Ombre cinesi, di Hebe Uhart

La Nuova Frontiera porta in libreria Un giorno qualunque, di Hebe Uhart, tra le più importanti scrittrici della letteratura ispanoamericana del xx secolo. In questo libro, tradotto da Giulia Di Filippo, Hebe Uhart trasforma scampoli di quotidianità, all’apparenza trascurabili – una partita a carte, un pomeriggio dal parrucchiere, un saggio di pianoforte – in vivace materiale narrativo. Le sue parole indagano la realtà come una luce che attraversa una fessura, mettendo in evidenza le contraddizioni del quotidiano e creando un coro di personaggi eccentrici ma estremamente reali dei quali ci mostra i desideri e le frustrazioni, gli slanci e le amarezze.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Ombre cinesi
di Hebe Uhart

Gli uomini li conosco abbastanza bene, io, perché sono una prostituta della casa della signora Liu. I miei genitori mi ci hanno messa quando ero giovane perché ritenevano che fosse una buona sistemazione per me. Il primo uomo che ho conosciuto, avrò avuto sì e no sedici anni, era tormentato dai fantasmi che credeva di vedere nella stanza. Io lì dentro cominciavo quasi a vedere grandi ombre rosse e avevo paura, ma non me ne rendevo conto. Pensavo solo: “Devo scappare da qui”. Provai a scappare mentre lui dormiva, ma se ne accorse e mi fermò. Era gentile e affettuoso, aveva dimenticato le ingiurie ai fantasmi e mi disse di scegliere un regalo. Gli risposi che non avrei accettato nessun regalo e ne fu stupito. Alla fine, siccome lo vedevo dispiaciuto, accettai.
I regali erano molto importanti in quella casa, ed erano argomento di conversazione quotidiano. Una volta, un uomo molto buono che frequentava il posto ci portò una scimmia per farci divertire; giocavamo tutte con la scimmietta ma Anita, una ragazza che piangeva sempre, si sedette con la scimmia sulla gonna e cominciò a piangere. Allora la signora Liu disse all’uomo che si portasse via la scimmia, che non voleva più vedere quell’animale perché faceva solo danni. Ma il motivo era un altro; quando vide Anita piangere, la sgridò e le disse:
«Essere tristi significa perdere il 50 per cento del proprio valore. Non bisogna essere tristi.»
Stava sempre attenta alla nostra tristezza. Se una andava in giro mezza spettinata o assente, le comprava qualche bel vestito e le preparava un piatto speciale.
«Credevo che vi sarebbe piaciuta» disse l’uomo con la scimmia, e se ne andò, insieme alla scimmia.
Non appena se ne andò, cominciarono tutte a prenderlo in giro; lo chiamavano Scimmia, dicevano che aveva il culo come quello delle scimmie e, dato che non si fece più vedere, ogni tanto qualcuna chiedeva: «Che fine avrà fatto Scimmia?»
Non ricordo che altri abbiano più portato un animale o una pianta per allietare la casa. Mi ricordo di un uomo amato da tutte; era giovane, abbastanza bello, chiacchierava e scherzava con tutte; tutte stravedevano per lui. Io lo odiavo, perché quando stava con me si rilassava come un gatto e pensava solo al suo piacere; dovevo fargli il solletico con la piuma, voleva che gli grattassi la schiena e, dopo che gli avevo fatto infiniti massaggi dappertutto, mi dava una pacca e se ne andava.
Ce n’era un altro che non spiccicava parola: si spogliava e si rivestiva in silenzio.
Una volta lo incontrai per strada, ed entrambi facemmo finta di non conoscerci. Non guardò neanche dall’altra parte; io lo guardai e lui mi passò accanto con una faccia di pietra, imperturbabile. Ma non ce l’avevo con lui, affatto. Non so perché, ad alcuni uomini raccontavo storie della mia infanzia tormentata; erano tutte inventate ma, quando le raccontavo, ci credevo anche io. Mi sembravano il lato più sincero di me, ed era piacevole come leccarsi una ferita. Ma la mia infanzia non era stata così tormentata; i miei genitori, adesso riesco a vederlo, hanno fatto tutto il possibile per me. Ce n’era uno che mi raccontava la sua, di infanzia tormentata, mi diceva che anche lui era come un bambino tormentato. E rimanevamo a lungo così, distesi sul letto, da soli al buio, scambiandoci calore e compagnia. Eravamo come due fratelli.
Un altro mi insultò. Mi rivolse i peggiori insulti di questo mondo. A casa della signora Liu era vietato insultare e chi insultava non entrava più. Ma io lo perdonai perché avevo capito che insultava la sua stessa maledizione, la sua stessa disperazione; vedeva la miseria degli altri e non riusciva a farsene una ragione; insultava la miseria e ci sguazzava ogni volta di più. Provai pena per lui, perché si buttò ai miei piedi e mi chiese scusa; ma non tolleravo gli insulti. Io, prima di quegli insulti, credevo che gli insulti fossero come la morte; credevo che la rabbia causasse la morte. Ma gli insulti non sono gravi nel modo in cui pensa la gente; gli insulti sono come una zona dove c’è stato un terremoto: si può stare tranquilli solo momentaneamente, uno può distrarsi, ma c’è sempre la minaccia latente.
A quel punto mi ero già adattata a tutte le regole della casa della signora Liu, accettavo i regali, sapevo riconoscere quelli buoni da quelli inutili, buttavo via quelli inutili in maniera distratta e mi tenevo quelli buoni. Ero più bella di prima, ero nel fiore degli anni. Ma quando provavo a ricordare qualcosa che mi avevano detto, confondevo le persone e le cose. Chi mi ha detto che l’azzurro mi dona più del rosso? Quello? No. Chi mi ha detto che gli orologi si puliscono con il sapone? E non riuscivo a ricordare chi fosse.
Scambiavo una cosa che mi avevano detto con un’altra e la riferivo così alle mie compagne, a volte ripetendo una frase che avevo ascoltato come se l’avessi detta io, senza rendermene minimamente conto. Pensavo che stavo per perdere la memoria e mi dicevo: “Dio mio, fa’ che non perda la memoria”.
Non raccontai a nessuno di questa storia, neanche alla signora Liu, che non si accorse di niente. Ridevo come sempre.
Un giorno arrivò un uomo che sembrava portare un peso molto grande sulle spalle, ma non mi disse cos’aveva; io non glielo chiesi. L’uomo mi faceva regali bellissimi, ma non gli davo importanza. Erano regali buttati lì così, non sembravano suoi né di nessun altro. Io mi guardai bene dal dirgli che li trovavo regali bellissimi, visto che lui non gli dava nessuna importanza. E mi misi a pensare a quel suo modo di fare, di essere indipendente da tutto, di non dare importanza a nulla. Dalla mia faccia si notava che mi ero messa a pensare a questa cosa e la signora Liu cominciò a tenermi d’occhio. Io, a lui, un giorno dissi:
«Non voglio più regali da te, voglio…»
E non sapevo come dirgli cosa volevo. Forse mi ero dimenticata di cosa volessi. Lui mi chiese:
«Cosa vuoi? Ti do quello che vuoi.»
