Un toro davvero bello, di Laura Ortiz Gómez

Gran Vìa porta in libreria Creature della foresta, di Laura Ortiz Gómez, con la traduzione di Monica R. Bedana. Nella cartografia di un territorio, quello della Colombia, attraversato da ciclica violenza e ferite collettive, sottoposto al paramilitarismo e al conflitto armato, i personaggi dei nove racconti di Laura Ortiz Gómez mantengono forza e passione intatte, spinti da pulsioni vitali quali l’immaginazione e il desiderio. Con una scrittura che genera immagini e personaggi di una bellezza crepuscolare capaci di esprimere il dolore della terra, questo è un libro che celebra ciò che rimane, e persiste, dopo il passaggio della violenza.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Un toro davvero bello
di

Laura Ortiz Gómez

L’ultima mucca al pascolo. Un orizzonte di quiete paranormale.
Jeremías conosce ogni colore dei sassi, ogni scabrezza della terra, ogni grido d’uccello. È in grado di intuire l’esatta portata di un fiume. I suoi piedi conoscono a memoria ognuno dei venticinque sentieri che conducono alle nevi perenni. Alle volte, quando rimane fermo, inizia a sentire che le braccia gli si coprono di peli e il cuore gli diventa verde e liquido. Fermo sotto il suo poncho è impercettibile.
Il mutismo di Jeremías è una pianta rampicante. Non vedi nulla, non senti nulla, non sai nulla, non ti immischiare in nulla. Il silenzio di una mula. La memoria della guerra in alta montagna. Un voto monastico. Jeremías, colui che nulla sa, che nulla vede.
Sta arando. Il beccastrino sbatte contro qualcosa di duro, produce un suono sordo. Jeremías scava e trova una cassa di legno, si direbbe una bara, un feretro per un corpo piccolo. Forse è una guaca, pensa, uno di quei famosi bottini di guerra sotterrati dagli eserciti. La tira fuori dopo una lotta con le radici e i cocci d’argilla. Il piccolo feretro è sigillato con dei chiodi. Jeremías lo porta in casa. Lo apre ansioso: contiene un sacchetto di plastica annodato e ingiallito. Nel sacchetto non c’è denaro.
Dentro ci sono due fotografie e una lettera. Nella prima si vede una donna rotondetta, in costume. Sullo sfondo c’è il mare. Sorride un po’ timida e un po’ leziosa. È sua madre. Jeremías sente un aculeo caldo, lungo e affilato trapassargli il petto. Una capsula di tristezza e di odio gli scoppia nello stomaco. Ha sempre pensato a sua madre nella terra di casa. Sola, contadina, rassegnata. Perché non gli ha mai detto di essere stata al mare? Quel costume fucsia, attillato, ha le forme precise del tradimento. Tutta la sua vita è stata modellata sulla menzogna di sua madre. Gli aveva fatto credere nello stoicismo, nel mutismo, nella montagna. E invece eccola lì, serena, estroversa, marittima. Credo di odiarti, sussurra Jeremías, mentre prende l’altra foto. Gli tremano le mani.
Nella seconda foto c’è sua madre con un tipo in pantaloni corti che potrebbe essere lui, ma non è lui. I suoi occhi dubitano. Per un attimo gli sfugge la capacità di riconoscere. Io e non io. Chi cazzo è questo qua? La risposta è un crollo: è suo padre. Ecco la faccia del grande segreto. Da piccolo non aveva mai chiesto di suo padre. Ha capito molto presto che il dolore di una madre non si tocca, non ci si fruga dentro. La ferita punzecchiata si infetta.
Nauseato, si avvicina alla stufa. Accende il fuoco. Guarda verso le montagne, ma non vede nulla. Guarda anche dentro, ma niente. Gli torna in mente Lucrecia. Gli unici momenti di sesso con una donna che ha conosciuto in vita sua e che per Jeremías è come dire amore. Penetrarla affannato nella stalla. La vita gli scivolava via intera lungo quel tunnel sdruccioloso e inequivocabile. Ebbro per il suo amore segreto, era stato sul punto di lasciare la madre. Di abbandonare tutto quello stoicismo, ogni codice, ogni patto, e di svignarsela nella capitale. Ma il senso di colpa aveva avuto il sopravvento. La visione di sua madre santificata, incarnazione immacolata della rassegnazione. Dove sarà Lucrecia adesso? Sarà una domestica che abita nella cintura urbana di Bogotá. Jeremías singhiozza. Ulula. Si stende sul letto. Il suo isolamento militare gli sembra ridicolo. Ogni cosa.
Sogna sua madre da giovane con il costume fucsia. Lei apre la porta di casa. Entra un gufo enorme che vola verso il suo viso. Gli si attacca al volto come una maschera. Metà gufo, metà Jeremías che sta sognando.

