel mezzo, in piazza, un palco e uno schermo, qualcuno si sgola in piedi per avere l’attenzione dei passanti ma questi s’infilano a imbuto nel mercato coperto a due passi, guardano il tizio che grida e ridono e lui finge una delusione lacerante. Chi sa se dentro c’è ancora il banchetto del baccalà con la bionda che sciacqua, dissala e sviscera come Diana nel bosco dei pesci.
Mi imbuco a spallate, è un festivo e la gente si riversa dentro come al bordello – ogni corpo dice “ho fame” e io pure rispondo che ho fame e voglio scopare. Ma è rimasto tutto uguale: il metallo a vista sul soffitto, le vetrate, i rivoli a terra – sale e acqua, sangue, acqua e visceri – che scorrono come il tappeto rosso delle occasioni uniche. Ogni volta è la prima e l’ultima, l’unica, questo ormai l’ho imparato.
Scorgo, infine, in un angolo, il più remoto del mio sguardo, il banchetto e la donna. L’ultima volta era proprio lì, vicino ai crostacei? Non mi risulta. Non mi scompongo: mi avvicino e incrocio i suoi occhi, sorridiamo insieme. Mi fa cenno con la testa, con le braccia e le mani eterne, dice “un momento e sono tua” e io uguale col capo le dico che il tempo è una pozza di visceri e pinne smembrate. Fisso l’animale morto disposto in vaschette diverse secondo i tagli e i gradi di salatura – io voglio i pezzi alti e spessi, non ho mai voluto altro.

Poi la bionda ritorna, lo sguardo ostile. Qualcosa è andato storto. Mi chiedo se la mia postura ha tradito l’urgenza, se la mia voce ha infranto un codice ignoto – forse un codice nuovo, o uno che ho dimenticato, dopotutto torno solo due volte l’anno, sono uno straniero. Diana si avvicina al banco, senza degnarmi dello sguardo chiede chi è il prossimo.
Io alzo la mano, il braccio teso, mi sembra di toccare il soffitto con un indice che non mi appartiene – alzo la voce e chiedo quattro pezzi alti, i più alti e spessi che esistono. Lei mi fissa, sorride e si volta di lato, dove un altro richiama la sua attenzione. C’era prima il signore. Le guardo le mani: non è vero, rancida vecchia – se una volta sono stato tuo, ora non lo sono, non so più di chi sono. L’uomo dietro di me ha la voce calda, ordina tre pezzi alti e due alette per il fritto – è il momento, mi dico: come la massa liquida a un passo dal foro del tubo striminzito da cui esploderà, è qui che il dramma ha propriamente inizio. Prendo a insultarlo strillando nella lingua che è stata la mia (ricordo dal fondo del tubo infinite varianti della bestemmia che riempie la bocca), lo aggredisco fissando la bionda che mi ride in faccia – così, mi dico, solenne ma incerto, vendicatore delle occasioni uniche, così io privo te, usurpatore dei pezzi alti, del mio sguardo, e me ne riapproprio; e privo te, bionda dei pesci morti, del mio impeto, e lo disperdo nel tubo del tempo.

Infine mi volto. Esaurita la catena del dubbio, i rivoli d’acqua e visceri per terra si prendono il naso e lo stomaco. Ora affoga, dico mentre mi sgonfio, regredisci al brodo dei primordi, anche tu come tutti. La tua bocca sia la fonte putrefatta, la sorgente morta. Mi volto infine e lo fisso, senza impeto, lo guardo in faccia e quell’uomo, l’usurpatore, sono io.

La fascinazione dello stagno, di Virginia Woolf

La fascinazione dello stagno
di Virginia Woolf

Forse l’acqua era molto alta – di sicuro non se ne vedeva il fondo. Intorno ai bordi stava una frangia di giunchi così spessa che le loro immagini riflesse creavano un’oscurità come l’oscurità di acque molto fonde. Però nel mezzo c’era qualcosa di bianco. La grande fattoria a un miglio di lì era in vendita e qualche tipo zelante, o forse era stato uno scherzo di qualche ragazzino, aveva conficcato uno dei manifesti annuncianti la vendita, con cavalli da tiro, attrezzi agricoli, e giovenche, su di un pezzo di tronco a fianco dello stagno. Il centro dell’acqua rifletteva il cartello bianco e quando soffiava il vento il centro dello stagno sembrava sventolare e incresparsi come un telo steso ad asciugare. Si potevano seguire le linee dei grossi caratteri rossi con cui era stampato nell’acqua «RomfordMill». Nel verde che si allargava in cerchi da una riva all’altra si vedeva un tocco di rosso.
Ma se uno sedeva tra i giunchi a osservare lo stagno – gli stagni posseggono non so che fascino curioso – le lettere rosse e nere e la carta bianca sembravano appoggiate appena a filo d’acqua, mentre al di sotto si svolgeva una profonda vita sommersa, simile al rimuginare, all’elucubrare della mente. Molte, molte persone dovevano essere venute qui, sole, nei giorni, nei secoli, a lasciar cadere i loro pensieri nell’acqua, a porre all’acqua certe domande, come facciamo noi in questa sera d’estate. Forse era quella la ragione del suo fascino – che custodiva nelle sue acque ogni sorta di fantasie, lagnanze, confidenze non stampate o dette a voce alta, bensì allo stato liquido, galleggianti l’una sull’altra, quasi disincarnate. Un pesce ci avrebbe nuotato in mezzo, per essere poi tagliato in due dalla lama di una canna; oppure la luna le avrebbe annullate con la sua grande piastra bianca. Il fascino dello stagno era di contenere pensieri lasciati da persone che se n’erano andate e senza i corpi i loro pensieri vagavano liberamente, cordiali e comunicativi, nello stagno collettivo.
Di tutti questi liquidi pensieri alcuni sembravano aderire formando persone riconoscibili – per lo spazio di un istante. E si vedeva formato nello stagno un viso rosso baffuto che si chinava sopra di esso, che lo beveva. Venni qui nel 1851 dopo l’afa dell’Esposizione Universale. Vidi la regina inaugurarla. E la voce aveva dentro una risatina liquida, di agio, come se l’uomo si fosse tolti gli stivaletti con la banda elastica e avesse deposto il cilindro sul bordo dello stagno. Dio, che caldo faceva! E adesso tutto finito, tutto in briciole, naturalmente, parevano dire i pensieri, ondeggiando tra le canne. Invece io ero una ragazza, cominciò un altro pensiero, scivolando al di sopra del primo silenziosamente e compostamente come pesci che non si intralciano. Una ragazza innamorata; venivamo qui dalla fattoria (il cartello della sua vendita si rifletteva sul filo dell’acqua) in quell’estate del 1662. I soldati dalla strada non ci videro mai. Faceva molto caldo. Ci sdraiavamo qui. Giaceva nascosta tra le canne con il suo amante, ridendo nello stagno e lasciandosi scivolare dentro pensieri di amore eterno, di baci ardenti e di disperazione. E io fui molto felice qui, disse un altro pensiero, occhieggiando vivace sopra la disperazione della ragazza (si era annegata). Venivo qui a pescare. Non riuscimmo mai ad acchiappare la carpa gigante, ma una volta la vedemmo – il giorno che Nelson combatté a Trafalgar. La vedemmo sotto il salice – parola mia! che mostro era! Dicono che non venne mai catturata. Ahinoi, ahinoi sospirò una voce, scivolando sopra la voce del ragazzo. Una voce così triste doveva venire dal fondo stesso dello stagno. Risaliva da sotto le altre come fa un cucchiaio che solleva tutto quel che c’è in una tazza d’acqua. Era la voce che tutti volevamo ascoltare. Tutte le altre voci scivolarono dolcemente da una parte dello stagno per ascoltare la voce che sembrava così triste – che di sicuro doveva conoscere la ragione di tutto questo. E tutte volevano sapere.
Allora ci si fa più vicini allo stagno e si fanno da parte le canne per vedere più giù, attraverso le immagini riflesse, attraverso i volti, attraverso le voci, fino al fondo. Ma là, sotto l’uomo che era stato all’Esposizione; e la ragazza che si era annegata e il ragazzino che aveva veduto il pesce; e la voce che gridava «Ahinoi! Ahinoi!» c’era pur sempre qualcosa d’altro. C’era sempre un altro volto, un’altra voce. Veniva un pensiero e ricopriva l’altro. Perché sebbene vi siano momenti in cui parrebbe che un cucchiaio stia per sollevarci tutti alla luce del giorno, i nostri pensieri e desideri e domande e confessioni e disillusioni, chissà come il cucchiaio scivola sempre giù e noi rifluiamo nuovamente oltre il bordo dentro lo stagno. E ancora una volta tutta la parte centrale viene ricoperta dal cartello che annuncia la vendita della fattoria di RomfordMill. Per questo forse ci piace tanto sedere a guardare dentro gli stagni.

Olga, di Alice Sivo

Racconti Edizioni porta in libreria ‘Mangime in compresse per pesci tropicali’, di Alice Sivo. Uno strano libro-acquario in cui tutti i personaggi nuotano come pesci dentro la stessa acqua, incrociando le proprie traiettorie oppure mancandosi di qualche pagina.

Cattedrale vi propone uno dei testi contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Olga
di Alice Sivo

Sono fortunata perché nella mia vita ho avuto sempre delle storie d’amore favolose, romantiche e appassionate, anche se spesso sono finite in modo tragico. Ma amare vuol dire anche soffrire, l’ho letto una volta nei cioccolatini.
Il primo è stato Leo ed ero poco più che una bambina. Facevamo insieme delle lunghe passeggiate. Anche se di solito i bambini a quell’età non vanno in giro da soli, i miei erano tranquilli a lasciarci uscire insieme, si fidavano di Leo e io con lui mi sentivo sempre al sicuro, protetta. Facevamo cose così semplici eppure così speciali: restavamo ipnotizzati davanti alle vetrine dei negozi e ci piaceva rotolare sul prato e abbracciarci, rincorrerci e poi accoccolarci vicini a leggere l’ultimo numero di Topolino. Non litigavamo mai e le mie amiche che ancora non avevano nemmeno dato il primo bacio erano molto gelose di noi. Gli scrivevo spesso dei bigliettini d’amore decorati con i brillantini e anche se non mi rispondeva mai capivo che provava per me le stesse identiche cose. Quando i miei mi hanno dato la notizia che Leo era morto sul colpo investito da un pirata della strada ho pensato che avrei preferito che fossero morti loro al posto suo e mi sono rinchiusa a piangere nella mia cameretta tutta rosa senza mangiare per due giorni e senza andare a scuola per una settimana.
Poi la vita va avanti e i dolori si superano. Ecco un’altra verità, che non ho letto nei cioccolatini ma che ho vissuto direttamente sulla mia pelle. Ero un po’ più grandicella e all’improvviso mi sono sentita pronta per una nuova storia e proprio allora è comparso Bobo. Era così possente, aveva quel nome così rude, il nostro è stato un classico colpo di fulmine. Me lo ricordo bene, all’uscita della parrocchia, era già buio e lui era lì, appoggiato a un albero, e sembrava proprio che mi aspettasse da tutta la vita. I nostri sguardi si sono incrociati, ci siamo scambiati un segnale d’intesa, mi sono avvicinata senza dire una parola, mi ha preso in modo selvaggio ed è stato subito mio e io sua, avvinghiati vicino a un cespuglio, senza pensare che qualcuno potesse vederci e giudicarci. Quando l’ho portato a casa i miei non hanno potuto fare altro che accettarlo, anche se ai loro occhi aveva un’aria poco raccomandabile. A volte effettivamente era un po’ aggressivo e quando eravamo da soli, chiusi in cameretta, mi saltava addosso all’improvviso senza dolcezze e preliminari, ma io sapevo come calmarlo e renderlo di nuovo docile e gentile. Nascondevo i lividi e i graffi con un doppio strato di fondotinta della trousse a forma di orso che i miei mi avevano regalato a Natale. A Bobo piaceva molto guardarmi mentre mi truccavo, era uno dei nostri tanti riti d’amore. Un giorno però ha deciso di andarsene via, senza neanche un saluto o una spiegazione. L’unico messaggio che mi ha lasciato è stato la trousse dei trucchi frantumata sul pavimento della cameretta. L’ho cercato per giorni, dappertutto, ho fatto stampare dei fogli con la sua foto, i dettagli sulla scomparsa e la promessa di una ricompensa e li ho attaccati a ogni palo e su tutti i muri dell’universo. Ma non è servito a niente. L’ho odiato tanto per avermi abbandonato in questo modo ma poi quel sentimento è passato e ancora oggi continuo a ricordare con piacere tutti i bei momenti passati insieme. E poi se non se ne fosse andato Bobo non sarebbe mai arrivato quel diavoletto di Tony. Che peperino era.
Ha portato in casa una ventata di allegria e buonumore. Anche i miei si sono dovuti arrendere alla sua simpatia. Era così giocherellone e ci faceva tanto ridere con le sue espressioni buffe e quando si esibiva nei suoi spettacolini con la palla. E in cameretta mi ha fatto godere più di ogni altro. Poi gli è venuto un brutto male e ci ha lasciati nel giro di un mese. Aveva solo sette anni.
Con Bernardo sto vivendo una storia matura, fatta di affetto, di piccole gioie quotidiane, di diritti e doveri reciproci. Ci facciamo compagnia, ci supportiamo a vicenda, lui mi fa tornare il buonumore quando sono triste, mi basta una semplice leccata, io lo porto a spasso tutti i giorni e gli faccio fare i bisogni. Poi li lascio lì, sul marciapiede, ai piedi degli alberi, sulle scale della chiesa, vicino alle ruote dei motorini, perché mi sembrerebbe di offenderlo e umiliarlo raccogliendoli. Non l’ho mai fatto con i bisogni di nessuno, ho avuto sempre il massimo rispetto per i miei cuccioli orgogliosi.

Ultimamente la notte sogno il nostro matrimonio, in una deliziosa chiesetta di campagna, io con un bellissimo abito bianco, scollato, con il corpetto di pizzo e vere perle e lo strascico lungo e leggero che una specie di magia fa rimanere sospeso a un centimetro da terra, per non impolverarsi e sporcarsi, Bernardo elegantissimo in un completo blu classico e insieme moderno. Io sono radiosa e lui è affascinante, siamo in estasi e non ci importa se gli invitati non sono venuti. C’è soltanto Giuseppe, che ho conosciuto ai giardini e anche se ha solo nove anni gli dico sempre che è il mio migliore amico. Non ci sono neanche i miei, che nel frattempo sono morti, anche nei miei sogni. Ci basta don Giorgio, che mi infila la fede e mi porge un costosissimo collare d’oro bianco che io metto delicatamente intorno al collo morbido e peloso di Bernie. Non mi importa dei figli e della predica sull’unione casta e feconda che ha fatto don Giorgio. Tanto Bernie per me è tutto: compagno, amico, amante, padre e figlio.

Foto di Dario Fatello

La pentolaccia, un racconto di Giovanni Verga

La pentolaccia
di Giovanni Verga

(tratto da Vita dai campi, 1880)

Adesso viene la volta di «Pentolaccia» ch'è un bell'originale anche lui, e ci fa la sua figura fra tante bestie che sono alla fiera, e ognuno passando gli dice la sua. Lui quel nomaccio se lo meritava proprio, ché aveva la pentola piena tutti i giorni, prima Dio e sua moglie, e mangiava e beveva alla barba di compare don Liborio, meglio di un re di corona.
Uno che non abbia mai avuto il viziaccio della gelosia, e ha chinato sempre il capo in santa pace, che Santo Isidoro ce ne scampi e liberi, se gli salta poi il ghiribizzo di fare il matto, la galera gli sta bene.
Aveva voluto sposare la Venera per forza, sebbene non ci avesse né re né regno, e anche lui dovesse far capitale sulle sue braccia, per buscarsi il pane. Inutile sua madre, poveretta, gli dicesse: - Lascia star la Venera, che non fa per te; porta la mantellina a mezza testa, e fa vedere il piede quando va per la strada -. I vecchi ne sanno più di noi, e bisogna ascoltarli, pel nostro meglio.
Ma lui ci aveva sempre pel capo quella scarpetta e quegli occhi ladri che cercano il marito fuori della mantellina: perciò se la prese senza volere udir altro, e la madre uscì di casa, dopo trent'anni che c'era stata, perché suocera e nuora insieme ci stanno proprio come cani e gatti. La nuora, con quel suo bocchino melato, tanto disse e tanto fece, che la povera vecchia brontolona dovette lasciarle il campo libero, e andarsene a morire in un tugurio; fra marito e moglie erano anche liti e questioni, ogni volta che doveva pagarsi la mesata di quel tugurio. Quando infine la povera vecchia finì di penare, e lui corse al sentire che le avevano portato il viatico, non poté riceverne la benedizione, né cavare l'ultima parola di bocca alla moribonda, la quale aveva già le labbra incollate dalla morte, e il viso disfatto, nell'angolo della casuccia dove cominciava a farsi scuro, e aveva vivi solamente gli occhi, coi quali pareva che volesse dirgli tante cose. - Eh?... Eh?... -
Chi non rispetta i genitori fa il suo malanno e la brutta fine.
La povera vecchia morì col rammarico della mala riuscita che aveva fatto la moglie di suo figlio; e Dio le aveva accordato la grazia di andarsene da questo mondo, portandosi al mondo di là tutto quello che ci aveva nello stomaco contro la nuora, che sapeva come gli avrebbe fatto piangere il cuore, al figliuolo. Appena Venera era rimasta padrona della casa, colla briglia sul collo, ne aveva fatte tante e poi tante, che la gente ormai non chiamava altrimenti suo marito che con quel nomaccio, e quando arrivava a sentirlo anche lui, e si avventurava a lagnarsene colla moglie - Tu che ci credi? - gli diceva lei. E basta. Lui allora contento come una pasqua.
Era fatto così, poveretto, e sin qui non faceva male a nessuno. Se gliel'avessero fatta vedere coi suoi occhi, avrebbe detto che non era vero, grazia di Santa Lucia benedetta. A che giovava guastarsi il sangue? C'era la pace, la provvidenza in casa, la salute per giunta, ché compare don Liborio era anche medico; che si voleva d'altro, santo Iddio?
Con don Liborio facevano ogni cosa in comune: tenevano una chiusa a mezzeria, ci avevano una trentina di pecore, prendevano insieme dei pascoli in affitto, e don Liborio dava la sua parola in garanzia, quando si andava dinanzi al notaio. «Pentolaccia» gli portava le prime fave e i primi piselli, gli spaccava la legna per la cucina, gli pigiava l'uva nel palmento; a lui in cambio non gli mancava nulla, né il grano nel graticcio, né il vino nella botte, né l'olio nell'orciuolo; sua moglie bianca e rossa come una mela, sfoggiava scarpe nuove e fazzoletti di seta, don Liborio non si faceva pagar le sue visite, e gli aveva battezzato anche un bambino. Insomma facevano una casa sola, ed ei chiamava don Liborio «signor compare» e lavorava con coscienza. Su tal riguardo non gli si poteva dir nulla a «Pentolaccia». Badava a far prosperare la società col «signor compare» il quale perciò ci aveva il suo vantaggio anche lui, ed erano contenti tutti.
Ora avvenne che questa pace degli angeli si mutò in una casa del diavolo tutt'a un tratto, in un giorno solo, in un momento, come gli altri contadini che lavoravano nel maggese, mentre chiacchieravano all'ombra, nell'ora del vespero, vennero per caso a leggergli la vita, a lui e a sua moglie, senza accorgersi che «Pentolaccia» s'era buttato a dormire dietro la siepe, e nessuno l'aveva visto. - Per questo si suol dire «quando mangi, chiudi l'uscio, e quando parli, guardati d'attorno».
Stavolta parve proprio che il diavolo andasse a stuzzicare «Pentolaccia» il quale dormiva, e gli soffiasse nell'orecchio gl'improperii che dicevano di lui, e glieli ficcasse nell'anima come un chiodo. - E quel becco di «Pentolaccia»! - dicevano, - che si rosica mezzo don Liborio! - e ci mangia e ci beve nel brago! - e c'ingrassa come un maiale! -
Che avvenne? Che gli passò pel capo a «Pentolaccia»? Si rizzò a un tratto senza dir nulla, e prese a correre verso il paese come se l'avesse morso la tarantola, senza vederci più degli occhi, che fin l'erba e si sassi gli sembravano rossi al pari del sangue. Sulla porta di casa sua incontrò don Liborio, il quale se ne andava tranquillamente, facendosi vento col cappello di paglia. - Sentite, «signor compare», - gli disse - se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio, vi faccio la festa! -
Don Liborio lo guardò negli occhi, quasi parlasse turco, e gli parve che gli avesse dato volta al cervello, con quel caldo, perché davvero non si poteva immaginare che a «Pentolaccia» saltasse in mente da un momento all'altro di esser geloso, dopo tanto tempo che aveva chiuso gli occhi, ed era la miglior pasta d'uomo e di marito che fosse al mondo.
- Che avete oggi, compare? - gli disse.
- Ho, che se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio, vi faccio la festa! -
Don Liborio si strinse nelle spalle e se ne andò ridendo. Lui entrò in casa tutto stralunato, e ripeté alla moglie:
- Se vedo qui un'altra volta il «signor compare» com'è vero Dio, gli faccio la festa! -
Venera si cacciò i pugni sui fianchi, e cominciò a sgridarlo e a dirgli degli improperi. Ei si ostinava a dire sempre di sì col capo, addossato alla parete, come un bue che ha la mosca, e non vuol sentir ragione. I bambini strillavano al veder quella novità. La moglie infine prese la stanga, e lo cacciò fuori dell'uscio per levarselo dinanzi, dicendogli che in casa sua era padrona di fare quello che le pareva e piaceva.
«Pentolaccia» non poteva più lavorare nel maggese, pensava sempre a una cosa, ed aveva una faccia di basilisco che nessuno gli conosceva. Prima d'imbrunire, ed era sabato, piantò la zappa nel solco, e se ne andò senza farsi saldare il conto della settimana. Sua moglie, vedendoselo arrivare senza denari, e per giunta due ore prima del consueto, tornò di nuovo a strapazzarlo, e voleva mandarlo in piazza, a comprarle delle acciughe salate, che si sentiva una spina nella gola. Ma ei non volle muoversi di lì, tenendosi la bambina fra le gambe, che, poveretta, non osava muoversi, e piagnucolava, per la paura che il babbo le faceva con quella faccia. Venera quella sera aveva un diavolo per cappello, e la gallina nera, appollaiata sulla scala, non finiva di chiocciare, come quando deve accadere una disgrazia.
Don Liborio soleva venire dopo le sue visite, prima d'andare al caffè, a far la sua partita di tresette; e quella sera Venera diceva che voleva farsi tastare il polso, perché tutto il giorno si era sentita la febbre, per quel male che ci aveva nella gola. «Pentolaccia» lui, stava zitto, e non si muoveva dal suo posto. Ma come si udì per la stradicciuola tranquilla il passo lento del dottore che se ne venìa adagio adagio, un po' stanco delle visite, soffiando pel caldo, e facendosi vento col cappello di paglia, «Pentolaccia» andò a prender la stanga colla quale sua moglie lo scacciava fuori di casa, quando egli era di troppo, e si appostò dietro l'uscio. Per disgrazia Venera non se ne accorse, giacché in quel momento era andata in cucina a mettere una bracciata di legna sotto la caldaia che bolliva. Appena don Liborio mise il piede nella stanza, suo compare levò la stanga, e gli lasciò cadere fra capo e collo tal colpo, che l'ammazzò come un bue, senza bisogno di medico, né di speziale.
Così fu che «Pentolaccia» andò a finire in galera.