Volevo un’altra cosa ma non sapevo cosa. Avvilito, disse:
«Le donne sono così. Non so perché ma non sanno mai cosa vogliono.»
Io non dissi nulla. La signora Liu lo fece andare con un’altra. Successe una volta sola e poi non si fece più vedere. Non sono affatto arrabbiata che se ne sia andato. Se non in questa vita, nella prossima lo rivedrò.

Il sire della porta di Malétroit, di Robert L. Stevenson

Alter Ego porta in libreria Il Diamante del Rajà e altri racconti, tre racconti di Robert Louis Stevenson tratti dalla raccolta New Arabian Nights, pubblicata in due volumi nel 1882. Perfetti esempi del virtuosismo stilistico di Stevenson, capace di collimare con sagace caparbietà fantasia e sostanza morale.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Il sire della porta di Malétroit
di Robert L. Stevenson

Denis de Beaulieu non aveva ancora ventidue anni, ma già si stimava uomo maturo e, per di più, compito cavaliere. I giovani, in quei rozzi tempi di guerre, si formavan presto: e quando uno aveva preso parte a una battaglia campale o a una dozzina di scorrerie, o aveva accoppato un uomo onorabilmente e sapeva qualcosuccia di strategia e darsi una cert’aria spaccona, era certo d’essere assolto.
Quella sera, governato con le dovute cure il suo cavallo e cenato di buon appetito, uscì, in ottima disposizione di spirito, per recarsi a far visita a un amico. Non era quella una risoluzione troppo prudente per un giovane. Avrebbe fatto meglio a restarsene bravamente accanto al fuoco o andarsene a letto: ché la città era piena di truppe borgognone e inglesi sotto misto comando, e, quantunque Denis possedesse un salvacondotto, era assai probabile che questo gli giovasse assai poco a trarsi d’impaccio, sventura volesse fosse stato aggredito. Era il settembre 1429. Il tempo s’era messo al brutto. Un vento leggero e fuggevole, con rovesci di pioggia, scorrazzava sibilando lungo tutto il territorio della città, e le foglie secche menavan riotta su per le strade. Qua e là qualche finestra s’illuminava, e il frastuono degli uomini armati, che dentro le case facevano chiasso sulle lor cene, usciva, a folate, subito inghiottito dal vento. Poi la notte calò rapida. Il vessillo inglese che sventolava dalla cima del pinnacolo divenne sempre più scuro su quello scenario di fuggenti nuvoli, una macchia nerigna, come di rondine sperduta là nel tumultuoso plumbeo caos del cielo. Caduta la notte, il vento raddoppiò di furore e cominciò a ululare sotto l’arcate e a muggire fra gli alberi della vallata che si stendeva sotto la città.
Denis de Beaulieu camminò svelto, e fu presto a picchiare alla porta dell’amico; ma quantunque si fosse proposto di restarvi assai poco per far presto ritorno alla sua taverna, l’accoglienza che gli si fece in quella casa fu così cordiale ed egli vi trovò tante occasioni per indugiarvisi, che mezzanotte era già sonata da un pezzo avanti che i due amici si salutassero dalla soglia dell’uscio. Nel frattempo il vento era caduto di nuovo, e la notte era divenuta nera nera come un sepolcro. Non una stella, non un barlume di luna trapelavano giù dal fitto padiglione delle nubi.
Denis era poco pratico di tutto quel dedalo di vicoli di Château-Landon. Già altre volte, di pieno giorno, aveva stentato a rintracciarvi la strada: ora, poi, con quel buio pesto, era interamente disorientato. D’una cosa sola era certo: che per ritornare a casa doveva risalire la collina, poiché la dimora dell’amico si trovava nell’estremità più bassa, nella coda, diremo, di Château-Landon, mentre la taverna dov’era alloggiato, era dalla parte opposta, sotto la guglia della cattedrale. Con questo unico punto di riferimento Denis andava innanzi, ciampiconi, brancolando nel buio, traendo larghi respiri quando arrivava su qualche spiazzato dove poteva scorgere una buona fetta di cielo sopra il suo capo, procedendo a tastoni rasente il muro quando si trovava a passare attraverso recinti chiusi e affogati.
C’è un senso di sgomento misterioso a ritrovarsi così ravvolti nella tetra opacità d’una notte come quella, in una città quasi sconosciuta. Il silenzio intorno ci atterrisce per tutte le possibilità che vi fantastichiamo: il contatto con la sbarra gelata d’una finestra ci fa trasalire come il contatto d’un rospo: gli avvallamenti e i rialzi del terreno su cui camminiamo ci fan balzare ogni tratto il cuore alla gola, nelle zone dove la oscurità è più fitta pare ci stiano ad attendere imboscate o fenditure: e anche là dove l’aria è più chiara, le case creano di strane e ingannevoli apparenze come volessero deviarci e spingerci lungi dal nostro cammino. Quanto a Denis che doveva raggiungere la taverna senza un indizio qualsiasi che gli mostrasse la via da tenere, i pericoli cui andava incontro eran gravi quanto lo sconforto che gli recava quel camminare balordo: e procedeva così, cauto, quantunque con coraggio, e, a ogni svolta, si fermava per guardarsi attorno.
Fino a quel momento il vicolo per il quale s’era messo era così angusto ch’egli poteva toccarne i muri laterali con ambedue le mani, ma, d’un tratto, questo si fece più largo e divenne ripido e scosceso. Era evidente che quella non era la direzione della taverna, ma la speranza di qualche luce in più lo consigliò a continuare per quella strada, onde riconoscere i luoghi. Presto il vicolo sboccò su di una terrazza la quale terminava in una costruzione murale fatta a mo’ di bertesca, donde, come da una feritoia, si poteva dominare, frammezzo ad alti caseggiati, la vallata che, oscura e informe, si stendeva parecchie centinaia di piedi sotto di essa. Denis s’accostò a quella torre e guardò giù, e poté discernere cime d’alberi agitate dal vento e una piccola macchia scintillante nel punto dove la corrente del fiume si riversava giù da una chiusa. Il tempo s’era un po’ rimesso, e il cielo rischiarato per modo che si potevano scorgere i profili dei nuvoloni più spessi e il lineamento delle colline. A quell’incerto barlume Denis poté anche osservare che il caseggiato che sorgeva alla sua sinistra era un’abitazione di qualche pretesa. Era sormontato da molti pinnacoli e torricelle, e la tonda struttura d’un’abside circondata torno torno come da una frangia di degradanti colonnette sporgeva all’infuori, con una certa baldanza, dal viluppo degli edifici principali. Là era pure un uscio dentro un portale tutto scolpito a figure e dominato da due lunghe garguglie. Attraverso fitte reti di fil di ferro che le rivestivano si vedevan le finestre della cappella illuminate di dentro dalla luce di molte candele, la quale faceva spiccare più cupo sul cielo il disegno del loggiato e del tetto cuspidato. Era quella certamente la dimora di qualche nobile famiglia della città, e poiché con le sue forme richiamava alla mente di Denis una casa cittadina di sua proprietà a Bourges, stette là, per qualche tratto, a contemplare la costruzione, paragonando fra loro, mentalmente, la perizia dei due architetti e la nobiltà delle due famiglie.