Si sveglia con un dolore acuto nel petto. Estrae la lettera dalla busta. Prova a leggerla, ma non ci riesce. Gli fa male la testa, l’alfabeto gli balla davanti agli occhi, i sensi e i suoni si muovono. Spinto dalla furia, scende in paese a cercare la sua maestra. Quando la troverà, le dirà: Adesso sì che mi deve insegnare a leggere. Il paese è pieno di cartelloni con la faccia dell’ennesimo candidato alle elezioni, un grassone dallo sguardo truce. Posti di blocco dell’esercito ovunque. Gente muta quanto lui. Bussa alla porta di casa della sua maestra. Gli risponde l’eco. Si rende conto che sono passati molti anni; la sua maestra, seppure fosse ancora viva, di sicuro non abita più lì. E i vicini, la stessa cosa. E pure tutto il resto.
«Chi è?»
«Sono Jeremías e voglio che lei m’insegni a leggere».
Un lungo silenzio. Poi un grido: «Se ne vada».
Non c’è anima viva. Solo il vento e la terra che volano via. L’unico movimento umano si percepisce dall’altro lato dei posti di blocco. Figure che ogni tanto si muovono, tossiscono oppure fumano. Jeremías sente un’urgenza, simile a quella che prova prima di eiaculare, ma senza il piacere che l’accompagna. Maledice sua madre, che gli ha seppellito la vita dentro una cassetta. All’improvviso ricorda che dietro la chiesa c’era una biblioteca. Bussa anche lì e gli apre un uomo piccolissimo. Jeremías vince la vergogna e gli dice che non sa leggere e che vuole imparare. L’uomo non riesce a trattenere del tutto un sorriso, che potrebbe essere di tenerezza o di sarcasmo. In effetti contiene un po’ entrambe. Gli dà dei quadernetti infantili e istruzioni precise su come sintonizzare Radio Sutatenza, per iniziare le lezioni a distanza. Jeremías lo guarda fisso, come per fargli delle domande. L’uomo dice a bassa voce: «Sono le contraddizioni di questo schifo di guerra. Non rimane più niente di niente, ma caspita, facciamo lezione via radio, pensi un po’». Jeremías arrossisce, la faccia bollente, il sangue gli è affluito tutto lì. Sulla via di casa mormora «guerra». Come vibra, quella parola. Erano quindici anni che non la sentiva pronunciare.
Lascia da parte la mungitura e il lavoro nei campi. Mette tutto l’impegno a imparare a leggere e a scrivere. Accende la radio e si concentra sui quadernetti. È difficile dominare il polso. Gli mette tristezza quella sua mano di uomo quasi vecchio, rugosa, dalle nocche grosse, piena di calli, che percorre tremante le collinette della “emme”. “Emme” di mamma. Si sforza, la lingua gli spunta dalle labbra. A fine giornata ci riesce. In corsivo e tutto attaccato: lamiamammamiama. È una magia: Mamma. E la mamma si materializza, quasi in carne e ossa. Giovane, rotondetta e con il costume fucsia. Lì, dentro il rancho, mentre ride. Un sole arancio le illumina il viso e i denti le brillano. Jeremías pensa che scrivere serve a evocare fantasmi. A dare un’anima a ciò che si ama e a ciò che si odia. Le collinette della “emme” rappresentano la formula di uno scongiuro. La mia mamma mi ama. Come se potesse estrarre un succo di madre e impregnarne la carta. Mamma, piccoli caratteri uno accanto all’altro che hanno un profumo. E non si sente assurdo. La mia mamma mi ama e mi accarezza. Ma “carezza” non sa scriverlo.
Il giorno dopo, la “pi”. Un palo con la pancia. Lingua di fuori e polso. Quando già fa sera, la parola nascosta: Papà. Ed è lì, insieme a lui, dentro il rancho. Talmente nitido che Jeremías teme che apra la bocca e si metta a parlare. Lo osserva da vicino, vede ogni suo pelo muoversi al vento. Così vicino che riesce ad annusare l’odore di mare della sua barba. E quindi questo è il mio taita, il mio papà. Anche se taita ancora non lo sa scrivere. Di notte, come un adolescente insonne, Jeremías continua a scrivere. Prova a mettere insieme le due parole, adesso. Entusiasta, scrive mamma e poi, accanto, papà. E vede un bacio cosmico, labbra incandescenti che incendiano il rancho. Lo rallegra pensare che almeno è nato da qualcosa che somiglia all’amore. Da qualcosa di incandescente come toccare le tette di Lucrecia.
All’alba, senza aver dormito nemmeno un secondo, Jeremías si spinge oltre. Azzarda una frase radicale. La matita traballa, ma ce la fa. Il mio papà mi ama. Finisce di scrivere e non succede niente. A poco a poco, dal silenzio emerge il suono di una serie di spari. Ed eccolo lì, dentro il rancho, il suo papà con la mitragliatrice, la selva nelle pupille. La visione dura solamente un secondo. Poi basta. Un silenzio d’acciaio.