Ragazza/serpente, di Lucrezia Pei e Ornella Soncini

Pidgin edizioni porta in libreria Cloris, storie per i tarocchi a cura di Vargas. Undici autori si cimentano nella scrittura di novelle basate sui primi undici arcani maggiori, dando un’interpretazione personale ai significati che si celano in ciascuna carta, per rendere concreto e disturbante l’esoterico calandolo in una realtà quotidiana e palpabile.

Cattedrale vi propone l’estratto di uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.

Estratto da

Ragazza/serpente

di Lucrezia Pei e Ornella Soncini

 

Sopraterra non c’è nemmeno un piccolo ricordo di voi.
Vi hanno fatto scivolare nel buio ancora caldi di vostra madre. Lo Stomaco ha pareti di cemento nudo e neon che si accendono e spengono da soli; una stanza con letti vicini e un’altra più grande con un tavolo per studiare e consumare i pasti; una piccola cucina e un bagno ancora più piccolo; un corridoio stretto con una scala che sale fino a una botola. La botola porta al vostro giardino.
Sopraterra ci sono il prato e le nuvole e tutto quello che sta sulla terra e nel cielo. Attorno al giardino corre senza uscita un alto steccato bianco e appuntito, come un serpente che si morde la coda; dagli spazi sottili tra le tavole intravedete una villa con tetto e muri chiari, una fila di colonne sul davanti e tante finestre sempre chiuse su cui si specchiano le nuvole.

*

All’inizio vi porta sopraterra la Vecchia che vive con voi nello Stomaco. Ha i capelli scuri e ricci dei tuoi fratelli e la pelle sfiorita. Non vi sgrida e non vi carezza mai, vi ha spiegato lei che vostro padre avrebbe potuto uccidervi e invece vi ha lasciato vivere; che oltre lo steccato avete anche una madre, vivono insieme nella villa bianca. Avvicinarvi a loro non vi è permesso «e se provate a uscire vi ucciderà».
A volte ti arrampichi sull’alto tiglio che sta proprio in mezzo al giardino. Chiami tua sorella: «Prima, sali!», ma lei rimane seduta sul vostro prato di dicondra. Tu ti avvoltoli sui rami come fanno i serpenti, il sole ti riempie la pancia come dopo una bella mangiata.
Anche da lassù non guardi mai la villa, nemmeno quando il vento porta una voce di donna che urla.

*

Se chiudi gli occhi stretti stretti sei capace di far crescere le foglie della dicondra, allungare e intrecciare gli steli nelle forme che preferisci; col tempo crei ogni specie di animali con l’erba, ti basta solo ricordare quelli che vi mostra il computer quando vi insegna le cose del mondo.
Indichi alla Vecchia le tue creature.
«Sei brava» ti dice, «ma non dovresti farti vederti».
Dopo, stai sempre attenta a disfarle prima di tornare sottoterra.

*

Quando a Prima comincia a crescere il petto, la Vecchia vi dice: «Ormai badateci voi agli altri fratelli» e una notte se ne va da sottoterra. A Prima sono spuntati come due capolini di margherita sotto la maglia, li trovi buffi.
Ora che siete da soli salite in giardino ogni volta che vi va.
Presto arriva un nuovo fratello allo Stomaco, ancora sporco di sangue e di cera come gli altri due. È Prima a pulire Quinto, a dargli il latte intiepidito sul pentolino. Fate a turno per nutrirlo e cambiarlo, ma senza la Vecchia a tenerla in riga tua sorella smette presto di fare il suo dovere e resti solo tu a stargli dietro.
Prima preferisce starsene per conto suo in cucina o a studiare al computer. Sei tu a correre da Quinto non appena piange, è da te che vengono Terza e Quarto quando si fanno male e hanno fame di cibo e risposte. 
Diventi una madre prima ancora di avere il tuo sangue.

*

Addormenti Quinto al suono della tua voce perché impari in fretta a ripetere ciò che dici: la sua prima parola è il tuo nome. Quando è abbastanza grande, gli insegni a salire i gradini fino alla botola come hai fatto con Terza e Quarto. Nel giardino i tuoi fratelli ti corrono dietro come uccellini coi becchi spalancati, vogliono giocare con le tue creature. Ti piace farti pregare, ma a volte ti stanchi dei loro capricci. Non ti è permesso picchiarli, così tiri orecchie e capelli fino a che non imparano a ubbidirti.
Terza ti segue ovunque e resta a fissare con gli occhi rotondi le tue creature, non ti lascia in pace finché insieme non immaginate pavoni con enormi code di foglie brillanti. È il suo animale preferito, dice che è bellissimo. Da quando la Vecchia se n’è andata, appena si spengono i neon viene a infilarsi sotto le tue coperte anche se state diventando troppo alte per dormire insieme. I suoi capelli odorano di vento, di temporali in arrivo. Se le dici di tornare nel suo letto, senti rumoreggiare di rabbia le nuvole e piangere di pioggia sulla botola chiusa.

*

Un mattino ai piedi della scala trovate una scatola e un biglietto: Giocate.
Dentro c’è un globo di metallo, più liscio di un uovo e pesantissimo tra le mani. Lo appoggi sul suo piedistallo trasparente, sopra il tavolo della grande stanza; il globo si alza a mezz’aria, il metallo si cambia in acque profonde, emergono lembi di terra nuda e bianchi vapori grumosi come nuvole sfilacciate.
I tuoi fratelli guardano te e tu guardi Prima: «Sembra un mondo. Ma senza niente, appena nato» dice alzando per un momento gli occhi dal computer.
Voi restate a fissarlo mentre ruota su se stesso. Quarto è il primo ad allungare una mano, con un dito oltrepassa le nuvole e fa increspare il pelo dell’acqua fino a sollevare un’onda che annega i vicini continenti di terra brulla.
Quel giorno non salite in giardino. Restate attorno al tavolo anche quando i neon si spengono, finché non capite come si gioca, finché non vi si chiudono gli occhi.

*

Conservi il globo sul ripiano più alto della grande stanza, ruota placido mentre fate lezione.
«Secondaaa» si lamenta Quarto allungando l’ultima vocale, «a che serve che studiamo? Facci giocare!»
Gli dici quello che la Vecchia ha detto a te e Prima: perché lo vuole vostra madre. Quarto sbuffa e Terza gli ride dietro.
Non sai perché a vostra madre importi e nemmeno perché, da quando non salite più tutti insieme in giardino, certe volte la tua pancia si stringe fino a farti male. I tuoi fratelli non ti chiedono più di giocare con le tue creature. Ti viene da piangere, ma tu non sai far lacrimare il cielo come Terza e così non se ne accorge nessuno.

*

La terra brulla si corruga in montagne e si liscia in pianure, si riga di fiumi e si concava in laghi, si ricopre di distese di sabbia, ghiaccio e verde fitto che nascondono il sottoterra. 
Continuate a giocare anche quando Prima vi dice che ormai siete grandi e non dovete litigare per una palla.
La notte che l’Estraneo entra nello Stomaco, si è messa tra le mani inferocite di Quarto e Quinto che non nega di aver barato, non riesci a vedere chi di loro fa cadere il globo a terra. Vi voltate tutti insieme come le tante teste di una sola bestia e lo seguite ruzzolare via liscio come appena fuori dalla scatola, fino a un paio di scarpe grandi in una pozza d’acqua.
Alzate gli occhi sull’Estraneo. Ha gli abiti gocciolanti e due occhi chiarissimi che sembrano i tuoi, riesci a vederli sotto il cappuccio per un attimo, appena prima che i neon si spengano e tutto diventi buio.
Senti un odore, come di temporale.

*

L’Estraneo si arrampica per primo, vi tende il braccio dall’entrata della botola.
«Sono venuto per liberarvi» vi ha detto prima ancora del suo nome e che è anche lui vostro fratello. Vi issa fuori uno a uno sul prato fradicio, come se non vi riuscisse di farlo da soli. Fulmini illuminano la sua barba e la macchina nera che aspetta oltre lo steccato, il maltempo ha sradicato alcune assi, sembra una bocca sdentata. Al volante c’è una donna giovane, vi dice qualche parola che perdi tra lo scroscio della pioggia.
Vi stringete tremanti sulle due file di sedili di dietro, Quarto strofina una guancia contro il tuo petto appuntito dal freddo mentre intrecci le dita scivolose con quelle di Quinto e sfiori i capelli zuppi di Terza; sta guardando corrugata la nuca lanosa dell’Estraneo, seduto davanti a voi, vicino a Prima.
La villa con le colonne bianche rimane buia, correte via su ruote veloci.

*

Jazz café, di Raffaele Simone

La Nave di Teseo porta in libreria Jazz café, di Raffaele Simone. Una raccolta in cui si dà vita a una serie di personaggi che hanno, malgrado la diversità dei loro destini, qualcosa in comune: la ricerca inesausta di quella scheggia di felicità e di giustizia forse concessa agli umani.
Una serie di storie che avanzano senza respiro, sospinte da un vibrante intreccio di tonalità, animate da personaggi stranianti e irresistibilmente comici e da una fitta rete di evocazioni letterarie. Sullo sfondo, grandi città inquiete, potenti notturni, vaste marine, movimenti di folle, inattesi impromptus musicali, improvvise irruzioni di versi.

Cattedrale vi propone l’estratto di uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.



SANTO SUBITO
di Raffaele Simone





1.

Gimmy gettò lo sguardo in strada e restò senza parole: i giorni precedenti la folla era stata fitta, certo, ma non stipata e ribollente come ora. Già alle sei di mattina un tappeto di capoccette formicolanti ricopriva Borgo Pio, folto al punto che dalla finestra non si vedeva più il suolo negli interstizi tra una persona e l’altra. Quella massa di teste, migliaia e migliaia di persone, avanzava frusciante e molle come non avesse nessuna spinta alle spalle.
Gimmy (in realtà si chiamava Girolamo) Marcatajo era inquieto: “E mo’ che succederà?” si chiese. Erano tre giorni che la zona dei borghi era invasa da quell’immensa folla tenuta insieme da un collante tenace, una massa che non si scioglieva neanche all’ora di dormire: di giorno si amalgamavano in quella fila pastosa e invadente, di notte dopo aver mangiato e buttato ordinatamente i resti ai bordi delle strade ciascuno si sdraiava su un giaciglio di fortuna, fosse pure un sacco a pelo tirato fuori dagli zaini, cantando qualche canzone delle loro, con invocazioni a Dio, santi e madonne, e dormendo poi à la belle étoile come nel più accurato degli alberghi. Erano di tutte le età, mischiati senza conflitto apparente, infaticabili: giovani, adulti, anziani, qualche vecchio vero, e un’infinità di bambinetti che stavano accanto o in braccio ai genitori senza mandare un gemito di protesta.
“Forse i bambini dei credenti non rompono,” pensò Gimmy, “Dio li rende più buoni…” Ma i loro bisogni ce l’avevano lo stesso, grandi e piccoli, benché avessero contatti diretti con Dio. Le centinaia di bagni da campo che la protezione civile aveva montato alla svelta in tutto il quartiere bastavano appena alla bisogna catabolica di quella massa sterminata: molti, donne e uomini, la pipì la facevano negli angoli, castamente, facendosi cioè attorniare da due o tre amici in modo che non si vedesse niente, e persino il resto, benché di produzione più laboriosa e schiva, era stato in più punti depositato per la strada alla meglio, Dio sa con quale riservatezza. Gli spazzini esitavano a infilarsi in mezzo a quella sterpaia di umani, la zona mandava in più punti un odore dolce di orina e lo scroscio di migliaia di bottiglie di plastica pestate da milioni di piedi.
Per fortuna l’aprile non era crudele e proteggeva sotto una sfera di sereno quel popolo di illuminati, che erano pronti a dormire all’aperto pur di arrivare a tempo per veder da vicino il papa morto. La gente dei borghi invece bofonchiava sorda: “Cce mancava puro ’sto funerale! Mo’ so’ cazzi amari so’!” Arduo uscire di casa e soprattutto ritornarci, telefoni e telefonini bloccati a intermittenza per il traffico fuori misura, poca acqua nei rubinetti, impossibile far la spesa o ricevere gente, impensabile gettare l’immondizia che da giorni restava a marcire in casa, la circolazione deviata o interdetta. I commercianti, che vendevano a prezzo quadruplo immaginette del papa e altre cianfrusaglie e che insieme alle fotografie spacciavano di nascosto anche bottigliette d’acqua minerale e d’aranciata a prezzi da mercato nero, si lamentavano come al solito, ma per finta: a loro, la vicinanza del papa morto non li rendeva migliori per niente. Tanta gente tutta in una volta non s’era mai vista in quelle strade e forse neppure a Roma in generale: uno, due, tre milioni, nessuno sapeva di preciso, lo stesso numero degli abitanti della città, si diceva, quasi una volta e mezzo, il doppio perfino: e che è?, mamma mia! Era un’inondazione, un mare, un oceano! I giornali dicevano: neanche gli anni santi del Medioevo, neanche le santificazioni più popolari, avevano portato a Roma folle simili: nessuno riusciva a spiegarsi come mai fossero in tanti, arrivati a falangi lunate, crescenti di giorno in giorno, senza freno, richiamati da chissà cosa, da un Dio, un bisogno di fede, o forse tentati dall’idea di apparire sui cristalli liquidi di casa, di “uscire in tv”, de fassevéde, come nel Grande Fratello! Difficile spiegare, sennò, come mai, in un paese ingordo, senza speranza e con le chiese vuote, le strade attorno a San Pietro fossero soffocate da quella gente disciplinata e rispettosa, spinta da un’infrenabile propensione a far del bene a tutti i costi.
Indispettito dalla folla che ronzava crescendo sotto le sue finestre, Gimmy si lavò con la poca acqua polverosa che colava dalla doccia, si vestì alla brava, senza giacca né cravatta, e decise di tentare almeno di prendere i giornali all’edicola dell’angolo. Per la scala si sentiva il cupo mormorio della gente che premeva di fuori: ed erano appena le sette. Quando Gimmy aprì il portoncino sulla strada, fece appena a tempo a gettar l’occhio fuori: il battente rinculò verso l’interno spinto dal peso delle persone che ci stavano addossate sopra. Solo quando quelli si spostarono con un soprassalto per aver perso l’appoggio, Gimmy riuscì a dischiudere la porta e a sporgere fuori la testa. Un volantino, infilato nella fessura dei battenti, ricadde all’interno.
Seduta su un gradino della soglia una donna dormicchiava poggiata allo stipite. Quando lui si chiuse la porta alle spalle, lei aprì un occhio, lo guardò con aria imbarazzata, si scostò un po’, si stirò con cura pudica la gonna sulle gambe e gli sorrise trasognata.
“Buongiorno,” disse “scusi l’invasione ma, sa, stanotte abbiamo dormito per la strada.”
“Solo stanotte?” fecero coro ridendo alcune sue compagne che erano in piedi attorno, sfiorate dalla folla avanzante.
“Dio la benedica per la sua pazienza,” aggiunse lei.
Anche lui sorrise, senza saper bene perché. Cercando di cominciare a muoversi lesse il volantino: “Ospitate un pellegrino per una notte: una magnifica occasione di fare del bene e di conoscere un fratello o una sorella.”
“Un fratello o una sorella? Ma dove?” pensò. Non sembrava di essere a Roma, una città che s’è venduta l’anima, strafottente, dove nessuno mai ringrazia per niente: quella folla mite e invadente era grata invece per la pazienza della gente malgrado le noie e le rotture che provocava. Gimmy sorrise tra sé: erano davvero diventati tutti buoni? “Servirà almeno a questo, la morte di un papa! Ne morisse uno ogni anno, allora,” pensò, e cominciò la manovra di penetrazione.