Pareva non ci fossero altre vie per arrivare alla terrazza oltre a quel vicolo che ve l’aveva condotto. Denis pensò, quindi, di ritornare sui suoi passi, e, avendo ormai acquistata qualche cognizione dei luoghi, riuscire così su qualche strada frequentata e di là lestamente raggiungere la taverna. Ma faceva il conto senza quella fila d’incidenti che gli stavano per capitare e che avrebbero reso quella notte la più memorabile di tutta la sua vita. Non aveva, infatti, dato un cento passi che vide una luce che s’avvicinava a lui e, nello stesso tempo, udì un frastuono di voci come di gente che ciarlasse insieme confusamente su nella risonante strettura del vicolo. Era un drappello d’armigeri che andava attorno con fiaccole per la ronda notturna. Denis s’accorse subito che quegli uomini eran stati in confidenza coi boccali e che, ad ogni modo, non dovevan essere d’umore tale da star troppo a largheggiarla sul suo salvacondotto o simili delicatezze ancor in uso durante la guerra cavalleresca. Anzi era assai probabile che, se lo avessero trovato lì, l’avrebbero accoppato come un gatto, e piantatolo dove si trovava. La situazione era abbastanza interessante, quantunque gli andasse suscitando una certa nervosa trepidazione. Allora, riflettendo che il chiarore stesso delle torce avrebbe potuto confondere la vista della sua persona e il chiasso delle voci il suono dei suoi passi, stimò che, per poco fosse stato svelto e circospetto nel fuggire, avrebbe potuto sottrarsi interamente alla vista della ronda.
Ma sfortuna volle che, mentre si volgeva per spiccare la corsa, un piede gli smucciò su di un ghiajottolo, ed egli stramazzò al suolo mandando un grido, mentre la spada battendo sulle pietre dava un suono cupo. S’udirono due o tre voci gettare il chi va là, in francese, in inglese… Denis stette quatto, poi, rimessosi in piedi, riprese svelto a fuggire giù per il vicolo. Giunto sulla terrazza si voltò per vedere. Gli uomini di ronda continuavano a vociargli dietro, e, proprio in quel momento, allungavano il passo per raggiungerlo, e si udiva il gran baccano dell’armature scosse, e si vedevano balenamenti di fiaccole qua e là fra le strette muraglie del sottopassaggio. Denis girò lo sguardo intorno, e, senz’altro, si risolse d’avventarsi dentro la strombatura della porta. Così acquattato, pensava di poter sfuggire alla loro vista o, quanto meno, trovarsi in una posizione eccellente sia per parlamentare sia per difendersi. E, snudata la spada, si pose con la schiena a ridosso del battente della porta. Ma ecco che, con sua meraviglia, la porta cedeva sotto al suo peso! Si volse di colpo, ma quella, come girando su perni oliati e silenziosi, continuò a indietreggiare, finché rimase là spalancata sopra al buio d’una stanza.
Quando nella vita ci accade qualche buona ventura, non è il caso di star a sottilizzare sul perché e sul come ci sia capitata, poiché l’utile immediato che ne ricaviamo sembra sufficiente motivo per farci accettare per buoni anche i più stravaganti rivolgimenti e le più matte incongruenze di queste nostre sublunari faccende. Per il che, senza esitare un istante, Denis si cacciò là dentro, poi riaccostò dietro di sé la porta per celare ai sopraggiungenti la vista del suo rifugio. Certo, egli non aveva intenzione di chiuderla interamente, quella porta, ma, per qualche motivo inesplicabile, forse a cagione d’un ordegno nascosto o del peso stesso del battente abbandonato a sé medesimo, fatto è che la poderosa massa di quercia gli sfuggì di fuor dalle dita e si venne richiudendo da sé con uno strepito fragoroso, come il cadere automatico d’una lastra di ferro.
Proprio in quell’istante la ronda irrompeva sulla terrazza e si dava a chiamarlo con alte grida e bestemmie. Li udiva sferracchiare per gli angoli bui, e ci fu pure un momento che il calcio d’una alabarda venne a grattare sulla superficie esterna della porta dietro la quale egli stava. Ma quei bravi uomini eran certamente troppo sovreccitati per dilungarsi nella faccenda, sì che, di lì a poco, egli li udì che si precipitavano giù per un passaggio fatto a chiocciola che era sfuggito prima alla sua vista, e di là s’allontanavano via lungo il muro merlato del castello.
Denis trasse un respiro. Stette ancora lì quatto per qualche minuto per timore ch’essi ritornassero, poi si mise a cercare un mezzo per riaprire la porta e fuggirsene fuori. La superficie interna della porta era tutta liscia: non una presa, non un oggetto, non una sporgenza qualsiasi. Si provò a ficcare le unghie nella commessura superiore e trarla a sé, ma la greve massa non si rimoveva. Tentò di scuoterla: era fissa come rupe. Denis de Beaulieu aggrottò le ciglia e diè fuori un fischiarello sommesso. Ma che diavol ha questa porta?, pensava. E perché prima stava aperta? E come va che s’è chiusa con tanta docilità e tanta fermezza dietro di me?
V’era in quella faccenda qualcosa di misterioso e di losco da dar l’aire alla fantasia d’un giovane. Tutto lì aveva l’aria d’un tranello bell’e buono. Eppure, come supporre un tranello su quella strada così cheta, in una casa che aveva un’apparenza così florida, così signorile? Comunque, si trattasse o no d’un tranello, fosse o no la cosa premeditata, egli si trovava là dentro trappolato a dovere. E, pur tuttavia, per scampare la vita altra via non c’era che uscire di là.
Tese l’orecchio. Al di fuori s’era fatto un gran silenzio; ma di dentro, proprio vicino a lui gli sembrò a poco a poco di udire come un lento respirare, un sommesso brusio di singhiozzi e dei piccoli scricchiolii come di molte persone che stessero lì al suo fianco e tutte quatte e immobili, sforzandosi di rattenere i fiati per non farsi accorgere della loro presenza. Queste immaginazioni risvegliarono di colpo tutti i suoi istinti vitali e subito si mise in atto di difesa come per proteggere la vita. Fu allora che i suoi occhi scorsero, a qualche distanza, verso l’interno della casa, un barlume di luce ch’era situato al di sopra del livello dei suoi occhi… un filo di luce verticale che si veniva allargando verso il basso, come sfuggisse dallo spiraglio lasciato da una cortina calata su l’ingresso d’un vestibolo. Il vedere qualcosa fu già un sollievo per Denis: fu come a uno che lavora in una palude toccare il duro d’un terreno sodo. Egli s’aggrappò avidamente a quel rigo di luce, e stette là per un po’ a fissarlo cercando di raccapezzare qualche indizio sul luogo dove si trovava.
Era evidente che una serie di gradini si spiccava dal punto dov’egli era e ascendeva verso un andito illuminato, e, infatti, là poté notare pure un altro rigo di luce, sottile come un ago, fievole come fosforo, e che poteva bene essere quella prima luce riflessa nel pulito legno della maniglia d’una scala. Da quell’istante in cui Denis s’avvide di non esser più solo, il cuore gli ripigliò a battere con soffocante violenza, e un folle desiderio lo invase di agire, agire, comunque si fosse. S’immaginò minacciato da mortale pericolo. E allora quale cosa più semplice e naturale che montare quei gradini, alzare la tenda e fronteggiare di colpo la terribile situazione? Almeno sarebbe venuto alle prese con alcunché di tangibile, almeno sarebbe uscito da quell’oscurità penosa!