Dopo una settimana di scrittura febbrile, Jeremías capisce che gli ci vorrà almeno un anno per decifrare il contenuto della lettera. Non può rinviare il mistero per così tanto tempo. E allora escogita un piano. Andrà in paese, a Chita, tutti i giorni, ogni giorno con una parola, e chiederà a qualcuno di leggergliela. In breve tempo e tenendo a mente le parole saprà cosa c’è scritto nella lettera.
Inizia il suo pellegrinaggio quotidiano. Il fantasma analfabeta che mendica significati. A volte deve aspettare tutta la mattina prima che in piazza passi furtivamente qualcuno. Non tutti gli rispondono. Ma lui, paziente, implacabile, continua a costruire un testo.
La parola più emozionante fu la prima. Gliela lesse un signore anziano. Jeremías aveva tirato fuori un bigliettino discreto.
«Mi scusi, signore. Sa dirmi per cortesia cosa c’è scritto qui?»
«C’è scritto ‘Javier’». E in quel momento una fitta, un piccolo arresto cardiaco e lui che fa finta di nulla.
E torna a casa di corsa, coi pensieri in cerchi concentrici. Il mio papà mi ama. Il mio papà è Javier. Taita Javier.
Per Jeremías non esiste più niente eccetto la lettera e la missione. La mucca lo guarda fisso, con le mammelle infiammate. Passa le giornate a raccogliere parole e ad ascoltare Radio Sutatenza e a tenere in mano la matita per continuare a riempire i quadernetti di “emme” e di “pi”. E di mamma e papà. E anche a ricopiare la parola Javier. Copia e ricopia: taita Javier. Ma senza taita perché la “ti” ancora non sa farla. Dopo nove giorni intensi, pieni di dolore e di viaggi furtivi a Chita, Jeremías ha già la prima frase: Javier. Un due gennaio ti hanno ucciso i paramilitari. Nove giorni col fiato sospeso. Il settimo fu il peggiore, quando quella bambina pelle e ossa gli disse: Qui c’è scritto “ucciso”. Poi impallidì e corse via. Anche lui in quel momento sentì un proiettile. Poi nella mente, un’idea, una pugnalata decisa: Taita Javier è morto. E dopo, l’ira del nono giorno, quando il bottegaio gli disse: Qui c’è scritto “paramilitari”. E anche il bottegaio impallidì, prese il fucile e lo cacciò dal negozio.

È buio e Jeremías piange. Nessuno mai è stato così orfano. Ricorda il piccolo feretro in cui ha trovato le foto, e capisce che quello è il funerale riservato a suo padre. Il corpo gli arde e adesso gli sembra di nuovo vera la frase che scrive giorno e notte: la mia mamma mi ama, la mamma ama il papà. Decide di fare un regalo ai suoi genitori e s’immagina un bel toro. Bianco, imponente, uno zebù con la gobba doppia e due corna da agganciare molto in alto, sulla luna. Un toro figlio di nubi e acqua, che tracci solchi nella notte di quella sua terra solitaria.
Allora si getta sul quadernetto e cerca la “ti”. Riempie molte righe, fino a che non riesce a capirla. Un palo e un altro palo, a forma di croce. Un segno mistico, questo del toro. Sono le tre di notte quando lo decifra. E su un foglio bianco scrive a lettere grandi: Toro. E allora lo vede, un toro bianco davvero bello, che pascola sovrano tra la nebbia. È lì, mansueto. Un gran bel maschio della luna.
Un colpo secco sulla porta, sembra una bomba. E due spari. Jeremías vede il proprio corpo cadere sul tavolo. La faccia gli rimbalza sul foglio dove c’è scritto “toro”. Lungo la mandibola un rivolo di sangue nero. La mano non molla la matita.
Lo sorprende l’assenza dell’orrore. Fluttua in un tempo di sabbia sospesa, poi finalmente riesce a guardare in basso. Vede gli zoccoli dell’animale tra la rugiada. Ormai è quasi giorno. Sente i suoi muscoli robusti e riesce a scorgere il suo manto regale e bianco. Muggisce al sole e mette alla prova la gola profonda nel brontolio del suo stomaco. Solleva le corna e li vede: sono lì, fermi. La mamma con un vaporoso vestito a fiori e papà Javier in giacca e cravatta. Con gli abiti della domenica, della messa o della festa del paese. Jeremías abbassa il muso e sua madre glielo accarezza. Formichine da una mano bianca. Entrambi gli montano in groppa. Si addentrano in quella terra solitaria lungo uno dei venticinque sentieri che conducono alle nevi perenni.