Impenetrabile e senza cuore, di Joseph Conrad

Impenetrabile e senza cuore
di Joseph Conrad

Quasi fosse troppo grande e troppo potente per le virtù comuni, l'oceano ignora compassione, fede, legge, memoria. La sua incostanza può essere mantenuta conforme ai propositi umani solo con una risolutezza indomita, e con una vigilanza insonne, armata, gelosa, in cui, forse, c'é sempre stato più odio che amore. Odi et amo può ben essere la professione di fede di coloro i quali coscientemente o ciecamente hanno consegnato la propria esistenza al fascino del mare.
Tutte le passioni tempestose dell'umanità quando era giovane, l'amore della rapina e l'amore della gloria, l'amore dell'avventura e l'amore del pericolo, insieme con il grande amore dell'ignoto e i vasti sogni di dominio e di potenza, sono passati come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare alcun segno sulla faccia misteriosa del mare. Impenetrabile e senza cuore, il mare non ha dato nulla di se stesso a coloro che ne hanno corteggiato i precari favori.
Diversamente dalla terra, non si può soggiogarlo a nessun prezzo di pazienza e di fatica. Benché siano tanti coloro che il suo fascino ha adescato e condotto a una morte violenta, la sua immensità non é mai stata amata come sono state amate le montagne, le pianure, persino il deserto.
Le stelle spuntarono innumerevoli nella notte chiara e riempirono tutta la volta del cielo. Scintillarono come cose vive sul mare e avvolsero tutt'intorno nella sua corsa la nave, più penetranti degli occhi fissi di una folla attenta ed imperscrutabile come sguardi umani.
La traversata era cominciata e la nave, come un frammento staccato dalla terra, correva solitaria e rapida come un piccolo pianeta. Intorno ad essa gli abissi del cielo e del mare si univano in una irraggiungibile barriera. Una grande solitudine sembrava avanzare tutt'intorno con la nave, sempre mutevole e sempre eguale ed eternamente monotona ed imponente. Di tanto in tanto un'altra vela bianca errante carica di vite umane appariva lontano e spariva diretta verso il suo destino. Il sole dardeggiava la nave coi suoi raggi tutto il giorno e ogni mattina riapriva su di essa il rotondo occhio ardente pieno di curiosità insoddisfatta. Essa aveva il suo destino, viveva della vita di quegli esseri che si muovevano sopra i suoi ponti e come la terra che l'aveva confidata al mare trasportava un intollerabile carico di speranze e di rimpianti. Nel suo seno vivevano la verità timida e la menzogna audace; e come la terra essa era inconscia, bella a vedere e condannata dagli uomini ad un ignobile fato.
L'augusta solitudine del suo cammino conferiva dignità al meschino scopo del suo pellegrinaggio. Essa filava schiumeggiando verso il sud come guidata dal coraggio di un'alta impresa. La ridente immensità del mare rimpiccoliva la misura del tempo. I giorni volavano uno dietro l'altro rapidi e luminosi come il guizzare di un faro, le notti brevi e piene di avvenimenti parevano fuggevoli sogni. Gli uomini se ne stavano raggomitolati ai loro posti ed ogni mezz'ora la campana di bordo regolava la loro vita di incessante lavoro. Notte e giorno la testa e le spalle d'un marinaio si profilavano in alto a poppa contro il sole o il cielo stellato immobili sopra la mobile ruota del timone. Le facce cambiavano succedendosi l'una dopo l'altra; facce giovani, barbute, torve, serene o corrucciate; ma tutte fatte rassomiglianti dal mare che affratella, tutte con la stessa espressione attenta degli occhi fissi a scrutare la bussola o le vele.

Ortiche, di Cristina Pasqua

Pièdimosca edizioni porta in libreria Fughe, di Cristina Pasqua. Ventitré racconti stretti dall’uso di un linguaggio necessario, asciutto, fatto di reazioni impreviste tra le parole, che si rincorrono affilate e impietose, o sfregano tra loro come carta vetrata, o esplodono con un colpo secco.
Ventitré racconti che lasciano la sensazione di avere sbirciato di soppiatto attraverso una porta accostata che avrebbe dovuto rimanere chiusa, di essere entrati senza permesso dentro esistenze sghembe che avanzano alla rinfusa. E quando la porta in cui, clandestini, ci siamo intrufolati si chiude con uno scatto, si resta con la sensazione di aver afferrato al volo brandelli di vita impossibili da ricucire insieme, e che continuano però a pulsare ben oltre l’ultima pagina del libro.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del testo, per gentile concessione dell’editore.

ORTICHE

di Cristina Pasqua

Estate e campi secchi. Storpio, Trespicci e Gimondi non sapendo come ammazzare il tempo erano arrivati in corsa fino al passaggio a livello. Si erano lasciati alle spalle cicale a falcidiare erba secca e alberi assetati ed erano entrati in Stazione.
«Sciò, sciò», disse il Carioti. Era una stazione abbandonata ma il Carioti, che un tempo era stato capostazione, era rimasto lì, appeso a un lavoro che non esisteva più, la divisa macchiata di tempo e disoccupazione, la barba sfatta, le unghie nero di orto.
«Siam mica mosche», disse Trespicci, frugandosi in tasca. «Toh! Un bicchiere ce lo prendi», e gli allungò centocinquanta lire, ghignando forte.
Storpio, che era finito un paio d’anni prima sotto la mototrebbia di suo zio, trascinava la gamba marcia e avanzava con la buona. «Buttala via quella divisa. Il treno l’hai perso, qua non passano più».
Sarà stato l’incidente, era diventato gramigna, l’erba cattiva gli cresceva dentro da anni. Infestato aveva lingua di ortica e occhi di indivia. Gimondi sorrise. Parlava poco, quasi niente. Mentre Storpio si tirava dietro la gamba, lui aveva poca dimestichezza con le parole, zagagliava, inciampava, arrotava, rovinava a ogni sillaba. Per questo aveva scelto il silenzio, l’apparecchio in bella mostra, le labbra tirate.
La banchina era deserta. L’erba era cresciuta tra le traversine e si era fatta spazio tra un lastrone e l’altro, ingannando la puntualità dei treni e l’abito grigio che indossava un tempo.
«E adesso?», aveva detto Storpio.
«Proseguiamo dritti e usciamo al podere di Vinci. Poi si torna indietro passando per il torrente.»
«Ho portato questa», disse Trespicci e srotolò dalla tasca una colata di plastica bianca e stropicciata.
«Da’ qua», disse Storpio strappandogliela di mano. «Se puzza», aveva aggiunto poi, scacciando l’odore dal naso.
«La mamma ci aveva messo le uova.» «Pe-pe que-que-s-to s-sem-bra us-us-citadal-cu-cu-lo-de-’na-ga-ga…»
«Gallina, sì», disse Storpio tagliando corto.
Fatti pochi passi l’ingombro della vista scivolò sotto le dita.
«E q-qu-que-s-to?»
«Cos’è?», disse Storpio appoggiandoci la mano sopra.
Era un baule, verde torba, le cerniere in ottone arrugginito.
«Ma chi ce l’ha portato qua?», disse Trespicci soffiando sul ciuffo che gli copriva la fronte bagnata.
«A-a-ap», provò a dire Gimondi.
«Apriamo, sì», gli venne in soccorso Storpio.
Il rumore delle cerniere infangò l’aria. Alzarono il coperchio in due, Storpio a guardare.
«Cambia tempo», disse grattandosi la gamba marcia.
All’interno, in un disordine di bianco, c’era un corpo. Un ragno bianco e gonfio, gli arti scomposti, una gamba, un braccio, e un’altra ancora e la testa al centro.
«Madonnacara», disse Storpio, «che me rappresenta?»
Un rumore di ossa spaccate TLAC! gli soffiò all’orecchio, quando il coperchio si richiuse sul baule, in alto una scritta con il gesso. 01.
«E m-mo?»
«Gimo’, mo gambe!», disse Storpio puntando il peso sulla gamba buona e torcendo il corpo in direzione dell’uscita.
Carioti li vide sfilare pallidi e silenziosi.
«Finito?», e si infilò il berretto da capostazione che gli dava un’aria ancora più frusta.
«Sì, finito. Ne sai di quello?», disse Storpio indicando.
«Quello cosa? Io non vedo niente», disse agitando un gessetto bianco nell’aria. Poi si avvicinò alla maglietta di Trespicci. Gli disegnava le costole per quanto aveva sudato, gli si era appiccicata addosso, e scrisse 02.

Un sogno, di Franz Kafka

UN SOGNO
di Franz Kafka

Josef K. sognava:

Era una bella giornata e K. voleva andare a passeggio. Ma ecco, fatti due passi, era già al cimitero. Là c’erano viottole di tracciato molto artificioso, tortuose e scomode; ma sopra una di quelle lui scivolava, come fosse su di un’acqua precipitosa, in un impossibile portamento librato. Già da lontano gli veniva allo sguardo un tumulo di terra dove avrebbe voluto sostare. In quel tumulo c’era qualcosa che lo attraeva; ed era tutto teso nel desiderio di raggiungerlo. Ma a volte lo vedeva appena, il tumulo; certi stendardi glielo nascondevano, attorti e scagliati a gran forza l’uno contro l’altro. I portabandiera non si vedevano ma era come laggiù ci fosse una festa vivace.

Mentre ancora il suo sguardo era affiso a quella parte, si vide improvvisamente accanto, sulla viottola, quel medesimo tumulo, anzi già quasi alle sue spalle. Saltò svelto fra l’erba. Poi che nell’attimo del balzo la viottola continuava la sua rapida corsa, il piede gli mancò e cadde in ginocchio, proprio davanti al tumulo. Due uomini stavano dietro la tomba e fra loro levavano alta una pietra tombale. K. era appena comparso che costoro piantarono in terra la lapide. Come murata, quella vi rimase. Da un cespuglio uscì fuori tutt’a un tratto, un terzo uomo. K. capì subito che doveva essere un artista. Aveva addosso solo un paio di calzoni e una camicia male abbottonata; portava in capo una berretta di velluto. In mano teneva una comune matita; e con quella, mentre veniva avanti, tracciava figure nell’aria.

Pose la punta di quella matita sulla parte superiore della lapide. La lastra era molto alta, colui non aveva nessun bisogno di curvarsi ma piuttosto di protendersi in avanti perché il tumulo, che egli non voleva calpestare, lo separava dalla pietra. Stava quindi in punta di piedi e con la sinistra si reggeva contro la superficie della lapide.

Maneggiando quella comune matita, la sua abilità riusciva a tracciare lettere d’oro. Scrisse Qui giace. Nitida e bella risaltava ogni lettera, incisa a fondo in oro perfetto. Quando ebbe scritte quelle due parole si volse verso K. che con acuta ansia seguiva come l’iscrizione proseguisse; e quindi, fissando la pietra, poco si curava dell’uomo. L’uomo riprendeva a scrivere infatti; ma non ce la faceva, doveva esserci qualche impedimento. Abbassata la matita, tornava a volgersi verso K. Ora anche K. guardava l’artista e si avvedeva che assai perplesso era, senza tuttavia poterne dire la cagione. Tutta la sua vivacità di poco prima era scomparsa. Al che anche K. cominciò a sentirsi assai perplesso. Si scambiarono sguardi smarriti; doveva esserci un brutto malinteso che nessuno dei due aveva potere di risolvere. Ecco che, per di più, a ora indebita cominciava a suonare la piccola campana della cappella dei defunti. L’artista agitava la mano e, ecco, quella taceva. Dopo un poco riprendeva, ma questa volta pianissimo e subito dopo interrompendosi spontaneamente; era come se avesse voluto solo saggiare il proprio timbro. K. era disperato per il disagio dell’artista; cominciava a piangere e singhiozzare, col volto fra le mani. L’artista attese che K. si fosse calmato; poi, non riuscendo a trovare altra soluzione, decise di continuare a scrivere. Per K. fu un sollievo, quel primo piccolo tratto; ma l’artista non riusciva a concluderlo se non con estrema riluttanza; la scrittura non era più bella come prima, pareva soprattutto scarsa d’oro, si profilava smorta e malcerta mentre, al contrario, il carattere diventava enorme. Era già quasi finita quando l’artista, furioso, picchiò col piede sul tumulo tanto che tutt’intorno ne schizzò via il terriccio. Finalmente K. capì che cosa quello volesse; ma non c’era più tempo per farlo desistere. Quello affondava le dita nella terra; che pareva quasi non opporgli resistenza. Era come se tutto fosse stato preordinato. Era stato disposto un sottile strato di terra, ma solo per figura. Subito sotto si apriva una grande fossa, dalle pareti a picco dove, rivolto sul dorso da una blanda corrente, K. andò a fondo. Ma mentre già, riverso sulla nuca il capo, laggiù lo accoglieva la profondità impenetrabile, lassù in fregi possenti il suo nome si avventava sulla lapide.

Estasiato a quella vista si svegliò.

Bago, di Alberto Savinio

Bago
di Alberto Savinio

« Buongiorno, Bago. »
Questo augurio Ismene lo dice ogni mattina appena sveglia, e ogni sera prima di addormentarsi dice: « Buonanotte Bago ». Le parrebbe altrimenti d’iniziare male la giornata e di terminarla male, anzi di non iniziarla e di non terminarla. Così in passato se non avesse detto « buongiorno » e « buonanotte » al babbo e alla mamma. Poi soltanto alla mamma quando il babbo morì. Poi soltanto a Bug quando anche la mamma morı`. E ora soltanto a Bago che anche Bug è morto che aveva tanti peli sugli occhi e lo sguardo umano. A suo marito Ismene dimentica talvolta di dire « buongiorno » o « buonanotte », ma allora non le pare di iniziare male la giornata o di terminarla male. Rutiliano del resto è cosı` di rado in casa, cosı` spesso in viaggio... Una mattina Rutiliano aprı` la porta e domandò : « Con chi parlavi? » Ismene rispose: « Forse nel sogno » e questa risposta ella non ebbe difficoltà a trovarla. Non ebbe neanche l’impressione di mentire. La parte migliore della sua vita e` della specie di un sogno che tanto dormendo essa sogna quanto vegliando, e anche i suoi dialoghi segreti con Bago fanno parte della parte del sogno. Dicendo che col dire « Buongiorno Bago » parlava nel sogno, Ismene non mentiva. « Buongiorno Bago. »
Ismene è seduta sul letto, la testa china d’un lato, le mani unite e calde ancora di notte, sorridendo nella direzione di Bago come a un padre robusto e protettore, e sta in ascolto. La camera è odorosa di sognati sogni come di fiori appassiti. Sola traccia che i sogni si lasciano dietro è questo odore, e se la camera la mattina puzza è che abbiamo sognato brutto. Sulla tenda tirata davanti la finestra lucono come gradini di una scala d’oro le strisce della luce mattutina che trapela tra le stecche dell’avvolgibile. I mobili sono ombre gravi che emergono dal pallore del muro. Su una sedia albeggia la biancheria di Ismene. Sul soffitto tremola un serto di luce che non si sa onde venga, un alone forse entro il quale si affaccerà la testa di un angelo. Ma Billi angelo non e`. Che aspetta di ascoltare Ismene? Che cosa ascolta? Che cosa ha ascoltato?

(Ismene balza leggera giù dal letto e corre a piedi nudi ad aprire la finestra.)

Nulla ha echeggiato nella camera, eppure Ismene egualmente ha udito ed è contenta. Essa stamattina è più impaziente del solito dell’attesa voce, più contenta di averla udita. Oggi Billi ritorna dal suo lungo viaggio. Oggi Ismene ha bisogno più che negli altri giorni di sentire Bago presente e la sua protezione. Ora la camera è chiara, l’odore dei sogni vizzi si è dissipato. Ismene indugia alla finestra, in fondo alla valle galleggiano ancora alcuni vapori. È contenta. Il suo corpo roseggia dietro il velo della camicia da notte, s’incupisce alla commessura delle cosce e del bacino in un’ombra triangolare simile all’occhio di un dio tenebroso. Ma chi all’infuori di Bago può vedere il corpo stretto di Ismene sotto il velo della camicia, simile a un gran pesce rosa sotto un pelo d’acqua? Di Bago Ismene non ha vergogna... Eppure sì. Ma è un’altra specie di vergogna. E il timore di fare a Bago qualcosa che a Bago non bisogna fare. Prima di aprire i battenti di Bago Ismene rimane un po’ incerta, come quando, bambina, stava per sbottonare la giacca del babbo e cavargli dal panciotto l’orologio per sentire sonare le ore e i quarti. Babbo, mamma, Bug, Bago, Billi. Quanto diverso il nome Rutiliano da questi nomi che sembrano formati apposta per la bocca di un bambino, di un balbuziente, di una creatura debole! Quanto estraneo il nome Rutiliano!
Altri sono i momenti di vergogna. Quando Rutiliano viene a trovare Ismene di notte. Ismene allora si alza dal letto, va a prendere il grande paravento e lo apre tra il letto e Bago, così da nascondere il letto. Rutiliano ogni volta stupisce di quella manovra e chiede spiegazioni. Ismene dice che ha paura dell’aria. L’aria? Sı` l’aria che passa sotto la porta. E a rendere più forte il riparo Ismene spiega sul paravento la coperta di giorno del letto, che di notte sta ripiegata su una sedia. Rutiliano guarda quelle operazioni con occhio incomprensivo. Del resto che cosa capisce Rutiliano? Che cosa capisce di lei? Rutiliano è grave e distante. Non ride mai e tiene dietro a certe occupazioni misteriose che necessitano frequenti viaggi. Malgrado il mistero che le avvolge, Ismene non ha curiosità di conoscere le occupazioni di Rutiliano. Fin dove arrivano i suoi ricordi d’infanzia, Ismene ricorda Rutiliano. Questi faceva parte della casa come il divano fa parte del salotto, come la credenza fa parte della stanza da pranzo. Per Natale e la Befana Rutiliano arrivava carico di scatole, dalle quali estraeva con meticolosità i regali. Ismene allora lo baciava in fronte e diceva: « Grazie, zio Rutiliano ». Zio era un titolo d’onore e, per Ismene, sinonimo di vecchio. Non piaceva a Ismene baciare la fronte dello zio Rutiliano nè tanto meno farsi baciare da lui. Eppure quando anche la mamma morì, non rimaneva altro da fare che sposare lo zio Rutiliano. A chi profittava quel matrimonio? A zio non di certo. Così almeno diceva lui. Dalla vita ormai questi non aspettava più nulla. A Ismene invece quel matrimonio avrebbe assicurato benessere e protezione. « Non ci si sposa mica per il solo nostro piacere. » Così disse zio Rutiliano il quale parlava molto di rado, ma le pochissime volte che parlava diceva delle verità inconfutabili. « Fortuna che parla così di rado! » disse Billi a Ismene, e chinò la testa. L’abito di seta, il velo bianco, i regali, gl’invitati, il pranzo avrebbero potuto fare del giorno delle nozze un giorno lieto, ma proprio in quel giorno Billi partì per arruolarsi nella marina. « Come sarebbe felice la tua povera mamma, come sarebbe felice il tuo povero papà!» disse zio Rutiliano, che in quel giorno fu anche più silenzioso del solito.
A tavola, davanti a trenta invitati che si abbottavano, Ismene chiamò suo marito « zio Rutiliano », e immediatamente il gelato le andò per traverso. Pochi giorni dopo, affinchè Ismene non ricadesse nello stesso errore, Rutiliano cambiò nome e si fece chiamare Ruti. Non era vero però che Ruti avesse sempre ragione.
Ismene non trovò in suo marito quella sicurezza, quella confidenza che aveva avuto nei suoi genitori, e per ritrovare le quali si era unita in matrimonio con lui. Le trovò invece in Bug che aveva tanti peli sugli occhi e lo sguardo umano, e dopo la morte di Bug le trovò in Bago. E Bago era impossibile che morisse. Ruti un giorno parlò di rinnovare i mobili della camera da letto, mettere dei mobili più chiari, più freschi, più intonati alla camera di una giovane sposa. Ismene difese i « suoi » mobili con un accanimento che sbalordì Ruti. Questi si maravigliò di un attaccamento così forte a mobili di così poco valore, ma in fondo fu contento di non fare nuove spese. Ismene, specie quando suo marito era in casa, passava la giornata nella propria camera vicino a Bago. Il « vecchio » armadio l’aveva vista nascere, aveva custodito i suoi abiti di bambina, poi quelli di fanciulla e ora custodiva i suoi abiti di donna. Sta seduta accanto al battente socchiuso, come per ascoltare i palpiti di quel cuore tenebroso ma profondamente buono. Si confida con lui. Dice a lui quello che ad altri e soprattutto a Ruti non direbbe mai. Gli parla del ritorno di Billi.
Ruti si affacciò alla porta, annunciò con aria lugubre che partiva con la macchina e non sarebbe ritornato se non l’indomani. Ismene lo baciò in fronte, come quando Ruti era ancora « zio Rutiliano » e le portava i regali di Natale.


Ora Ismene e Billi stanno silenziosi uno di fronte all’altro, come se non avessero nulla da dirsi. È forse imbarazzato Billi di trovarsi nella camera da letto d’Ismene? Costei vuole sentirsi vicino a Bago, ora soprattutto che nella sua camera da letto c’è Billi.