Con le braccia protese camminò lentamente in avanti finché venne a urtare col piede nel primo gradino della scala. Allora, di volo, la salì: stette un istante sulla cima per dar tempo ai tratti del suo viso di ricomporsi, poi alzò la cortina ed entrò.
Si trovò in un ampio salone tutto pavimento e pareti di lucide lastre. Là erano tre porte, una su ciascuno dei tre lati, tutte egualmente incortinate da arazzi, ma il quarto era occupato da due larghi finestroni e da un camino grande in pietra scolpito con lo stemma dei Malétroit. Denis riconobbe subito l’impresa, e ringraziò la Provvidenza d’esser caduto in sì buone mani. La stanza era ampiamente illuminata, ma povera di mobilio: appena un tavolone e due o tre sedie. Il focolare era senza foco, e sul pavimento era sparsa una fiorita di giunchiglie ma che pareva di molti giorni prima.
A lato del camino, seduto entro un alto seggiolone stava proprio di faccia a Denis, quando entrò, un vecchierello che indossava una palatina di pelo. Teneva le gambe incrociate, le mani sobbracciate sul grembo e una tazza di vin drogato stava posata su una mensola al suo fianco. Il suo aspetto aveva una espressione fortemente maschia: ma non propriamente umana. C’era qualcosa in lui che arieggiava l’espressione di un toro, di un gatto o di un maiale: qualcosa insomma di equivoco e di stranamente mansueto a un tempo: qualcosa di avido, di bruto e di minaccioso. Il labbro superiore, irto di densi peli arruffati, appariva enfiato come da un colpo di pugno o da una flussione di denti: il sorriso della sua faccia, le sopracciglia a sest’acuto, i piccoli occhi pieni di gagliardo foco davano a quella fisionomia un’apparenza bizzarramente e quasi comicamente malvagia. Una zazzera di splendido candore gli scendeva diritta intorno al capo e si veniva raccogliendo in un unico ricciolone adagiato sul bavero della palatina. Barba e mustacchi erano modelli di ogni venerabile maestà e dolcezza, e, forse a cagione di qualche trattamento preventivo, la vecchiaia pareva non avesse lasciato traccia alcuna sulle sue mani. Sarebbe stato difficile immaginare un disegno più robusto e più delicato. Le dita affusolate e sensuali richiamavano quelle delle donne di Leonardo: tra l’indice e il pollice, quando stavan chiusi, si scorgeva, alla base, una protuberanza tutt’a pozzette: le unghie eran tagliate a perfezione e la carne di una sorprendente cadaverica bianchezza. Ma ciò che rendeva quell’aspetto ancor più temibile era appunto vedere quel vecchio che se ne stava con quelle mani così belle sobbracciate sul grembo come una vergine martire, quel vecchio che recava nella faccia un’espressione così intensa e sgomentante, sedere là con tanta pace nel suo seggiolone e volgere attorno uno sguardo immacolato, come un dio, come il simulacro d’un dio. Ma la sua pace pareva piena d’ironia e di perfidia tanto poco s’addiceva al suo aspetto.
Era Alain, Sire di Malétroit.
Per un attimo i due si guardarono in faccia, muti.
«Prego, venite avanti» disse alla fine il Sire di Malétroit «è tutta sera che vi sto aspettando».
Non s’era levato da sedere, ma le parole aveva accompagnate con un sorrisetto e con un lieve cortese chinar di capo. E un po’ per il sorriso, un po’ per uno strano murmure melodioso con cui il vecchio preludiò a quella sua dichiarazione, Denis sentì un diaccio brivido di disgusto serpeggiargli su per il midollo. E a stento riuscì a metter insieme qualche parola per una risposta.
«Temo, signore» finì per dire «che siamo caduti ambedue in un equivoco. Io, certo, non sono la persona che voi credete. Se non erro, voi aspettate delle visite; da parte mia vi dirò che nulla era più lontano dal mio pensiero, nulla più contrario al mio desiderio che l’entrare qui da voi…».
«Bene, bene» s’affrettò a dire il vecchio con un certo compiacimento «voi, ora, siete qui, e questo è l’essenziale. Accomodatevi dunque, amico mio, e mettetevi pure a vostro agio. Tra poco sbrigheremo tra noi i nostri piccoli affari».
Qui Denis s’accorse che la faccenda s’andava imbrogliando e s’affrettò a ripigliare i suoi schiarimenti.
«La vostra porta…» cominciò.
«Ah, la mia porta?» interruppe l’altro alzando le sopracciglia aguzze. «Ma quello non è stato che un ingenuo giochetto!» e alzò le spalle. «Una fantasia da ospite!… S’era per voi, giovinotto, non avreste certo desiderato di far la mia conoscenza. Ebbene, che volete, noialtri vecchi, di quando in quando, andiamo volentieri in cerca di tali riluttanze, e, quando ciò impegna il nostro onore, ci diamo attorno a trovar qualche modo per soggiogarle e per vincerle. Voi non foste invitato qui, certo; ma credetemi, signor mio, non per questo siete meno il benvenuto».
«M’avveggo» replicò Denis «che continuate a persistere nel vostro errore. Tra voi e me, signor mio, non può esservi rapporti di sorta. Io sono straniero in questo Paese. Mi chiamo Denis de Beaulieu. Se voi mi vedete qui, in questa vostra casa si è soltanto…».
«Mio giovine amico» l’altro ribatté «permettetemi ch’io abbia una mia opinione su questo argomento. È assai probabile che, per il momento, questa mia opinione sia differente dalla vostra» e qui lo fissò con uno sguardo un po’ traverso «ma il tempo dimostrerà quale di noi due abbia ragione».
Denis, a questo punto, si convinse d’aver proprio a che fare con un mentecatto. Per il che sedette abbrividendo, e, per il momento, si contentò di star ad aspettare lo scioglimento della strana avventura. Poi seguì una pausa durante la quale gli parve come di udire, da dietro l’arazzo calato sulla porta che gli stava dirimpetto, un rapido sussurrio come di persona che pregasse. E un momento pareva una persona sola, un altro parevan due, e la veemenza con cui venivan proferite le parole, ancorché sommesse, pareva dinotare una gran fretta o una grande ambascia d’animo. Denis pensò che quella ricca portiera doveva ricoprire l’ingresso della cappella di cui aveva ammirato l’abside quand’era fuori.
Nel frattempo il vecchio signore con un sorrisetto andava squadrandolo da capo a piedi e lasciandosi sfuggire ogni tanto un piccolo gorgheggio che aveva dell’uccellesco e del topesco a un tempo, e che sembrava denotare in lui un certo grado di soddisfazione. Questo indugio e questo stato di cose divennero in breve così insopportabili che Denis, per porvi fine, osservò cortesemente che il vento aveva cessato di soffiare.