Rombo crescente di un’automobile in arrivo. Scricchiolio della ghiaia sotto le ruote, strappo del freno a mano davanti alla porta d’ingresso.
La voce allarmata di Ancilla nel corridoio: «E` tornato il signore! È tornato il signore! »
Billi scatta in piedi. È pallidissimo. Si guarda attorno. Perché è allarmata la voce di Ancilla? Che pericolo costituisce il ritorno del « signore »? Un urlo. Urlo profondo. Più potente di quanto la più potente voce umana può dare, ma tutto « interno ». Urlo « incarnato » e circoscritto entro un raggio strettissimo. Urlo a uso locale. Urlo « domestico ». Urlo « cubicolare ». Urlo « per pochi intimi ». Nell’urlo, le porte dell’armadio si sono spalancate. Billi spicca un salto e si tuffa dentro l’armadio, che di colpo richiude i battenti. Billi è saltato volontariamente dentro l’armadio, oppure è stato succhiato dall’armadio? Nel momento in cui i battenti dell’armadio si sono aperti, gli abiti di Ismene sono volati fuori a sciame e ora giacciono sparpagliati per la camera, come un bucato in campagna.
Ruti si affaccia alla porta, piu` lugubre che mai.
«Gente inqualificabile! » dice Ruti. « Mi fanno fare centocinquanta chilometri in macchina e non... Che disordine è questo?
Perchè i tuoi abiti sono sparsi sui mobili, per terra? Con quello che costa oggi un abito! »
Ismene guarda i suoi abiti sparsi per la camera. Ma sono davvero i suoi abiti? Ora tutti i suoi abiti sono bianchi. Ismene guarda il suo abito da sera rovesciato sulla spalliera della poltrona, simile a un naufrago piatto su uno scoglio. La forma è la medesima, ma il colore non è più rosso ma bianco. Mentre Ismene stupita guarda il suo abito e stenta a riconoscerlo, l’abito comincia a rosseggiare e a poco a poco ritrova il suo colore che la paura gli aveva fatto perdere.
Ismene invece non ritrova il suo colore: la paura la sbianca ancora che Ruti apra l’armadio per riporvi, lui così meticoloso, gli abiti sparsi.
Ruti dice: « L’ordine è la prima qualità di una padrona di casa: ricordatelo ». E se ne va. Ora anche Ismene comincia a roseggiare in mezzo agli abiti sparsi, che a poco a poco ritrovano il proprio colore: il rosso, il celeste, il verde, l’arancione, il violetto. Quando anche Ismene ha ritrovato il proprio colore, essa va ad aprire l’armadio. L’armadio è vuoto.
Da quel giorno Ismene non si stacco` piu` d’accanto all’armadio. Non tocco` cibo e anche le poche ore che dormiva, le dormiva sulla poltrona presso i battenti socchiusi di Bago.
Visse quindici giorni in tutto. Quando le tirarono via la coperta da sopra le gambe, le trovarono un biglietto posato sulle ginocchia. Era scritto con scrittura infantile. « Anch’io voglio essere chiusa dentro il corpo oscuro e buono di Bago. Gli abiti non siano tolti: sono i miei amici.» In fondo al biglietto c’era un richiamo: «Bago è il nome dell’armadio della mia camera da letto ».
Rutiliano odiava l’assurdità in tutte le sue forme, ma poichè la consuetudine vuole che le volontà dei morti siano rispettate anche se assurde, Rutiliano ordinò che fosse fatto com’era scritto nel biglietto.
Ismene fu collocata nell’armadio e l’armadio calato nella fossa: tomba a due ante e troppo grande per quel corpo così piccino. Come un padre che si chiude la figlia in petto.

La morte dell'impiegato, di Antòn Čechov

La morte dell’impiegato

di Antòn Čechov

Una magnifica sera un non meno magnifico usciere, Ivàn Dmitric' Cerviakòv, era seduto nella seconda fila di poltrone e seguiva col binoccolo "Le campane di Corneville". Guardava e si sentiva al colmo della beatitudine. Ma a un tratto... Nei racconti spesso s'incontra questo "a un tratto". Gli autori han ragione: la vita è così piena d'imprevisti! Ma a un tratto il suo viso fece una smorfia, gli occhi si stralunarono, il respiro gli si fermò... egli scostò dagli occhi il binoccolo, si china e... eccì!!! Aveva starnutito, come vedete. Starnutire non è vietato ad alcuno e in nessun posto. Starnutiscono i contadini, e i capi di polizia, e a volte perfino i consiglieri segreti. Tutti starnutiscono. Cerviakòv non si confuse per nulla, s'asciugò col fazzolettino e, da persona garbata, guardò intorno a sé: non aveva disturbato qualcuno col suo starnuto? Ma qui, sì, gli toccò confondersi. Vide che un vecchietto, seduto davanti a lui, nella prima fila di poltrone, stava asciugandosi accuratamente la calvizie e il collo col guanto e borbottava qualcosa. Nel vecchietto Cerviakòv riconobbe il generale civile Brizzalov, in servizio al dicastero delle comunicazioni. «L'ho spruzzato!», pensò Cerviakòv. «Non è il mio superiore, è un estraneo, ma tuttavia è seccante. Bisogna scusarsi». Cerviakòv tossì, si sporse col busto in avanti e bisbigliò all'orecchio del generale: - Scusate, eccellenza, vi ho spruzzato... io involontariamente... - Non è nulla, non è nulla... - Per amor di Dio, scusatemi. Io, vedete... non lo volevo! - Ah, sedete, vi prego! Lasciatemi ascoltare! Cerviakòv rimase impacciato, sorrise scioccamente e riprese a guardar la scena. Guardava, ma ormai beatitudine non ne sentiva più. Cominciò a tormentarlo l'inquietudine. Nell'intervallo egli s'avvicinò a Brizzalov, passeggiò un poco accanto a lui e, vinta la timidezza, mormorò: - Vi ho spruzzato, eccellenza... Perdonate... Io, vedete... non che volessi... - Ah, smettetela... Io ho già dimenticato, e voi ci tornate sempre su! - disse il generale e mosse con impazienza il labbro inferiore.
 «Ha dimenticato, e intanto ha la malignità negli occhi», pensò Cerviakòv, gettando occhiate sospettose al generale. «Non vuol nemmeno parlare. Bisognerebbe spiegargli che non desideravo affatto... che questa è una legge di natura, se no penserà ch'io volessi sputare. Se non lo penserà adesso, lo penserà poi!...». Giunto a casa, Cerviakòv riferì alla moglie il suo atto incivile. La moglie, come a lui parve, prese l'accaduto con troppa leggerezza; ella si spaventò soltanto, ma poi, quando apprese che Brizzalov era un "estraneo", si tranquillò. - Ma tuttavia passaci, scusati, - disse. - Penserà che tu non sappia comportarti in pubblico! - Ecco, è proprio questo! Io mi sono scusato, ma lui in un certo modo strano... Una sola parola sensata non l'ha detta. E non c'era neppur tempo di discorrere. Il giorno dopo Cerviakòv indossò la divisa di servizio nuova, si fece tagliare i capelli e andò da Brizzalov a spiegare... Entrato nella sala di ricevimento del generale, vide là numerosi postulanti, e in mezzo ai postulanti anche il generale in persona, che già aveva cominciato l'accettazione delle domande. Interrogati alcuni visitatori, il generale alzò gli occhi anche su Cerviakòv. - Ieri, all'Arcadia, se rammentate, eccellenza, - prese a esporre l'usciere, - io starnutii e... involontariamente vi spruzzai... Scus... - Che bazzecole... Dio sa che è! Voi che cosa desiderate? - si rivolse il generale al postulante successivo. «Non vuol parlare!», pensò Cerviakav. impallidendo. «E' arrabbiato dunque... No, non posso lasciarla così... Gli spiegherò... ». Quando il generale finì di conversare con l'ultimo postulante e si diresse verso gli appartamenti interni, Cerviakòv fece un passo dietro a lui e prese a mormorare: - Eccellenza! Se oso incomodare vostra eccellenza, è precisamente per un senso, posso dire, di pentimento!...Non lo feci apposta, voi stesso lo sapete! Il generale fece una faccia piagnucolosa e agitò la mano. - Ma voi vi burlate semplicemente, egregio signore! - diss'egli, scomparendo dietro la porta. «Che burla c'è mai qui?», pensò Cerviakòv. «Qui non c'è proprio nessuna burla! E' generale, ma non può capire! Quand'è così, non starò più a scusarmi con questo fanfarone! Vada al diavolo! Gli scriverò una lettera e non ci andrò più! Com'è vero Dio, non ci andrò più!».
Così pensava Cerviakòv andando a casa. La lettera al generale non la scrisse. Pensò, pensò, ma in nessuna maniera poté concepir quella lettera. Gli toccò il giorno dopo andar in persona a spiegare. - Ieri venni a incomodare vostra eccellenza, - si mise a borbottare, quando il generale alzò su di lui due occhi interrogativi, - non già per burlarmi, come vi piacque dire. Io mi scusavo perché, starnutendo, vi avevo spruzzato... e a burlarmi non pensavo nemmeno. Oserei io burlarmi? Se noi ci burlassimo, vorrebbe dire allora che non c'è più alcun rispetto... per le persone... - Vattene! - garrì il generale, fattosi d'un tratto livido e tremante. - Che cosa? - domandò con un bisbiglio Cerviakòv, venendo meno dallo sgomento. - Vattene! - ripeté il generale, pestando i piedi. Nel ventre di Cerviakòv qualcosa si lacerò. Senza veder nulla, senza udir nulla, egli indietreggiò verso la porta, uscì in strada e si trascinò via... Arrivato macchinalmente a casa, senza togliersi la divisa di servizio, si coricò sul divano e... morì.

Studi etnografici a Kill House, di Dario De Marco

Overlook loop, a cura di Emanuela Cocco per Edizioni Arcoiris, è un libro di racconti di case occupate e infestate, edifici teatro di apparizioni fantasmatiche e di ossessioni nere e sinistre debitrici al film Shining di Stanley Kubrick.
Edifici insidiati dalle ombre, che evocano una fatale arrendevolezza al delirio e alla violenza. L’Overlook Hotel, il teatro dell’azione di Shining, un romanzo horror di Stephen King, un incubo cinematografico di Stanley Kubrick. Case che disorientano, terrorizzano, che tengono in assedio, che intrappolano, tormentano, cancellano. Edifici come camere di martirio, incubi interpretativi che conducono alla perdita della ragione, all’avvento del disordine indicibile e dell’orrore.

Gli autori presenti nella raccolta: Dario De Marco, Veronica Galletta, Francesco Follieri, Romeo Vernazza, Pierpaolo Di Mino con Veronica Leffe, Micol Beltramini e Angelo Mennillo, Cristiano Saccoccia, Simone Lisi, Luca Mignola, Andrea Frau, Andrea Zandomeneghi, Arturo Belluardo, Claudio Morandini, Fabrizio Lucherini, Marta Cai
Ospite straniero: Francisco Magallanes (Traduzione di Antonella Di Nobile)
Prefazione di Paola Del Zoppo, postfazione di Bartolomeo Cafarella.

Cattedrale vi propone il racconto di Dario De Marco, per gentile concessione dell’editore.

Studi etnografici a Kill House
di
Dario De Marco

Come lei ben sa, non c’è cura senza sogno, non c’è analisi senza narrazione, non c’è interpretazione senza interpretazione. Perciò questo è il racconto del sogno che ho fatto, dell’incubo che sto facendo, del labirinto onirico nel quale, a volte, ho l’impressione di vagare ancora.
Non è una storia di paura, avevo detto al mio amico Stefano, però è successa davvero. Sì certo, aveva fatto lui, dicono tutti così, peccato che poi sia esattamente il contrario.
Avevo sorriso ma avevo aggiunto: anzi, sta succedendo.
A quel punto lo avevo incuriosito, ma Stefano non lo avrebbe mai ammesso, perciò aprii la porta delle confidenze senza aspettare un invito. La presi alla lontana, iniziando con gli scarafaggi: le blatte che nella città dove viviamo sono endemiche (a differenza del posto in cui sono nato, che pure ha fama di essere sporco e degradato). Blatte che sembravano sbucare dal nulla, ma quella è la loro caratteristica, convenimmo: se vedi uno scarafaggio in un angolo, vuol dire che acquattati per la casa ce ne sono venti, come mi aveva detto il tizio che era venuto a fare la disinfestazione, peraltro invano. Quindi se sbucano a decine, significa che nelle tane, dietro i battiscopa o nelle cerniere dei mobili, ne proliferano a centinaia. Già, ma la cosa strana è che questo numero ipotetico sembrava variare in maniera repentina, nonché priva di logica: potevamo lasciare del cibo incustodito per terra, e trovarlo intatto, per poi imbatterci in quegli esseri schifosi, che sono soliti scrocchiare sotto le pantofole, nelle stanze meno appetibili della casa.
La polvere, la sporcizia, anche quelle tutto sommato erano normali, almeno a casa nostra: non eravamo mai stati fissati con la pulizia e con l’ordine, né io né mia moglie, e poi da quando c’erano i bambini il caos non aveva fatto altro che prosperare. Certo che però a volte faceva specie vedere delle macchie di unto sul pavimento subito dopo aver passato lo straccio, o cumuli di polvere aggrovigliata a peli sbucare da sotto al cuscino di prima mattina. C’erano poi i rumori dentro alle pareti, come di detriti che scivolavano lungo una conduttura, il che pure poteva essere: il proprietario precedente ci aveva raccontato che prima, in quel vecchio palazzo del centro, in ogni appartamento c’erano vari camini, che poi erano stati murati – persistevano le relative canne fumarie, come grotte cieche nei muri. E c’erano le cose che sparivano, ma questo succede a tutti, figuriamoci a noi; a noi però ricomparivano, dopo giorni o anni, nei posti più incongrui: un vasetto di marmellata nel cesto dei panni sporchi, i soldi dentro ai libri, le posate in fondo alle scatole dei pupazzi. Di queste inusuali allocazioni attribuivamo naturalmente la responsabilità ai bambini, o a volte ci accusavamo l’un l’altra; il che non faceva che aumentare la tensione e i continui screzi che avevano caratterizzato il nostro rapporto da sempre, ma in particolare da quando, freschi sposi, neo genitori, eravamo entrati in quella casa.
Tutte queste cose avevano una spiegazione: razionale, psicologica, soggettiva. Il fatto è che, mi resi conto mentre raccontavo a Stefano, per una forma di vergogna stavo omettendo i particolari più misteriosi, illogici: le macchie sui muri che scomparivano e riapparivano, senza legami apparenti con la stagione o con altri fatti concreti quali perdite, lavori eccetera. Le crepe, che in modo ancora più inspiegabile percorrevano i soffitti come rughe in un volto antico, e poi quando finalmente ci decidevamo a chiamare l’amministratore, o un imbianchino, di colpo sparivano, lasciando uno strascico di aspre polemiche e di dubbi sul nostro senso della vista. La muffa, che io scherzando avevo iniziato a chiamare l’inquilino, da quando avevo letto che i funghi, regno cui le muffe appartengono, sono esseri viventi ramificati, le cui propaggini invisibili possono spargersi per metri o chilometri, pur appartenendo allo stesso “individuo”. Era perciò probabile che le muffe che infestavano gli angoli più riposti dell’appartamento, fin dentro il frigo, fossero un solo, grande essere vivente. O gli interruttori della luce, le prese, che sbucavano in posti del muro dove avremmo giurato non fossero mai stati, mentre altre volte la mano andava a colpo sicuro nel buio, per tentare di fare clic su una parete perfettamente liscia.
Forse fu proprio per questo, per non perdere la sua attenzione, per timore che tutte queste autocensure finissero per fargli ritenere la cosa di poco conto – lo era, in effetti, o almeno così pensavo allora – per una specie di rivalsa verso l’aria di sufficienza con cui già iniziava a guardarmi, o così parve a me, fu allora che feci al mio amico la rivelazione che mi ha portato fin qui, in questa strada senza uscita. Buttai l’osservazione lì, quasi per caso: la coincidenza, che avevo notato, tra gli strani fatti della casa e gli avvenimenti della nostra vita. L’ennesimo litigio con mia moglie, la prima uscita serale della figlia quasi adolescente, i capricci del bambino piccolo, le tensioni, la noia, la rabbia, i malintesi, i rancori – insomma tutto quello che rende speciale la vita di una famiglia, d’altra parte non è per questo che ne formiamo sempre di nuove?
E poi aggiunsi, quasi sottovoce, di nuovo vergognandomi, che pareva quasi come se la casa reagisse agli umori dei suoi abitanti. Quello che mi stupì nella sua reazione, fu la mancanza di stupore: sorrise come se non stesse aspettando altro. Proprio come pensavo, disse, qui ci vuole un analista.
Un analista, ripetei come un’eco. Sì, un analista immobiliare, anzi un’analista, disse per farmi sentire l’apostrofo, ne conosco una bravissima. No un attimo, mi opposi, non ci siamo capiti io a casa mia mi trovo benissimo, non ho la minima intenzione di vendere. (E poi chi sa se riuscirei mai a vendere con quello che succede, come in quei racconti di case dove sono avvenute delle brutte storie, che portano la fama di essere infestate, maledette, o semplicemente sfigate, e che perciò nessuno vuole comprare.) Ho detto analista immobiliare non immobiliarista, mi rimbrottò Stefano, e neppure architetto, mi sembra evidente che il problema non è fisico.
Ma quindi analista… Nel senso di terapeuta, psicologa, strizzacervelli dai, benché qui tecnicamente non ci sia un cervello da strizzare. È pure una mia mezza parente, o almeno portiamo lo stesso cognome, spesso ci scherziamo su questa cosa, magari ci esce un po’ di sconto. Non sapevo bene cosa dire, quindi non dissi niente.
Stefano invece aveva continuato, ironizzando sul fatto che una persona colta come me opponesse resistenze, così tanti anni dopo la scoperta dell’inconscio da parte di Sygmund Floyd, che aveva introdotto il concetto nel seminale Psicopatologia della prima casa, e sistematizzato il metodo nel successivo The dark side of the room. Si sa, le patologie mentali si portano ancora dietro uno stigma che quelle fisiche non hanno più, commentò il mio amico, ma pensavo fosse un atteggiamento da persone più anziane, nella nostra generazione chi ha questi pregiudizi, ormai. Se invece, come immagino, quello che ti lascia perplesso, che rifiuti ideologicamente è l’approccio medicalizzato, sappi che molti analisti contemporanei, tra cui quella che ti propongo, non sono di scuola classica ma seguono le teorie archetipiche di C.N.S. Young, prima allievo e poi avversario del padre della psicanalisi immobiliare. Certo certo, avevo abbozzato, pensando che l’importante è il risultato, e a quel punto un tentativo male non poteva fare. Presi perciò appuntamento, ma in via precauzionale decisi di non dire niente a mia moglie. Il mattino dopo entrai nel ripostiglio, l’unica stanza della casa senza finestre, e vidi incollato alla parete un geco enorme, viscido e trasparente.
Ricordo ancora il primo incontro con lei, è quello che ricordo meglio, non che gli altri non siano stati importanti, ma nella memoria si appiattiscono e si amalgamano in un unico flusso, in una sola infinita seduta.
La prima cosa che fece, rapidamente, fu elaborare una diagnosi; e io che credevo quello fosse il punto di arrivo della terapia, non la partenza. Ricordi, disse, psicosomatico non vuol dire inventato, non vuol dire inesistente. I malesseri psicosomatici portato effetti fisici non meno reali. Ogni malattia è un sintomo, ogni sintomo è un messaggio.
Mi aveva poi iniziato a fare un lungo preambolo, una specie di riassunto della sua materia, come se avesse a che fare con un alieno che fosse appena arrivato per caso su quel pianeta; il che peraltro corrispondeva esattamente al mio stato d’animo, quindi misi da parte l’irritazione per non essere ascoltato come speravo, e stetti a sentire. Partendo dall’epoca preistorica in cui alle costruzioni veniva ingenuamente negata qualsiasi identità, in cui venivano usate come strumento, come esca (la Casa di marzapane, la Cantina di Barbablù). Passando per l’epoca successiva, che aveva trovato il culmine nel Gotico, epoca in cui alle case veniva riconosciuta una certa agency, ma sempre in virtù di forze esterne che le animavano, le infestavano: forze di origine umana come i fantasmi, o mostruosa come i demoni, ma comunque entità altre.
Ci furono dei precursori, nelle ere precedenti a quella moderna, mi spiegò: per esempio Chesterton, da vecchio esorcista cattolico, parlava di un palazzo che è più e meno di un palazzo, di una torre la cui sola architettura è malvagia.
Da lì all’elaborazione dell’inconscio immobiliare, il passo fu breve, fu enorme.
In epoca contemporanea, aveva detto, l’approccio più medico-scientifico, di stampo neuroingegneristico, era tornato in auge; come si erano molto diffuse le storielle divulgative alla Oliver Sax (La donna che scambiò suo marito per un castello, la più nota). Aveva poi nominato i pilastri del costruttivismocomportamentismo, la corrente di architettura anti psicanalitica che mira unicamente a ottenere risultati concreti e misurabili, e i cui autori avevano ideato delle specie di manuali pratici, quasi delle guide: Come costruire una casa di foglie (J.Z. Truant), Come demolire una magione in una sola notte (E.A.P. Usher), Come occupare una casa, metà alla volta (J.C. Morelli). E infine le ricerche sul campo di Bessie Jackson, i sopralluoghi e gli studi etnografici a Kill House, alla villa PyncheonMaule, all’Overloop Motel.
Come lei ben sa, non c’è cura senza sogno, non c’è analisi senza narrazione, non c’è interpretazione senza interpretazione. Perciò è giunto il momento di raccontare di quella notte, dell’incubo dal quale non mi sono mai svegliato, o del sogno che non è mai iniziato, ammesso che ci sia una differenza. Mia moglie era andata qualche giorno fuori con i bambini, con la scusa di un ponte, del primo caldo, dell’invito di amici; sospettavo in realtà per allontanarsi un po’ dalla persona paranoica e cupa che stavo diventando, o peggio, dall’atmosfera paranoica e cupa che ci stava avvolgendo.
Potevo dormire, finalmente: ma non ci riuscivo. Le sarà capitato, o ne avrà letto, sentito parlare: l’insonnia prolungata, unita alla deprivazione sensoriale che di solito si sperimenta nelle ore notturne, quando la casa è immersa nel buio e nel silenzio, può portare a visioni, allucinazioni, distorsioni della percezione e veri e propri stati alternativi di coscienza, non dissimili dallo stato onirico. Così come in sogno abbiamo delle rivelazioni – è l’inconscio che lavora per emergere, naturalmente – e all’improvviso un aspetto della nostra vita ci appare chiaro, quasi ovvio (lei ci tradisce, il nostro capo sta per licenziarci, abbiamo una malattia da cui non guariremo mai), così pure dopo ore senza dormire, sorgono in noi, ma come proiettate dall’esterno, idee magnifiche, consapevolezze nuove. Il sonno più profondo e la sua completa assenza producono gli stessi effetti: curioso paradosso: sono quasi impossibili da distinguere. Se sono sicuro di una cosa, riguardo a quella notte, è che non so, non saprò per sempre, se non mi sono mai addormentato o se non mi sono ancora svegliato. Ma un’altra sensazione mi prese, quando di scatto mi misi a sedere nel letto, una sensazione che invece non avevo provato prima, e che non so come articolare se non con una banalità: la certezza di aver sognato il sogno di qualcun altro; anzi di essere stato nel sogno di qualcun altro; di qualcos’altro.
Come sempre, quando ci svegliamo, tendiamo a localizzare le cause che ci hanno riportato alla realtà negli avvenimenti del sogno, piuttosto che in quelli del mondo reale. Il tappeto volante sul quale stavamo viaggiando si è improvvisamente ribaltato, non è stato il letto a subire una scossa; un mostro assassino avanza a passi pesanti per il corridoio, non è il vicino che ha deciso di piantare chiodi alle tre di notte; stiamo annegando in una grotta subacquea, non abbiamo avuto l’ennesimo episodio di apnea notturna. Così quella notte attribuii il movimento improvviso a… non ricordo cosa, ma qualcosa che stava succedendo da quell’altra parte.
Quando il letto si mosse di nuovo, facendo anche un po’ di rumore, proprio come se qualcuno stesse cercando di trascinarlo verso la parete opposta, in un primo momento non mi spaventai: quando sono solo posso finalmente dormire con un po’ di luce, vidi subito che nella stanza non c’era nessuno. Mi alzai di colpo, barcollando leggermente, cosa che attribuii allo spostamento brusco, e alla mia pressione bassa. Ma quando il pavimento cominciò a inclinarsi, tanto che per rimanere in piedi dovetti aggrapparmi a un cassetto semiaperto del comò, cominciai a sospettare che qualcosa non andava. Dopo qualche secondo, la casa si fermò. Solo il lampadario che oscillava leggermente era lì a testimoniare che non mi ero sognato tutto – a meno che non mi stessi sognando anche quello. Vediamo stavolta che si è inventata questa, dissi tra me e me, più arrabbiato che impaurito, e mi diressi verso la porta a grandi falcate, aspettandomi di trovare, non so, i ratti che brucavano in cucina, la libreria del salotto marcia di acqua e salsedine, una pianta carnivora fiorita sull’attaccapanni di ottone, il solito cinema. Ma la porta non si aprì. La maniglia si girava ma la porta non ne voleva sapere di muoversi, neanche quando iniziai a scuotere e tirare e spingere e provarle tutte, facendo un casino terribile che fu seguito da una reazione altrettanto furibonda: le pareti ripresero a scricchiolare, il letto a sussultare, i cassetti del comò ad aprirsi e chiudersi, il lampadario a fare il pendolo.
Ora basta, dissi ad alta voce, senza neanche rendermene conto, ora basta cazzo hai ROTTO IL CAZZO, stavo urlando, ma quel che è peggio stavo urlando contro la casa, stavo parlando con l’appartamento, forse per la prima volta nella mia vita o almeno da quando lei me l’aveva consigliato, ma la reazione non fu così positiva, forse per il tono che stavo usando forse perché parlare a una cosa è obiettivamente da pazzi, e come il pazzo continuavo a urlare e a scuotere la porta fino a che strappai la maniglia dal legno. A quel punto un boato, un rombo come uno sbadiglio prodotto dal più grande essere vivente che abbia mai abitato il pianeta terra, un muggito che veniva dal profondo dal basso dal lato dall’alto da tutti e da nessun luogo, mi zittì, e zittì ogni altro suono, dentro e fuori la casa.
Allora, con la testa che viaggiava a mille e il cuore che mi batteva fin nei polpastrelli, misi insieme le cose: le crepe, gli scossoni notturni al letto, la vertigine come un mal di mare, e da ultimo la porta. Ma certo: tutti sintomi di una cosa sola, indubitabile, solida e certa, come la morte: il terremoto.
C’erano state più scosse, evidentemente, nei giorni precedenti, scosse di assestamento, no quelle sono quelle che vengono dopo, scosse preparatorie? Minacce? Avvertimenti? Maledizione la sua terminologia animista mi aveva contagiato, ma qui ero di fronte a una cosa concreta, altro che fumisterie psicologistiche, una cosa materiale e pericolosa che stava distruggendo la casa e le nostre vite, me lo ricordavo (dai tanti terremoti vissuti e letti, prima che il palazzo crolli, la sua struttura inizia a cedere, a volte si sgretola un po’ alla volta e se ne viene a pezzi, altre volte in maniera globale, intima, invisibile: è come se tutti i muri, e solo i muri si rimpicciolissero, un po’ come quelle vecchine cui l’osteoporosi accorcia le ossa, e che a un certo punto della vita iniziano a decrescere, come ti sei fatto alto diceva mia madre, mamma ormai ho smesso di crescere da un bel po’, ok che sono sempre il tuo bambino ma ho quarant’anni, i muri collassano ma tutto il resto no, per esempio le parti di legno, i mobili le porte, così la casa sembra più piccola o l’arredamento più grande, ma è solo un attimo prima che esploda tutto, prima che tutto si polverizzi, e però quando te ne redi contro è troppo tardi, perché appunto la cornice della porta è diventata più piccola della porta stessa, e se quella è chiusa non si apre più resta incastrata) c’è un’altra strada, pensai con una lucidità di cui non mi credevo capace, la portafinestra che dà sul balconcino, uscendo mi venne anche in mente di saltare giù siamo solo al primo piano ma poi pensai che c’era un modo migliore per farmi male senza morire, l’altra portafinestra quella del tinello, l’altro orifizio sul retro, quante volte i bambini avevano giocato a rincorrersi in cerchio, scavalcai i cumuli di immondizia regolarmente differenziata che nessuno buttava mai e tirai un pugno nella finestra, con una forza di cui non mi credevo eccetera, non ho mai capito perché nei film si usa avvolgere un oggetto contundente in una coperta, se il colpo è ben assestato il vetro si rompe e cade dall’altra parte in mille pezzi aguzzi e acuminati, ma che ormai non possono farti più male, devi solo stare attento a ritirare la mano con lentezza, aprii il nottolino dall’interno, mi precipitai all’uscio di casa e con la mano insanguinata tremante più di quanto tremava la casa tolsi il blocco, quella porta per fortuna non era incastrata e si aprì, cigolando solo un poco, ma la cosa peggiore di tutte fu quello che vidi dopo. Gli altri appartamenti a cominciare da quello a fianco, che dà sullo stesso ballatoio, erano completamente immo
Perfetto, la ringrazio. Può pagare come sempre a Yörg, il mio segretario che l’aspetta fuori, disse la dottoressa Re.
Ma come, io
Me lo finisce di raccontare al prossimo incontro, la sua ora è finita.

Un toro davvero bello, di Laura Ortiz Gómez

Gran Vìa porta in libreria Creature della foresta, di Laura Ortiz Gómez, con la traduzione di Monica R. Bedana. Nella cartografia di un territorio, quello della Colombia, attraversato da ciclica violenza e ferite collettive, sottoposto al paramilitarismo e al conflitto armato, i personaggi dei nove racconti di Laura Ortiz Gómez mantengono forza e passione intatte, spinti da pulsioni vitali quali l’immaginazione e il desiderio. Con una scrittura che genera immagini e personaggi di una bellezza crepuscolare capaci di esprimere il dolore della terra, questo è un libro che celebra ciò che rimane, e persiste, dopo il passaggio della violenza.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Un toro davvero bello
di

Laura Ortiz Gómez

L’ultima mucca al pascolo. Un orizzonte di quiete paranormale.
Jeremías conosce ogni colore dei sassi, ogni scabrezza della terra, ogni grido d’uccello. È in grado di intuire l’esatta portata di un fiume. I suoi piedi conoscono a memoria ognuno dei venticinque sentieri che conducono alle nevi perenni. Alle volte, quando rimane fermo, inizia a sentire che le braccia gli si coprono di peli e il cuore gli diventa verde e liquido. Fermo sotto il suo poncho è impercettibile.
Il mutismo di Jeremías è una pianta rampicante. Non vedi nulla, non senti nulla, non sai nulla, non ti immischiare in nulla. Il silenzio di una mula. La memoria della guerra in alta montagna. Un voto monastico. Jeremías, colui che nulla sa, che nulla vede.
Sta arando. Il beccastrino sbatte contro qualcosa di duro, produce un suono sordo. Jeremías scava e trova una cassa di legno, si direbbe una bara, un feretro per un corpo piccolo. Forse è una guaca, pensa, uno di quei famosi bottini di guerra sotterrati dagli eserciti. La tira fuori dopo una lotta con le radici e i cocci d’argilla. Il piccolo feretro è sigillato con dei chiodi. Jeremías lo porta in casa. Lo apre ansioso: contiene un sacchetto di plastica annodato e ingiallito. Nel sacchetto non c’è denaro.
Dentro ci sono due fotografie e una lettera. Nella prima si vede una donna rotondetta, in costume. Sullo sfondo c’è il mare. Sorride un po’ timida e un po’ leziosa. È sua madre. Jeremías sente un aculeo caldo, lungo e affilato trapassargli il petto. Una capsula di tristezza e di odio gli scoppia nello stomaco. Ha sempre pensato a sua madre nella terra di casa. Sola, contadina, rassegnata. Perché non gli ha mai detto di essere stata al mare? Quel costume fucsia, attillato, ha le forme precise del tradimento. Tutta la sua vita è stata modellata sulla menzogna di sua madre. Gli aveva fatto credere nello stoicismo, nel mutismo, nella montagna. E invece eccola lì, serena, estroversa, marittima. Credo di odiarti, sussurra Jeremías, mentre prende l’altra foto. Gli tremano le mani.
Nella seconda foto c’è sua madre con un tipo in pantaloni corti che potrebbe essere lui, ma non è lui. I suoi occhi dubitano. Per un attimo gli sfugge la capacità di riconoscere. Io e non io. Chi cazzo è questo qua? La risposta è un crollo: è suo padre. Ecco la faccia del grande segreto. Da piccolo non aveva mai chiesto di suo padre. Ha capito molto presto che il dolore di una madre non si tocca, non ci si fruga dentro. La ferita punzecchiata si infetta.
Nauseato, si avvicina alla stufa. Accende il fuoco. Guarda verso le montagne, ma non vede nulla. Guarda anche dentro, ma niente. Gli torna in mente Lucrecia. Gli unici momenti di sesso con una donna che ha conosciuto in vita sua e che per Jeremías è come dire amore. Penetrarla affannato nella stalla. La vita gli scivolava via intera lungo quel tunnel sdruccioloso e inequivocabile. Ebbro per il suo amore segreto, era stato sul punto di lasciare la madre. Di abbandonare tutto quello stoicismo, ogni codice, ogni patto, e di svignarsela nella capitale. Ma il senso di colpa aveva avuto il sopravvento. La visione di sua madre santificata, incarnazione immacolata della rassegnazione. Dove sarà Lucrecia adesso? Sarà una domestica che abita nella cintura urbana di Bogotá. Jeremías singhiozza. Ulula. Si stende sul letto. Il suo isolamento militare gli sembra ridicolo. Ogni cosa.
Sogna sua madre da giovane con il costume fucsia. Lei apre la porta di casa. Entra un gufo enorme che vola verso il suo viso. Gli si attacca al volto come una maschera. Metà gufo, metà Jeremías che sta sognando.

Si sveglia con un dolore acuto nel petto. Estrae la lettera dalla busta. Prova a leggerla, ma non ci riesce. Gli fa male la testa, l’alfabeto gli balla davanti agli occhi, i sensi e i suoni si muovono. Spinto dalla furia, scende in paese a cercare la sua maestra. Quando la troverà, le dirà: Adesso sì che mi deve insegnare a leggere. Il paese è pieno di cartelloni con la faccia dell’ennesimo candidato alle elezioni, un grassone dallo sguardo truce. Posti di blocco dell’esercito ovunque. Gente muta quanto lui. Bussa alla porta di casa della sua maestra. Gli risponde l’eco. Si rende conto che sono passati molti anni; la sua maestra, seppure fosse ancora viva, di sicuro non abita più lì. E i vicini, la stessa cosa. E pure tutto il resto.
«Chi è?»
«Sono Jeremías e voglio che lei m’insegni a leggere».
Un lungo silenzio. Poi un grido: «Se ne vada».
Non c’è anima viva. Solo il vento e la terra che volano via. L’unico movimento umano si percepisce dall’altro lato dei posti di blocco. Figure che ogni tanto si muovono, tossiscono oppure fumano. Jeremías sente un’urgenza, simile a quella che prova prima di eiaculare, ma senza il piacere che l’accompagna. Maledice sua madre, che gli ha seppellito la vita dentro una cassetta. All’improvviso ricorda che dietro la chiesa c’era una biblioteca. Bussa anche lì e gli apre un uomo piccolissimo. Jeremías vince la vergogna e gli dice che non sa leggere e che vuole imparare. L’uomo non riesce a trattenere del tutto un sorriso, che potrebbe essere di tenerezza o di sarcasmo. In effetti contiene un po’ entrambe. Gli dà dei quadernetti infantili e istruzioni precise su come sintonizzare Radio Sutatenza, per iniziare le lezioni a distanza. Jeremías lo guarda fisso, come per fargli delle domande. L’uomo dice a bassa voce: «Sono le contraddizioni di questo schifo di guerra. Non rimane più niente di niente, ma caspita, facciamo lezione via radio, pensi un po’». Jeremías arrossisce, la faccia bollente, il sangue gli è affluito tutto lì. Sulla via di casa mormora «guerra». Come vibra, quella parola. Erano quindici anni che non la sentiva pronunciare.
Lascia da parte la mungitura e il lavoro nei campi. Mette tutto l’impegno a imparare a leggere e a scrivere. Accende la radio e si concentra sui quadernetti. È difficile dominare il polso. Gli mette tristezza quella sua mano di uomo quasi vecchio, rugosa, dalle nocche grosse, piena di calli, che percorre tremante le collinette della “emme”. “Emme” di mamma. Si sforza, la lingua gli spunta dalle labbra. A fine giornata ci riesce. In corsivo e tutto attaccato: lamiamammamiama. È una magia: Mamma. E la mamma si materializza, quasi in carne e ossa. Giovane, rotondetta e con il costume fucsia. Lì, dentro il rancho, mentre ride. Un sole arancio le illumina il viso e i denti le brillano. Jeremías pensa che scrivere serve a evocare fantasmi. A dare un’anima a ciò che si ama e a ciò che si odia. Le collinette della “emme” rappresentano la formula di uno scongiuro. La mia mamma mi ama. Come se potesse estrarre un succo di madre e impregnarne la carta. Mamma, piccoli caratteri uno accanto all’altro che hanno un profumo. E non si sente assurdo. La mia mamma mi ama e mi accarezza. Ma “carezza” non sa scriverlo.
Il giorno dopo, la “pi”. Un palo con la pancia. Lingua di fuori e polso. Quando già fa sera, la parola nascosta: Papà. Ed è lì, insieme a lui, dentro il rancho. Talmente nitido che Jeremías teme che apra la bocca e si metta a parlare. Lo osserva da vicino, vede ogni suo pelo muoversi al vento. Così vicino che riesce ad annusare l’odore di mare della sua barba. E quindi questo è il mio taita, il mio papà. Anche se taita ancora non lo sa scrivere. Di notte, come un adolescente insonne, Jeremías continua a scrivere. Prova a mettere insieme le due parole, adesso. Entusiasta, scrive mamma e poi, accanto, papà. E vede un bacio cosmico, labbra incandescenti che incendiano il rancho. Lo rallegra pensare che almeno è nato da qualcosa che somiglia all’amore. Da qualcosa di incandescente come toccare le tette di Lucrecia.
All’alba, senza aver dormito nemmeno un secondo, Jeremías si spinge oltre. Azzarda una frase radicale. La matita traballa, ma ce la fa. Il mio papà mi ama. Finisce di scrivere e non succede niente. A poco a poco, dal silenzio emerge il suono di una serie di spari. Ed eccolo lì, dentro il rancho, il suo papà con la mitragliatrice, la selva nelle pupille. La visione dura solamente un secondo. Poi basta. Un silenzio d’acciaio.