Allora il vecchio proruppe in un riso silenzioso, ma così prolungato, così violento che la sua faccia si fece quasi vermiglia.
Denis, detto fatto, balzò in piedi, e, rigirandolo alla brava per l’aria, si rimise il cappello in testa.
«Signore» disse poi «se siete sano di mente vi dico che m’avete villanamente oltraggiato; se non lo siete, v’assicuro che spero trovare migliore occupazione al mio cervello che non starmene qui a cianciare con un pazzo. Io ho la coscienza pulita, signore. Vi siete fatto gioco di me fin dal primo momento che son arrivato qua dentro: poi avete rifiutato di ascoltare i miei schiarimenti. Ora, badate, non c’è forza al mondo che mi possa trattenere qui più a lungo, e, s’io non potrò trovarmi una via d’uscita onorevole, vi giuro che saprò far a pezzi la vostra porta con questa spada».
Il Sire di Malétroit levò la mano destra e la tese verso Denis, col pollice e il mignolo aperti.
«Caro nipote» disse poi «via, sedete».
«Nipote?» ribatté Denis. «Voi mentite per la gola!» e gli fece schioccare le dita sott’al naso.
«Sedete, furfante!» gridò allora il vecchio con rabbiosa voce, che pareva latrato di cane. «Ma che vi credete?» continuò.
«Che quando io ebbi inventato il mio piccolo ordegno della porta m’avessi a fermar lì? Se preferite esser legato mani e piedi sino a sentirvi scricchiolar le ossa, alzatevi pure e tentate di fuggire. Ma se gradite meglio rimanere e ragionarla un po’ con me, da buon amico, sedete là quieto quieto, e Dio vi abbia in gloria». «Che intendete dire?» proruppe Denis.
«Ch’io sono prigioniero?». «Constato il fatto» replicò l’altro «e preferisco lasciare a voi la risposta».
Denis risedé. All’esterno si sforzava di tenersi calmo, ma dentro bolliva di rabbia, gelava di spavento. E non andò molto ch’egli finì anche per convincersi di aver a che fare proprio con un pazzo. Perché, se il vecchio era sano di mente, che voleva da lui? In quale tragica e assurda avventura s’era mai cacciato! E come doveva diportarsi adesso?
Mentre stava su queste riflessioni, l’arazzo che ricopriva la porta d’ingresso della cappella si sollevò e un prete lungo lungo ne venne fuori vestito dei suoi abiti sacri, il quale, gettato un lento acuto sguardo su Denis, si chinò poi a parlare, a bassa voce, al Sire di Malétroit.
«Si trova essa in buona disposizione di spirito?» domandò quest’ultimo.
«Ella è ora più rassegnata, messere» rispose il prete.
«Che Dio la benedica, la è ben difficile da contentare!» ghignò il vecchio.
«Un giovincello simile… di non cattiva nascita… e pure di sua scelta! Bene, che pretende di più, la sgualdrina?».
«Per una ragazza» disse l’altro «la cosa non è delle più semplici e correnti. È tale almeno da mettere a dura prova il suo pudore».
«A questo perché non ci ha pensato prima d’imbarcarsi? Mica l’ho voluto io l’intrigo, Dio sa… Ma dacché è in ballo, per la madonna, balli». Poi volgendosi a Denis: «Signor de Beaulieu» gli domandò «permettete che vi presenti mia nipote? Essa attendeva la vostra venuta con la medesima impazienza, direi, con cui l’attendevo io stesso».
Anche a questo Denis si rassegnò di buona grazia, poiché, infine, egli non desiderava che una cosa sola, arrivare alla conclusione dell’avventura il più presto possibile. Perciò si levò su e fece un inchino di assentimento. Il Sire di Malétroit s’inchinò pure lui, poi, appoggiandosi al braccio del prete, si incamminò zoppicando verso la porta della cappella. Colà giunti, il prete sollevò un lembo dell’arazzo, e tutt’e tre entrarono.
L’interno di quell’oratorio aveva una certa ricercatezza architettonica. Una leggera cordonata si spiccava dalla cima di sei grosse colonne e veniva a raccogliersi nel mezzo della vòlta donde pendevano due ornamenti. Dietro l’altare la cappella si chiudeva in uno spazio emicicloidale, le cui pareti erano tutt’a bozze e scavi, sovraccarica di ornati in rilievo, e forata da molte finestrelle a forma di stella, di trifoglio, di ruota. Queste finestre erano male invetriate, e l’aria della notte entrava e s’aggirava liberamente per la cappella strapazzando senza misericordia le fiamme d’una cinquantina di candele posate sull’altare: onde la luce passava, per fasi graduali, dallo splendore più brillante a una penombra d’eclissi. Sui gradini, davanti all’altare, stava inginocchiata una giovane donna riccamente abbigliata, in abito di nozze.
Al vedere quell’abbigliamento Denis si sentì un brivido di freddo: e lottò, lottò con disperazione contro certo presentimento che gli era caduto nell’animo. No, non poteva… non doveva accadere quello ch’egli temeva.
«Bianca!» esclamò il sire con la sua voce a tono di flauto. «Ti ho portato qua un giovinotto che desidera conoscerti, piccolina mia. Su, da brava, volgiti e porgigli la tua vezzosa manina. Buona cosa è l’esser devoti, ma è necessario esser cortesi con gli ospiti, nipote mia».
La fanciulla, allora, si levò in piedi e si volse incamminandosi verso i sopraggiunti.
Si moveva a stento, tutta stecchita, e i lineamenti del suo fresco giovanile corpo esprimevano un pudico riserbo misto a un estremo abbattimento. Venne innanzi lentamente, a testa bassa, gli occhi fitti al suolo: finché, a un certo punto, il suo sguardo cadde sui piedi di Denis de Beaulieu – il quale, detta fra noi, era solito calzare, anche viaggiando, assai ricco ed elegante – e allora sostò di colpo, ebbe un trasalimento, come se la gialla calzatura l’avesse d’improvviso richiamata alla realtà delle cose, e levò lo sguardo su alla figura di colui che la recava. I suoi occhi incontrarono quelli di Denis, e il suo aspetto timoroso fu invaso dal terrore. Le sue labbra impallidirono gettò un alto strido, e, copertosi il volto con le mani, s’afflosciò di colpo sul pavimento della cappella.
«Non è lui!» gridava. «Zio, non è lui!».
Il Sire di Malétroit mandò il suo piacevole gorgheggio, poi: «Naturalmente» esclamò «io questo me lo immaginavo. È una sventura davvero, ve’, che non puoi ricordarti il suo nome».
«No, no!» gridava lei. «Questo signore io non l’ho veduto mai prima d’ora… Non mi è mai accaduto di porgli gli occhi addosso… Signore» esclamò poi volgendosi a Denis «se voi siete gentiluomo, aiutatemi a trarmi d’impaccio… Dite, ho io mai veduto voi? E voi mi avete veduta mai, prima di questa maledetta notte?».
«Per me» rispose il giovine «dichiaro di non aver avuto mai questo piacere… È proprio la prima volta, signore, che io ho l’onore di incontrarmi con questa vostra graziosa nipote».