Dopo una settimana di scrittura febbrile, Jeremías capisce che gli ci vorrà almeno un anno per decifrare il contenuto della lettera. Non può rinviare il mistero per così tanto tempo. E allora escogita un piano. Andrà in paese, a Chita, tutti i giorni, ogni giorno con una parola, e chiederà a qualcuno di leggergliela. In breve tempo e tenendo a mente le parole saprà cosa c’è scritto nella lettera.
Inizia il suo pellegrinaggio quotidiano. Il fantasma analfabeta che mendica significati. A volte deve aspettare tutta la mattina prima che in piazza passi furtivamente qualcuno. Non tutti gli rispondono. Ma lui, paziente, implacabile, continua a costruire un testo.
La parola più emozionante fu la prima. Gliela lesse un signore anziano. Jeremías aveva tirato fuori un bigliettino discreto.
«Mi scusi, signore. Sa dirmi per cortesia cosa c’è scritto qui?»
«C’è scritto ‘Javier’». E in quel momento una fitta, un piccolo arresto cardiaco e lui che fa finta di nulla.
E torna a casa di corsa, coi pensieri in cerchi concentrici. Il mio papà mi ama. Il mio papà è Javier. Taita Javier.
Per Jeremías non esiste più niente eccetto la lettera e la missione. La mucca lo guarda fisso, con le mammelle infiammate. Passa le giornate a raccogliere parole e ad ascoltare Radio Sutatenza e a tenere in mano la matita per continuare a riempire i quadernetti di “emme” e di “pi”. E di mamma e papà. E anche a ricopiare la parola Javier. Copia e ricopia: taita Javier. Ma senza taita perché la “ti” ancora non sa farla. Dopo nove giorni intensi, pieni di dolore e di viaggi furtivi a Chita, Jeremías ha già la prima frase: Javier. Un due gennaio ti hanno ucciso i paramilitari. Nove giorni col fiato sospeso. Il settimo fu il peggiore, quando quella bambina pelle e ossa gli disse: Qui c’è scritto “ucciso”. Poi impallidì e corse via. Anche lui in quel momento sentì un proiettile. Poi nella mente, un’idea, una pugnalata decisa: Taita Javier è morto. E dopo, l’ira del nono giorno, quando il bottegaio gli disse: Qui c’è scritto “paramilitari”. E anche il bottegaio impallidì, prese il fucile e lo cacciò dal negozio.

È buio e Jeremías piange. Nessuno mai è stato così orfano. Ricorda il piccolo feretro in cui ha trovato le foto, e capisce che quello è il funerale riservato a suo padre. Il corpo gli arde e adesso gli sembra di nuovo vera la frase che scrive giorno e notte: la mia mamma mi ama, la mamma ama il papà. Decide di fare un regalo ai suoi genitori e s’immagina un bel toro. Bianco, imponente, uno zebù con la gobba doppia e due corna da agganciare molto in alto, sulla luna. Un toro figlio di nubi e acqua, che tracci solchi nella notte di quella sua terra solitaria.
Allora si getta sul quadernetto e cerca la “ti”. Riempie molte righe, fino a che non riesce a capirla. Un palo e un altro palo, a forma di croce. Un segno mistico, questo del toro. Sono le tre di notte quando lo decifra. E su un foglio bianco scrive a lettere grandi: Toro. E allora lo vede, un toro bianco davvero bello, che pascola sovrano tra la nebbia. È lì, mansueto. Un gran bel maschio della luna.
Un colpo secco sulla porta, sembra una bomba. E due spari. Jeremías vede il proprio corpo cadere sul tavolo. La faccia gli rimbalza sul foglio dove c’è scritto “toro”. Lungo la mandibola un rivolo di sangue nero. La mano non molla la matita.
Lo sorprende l’assenza dell’orrore. Fluttua in un tempo di sabbia sospesa, poi finalmente riesce a guardare in basso. Vede gli zoccoli dell’animale tra la rugiada. Ormai è quasi giorno. Sente i suoi muscoli robusti e riesce a scorgere il suo manto regale e bianco. Muggisce al sole e mette alla prova la gola profonda nel brontolio del suo stomaco. Solleva le corna e li vede: sono lì, fermi. La mamma con un vaporoso vestito a fiori e papà Javier in giacca e cravatta. Con gli abiti della domenica, della messa o della festa del paese. Jeremías abbassa il muso e sua madre glielo accarezza. Formichine da una mano bianca. Entrambi gli montano in groppa. Si addentrano in quella terra solitaria lungo uno dei venticinque sentieri che conducono alle nevi perenni.

C’era una volta un uomo che viveva vicino a un cimitero, di M.R. James

Racconti Edizioni porta in libreria Monito ai curiosi, storie di fantasmi, di M.R James.
Si racconta che la vigilia di Natale, al King’s College di Cambridge, in diversi, fra studenti e professori, si radunassero attorno a un fuoco vivace per ascoltare delle storie di fantasmi. Era diventata quasi una tradizione. Dentro la saletta, invece, la piccola cerchia era tutta raccolta attorno a questa voce che descriveva canoniche deserte e saloni ingombri di cianfrusaglie, e che si faceva più profonda quando in un manoscritto ritrovato si rintracciava quello che, a tutti gli effetti, sembrava proprio un presagio sinistro. La voce nella penombra era quella di M.R. James, i racconti che leggeva, invece, erano quelli che trovate in Monito ai curiosi.
Riprendere in mano queste storie oggi, dunque, non è certo un mero esercizio di hauntology né di nostalgia per un’epoca in cui bastava un rintocco di campana per farci piombare dentro un’atmosfera soprannaturale e nel terrore più autentico. Come gli oggetti inanimati che incontrerete in questo libro, anche questi racconti oggi sono capaci di assumere una nuova vita e forma.

Cattedrale vi propone uno dei testi contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

C’era una volta un uomo che viveva vicino a un cimitero
di
M.R. James

Questo, come sapete, è l’incipit della storia di spiriti e folletti che Mamilio, il bambino meglio descritto da Shakespeare, raccontava a sua madre, la regina, e alle dame di corte, quando il re irruppe con le sue guardie e la rinchiuse in prigione. Il racconto non ebbe un seguito dato che Mamilio morì poco dopo senza aver avuto la possibilità di terminarlo. Ora, come sarebbe andata a finire? Shakespeare di sicuro lo sapeva e, permettetemi di dire, anch’io. Non sarebbe stata una storia originale, ma una che probabilmente avete già sentito, e persino raccontato. Ciascuno è libero di darne la versione che preferisce. Questa è la mia:

C’era una volta un uomo che viveva vicino a un cimitero. Aveva una casa su due piani, quello inferiore era in pietra e quello superiore in legno. Le finestre della facciata davano sulla strada e quelle del retro sul cimitero. Un tempo – all’epoca della regina Elisabetta – l’edificio apparteneva al parroco, ma il sacerdote era sposato e gli servivano più stanze; inoltre alla moglie non piaceva vedere il cimitero dalla finestra della camera matrimoniale di notte. Diceva che si vedevano… Ma lasciamo stare ciò che diceva; fatto sta che non aveva dato tregua al marito finché non lo aveva convinto a traslocare in una casa più grande nella via principale del paese, e in quella vecchia si stabilì John Poole, un vedovo che vi abitava da solo. Era un uomo anziano che se ne stava molto per conto suo e la gente lo considerava un taccagno.
Molto probabilmente era vero: di sicuro per certe cose era morboso. A quei tempi era consuetudine seppellire i morti di sera e alla luce delle fiaccole: ogni volta che era in corso un funerale, si notava che John Poole guardava dalla finestra, al piano terra o al piano superiore, a seconda che avesse una vista migliore dall’uno o dall’altro.
Venne una sera in cui doveva essere seppellita una vecchia signora. Era piuttosto benestante ma la gente del posto non la vedeva di buon occhio. Di lei si dicevano le solite cose, che non era cristiana e che, in notti come quella della vigilia di mezza estate e di Ognissanti, non era mai a casa. Aveva gli occhi rossi e a guardarla faceva paura, tanto che nemmeno i mendicanti bussavano mai alla sua porta. Eppure, quando morì, lasciò una discreta somma di denaro alla chiesa.
La sera della sua sepoltura non era tempestosa; al contrario, era molto serena e tranquilla. Eppure, trovare uomini disposti a portare la bara e le fiaccole non fu un’impresa semplice, malgrado avesse previsto compensi più alti del solito per chi avesse eseguito il compito. La signora venne sepolta avvolta in una coperta di lana, senza bara. Non c’era nessuno tranne le persone strettamente necessarie… e John Poole, che guardava dalla finestra. Subito prima che la fossa venisse riempita, il parroco si chinò e gettò qualcosa sul corpo (qualcosa che tintinnava) e pronunciò a bassa voce alcune parole che suonavano più o meno così: «Che il tuo denaro muoia con te». Poi si allontanò in fretta, come tutti gli altri uomini, tranne uno che portava la fiaccola per illuminare il sagrestano e il garzone che spalavano la terra. Non fecero un lavoro accurato e il giorno dopo, che era domenica, i parrocchiani si lamentarono con il sagrestano, dicendo che era la tomba più disordinata del cimitero. E in effetti, quando lui stesso tornò a controllarla, gli sembrò che fosse molto peggio di come l’aveva lasciata.
Nel frattempo John Poole si aggirava con aria strana, in parte euforica, per così dire, e in parte inquieta. Contrariamente alle sue solite abitudini, trascorse più di una serata alla locanda e a coloro che si fermavano a fare due chiacchiere con lui fece intendere di essere entrato in possesso di una piccola somma di denaro e di voler cercare una casa migliore. «Be’, non mi meraviglia affatto» disse una sera il fabbro, «io non potrei proprio vivere in un posto simile. Starei tutta la notte a immaginarmi chissà quali cose.» L’oste gli chiese che genere di cose.
«Eh, magari qualcuno che si intrufola dalla finestra della camera, o roba simile» rispose il fabbro. «Che so… tipo la vecchia Wilkins, che è stata sepolta proprio una settimana fa, no?»
«Insomma, dovrebbe avere un po’ di riguardo per la sensibilità altrui» disse l’oste. «Non è bello nei confronti del signor Poole, le pare?»
«Il signor Poole mica ci fa caso» replicò il fabbro. «Se non lo sa lui che ci abita da tanto tempo. Dico solo che io non avrei mai scelto di star lì. La campana a morto e le fiaccole quando seppelliscono qualcuno, e tutte quelle tombe che stanno lì così silenziose quando non c’è più nessuno in giro… Anche se ho sentito parlare di alcune luci, le ha mai viste, signor Poole?»
«No, non ho mai visto nessuna luce» rispose Poole in modo brusco. Ordinò un altro bicchiere e rientrò a casa tardi.
Quella notte, mentre era sdraiato sul suo letto al piano di sopra, il vento cominciò a ululare intorno alla casa e lui non riusciva a prendere sonno. Si alzò e attraversò la stanza fino a un armadietto a muro: tirò fuori qualcosa che tintinnava e se lo infilò nella vestaglia all’altezza del petto. Poi andò alla finestra e guardò verso il cimitero.
Vi è mai capitato di vedere in una chiesa una vecchia lastra d’ottone, con impressa la sagoma di una persona avvolta in un sudario? La parte della testa sporge in modo bizzarro. Qualcosa di simile spuntava dalla terra in un punto del cimitero che John Poole conosceva molto bene. Si precipitò nel suo letto e rimase lì perfettamente immobile.
Poco dopo sentì qualcosa che picchiettava sommessamente contro la finestra. Molto riluttante, John Poole rivolse comunque lo sguardo atterrito in quella direzione. Ahimè! Fra lui e la luce lunare si stagliava la sagoma nera di una strana testa fasciata… Poi nella stanza apparve una figura. Sul pavimento rimbombò il suono della terra secca. Una voce flebile e gracchiante disse: «Dov’è?» mentre risuonavano passi che andavano e venivano, passi incerti, di qualcuno che camminava a fatica. Di tanto in tanto si riusciva a scorgerla, mentre scrutava negli angoli, si chinava a guardare sotto le sedie; alla fine, si udì che armeggiava con le ante dell’armadietto a muro e le spalancava. Poi, lo stridio di unghie lunghe sui ripiani vuoti. La figura si voltò di scatto, si fermò per un istante accanto al letto, alzò le braccia e con un urlo rauco disse: «CE L’HAI TU!».
A questo punto Sua Altezza Reale il principe Mamilio (il quale, penso, l’avrebbe fatta molto più breve), lanciando un grido, si gettò sulla più giovane delle damigelle presenti, che rispose con un urlo altrettanto penetrante. Il principe fu immediatamente trattenuto da Sua Maestà la regina Ermione che, frenando l’impulso di ridere, lo schiaffeggiò con gran severità. Paonazzo e sul punto di scoppiare a piangere, stava per essere mandato a letto, ma per intercessione della sua stessa vittima, ormai ripresasi dallo spavento, gli fu infine permesso di restare sino alla solita ora; nel frattempo anche lui si era ristabilito a tal punto da affermare, mentre dava la buonanotte alla compagnia, che conosceva un’altra storia almeno tre volte più spaventosa di quella, e che l’avrebbe raccontata alla prima occasione.

Enriqueta, di Nicola Ruganti

Il Barrito del mammut porta in libreria la raccolta di Nicola Ruganti Meglio che qua. Sedici novelle che raccontano la quotidianità dei personaggi dando ampio spazio al mondo dei sentimenti che li abitano. Con una penna minimale e lucida Nicola Ruganti entra nelle case, nelle vite e nelle teste dei personaggi, intreccia attualità e cronaca alla narrazione dandoci un cristallino squarcio della nostra quotidianità.
Il libro si arricchisce delle illustrazioni di Luca Dalisi.

Cattedrale vi propone uno dei testi della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

ENRIQUETA
di Nicola Ruganti

Chiudo la porta, tocco per dieci volte le chiavi in tasca e mi convinco di non averle dimenticate. Prendo i prismi di vetro trasparente del lampadario di camera mia. Enriqueta se n’è andata ormai da molti anni, io ho trovato il tempo solo oggi di smontare il lampadario. “Ci vuole il tempo che ci vuole”, ricordo che mi diceva sempre così quando, esasperandola, per decidere una cosa mi ci voleva molto tempo. Comunque ho deciso, oggi vado da Oscar, ci vado due volte alla settimana. Vado all’Els Encants, un mercato dell’usato molto grande. Oscar lavora lì, ha uno stand di lampadari, applique e chincaglierie antiche per sostituire pezzi rotti. Ha tutto in ordine: scatole da scarpe una accanto all’altra piene di vetrini, plastiche simil-vetro, tutte di forme diverse e tutti pezzi uguali in ogni scatola. Sto smontando le suppellettili di casa, senza fretta; ci vado anche un po’ per chiacchierare. Arrivo al mercato, sembra un enorme bazar, sotto il guscio della riqualificazione prezzi e venditori sono gli stessi di quando ci venivamo con Enriqueta. Oscar è molto burbero con me, chissà se da fuori si potrebbe pensare che mi tratta male. A me va bene così, se non vado da lui non saprei da chi andare. Da lui c’è sempre qualcuno, i suoi amici, altri venditori, e io mi fermo a guardarli. Una volta addirittura Oscar mi ha dato un colpetto sulla testa, tipo per scionnarmi. L’ho ringraziato, la sera sentivo ancora pizzicare sulla testa, ma non ci ho badato. Un po’ imbambolato mi guardo attorno: arriva un tizio e con un telefono gli mostra una foto, Oscar inizia a far vedere la foto a tutti e a ridere. A me dice:
– Lascia perdere, non guardare.
Credo sia una cosa che non merita di essere presa e rivenduta. Tocca a me, gli faccio vedere i prismi trasparenti preparati e allineati con pazienza e precisione dentro una scatola, Oscar li prende e li getta in un secchio. Mi guarda come un estraneo, non può farmi questo, trattato male sì, estraneo no. Mi allunga due euro spicci; li prendo, mi rendo conto della miseria che ho nelle mani e non mi capacito. Quando ero giovane, appena arrivato, facevo il lavapiatti in un locale sulla Rambla e avevo come capocuoco un giovane sulla quarantina che usciva durante il lavoro, andava a pippare coca per un paio d’ore in un locale notturno lì vicino e rientrava strafatto. Un giorno tornò, mi chiese di finire di preparare un piatto, e minacciò di dire al padrone di licenziarmi:
– Finisci tu, io esco di nuovo e mi raccomando pulisci bene!
Lo disse pure ridendo sprezzante; avevo un vassoio pieno di piatti e bicchieri e non ci fu più niente tra me e la rabbia. Gli tirai il vassoio addosso, cadde a terra e lo presi a calci, e andandomene gli buttai lo straccio su quella faccia strafatta. Oscar è davanti a me, molto più vecchio del capocuoco, e anch’io. Quasi a rallentatore inizio a prendere a calci la sua chincaglieria, se Oscar è uno sconosciuto niente mi frena più. Oscar rimane come paralizzato, quel che basta perché possa frantumare il suo bazar con una furia senza perdono, una furia da vecchio. Durante il cammino verso casa passo accanto al fruttivendolo: è appena arrivato un camion di consegna, capisco che al ragazzo del Bangladesh che gestisce il negozio manca una cassa, il camionista catalano cerca di fare finta di niente, allora quelli del negozio si iniziano a incazzare e, senza troppa fatica, si fanno rispettare.
Li osservo ammirato, ma non sento l’angoscia di sempre, oggi sono un po’ più leggero. Mi guardo nella vetrina, mi viene da piangere, ma non ci riesco; è tardi per dirglielo, ma oggi Enriqueta sarebbe contenta: c’è voluto il tempo che ci è voluto, ma quel baccano da Oscar l’ho fatto e alla fine l’avrei guardata, mi avrebbe sorriso, saremmo scappati per mano. Io, lei e tutto il nostro imbarazzo, per la prima volta.

La signorina Mary Pask, di Edith Wharton

Neri Pozza porta in libreria Fantasmi, di Edith Wharton. La raccolta fu concepita nella sua forma attuale dalla stessa Wharton prima di morire ma, pubblicata postuma nel 1937, finí ingiustamente dimenticata. In questi piccoli capolavori ritrovati, sottilmente inquietanti, ora presentati nella nuova traduzione di Tiziana Lo Porto, si possono riconoscere tutti i temi cari alla sua letteratura. Avvolti nell’abito sontuoso che tanto bene le conosciamo: la prosa nitida e affilata che sa illuminare i territori nascosti della realtà quanto, insospettabilmente, quelli del soprannaturale. 