Il vecchio fece spallucce, poi disse: «Son dolente d’udire questo… Ma, a dirvi il vero, non è mai troppo tardi per incominciare. Io, per esempio, con la mia defunta moglie, quando la sposai, ci avevo poca dimestichezza sulle prime. Ciò non toglie» soggiunse con un ghignetto «che matrimoni simili, improvvisati, possano sortire bene, in andar di tempo. E siccome è il fidanzato che ha da aver voce in capitolo in queste cose, così io vi concederò due ore per rifarvi del tempo perduto, quindi daremo inizio alla cerimonia». E, detto questo, s’avviò verso la porta, seguito dal prete. In un balzo la fanciulla fu in piedi.
«Zio, zio tu non puoi dir questo sul serio!» esclamò. «Dichiaro davanti a Dio che preferirei darmi una pugnalata piuttosto che forzare la volontà di questo giovine. Il cuore vi si ribella… Dio vieta un tale matrimonio! Voi disonorate la vostra canizie, zio! Oh, abbiate pietà di me… Non v’è donna al mondo che non anteponesse la morte a una simile unione! Ma è mai possibile» proseguì tremando «ma è mai possibile che non mi crediate? Che voi pensiate che questi…» e additò Denis con un tremito di collera e di vergogna «che voi pensiate ancora che questi possa essere lui?».
Di sulla soglia dove s’era indugiato il vecchio rispose: «Francamente, lo penso. Ma concedi, Bianca di Malétroit, che ti dichiari il mio pensiero in questa faccenda. Dacché ti sei ficcata in capo di gettare il disonore sulla mia famiglia e sul buon nome che, da più di tre ventine d’anni, io porto in pace e in guerra, ti sei preclusa anche ogni diritto non pure di intervenire nei miei disegni, ma pur anche di fissarmi in volto. Fosse vivo ancora tuo padre, t’avrebbe dato una buona dose di scapaccioni e cacciata di casa. Aveva mano di ferro, quell’uomo. Ringrazia il cielo se ora hai a che fare soltanto con una mano di velluto, mademoiselle. È mio dovere farti sposare, e subito. Per mia pura benevolenza ho tentato di scovarti fuor il tuo galante. Mi lusingo esservi riuscito. Ma se non lo fosse, Bianca di Malétroit, ti giuro davanti a Dio e a tutti gli angeli sacrosanti, che non me ne importa un fico. Ti consiglio, adunque, di essere cortese e gentile col nostro giovine amico, ché, parola, il tuo valletto è certo meno piccante e appetitoso di lui».
Detto questo, egli uscì col cappellano alle calcagna. E l’arazzo calò dietro di loro.
La fanciulla si volse a Denis. Aveva gli occhi vampanti.
«Ditemi, signore, ditemi» ella esclamò «che significa tutto questo?».
«Che volete che sappia? Io sono qui prigioniero in questa casa, che la mi par proprio una casa di matti. Di più non so: né mi riesce di capirci nulla».
«E come siete arrivato qua dentro?».
Denis glielo narrò succintamente, poi aggiunse: «Abbiate la bontà di far altrettanto anche voi, di spiegarmi un po’ in che rebus ci troviamo, di dirmi quale diavol verrà a essere, a un di presso, la fine di questa imbrogliata faccenda».
Bianca stette silenziosa, ed egli vide che le sue labbra tremavano, che i suoi occhi senza pianto brillavano d’uno splendore febbricoso. Poi ella si tolse il capo fra le mani.
«Oimè, come mi duole la mia testa!» cominciò con un accento accorato. «… per non dire del mio povero cuore!… Ma è bene sappiate la mia storia, signore; per quanto essa poco s’addica a una ragazza. Io mi chiamo Bianca de Malétroit. Ero assai giovine quando padre e madre mi morirono, tanto ch’io non ricordo più nulla di loro e davvero fui assai infelice tutta la mia vita… Tre mesi or sono, un giovine capitano cominciò a venirmi presso, ogni giorno, in chiesa. M’avvidi che gli piacevo. Son molto da biasimare, ma, che volete, ero così felice di sapere che qualcuno mi amava! E quando egli mi passò un biglietto, io me lo portai a casa e lo lessi avidamente con gran gusto. Da allora me ne scrisse molti biglietti. Era così desideroso di parlarmi, povero ragazzo! E cominciò a dire se, qualche sera, gli avrei lasciato aperta la porta, che avremmo fatto due chiacchiere lì su per le scale. Poich’egli sapeva quanto mio zio si fidasse di me». E qui scoppiò in un mezzo singhiozzo e pausò un poco avanti di ripigliare a parlare. «Mio zio» riprese poi «è uomo assai difficile, ma fine e sagace. Ha compiuto di molte gesta in guerra, aveva un grado eminente a corte, ed era molto in confidenza con la regina Isabeau, nei tempi andati. Bene, com’egli venisse in sospetto della cosa non saprei: certo ch’era assai difficile fare alcunché all’insaputa di quell’uomo. Fatto è che, stamane, mentre tornavamo dalla messa, egli d’un tratto m’afferra la mano, l’apre a forza, e si mette a leggere il mio bigliettino, pur sempre continuando a camminare. Finito di leggere, me lo restituisce cortesemente. Purtroppo, in esso, il mio innamorato mi rinnovava quella tal sollecitazione di lasciargli aperta la porta. Fu questo che ci perdé. Lo zio mi rinchiuse nella mia camera e mi vi tenne sotto chiave sino a sera; poi m’ordinò mi vestissi nel modo che qua mi vedete. Oh, uno scherno ben atroce per una povera ragazza, non vi pare? Poi, immagino che, non essendo egli riuscito a strapparmi di bocca il nome del giovine capitano, gli abbia teso un agguato, quello appunto nel quale siete caduto voi stasera, in vece sua, per disgrazia del cielo. Oh, io sono assai confusa, poiché penso ch’egli certamente avrà abbandonato l’idea di tormi in moglie adesso che le cose sono arrivate a questo punto. In verità io non pensavo di dovermi meritare un castigo così vergognoso. Non pensavo che Dio avrebbe permesso che una fanciulla si trovasse davanti a un giovine in una maniera così disonorata!… E ora che v’ho raccontato ogni cosa, davvero che ho poca speranza che voi non m’abbiate a disprezzare».
Denis le fece un rispettoso inchino. «Signora» disse «voi m’avete onorato della vostra confidenza; a me ora dimostrarvi che non ne sono indegno. Dov’è il Sire di Malétroit?».
«Suppongo che stia scrivendo nella sala di là» rispose la fanciulla.
«Vi posso accompagnare da lui?» domandò Denis porgendole il braccio con atto galante.
Avendo ella accettato, la coppia s’incamminò e uscì dalla cappella. Bianca era tutta abbattimento e vergogna, Denis invece assai impettito e compreso della missione che si recava a compiere: e, per di più, con una certa baldanzosa consapevolezza di averla a risolvere con onore.
Come li vide apparire, il Sire di Malétroit si levò e mosse a incontrarli facendo loro un’alquanto ironica riverenza.
Denis, allora, dandosi l’aria la più grandiosa del mondo, cominciò a parlare:
«Signore, credo d’aver pur io qualche parola da dire in argomento a questo matrimonio. E lasciate che vi assicuri subito ch’io, per me, non sono affatto persona da forzare l’inclinazione di questa signorina. Mi fosse stata spontaneamente offerta la sua mano, sarei orgoglioso d’accettarla, dacché so che ella è onesta quanto bella fanciulla; ma, allo stato in cui sono le cose, messere, io ho l’onore di rifiutarla».
Bianca lo fissò con uno sguardo pieno di riconoscenza, ma il vecchio sorrise soltanto, e continuò a sorridere, sorridere, fin che a Denis quel sorriso cominciò davvero a suscitare un certo disgusto.
«Ho timore» disse alfine «ho timore, signor de Beaulieu, che non abbiate ben compreso il partito ch’io ebbi il piacere di proporvi. Venite qua, di grazia, a questa finestra» e lo condusse a una delle finestre che stavano aperte nella notte. «Guardate» riprese a dire «guardate su alla parte superiore di questo edificio. Lo vedete quel grosso anello di ferro lassù, dove sta infilata una fune molto robusta? Ebbene, ora fate attenzione a quel che vi dico. Se voi trovate che la vostra antipatia per la persona della mia nipote è affatto irriducibile, fate conto, avanti l’alba, di vedervi bell’e impiccato a quella fune, fuori di questa finestra… Credetemi, è con mio gran rincrescimento ch’io sarò costretto a risolvermi a quel partito estremo, poiché non è certo la vostra morte ch’io desidero, ma solo di procurare a mia nipote una buona posizione nella vita. E tuttavia, a ciò si deve pur venire, se voi v’ostinate. La vostra famiglia, signor de Beaulieu, è nobile e onorata, ma, discendeste anche da Carlo Magno, voi non potete rifiutare la mano d’una Malétroit, impunemente: nemmeno ella fosse volgare come una strada di Parigi o mostruosa come una delle garguglie che stanno sopra la mia porta. Non mia nipote, non voi, non i miei personali sentimenti mi muovono a quest’atto: ma l’onore della mia famiglia ch’è stato compromesso. Io suppongo che voi siate il colpevole, ma se anche non lo foste, siccome siete ora a parte del segreto, non vi dovete affatto meravigliare se chiedo a voi di lavare la macchia di quest’onta. Non lo fate, il vostro sangue ricadrà su di voi. E vi dico che sarà un gran piacere per me vedere il vostro interessante cadavere spenzolare e sgambettare al vento sotto le mie finestre. Meglio una mezza pagnotta oggi che digiuno domani. Non posso rimediare alla vergogna? Voglio almeno soffocare lo scandalo».
Qui una pausa.
«Io credo tuttavia» disse Denis «che un altro modo vi sia di accomodare la cosa fra due gentiluomini. Voi avete una spada e so che la maneggiaste con bravura».
Il Sire di Malétroit fece un cenno al cappellano il quale, attraversata a passi lunghi e silenziosi la sala, s’accostò alla terza delle tre porte, e sollevò l’arazzo. Di lì a poco lo lasciava ricadere: ma non troppo presto che Denis non avesse avuto tempo di scorgere, dietro quello, un andito tenebroso dove stavano adunati molti uomini in arme.
«S’io era soltanto un po’ più giovine» riprese a dire Sir Alain «sarebbe stato un piacere per me onorarvi in quanto mi richiedete. Ma io sono adesso troppo vecchio. Che volete, il circondarsi di servi fedeli è una delle poche risorse di cui si compiace l’uomo vecchio; e io ho pur da impiegare le forze che ho. Vedete, è cosa dura pensare come un uomo matura negli anni e invecchia; ma, via, anche a questo, con un po’ di pazienza, si finisce per farci il callo. Voi e la vostra signorina, sembra – non è vero? – che desideriate restar soli in questa sala per godere il tempo che ancor vi rimane prima che scocchino le vostre due ore. Ebbene, io non desidero certo contrariare questo vostro desiderio, e vi cedo la sala con tutto il piacere del mondo. E, niente furia!» soggiunse poi levando in alto la mano come vide che un’espressione minacciosa s’appalesava sulla faccia di Denis de Beaulieu. «Se la vostra mente si ribella all’idea dell’impiccagione, due ore, sapete, è tempo sufficiente per gettarvi giù dalla finestra o sulle picche levate dei miei famigliari. Due ore di vita son pur sempre due ore di vita e grandi cose si possono operare in tale tenue spazio di tempo. Mi sembra, poi, se bene arguisco, che mia nipote abbia ancora qualcosa da dirvi. Non vorrete certo guastare le vostre due ultime ore di vita con un atto incivile verso una graziosa signorina, non è vero?». Denis si volse a guardare Bianca, e questa gli fece un gesto implorante.
È assai probabile che il vecchio si compiacesse di questi indizi d’un accordo che poteva nascere tra i due giovani, perché di nuovo sorrise all’uno e all’altra, poi, voltosi a Denis, con un tono più mansueto, soggiunse:
«Se voi mi date la vostra parola d’onore, signor de Beaulieu, che aspetterete il mio ritorno fino al termine delle due ore senza tentare atti disperati, vi prometto d’allontanare i miei servi e di lasciarvi qui a discorrere con tutta pace e segretezza con mademoiselle».
Denis fissò ancora la fanciulla, che parve implorarlo di accettare.
«Vi do la mia parola» diss’egli.
Messer di Malétroit s’inchinò e si diè quindi a girare zoppicando intorno per la sala schiarendosi di tanto in tanto la voce con quel tal grottesco e flautino gorgheggio che già tanto era piaciuto alle orecchie del signor de Beaulieu. Pigliò su da prima alcune carte che stavan posate sulla tavola, poi si diresse verso l’uscita dell’andito dove fu udito impartire qualche ordine agli uomini che stavan dietro l’arazzo; infine, arrancando, se ne uscì per la porta dalla quale Denis era entrato, non senza prima essersi indugiato sulla soglia a fare un altro sorrisetto e inchino alla coppia. Dopo di che scomparve, seguito dal prete con una lampada in mano. Appena soli, Bianca s’accostò a Denis e gli tese ambe le mani. Era tutta imporporata in volto, commossa: nei suoi occhi brillavano lacrime. «Voi non dovete morire» esclamò «dovete sposarmi piuttosto, e nonostante tutto».
«Mi sembra, signora, che voi pensiate che la morte mi faccia di molto paura» rispose Denis.
«Oh, no!» diss’ella. «Lo vedo bene che non siete un codardo. Dico così per me… Io non potrei reggere al pensiero di esser stata la cagione della vostra morte, e ciò soltanto per un mero scrupolo di coscienza». «Signora mia» rispose Denis «temo che voi facciate troppo poco caso delle difficoltà. Ebbene, quello che voi siete tanto generosa da voler eludere, io posso essere invece tanto orgoglioso da accettare. In un momento di nobile slancio verso di me, forse dimenticaste ciò che dovete ad altri».
E, questo dicendo, egli ebbe il pudore di tener gli occhi chinati e anche un po’ dopo ch’ebbe finito, tanto da non scorgere la confusione che s’era dipinta sul volto di Bianca. La quale rimase lì silenziosa per un istante, poi subito si volse via e abbandonatasi dentro il seggiolone dello zio scoppiò in singhiozzi.