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

La signorina Mary Pask
di Edith Wharton

I

Fu solo la primavera successiva che mi feci coraggio e raccontai alla signora Bridgeworth cosa mi era successo quella notte a Morgat.
Tanto per cominciare la signora Bridgeworth era in America. E dopo la notte in questione ero rimasto diversi mesi all’estero, non per piacere, Dio lo sa, ma per un esaurimento nervoso che si pensava fosse dipeso dall’avere ricominciato a lavorare troppo presto dopo il mio attacco di febbre in Egitto. Ma anche se fossi stato vicino di casa di Grace Bridgeworth non avrei potuto parlarne prima, né a lei né a nessun altro, non prima di essere guarito e tornato in piedi in uno di quei meravigliosi sanatori svizzeri dove ti rimettono a nuovo. Non avrei nemmeno potuto scriverle, non senza rischiare la vita. Gli avvenimenti di quella notte dovettero essere ricoperti da uno strato dopo l’altro di tempo e oblio prima che potessi tollerarne un ritorno.
L’inizio fu stupidamente semplice: solo il riflesso improvviso di una coscienza del New England che agisce su una costituzione indebolita. Stavo dipingendo in Bretagna, in un clima autunnale incantevole ma instabile, un giorno era tutto azzurro e argento, e il successivo era burrasche ruggenti o fitta nebbia. Sulla Pointe du Raz c’è una rozza locanda imbiancata a calce, brulicante di turisti in estate ma solitaria e bagnata dal mare in autunno. E io me ne stavo lí a cercare di dipingere le onde, quando qualcuno disse: «Dovrebbe andare a Cap qualcosa, oltre Morgat».
Vi andai e vi trascorsi una giornata argentea e azzurra, e sulla via del ritorno il nome Morgat creò un’inaspettata associazione di idee: Morgat, Grace Bridgeworth, la sorella di Grace, Mary Pask – «Sai che adesso la mia cara Mary ha una casetta vicino a Morgat? Se mai andrai in Bretagna, vai a trovarla. Vive una vita troppo solitaria, e la cosa mi preoccupa molto».
Ecco come accadde. Conoscevo la signora Bridgeworth da anni, ma non avevo particolare confidenza con Mary Pask, sua sorella maggiore e nubile. Sapevo che Grace e lei erano molto legate. La cosa che aveva piú addolorato Grace, quando aveva sposato il mio vecchio amico Horace Bridgeworth, ed era andata a vivere a New York, era che Mary, da cui non si era mai separata fino a quel momento, si fosse ostinata a restare in Europa, dove le due sorelle erano andate in viaggio dopo la morte della madre. Non ho mai capito bene perché Mary Pask si fosse rifiutata di raggiungere Grace in America. Grace diceva che era per la sua «vena artistica» – ma conoscendo l’anziana signorina Pask e la natura estremamente elementare del suo interesse per l’arte, mi chiedevo se non fosse piuttosto perché non le piaceva Horace Bridgeworth. C’era una terza alternativa – piú plausibile nel caso di Horace – ed era che forse le piaceva troppo. Ma la cosa tornava a essere impensabile (quantomeno cosí credevo) conoscendo la signorina Pask: la signorina Pask con il suo viso tondo arrossato, i suoi occhi sporgenti dall’espressione innocente, il suo appartamento da vecchia zitella carico di ninnoli e la sua vaga e timida filantropia. Lei, aspirare a Horace…!
Ebbene, era tutto piuttosto enigmatico, o lo sarebbe stato se fosse stato abbastanza interessante da suscitare in me la voglia di occuparmene. Ma non lo era. Mary Pask era come centinaia di altre vecchie zitelle sciatte, allegri rottami contenti dei loro innumerevoli piccoli surrogati di vita. Persino Grace non mi avrebbe interessato particolarmente se non avesse sposato uno dei miei piú vecchi amici e non fosse stata gentile con i suoi amici. Era una bella donna efficiente e alquanto noiosa, votata al marito e ai figli, e senza un briciolo di immaginazione, e tra il suo attaccamento alla sorella e l’adorazione di Mary Pask nei suoi confronti c’era l’inevitabile abisso che c’è tra i sentimenti di chi non ha una vita sentimentale e quelli di chi ha una vita affettiva appagante. Ma una stretta intimità aveva legato le due sorelle prima del matrimonio di Grace, e Grace era una delle donne dolci e coscienziose che continuano a usare il linguaggio della devozione nei confronti delle persone che amano senza vederle. Tanto che quando disse: «Sai che sono anni che io e Mary non ci vediamo, non la vedo da quando è nata la piccola Molly. Se solo fosse venuta in America! Basti pensare che… Molly ha sei anni e non ha mai visto la sua cara zia…», quando lo disse, e aggiunse: «Se vai in Bretagna, promettimi che cercherai la mia Mary», mi ritrovai in quella profondità oscura del nostro essere in cui prendiamo impegni non necessari.
E cosí accadde che, in quel pomeriggio argenteo e azzurro, l’idea «Morgat – Mary Pask – compiacere Grace» risvegliò improvvisamente in me il senso del dovere. Molto bene: avrei messo un po’ di cose nella borsa, dedicato le ore di luce a dipingere, sarei andato a trovare la signorina Pask quando la luce si fosse affievolita, e avrei passato la notte alla locanda di Morgat. A tal fine ordinai a un traballante veicolo a un solo cavallo di aspettare alla locanda che tornassi dal mio studio dove dipingevo, e con esso mi avviai verso il tramonto in cerca di Mary Pask…
All’improvviso, come un paio di mani sbattute sugli occhi, la nebbia marina piombò su di noi. Un attimo prima attraversavamo un vasto altopiano brullo, girando le spalle a un tramonto che colorava di cremisi la strada davanti a noi, un attimo dopo eravamo avvolti nella piú densa delle notti. Nessuno era riuscito a dirmi con esattezza dove abitava la signorina Pask, ma pensai che probabilmente lo avrei scoperto nel villaggio di pescatori verso il quale stavamo cercando di dirigerci. E avevo ragione… Un vecchio su un uscio ci indicò: sí, sopra la prossima altura, e poi giú per un viottolo a sinistra che portava al mare; la signora americana che vestiva sempre di bianco. Oh, lui la conosceva bene… vicino alla Baie des Trépassés.
«Sí, ma come facciamo a trovarla? Non conosco quel posto» brontolò il ragazzo riluttante che mi stava accompagnando.
«Lo capirai quando saremo arrivati» commentai.
«Sí… e nel frattempo il cavallo si è azzoppato! Non posso correre rischi, signore. Mi metterò nei guai con il padrone».
Finalmente un valido argomento lo indusse a sbloccarsi e a guidare il cavallo zoppicante, e noi proseguimmo per la nostra strada. Sembrò che strisciassimo per un bel po’ in mezzo a un’umida e impenetrabile oscurità, rischiarata dal bagliore della nostra unica lanterna. Ma di tanto in tanto la coltre si sollevava o le sue pieghe si aprivano, e allora la nostra debole luce tirava fuori dalla notte un oggetto perfettamente ordinario – un cancello bianco, il muso di una vacca dallo sguardo fisso, un mucchio di sassi lungo la strada – reso portentoso e incredibile dall’essere cosí distaccato dal suo ambiente, capricciosamente spinto verso di noi, per poi ritrarsi di colpo. Dopo ciascuna di queste proiezioni l’oscurità diventava tre volte piú fitta, e la sensazione che avevo da tempo di scendere un pendio sempre piú ripido ora diventò quella di essere diretti verso un precipizio. Saltai fuori in fretta e andai a mettermi accanto al mio giovane conducente che reggeva la cavezza del cavallo.
«Non posso andare avanti… non lo farò, signore!» piagnucolò quello.
«Ehi, guarda, c’è una luce laggiú… proprio lí davanti!»
Il cielo si rischiarò per un istante e vedemmo due quadrati scarsamente illuminati dentro una forma bassa che era sicuramente la facciata di una casa.
«Portami fino a lí, poi se vuoi puoi tornare indietro».
La coltre ci avvolse nuovamente, ma il ragazzo aveva visto le luci e aveva riacquistato coraggio. Di sicuro c’era una casa davanti a noi e di sicuro doveva essere della signorina Pask, dal momento che non ce ne potevano essere due in un tale deserto. D’altronde il vecchio del borgo aveva detto: «Vicino al mare», e quelle infinite modulazioni della voce dell’oceano, tanto familiari in ogni angolo della terra bretone che si possono misurare le distanze servendosi di quelle piuttosto che della propria vista, mi dicevano da tempo che ci stavamo dirigendo verso la riva. Il ragazzo continuò a guidare il cavallo senza dare alcuna risposta. La nebbia si era addensata piú che mai e la lampada ci mostrava semplicemente le grosse gocce rotonde di bagnato sulle cosce irsute dell’animale. Il ragazzo si fermò di scatto.
«Non c’è nessuna casa, andiamo dritto in mare».
«Ma le hai viste quelle luci, no?»
«Pensavo di sí. Ma dove sono ora? La nebbia si è di nuovo diradata. Guardi, riesco a distinguere gli alberi piú avanti. Ma non ci sono piú le luci».
«Saranno andati a letto» suggerii scherzosamente.
«Allora non dovremmo tornare indietro, signore?»
«Come? A due metri dal cancello?»
Il ragazzo taceva: certo c’era un cancello davanti a lui, e dietro gli alberi gocciolanti doveva esserci una qualche abitazione. A meno che non ci fosse solo un campo e il mare… il mare, la cui voce affamata continuava a chiedere, vicinissimo a noi. Non c’era da stupirsi che il luogo si chiamasse Baia dei Morti! Ma cosa poteva aver spinto la rosea benevola Mary Pask a venire a seppellirsi qui? Naturalmente il ragazzo non mi avrebbe aspettato… lo sapevo… la Baie des Trépassés, davvero! Il mare gemeva laggiú come se fosse l’ora del pasto, e le Furie, i suoi guardiani, l’avevano dimenticato…
Ecco il cancello! Tastando con la mano lo avevo trovato. Cercai alla cieca il chiavistello, lo aprii e strisciai tra i cespugli bagnati fino alla facciata della casa. Non un luccichio di candela da nessuna parte. Se la casa era davvero della signorina Pask, di certo si alzava presto e andava a dormire presto…

II

Notte e nebbia adesso erano una cosa sola, e l’oscurità era fitta come una coperta. Cercai invano un campanello. Alla fine la mia mano entrò in contatto con un battente e lo sollevai. Il rumore con cui ricadde mandò un’eco prolungata nel silenzio, ma per un minuto o due non accadde altro.
«Non c’è nessuno lí, glielo dico io!» urlò impaziente il ragazzo dal cancello.
E invece c’era. Non udii passi dentro la casa, ma l’attimo dopo si sentí scorrere un catenaccio e una vecchia con un berretto da contadino spinse fuori la testa. Aveva posato la candela su un tavolo dietro di sé, e il suo viso, circondato da ali di pizzo, restava nell’oscurità, ma capii che era anziana dall’incurvatura delle spalle e dai movimenti maldestri. La luce della candela, che la rendeva invisibile, mi cadde in pieno sul viso e lei mi guardò.
«È la casa della signorina Mary Pask?»
«Sissignore». La sua voce, una voce molto vecchia, era abbastanza piacevole, per niente sorpresa e persino amichevole.
«Vado ad avvisarla» aggiunse, trascinandosi dentro.
«Pensa che mi riceverà?» le urlai dietro.
«Oh, perché no? Che idea!» quasi ridacchiò. Mentre si allontanava, vidi che era avvolta in uno scialle e aveva un ombrello di stoffa sotto il braccio. Ovviamente stava uscendo, forse tornava a casa per la notte. Mi chiesi se Mary Pask vivesse tutta sola nel suo eremo.
La vecchia sparí con la candela e io rimasi nel buio piú totale. Dopo un po’ sentii chiudersi una porta sul retro della casa e poi, dall’esterno, arrivò un lento battere di vecchi zoccoli di legno lungo il lastricato. Evidentemente la vecchia aveva preso i suoi zoccoli in cucina ed era uscita di casa. Mi chiesi se prima di andare via avesse detto alla signorina Pask della mia presenza, o se si fosse limitata a lasciarmi lí, bersaglio di un macabro scherzo. Di sicuro non si sentiva alcun suono dietro le porte. I passi si spensero, sentii lo scatto di un cancello, poi il silenzio piú assoluto si richiuse come la nebbia.
«Mi domando…» cominciai a dirmi, e in quel momento un ricordo soffocato affiorò bruscamente alla superficie della mia mente languida.
«Ma è morta… Mary Pask è morta!» Per lo stupore quasi lo dissi ad alta voce.
Erano incredibili gli scherzi che la mia memoria mi stava giocando da quando avevo avuto quella febbre! Sapevo da quasi un anno che Mary Pask era morta – era morta all’improvviso l’autunno precedente – e anche se avevo pensato a lei quasi di continuo negli ultimi due o tre giorni, fu solo in quel momento che il fatto dimenticato della sua morte esplose di nuovo alla coscienza.
Morta! Ma non avevo forse trovato Grace Bridgeworth in lacrime e vestita di crespo il giorno stesso in cui ero andato a salutarla prima di salpare per l’Egitto? Non mi aveva forse messo il telegramma davanti agli occhi, in lacrime, per farmi leggere: «Sua sorella morta all’improvviso questa mattina chiesta sepoltura nel giardino di casa particolari per lettera» – con la firma del console americano a Brest, un amico di Bridgeworth, mi sembrava di ricordare? Riuscivo a vedere le parole esatte del messaggio stampate nell’oscurità davanti a me.
Mentre me ne stavo lí in piedi, ero molto piú turbato dalla scoperta dei miei vuoti di memoria che dal fatto di essere solo in una casa buia, vuota o abitata da estranei. Mi era già capitato negli ultimi tempi di notare questa strana cancellazione temporanea di un fatto ben noto, ed ecco che era successo di nuovo. Decisamente non ero cosí guarito dalla mia malattia come mi avevano detto i medici… Be’, sarei tornato a Morgat e me ne sarei stato a letto lí per un giorno o due, senza fare nulla, solo mangiare e dormire… Assorto com’ero nei miei pensieri, avevo perso l’orientamento e non ricordavo piú dove fosse la porta. Cercai un fiammifero in ogni tasca, ma visto che i dottori mi avevano fatto smettere di fumare, perché avrei dovuto trovarne uno?
L’impossibilità di trovare un fiammifero aumentò il senso di irritazione e di impotenza, e stavo brancolando goffamente per l’atrio tra gli spigoli di mobili invisibili quando una luce tagliò in obliquo la parete grezza delle scale. Ne seguii la direzione e sul pianerottolo sopra di me vidi una figura vestita di bianco che con una mano ombreggiava una candela e guardava in basso. Un brivido mi attraversò la schiena, perché la figura aveva una strana somiglianza con quella della Mary Pask che conoscevo.
«Oh sei tu!» esclamò con una voce stridula e cinguettante che sembrò per un istante il tremulo di una vecchia, e l’attimo dopo il falsetto di un bambino. Scese trascinandosi nei suoi larghi abiti bianchi, con i suoi soliti movimenti goffi e ondeggianti, ma notai che i suoi passi sulle scale di legno erano silenziosi. Be’, certo che lo erano!
Rimasi fermo senza dire una parola, guardando la strana visione sopra di me e dicendo a me stesso: «Non c’è niente lí, niente di niente. È la tua digestione, o i tuoi occhi, o qualche altra dannata cosa che non va in te…»
Ma la candela c’era di sicuro, e mentre si avvicinava e illuminava la stanza intorno a me, mi voltai e mi aggrappai al chiavistello. Perché, ricordate, avevo visto il telegramma e Grace con il suo abito di crespo… «Ehi, che succede? Ti assicuro che non mi disturbi!» cinguettò la figura bianca, aggiungendo con una lieve risata: «Non ho cosí tanti visitatori ultimamente…»
Aveva raggiunto l’atrio e mi si era fermata davanti, alzando la candela tremolante e guardandomi in faccia. «Non sei cambiato, non quanto avrei pensato. Ma io sí, eh?» mi chiese con un’altra risata, e mi posò bruscamente la mano sul braccio. Guardai la mano e pensai tra me e me: «Questa non può ingannarmi».
Ho sempre fatto attenzione alle mani. La chiave del carattere che gli altri cercano negli occhi, nella bocca, nella forma del cranio, io la ritrovo nella curva delle unghie, nel taglio dei polpastrelli, nel modo in cui il palmo, roseo o giallastro, liscio o segnato, si gonfia dalla base. Ricordavo vividamente la mano di Mary Pask, perché era cosí simile a una caricatura della proprietaria: rotonda, paffuta, rosa, eppure prematuramente vecchia e inutile. E lí, in modo inequivocabile, giaceva sulla mia manica: ma cambiata e raggrinzita, in qualche modo simile a uno di quei pallidi funghi maculati che il minimo tocco trasforma in polvere… In polvere? Ma certo…
Guardai le morbide dita rugose, con i loro stupidi polpastrelli ovali che una volta erano rosa in modo cosí innocente e naturale, e adesso erano blu sotto le unghie ingiallite, e la pelle mi si alzò in creste di paura. «Entra, vieni» cinguettò, inclinando la testa bianca e spettinata da un lato e alzando gli occhi azzurri sporgenti verso di me. La cosa orribile era che praticava ancora le stesse arti, tutte le astuzie infantili di una goffa e capricciosa civetteria. Sentii che mi tirava per la manica e mi trascinava nella sua scia come un cavo d’acciaio.
La stanza in cui mi condusse era… be’, «immutata» è il termine che si usa di solito in questi casi. Perché di regola, dopo la morte delle persone, le cose vengono risistemate, i mobili vengono venduti, i ricordi sono inviati alla famiglia. Ma una pietà morbosa (o forse le istruzioni di Grace) aveva mantenuto questa stanza esattamente come immaginavo fosse stata durante la vita della signorina Pask. Non ero dell’umore giusto per notare i dettagli, però nel debole oscillare della luce al movimento delle candele ero in parte consapevole di cuscini sporchi, una raccolta di pentole di rame e un vaso che reggeva un ramo sbiadito di qualche arbusto a fioritura tardiva. Un vero interno alla Mary Pask!
La figura bianca guizzò spettrale verso il camino, accese altre due candele e posò la terza su un tavolo. Non mi consideravo superstizioso, ma quelle tre candele! Senza quasi sapere cosa facevo, mi piegai in fretta e ne spensi una. La sua risata risuonò alle mie spalle.
«Tre candele… ti preoccupi ancora per quel genere di cose? Io le ho superate, sai». Ridacchiò. «È un tale conforto… un tale senso di libertà…» Un nuovo brivido si uní agli altri che mi scorrevano dentro.
«Vieni a sederti vicino a me» pregò, sprofondando su un divano. «Erano secoli che non vedevo un essere vivente!»
La sua scelta di termini era sicuramente peculiare, e quando si appoggiò allo schienale del soffice divano bianco e mi fece cenno con una di quelle mani mai sepolte, il mio istinto fu di voltarmi e correre via. Ma il suo vecchio viso, al lume di candela, con le guance innaturalmente rosse come mele laccate e gli occhi azzurri che nuotavano in una vaga gentilezza, sembrò richiamarmi per la mia codardia, ricordandomi che, viva o morta, Mary Pask non avrebbe fatto male a una mosca.
«Siediti!» ripeté, e io occupai l’angolo opposto del divano.
«È cosí meravigliosamente gentile da parte tua… immagino sia stata Grace a chiederti di venire». Rise di nuovo: la sua conversazione era sempre scandita da risate sconclusionate. «È un evento, un vero evento! Perché sai, ho avuto cosí pochi visitatori dalla mia morte».
Per me fu come un’altra secchiata d’acqua fredda, ma la guardai con risolutezza, e ancora una volta l’innocenza del suo volto mi disarmò.
Mi schiarii la voce e parlai, faticando enormemente a respirare, come se avessi sollevato una lapide. «Vivi qui da sola?» riuscii a tirare fuori.
«Ah, sono contenta di sentire la tua voce, ricordo ancora le voci, anche se ne sento cosí poche» mormorò sognante. «Sí, vivo qui da sola. La vecchia che hai visto se ne va di notte. Non resta dopo il tramonto… dice che non può. Non è strano? Ma non importa. L’oscurità mi piace». Si chinò su di me con uno dei suoi sorrisi immotivati. «I morti» disse «ci si abituano naturalmente».
Ancora una volta mi schiarii la gola, ma non seguí nulla.
Continuò a fissarmi con ammiccamenti confidenziali. «E Grace? Raccontami tutto del mio tesoro. Avrei voluto rivederla… soltanto una volta». La sua risata venne fuori in modo grottesco. «Quando ha saputo della mia morte eri con lei? Era terribilmente sconvolta?»
Mi alzai goffamente con un balbettio senza senso. Non riuscivo a rispondere, non riuscivo a continuare a guardarla.
«Ah, capisco… è troppo doloroso» ammise, con gli occhi lucidi, e voltò la testa tremante dall’altra parte. «Ma d’altronde… sono felice che fosse cosí dispiaciuta… È ciò che desideravo ardentemente che mi venisse detto, e che facevo fatica a sperare. Grace dimentica…» Anche lei si alzò, e svolazzò attraverso la stanza, ondeggiando sempre piú vicina alla porta.
«Grazie a Dio» pensai, «se ne sta andando».
«Sai com’è questa casa alla luce del giorno?» chiese bruscamente. Scossi la testa.
«È bellissima. Ma venendo di giorno non avresti visto me. Avresti dovuto scegliere tra me e il paesaggio. Odio la luce, mi fa venire il mal di testa. E cosí dormo tutto il giorno. Mi stavo appena svegliando quando sei arrivato». Mi sorrise con un’aria sempre piú confidenziale. «Sai dove dormo di solito? Laggiú… in giardino!» La sua risata squillò di nuovo. «C’è un angolo all’ombra, in fondo, dove il sole non dà mai fastidio. A volte dormo lí finché non spuntano le stelle».
Mi tornò in mente la frase sul giardino nel telegramma del console, e pensai: «Tutto sommato non è una condizione cosí infelice. Mi chiedo se non stia meglio di quando era viva…»
Forse lei era piú felice, ma io ero sicuro di non esserlo in sua compagnia. E il suo modo di muoversi di soppiatto verso la porta mi fece desiderare di raggiungerla per primo. In un impeto di codardia le passai davanti a grandi passi, ma un istante dopo lei aveva il chiavistello in mano ed era appoggiata al battente, con la lunga veste bianca che le pendeva addosso come un sudario. Chinò leggermente la testa di lato e mi scrutò da sotto le palpebre senza ciglia.
«Non te ne starai andando?» mi rimproverò.
Cercai invano la voce che mi era venuta meno, e in silenzio feci segno che sí, stavo andando via. «Te ne vai… vai via? Del tutto?» I suoi occhi erano ancora fissi su di me, e vidi due lacrime raccogliersi agli angoli e scorrere sui cerchi rossi e scintillanti delle guance. «Oh, ma non devi» disse dolcemente. «Sono troppo sola…»
Balbettai qualcosa di inarticolato, gli occhi fissi sulla mano dalle unghie blu che teneva il chiavistello. D’un tratto la finestra dietro di noi si spalancò e una folata di vento, proveniente dalle tenebre, spense la candela all’angolo del camino piú vicino. Mi guardai indietro nervosamente per vedere se anche l’altra candela si stesse spegnendo.
«Non ti piace il rumore del vento? A me sí. È l’unico con cui posso parlare… Alla gente non piaccio molto da quando sono morta. Strano, vero? I contadini sono cosí superstiziosi. A volte sono proprio sola…» La sua voce si spezzò in un ultimo sforzo di fare una risata, e ondeggiò verso di me, una mano ancora sul chiavistello.
«Sola, sola! Se sapessi quanto sono sola! Era una bugia quando ti ho detto che non lo ero! E adesso vieni, e il tuo viso sembra amichevole… e dici che mi lascerai! No, no, no, non lo farai! Altrimenti perché saresti venuto? È crudele… Credevo di sapere cosa fosse la solitudine… sai, dopo che Grace si è sposata. Grace era convinta di pensare sempre a me, ma non era cosí. Mi chiamava “tesoro”, ma pensava a suo marito e ai suoi figli. Allora mi sono detta: “Non potresti essere piú sola se fossi morta”. Ma ora so che non è cosí… Non mi sono mai sentita sola come quest’ultimo anno… Proprio nessuno! E a volte me ne sto seduta qui e penso: “Se un giorno venisse un uomo e si invaghisse di me?”» Fece un’altra risatina vacillante. «Be’, cose del genere sono successe, ecco, anche dopo che la giovinezza è andata… un uomo anche lui con i suoi guai. Ma fino a stasera non si era visto nessuno… e adesso dici che te ne vai!» D’un tratto si gettò verso di me. «Oh, resta con me, resta con me… solo per stanotte… È cosí dolce e tranquillo qui… Non lo verrà a sapere nessuno… nessuno verrà a darci fastidio».
Avrei dovuto chiudere la finestra alla prima raffica. Avrei potuto aspettarmi che presto ce ne sarebbe stata un’altra, piú feroce. Arrivò proprio in quell’istante, sbattendo all’indietro la grata allentata, riempiendo la stanza del rumore del mare e di umidi vortici di nebbia, e scagliando l’altra candela sul pavimento. La luce si spense e io rimasi lí – noi restammo lí – persi l’uno per l’altra nell’oscurità ruggente che ci avvolgeva. Sembrò che il mio cuore avesse smesso di battere. Fui costretto a riprendere fiato con grandi ansimi che mi coprirono di sudore. La porta… la porta, be’, sapevo di averla davanti quando la candela si era spenta. Qualcosa di bianco e simile a uno spettro sembrò sciogliersi e accartocciarsi davanti a me nella notte, ed evitando il punto in cui quel qualcosa era sprofondato, avanzai a tentoni in un ampio cerchio, presi in mano il chiavistello, infilai il piede in una sciarpa o manica, svolazzante e invisibile, e mi liberai di scatto da quest’ultimo ostacolo. Adesso avevo aperto la porta. Entrando nell’atrio sentii un lamento dall’oscurità alle mie spalle, ma riuscii a raggiungere la porta d’ingresso, la aprii e mi precipitai fuori nella notte. Sbattei la porta in faccia a quel pietoso gemito basso, e la nebbia e il vento mi avvolsero nelle loro braccia confortanti.

III

Quando mi fui ripreso a sufficienza da fidarmi di me stesso e ripercorrere quanto era successo, scoprii che il solo pensiero mi faceva venire la febbre e pulsare il cuore in gola.
Era inutile… semplicemente non riuscivo a sopportarlo… perché avevo visto Grace Bridgeworth vestita di crespo, che piangeva sul telegramma, eppure mi ero seduto a parlare con sua sorella, sullo stesso divano, sua sorella che era morta da un anno! Era un circolo vizioso, non c’era modo di spezzarlo. Il fatto che la mattina seguente avessi la febbre avrebbe potuto spiegarlo, ma non riuscivo a sfuggire alla realtà soffocante di quella visione. E se fosse stato un fantasma la donna con cui avevo parlato e non una semplice proiezione della mia febbre? E se qualcosa di Mary Pask fosse sopravvissuto quanto bastava da gridarmi la silenziosa solitudine di una vita, da esprimere finalmente ciò che la donna in carne e ossa aveva sempre tenuto nascosto? Il pensiero curiosamente mi commosse: debole com’ero, piansi sdraiato nel mio letto. Un’infinità di donne era cosí, immaginai, e forse, dopo la morte, se ne avevano l’occasione, cercavano di sfruttarla… Vecchi racconti e leggende mi fluttuavano nella mente – la sposa di Corinto, il vampiro medievale – ma quale nome dare all’immagine lamentosa di Mary Pask?
La mia mente debole vagava dentro e fuori quelle visioni e congetture, e piú a lungo vivevo con loro, piú mi convincevo che ciò che era stata Mary Pask aveva parlato con me quella notte… Decisi che, quando fossi stato di nuovo in forma, sarei tornato in quel posto (in pieno giorno, questa volta) per cercare la tomba in giardino – quell’«angolo all’ombra dove il sole non dà mai fa stidio» – e placare il povero fantasma con qualche fiore. Ma i medici erano di parere diverso, e forse la mia debole volontà inconsapevolmente li assecondò. Comunque sia, cedetti alla loro insistenza di essere trasferito direttamente dal mio albergo al treno per Parigi, e poi trasbordato, come un bagaglio, al sanatorio svizzero che avevano in mente per me. È ovvio che avevo intenzione di tornare non appena mi avessero rimesso a posto… e nel frattempo, con crescente tenerezza, ma in modo piú intermittente, i miei pensieri tornavano dalla mia montagna innevata a quella ventosa notte autunnale sopra la Baie des Trépassés, e alla rivelazione della morta Mary Pask, che per me era piú reale di quanto non lo fosse stata da viva.

IV

Del resto, perché avrei dovuto dirlo a Grace Bridgeworth? Avevo intravisto cose che in realtà non la riguardavano. Se mi era stata concessa quella rivelazione, non avrei dovuto seppellirla nelle profondità piú profonde dove l’inspiegabile e l’indimenticabile giacciono insieme? E poi, quale interesse poteva esserci da parte di una donna come Grace per un racconto che non sarebbe riuscita a capire e al quale non avrebbe creduto? Mi avrebbe semplicemente definito «strano», e non sarebbe stata la sola. Il mio primo obiettivo, quando finalmente fui di nuovo a New York, fu quello di convincere tutti del mio completo ritorno alla solidità mentale e fisica, e in questo intreccio di prove la mia esperienza con Mary Pask sembrava fuori luogo. Tutto sommato, mi sarei trattenuto dal parlarne.
Ma dopo un po’ il pensiero della tomba cominciò a tormentarmi. Mi chiesi se Grace vi avesse mai fatto mettere una lapide adeguata. L’aspetto strano e trascurato della casa mi dava l’idea che forse non avesse fatto nulla, che avesse accantonato l’intera faccenda, di cui si sarebbe occupata la prossima volta, al prossimo viaggio all’estero. «Grace dimentica» sentii sussurrare il povero fantasma… No, decisamente, non poteva esserci nulla di male nel porre (con tatto) solo quella domanda a proposito della tomba, tanto piú che cominciavo a rimproverarmi di non essere tornato a vedere con i miei occhi come era tenuta…
Grace e Horace mi accolsero con la loro solita cordialità, e presto presi l’abitudine di passare da loro per un pasto, quando pensavo che sarebbero stati soli. Ma la mia occasione non arrivò subito: dovetti aspettare alcune settimane. E poi una sera, mentre Horace era a cena fuori e io ero solo con Grace, il mio sguardo si accese su una fotografia di sua sorella, una vecchia fotografia sbiadita che sembrò incontrare i miei occhi con rimprovero.
«A proposito, Grace» cominciai con un sussulto, «non te l’ho mai detto, ma sono andato in quel posticino di… di tua sorella, il giorno prima di avere quella brutta ricaduta».
Immediatamente il suo viso si accese di emozione.
«No, non me l’hai mai detto. È stato gentile da parte tua andare!» Le lacrime le riempirono prontamente gli occhi. «Sono cosí felice che tu l’abbia fatto». Abbassò la voce e aggiunse piano: «E l’hai vista?»
A quella domanda mi assalí uno dei miei vecchi brividi. Guardai con stupore il viso grassoccio della signora Bridgeworth che mi sorrideva da dietro un velo di lacrime prive di dolore. «Mi rimprovero sempre di piú riguardo alla cara Mary» aggiunse tremando. «Ma dimmi… dimmi tutto».
Avevo un nodo in gola. Sentivo quasi lo stesso disagio provato in presenza di Mary Pask. Eppure non avevo mai notato nulla di inquietante in Grace Bridgeworth. Forzai la mia voce a uscire dalle labbra.
«Tutto? Oh, non posso…» Cercai di sorridere.
«Ma l’hai vista?»
Riuscii ad annuire, sempre sorridendo.
La sua espressione divenne improvvisamente spaurita… sí, spaurita! «E il cambiamento è stato cosí terribile da non poterne parlare? Dimmi… è cosí?»
Scossi il capo. D’altronde ad avermi sconvolto era il fatto che il cambiamento fosse cosí lieve, che alla fine ci fosse cosí poca differenza tra l’essere vivo e l’essere morto, tranne un misterioso acuirsi della percezione della realtà. Ma gli occhi di Grace continuavano a cercarmi con insistenza. «Devi dirmelo» ribadí. «So che dovrei andarci da molto tempo…»
«Sí, forse dovresti». Esitai. «Quantomeno per vedere la tomba…»
Rimase seduta in silenzio, gli occhi ancora fissi sul mio viso. Le lacrime si erano arrestate, ma nel suo sguardo sollecito si insinuò lentamente qualcosa di simile al terrore. Esitante, quasi con riluttanza, tese la mano e la posò sulla mia per un istante. «Caro vecchio amico…» cominciò.
«Purtroppo» la interruppi «io stesso non sono riuscito a tornare a vedere la tomba… perché mi sono ammalato il giorno dopo…»
«Sí, sí, certo. Lo so». Si fermò. «Sei sicuro di esserci andato?» chiese bruscamente.
«Sicuro? Buon Dio…» Fu il mio turno di fissarla.
«Sospetti che non stia ancora bene con la testa?» suggerii con una risata di disagio.
«No… no… certo che no… ma non capisco».
«Che cosa non capisci? Sono entrato in casa… Ho visto tutto, di fatto, tranne la sua tomba…»
«La sua tomba?» Grace balzò in piedi, incrociando le mani sul petto e allontanadosi in fretta da me. All’altra estremità della stanza si fermò a guardarmi, poi tornò lentamente indietro.
«Allora, dopotutto… mi chiedo…» Teneva gli occhi su di me, metà spaventata e metà rassicurata. «Possibile che non tu non l’abbia mai saputo?»
«Saputo cosa?»
«Ma era su tutti i giornali! Non li leggi mai? Volevo scrivertelo… Pensavo di avertelo scritto… ma poi mi sono detta: “Comunque lo vedrà sui giornali”… Sai che sono sempre pigra con le lettere…»
«Cosa dovevo vedere sui giornali?»
«Diamine, che non è morta… Non è morta! Non c’è nessuna tomba, mio caro! Era solo una trance catalettica… Un caso straordinario, dicono i medici… Ma non ti ha detto niente, se dici di averla vista?» Scoppiò in una risata quasi isterica: «Di sicuro deve averti detto che non era morta!»
«No» dissi lentamente, «non me l’ha detto».
Ne parlammo insieme ancora a lungo, ne parlammo fino a quando Horace non rincasò dalla cena con i suoi amici, dopo mezzanotte. Grace insisteva per tornare sull’argomento, ancora e ancora. Come lei continuava a ripetere, era di sicuro l’unica volta che la povera Mary fosse mai finita sui giornali. Ma sebbene mi sedessi e ascoltassi pazientemente non riuscivo a suscitare alcun vero interesse per quello che diceva. Sentivo che mai piú mi sarei interessato a Mary Pask, o a qualsiasi cosa la riguardasse.

© Neri Pozza 2022

La falsa filastrocca, un racconto di Mary Shelley

Le edizioni Clichy portano in libreria La tomba senza nome, e altri racconti inediti di Mary Shelley tradotti da Francesca Rizzi. Un’appassionante raccolta di racconti dell’autrice di Frankenstein, la maggior parte dei quali inediti in Italia.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

La falsa filastrocca
di Mary Shelley

Vieni, dimmi dove si trova la damigella il cui cuore può amare senza inganno,
e girerò il mondo intorno per sospirare un momento ai suoi piedi.
Thomas Moore

Un bel giorno di luglio, la bella Margaret, regina di Navarra, in visita presso il fratello reale, organizzò una festa in campagna per il mattino seguente, alla quale Francis rifiutò di partecipare. Era malinconico, si diceva a causa di un litigio fra amanti con una dama favorita. Giunse il mattino e una pioggia scura e cupe nuvole distrussero in colpo solo i piani della corte. Margaret era arrabbiata e si stava stancando: la sua unica speranza di svago era riposta in Francis, ma questi si era chiuso in sé stesso, un’ulteriore ottima ragione per volerlo vedere. Lei entrò nella sua stanza: lui era in piedi vicino alla finestra contro la quale batteva la pioggia rumorosa, scrivendo sul vetro con un diamante. La sua unica compagnia erano due bellissimi cani. Non appena Margaret entrò, questi chiuse velocemente le tende di seta della finestra, e sembrò un po’ confuso.
«Che tradimento è questo, mio signore» disse la regina, «che vi fa arrossire? Devo vederlo anche io».
«È un tradimento» replicò il re, «perciò, dolce sorella, non potete vederlo».
Ciò accrebbe ancora di più la curiosità di Margaret e ne seguì una divertente sfida; Francis alla fine cedette: si gettò su un enorme divano dallo schienale alto e quando la dama scostò le tende con un ampio sorriso, divenne serio e malinconico, mentre rifletteva sulla ragione che aveva ispirato il suo disprezzo contro tutto il genere femminile.
«Cosa abbiamo qui?» esclamò Margaret, «no, questa è lèse majesté [1]:
“Souvent femme varie, bien fou qui s’y fie!” [2]
Un piccolissimo cambiamento migliorerebbe enormemente le vostre rime… non funzionerebbero meglio così:
“Souvent homme varie, bien folle qui s’y fie!”? [3]
Potrei raccontarvi venti storie sull’incostanza degli uomini».
«Mi accontenterò di una storia vera sulla fedeltà di una donna» disse seccamente Francis, «ma non provocatemi. Mi piacerebbe non sentir parlare delle piccole mutevolezze, per amor vostro».
«Sfido Vostra Grazia» rispose Margaret, d’impeto, «a dimostrare la falsità di una nobile e ben nota dama». «Nemmeno Emilie de Lagny?» chiese il re.
Questo era un tasto dolente per la regina. Emilie era cresciuta nella sua stessa casa, era la più bella e la più virtuosa delle sue damigelle d’onore. Aveva amato molto il sire de Lagny, e le loro nozze erano state celebrate con gioia, ma senza il lieto fine. L’anno successivo de Lagny fu accusato di aver ceduto a tradimento all’imperatore una fortezza sotto il suo comando e fu condannato alla reclusione perpetua. Per qualche tempo Emilie sembrò inconsolabile, faceva spesso visita alla squallida prigione del marito, soffrendo al suo ritorno per aver assistito alla sua miseria, con parossismi di dolore che la mettevano in pericolo di vita. Improvvisamente, nel pieno della sofferenza, scomparve, e le indagini fecero trapelare solo il disonorevole fatto che era fuggita dalla Francia, portando con sé i suoi gioielli e in compagnia del suo paggio, Robinet Leroux. Si mormorava che, durante il loro viaggio, la dama e il giovane avessero spesso occupato una sola camera, e Margaret, infuriata per queste scoperte, ordinò che non si facessero ulteriori ricerche sulla sua prediletta smarrita. Così, schernita dal fratello, difese Emilie, dichiarando di ritenerla priva di colpe e arrivando persino a vantarsi che entro un mese avrebbe portato la prova della sua innocenza.
«Robinet era un bel ragazzo» disse Francis, sorridendo.
«Facciamo una scommessa» esclamò Margaret, «se perdo, porterò questa vostra vile filastrocca come epigrafe sulla mia tomba; se vinco…»
«Manderò in frantumi la finestra, e vi concederò qualsiasi cosa chiediate».
Le conseguenze di questa scommessa furono cantate a lungo da trovatori e menestrelli. La regina impiegò un centinaio di emissari, promise ricompense per qualsiasi informazione su Emilie: tutto invano. Il mese volgeva al termine e Margaret avrebbe dato molti brillanti gioielli per riscattare la sua parola. La vigilia del giorno fatidico, il carceriere della prigione in cui era rinchiuso il sire de Lagny chiese udienza alla regina; le portò un messaggio dal cavaliere per dirle che se Lady Margaret avesse chiesto la grazia per lui, e lo avesse fatto condurre davanti al fratello, avrebbe vinto la sua scommessa. La bella Margaret ne fu molto felice, e adempì volentieri alla richiesta. Francis non voleva vedere il suo falso servitore, ma era di ottimo umore, perché quel mattino un cavaliere aveva riportato la notizia di una vittoria sugli imperialisti. Lo stesso messaggero veniva lodato nei dispacci come il cavaliere più impavido e coraggioso di Francia. Il re lo riempì di doni, rimpiangendo solamente il fatto che un giuramento impediva al soldato di alzare la visiera o di dichiarare il suo nome.
Quella stessa sera, mentre il sole al tramonto splendeva sulla vetrata su cui era tracciata la filastrocca poco cortese, Francis stava riposando sullo stesso divano quando la bella regina di Navarra, con il trionfo nei suoi occhi luminosi, si sedette accanto a lui. Il prigioniero fu portato dentro, accompagnato dalle guardie: era indebolito dalle privazioni e barcollava. S’inginocchiò ai piedi di Francis e si scoprì il capo, così fuoriuscì una massa di meravigliosi capelli d’oro, che cadde sulle guance infossate e sulla fronte pallida del supplicante. «Abbiamo un inganno qui!» gridò il re, «signor carceriere, dov’è il vostro prigioniero?» «Sire, non incolpatelo» disse la voce dolce e tremante di Emilie, «uomini più assennati di lui sono stati ingannati dalla donna. Il mio caro signore non era colpevole del crimine per il quale ha sofferto. Non c’era che un modo per salvarlo: ho preso su di me le sue catene. Egli è scappato con il povero Robinet Leroux nei miei vestiti, e si è unito al vostro esercito: il giovane e valoroso cavaliere che ha consegnato i dispacci a Vostra Grazia, che avete sommerso di onori e doni, è il mio Enguerrard de Lagny. Ho solamente aspettato il suo arrivo con le testimonianze della sua innocenza, per annunciarmi alla mia signora, la regina. Non ha vinto la sua scommessa? E la sua richiesta è...»
«È il perdono di de Lagny» disse Margaret, inginocchiandosi anche lei davanti al re, «risparmiate il vostro fedele vassallo, sire, e premiate l’onestà di questa signora».
Francis per prima cosa ruppe la finestra menzognera, poi fece alzare le dame dalla loro posizione supplichevole.
Nel torneo indetto per celebrare questo «Trionfo delle dame», il sire de Lagny portò a casa ogni premio e sicuramente c’era più bellezza nella guancia infossata di Emilie - più bellezza nel suo corpo emaciato, marchi di vero affetto - che nel portamento più orgoglioso e nella carnagione più fresca della bellezza più sfolgorante che assisteva alla festa di corte.

1 «Lesa maestà», in francese nel testo originale (N.d.T.).
2 «Spesso le donne cambiano idea, stolto chi si fida!». In francese nel testo originale (N.d.T.).
3 «Spesso gli uomini cambiano idea, stolta chi si fida!». In francese nel testo originale (N.d.T.)