Denis fu imbarazzatissimo. Si guardò attorno come cercasse un’ispirazione e, scorto uno sgabello, vi si lasciò cader su, tanto per fare qualcosa. Là egli stava, rigirandosi fra mano la custodia dello stocco, augurandosi di esser piuttosto le mille volte morto e sepolto sotto il più lurido immondezzaio di Francia. Il suo sguardo errava attorno per la vasta sala, né trovava su che posarsi. E vi erano tali ampi spazi tra mobile e mobile, e la luce si spandeva per tutto così nuda e così aduggiata, e il buio della notte penetrava dalle finestre così freddo freddo, ch’egli pensò non aver mai veduto chiesa tanto vasta, né una tomba così triste. I singhiozzi regolari di Bianca parevano scandire il corso del tempo come il tic tac d’una pendola. Denis contemplò a più riprese l’emblema dipinto sullo scudo, finché gli s’intorbidiron gli occhi: cacciò lo sguardo dentro gli angoli più bui finché gli parve vederli brulicanti d’orribili mostri e, a ogni tratto, si destava, trasaliva, e gli veniva in mente che quelle erano le due ultime ore della sua vita, e che stavano per fuggire, e che la morte era in cammino.
Intanto, sempre più sempre più, durante quel tempo, il suo sguardo s’andava indugiando sulla figura della fanciulla. Ella stava con la faccia giù chinata nelle mani, e, a ogni tratto, era scossa da un convulso di singhiozzi più dolorosi. Anche così era pur cosa graziosa a riguardarsi, pienotta eppure tutta delicata, con una pelle di una tinta calda e morata, e la più bella capigliatura di donna che mai accadesse a Denis di rimirare per il mondo. Le sue mani assomigliavano a quelle dello zio: ma certo stavano meglio lì, all’estremità di quelle giovanili braccia, e avevano un che d’infinitamente tenero e carezzevole. E Denis ricordò pure come i suoi occhi turchini avevano folgorato sopra di lui pieni di collera, di pietà, d’innocenza. E più egli andava innanzi a considerare quella perfezione e più nera gli appariva la morte, più profondamente era colpito dalla pietà e dal dolore al vederla lacrimare a quel modo, continuatamente. Allora egli si disse che a nessun uomo basterebbe l’animo di abbandonare un mondo che conteneva sì bella creatura; e che volentieri egli avrebbe dato quaranta minuti di quella sua ultim’ora pur di non aver proferite le crude e decisive parole di dianzi. D’improvviso, uno stridulo canto di gallo si levò dalla buia vallata sottostante. Nel silenzio che pesava su ogni cosa, l’assordante grido fu come un guizzo di luce che lacerasse l’oscurità d’una stanza, e li riscosse di colpo dagli amari pensieri.
Ella levò il capo e lo fissò.
«Ebbene» disse «non posso proprio far nulla per voi?».
«Signora» Denis rispose, eludendo con sottile grazia la domanda «s’io ho detto alcunché che possa avervi ferita, credetemi, l’ho fatto per amor vostro, non per mio giovamento».
Un’occhiata lacrimosa di lei fu il ringraziamento per quella risposta.
«Il vostro stato mi addolora profondamente» continuò Denis. «Il mondo fu crudele con voi. Vostro zio è una vera disgrazia per l’umanità. Credetemi, signora, non c’è in Francia giovane gentiluomo cui non parrebbe gioia trovarsi ora nella buona occasione in cui mi trovo io di morire per rendere a voi anche il più futile servigio».
«So che siete valente e generoso» essa rispose. «Ciò che mi occorre sapere adesso è se io posso esservi utile, in qualche modo, ora o dopo…» ella aggiunse con un brivido.
«Oh, certo che lo potete» rispose egli sorridendo. «Ma lasciatemi sedere un momento, qui, accanto a voi, come fossi un buon amico vostro, e non uno strano importuno. Cercate di dimenticare la balzana posizione in cui ci troviamo l’uno di fronte all’altro. Fate che questi ultimi miei istanti scorrano un po’ piacevolmente, e voi m’avrete reso il miglior servigio del mondo».
«Siete molto gentile» ella rispose con un accento ancora assai desolato «molto gentile… e questo, vedete, mi contrista ancor più. Ma avvicinatevi pure se vi piace; e se avete qualcosa da dirmi, state pur certo che troverete in me una affettuosa ascoltatrice. Ah, signor de Beaulieu, come ardirò io mai fissarvi in volto?…» e qui scoppiò di nuovo a piangere con rinnovata effusione.
«Signora» disse Denis prendendole una mano fra le sue «pensate al breve tempo che ancor mi rimane a vivere e alla grande tristezza che mi procura la vostra desolazione. Risparmiatemi, vi prego, in questi ultimi momenti, la vista di un dolore cui io non potrei porre rimedio neppure col sacrificio della mia vita».
«Sì, sono molto egoista» rispose Bianca «voglio esser più savia per voi, signor de Beaulieu. Ma, suvvia, riflettete, ditemi s’io non possa giovarvi in alcun modo pel futuro… Non avete amici ai quali io possa recare il vostro estremo saluto? Datemi pure incarichi, gravi fin che vorrete; ogni peso, per piccolo che sia, mi varrà ad alleviare la gratitudine senza prezzo ch’io vi devo. Procurate ch’io possa fare qualcosa per voi oltre che piangere».
«Mia madre» disse Denis «è passata a seconde nozze e ha una seconda famiglia da badare. Mio fratello Guiscardo sarà, quindi, l’erede del mio feudo; e, se non erro, della mia morte egli sarà assai soddisfatto. La vita è un fumo, come ci han appreso quei tali che stan negli ordini sacri. Quando l’uomo è su un bel cammino, e vede la vita dispiegarglisi davanti, gli sembra d’esser la creatura più importante della terra. Il suo cavallo gli annitrisce, le trombe squillano, le ragazze si affacciano alla finestra per rimirarlo quand’egli entra in città cavalcando alla testa del suo drappello. Riceve dimostrazioni di fiducia e di stima, alcune volte per lettera, altre a parole, da persone di grand’affare che gli capitano fra capo e collo. Non è quindi da meravigliare se la testa alcun poco gli gira. Ma, una volta ch’è morto, fosse stato valente come Ercole o saggio come Salomone, chi più si ricorda di lui? Dieci anni fa, in una molto feroce mischia, mio padre cadde insieme ai suoi cavalieri; ebbene, io credo che di nessuno d’essi, che neppure del luogo del combattimento, v’è più chi si ricordi al mondo! No, no, signora, più v’andate avvicinando alla morte, più v’accorgete ch’essa è una buia e polverosa stanza dove v’han chiuso dietro per sempre la porta. Io ho pochi amici, adesso; morto, non n’avrò più nessuno».
«Ah, signor de Beaulieu» esclamò la fanciulla «voi dimenticate Bianca di Malétroit».
«Siete assai cortese, signora mia, vi compiacete valutare il piccolo servigio che v’ho reso assai più di quanto esso meriti».
«Non è questo» ella replicò. «Avete torto se pensate ch’io sia tanto preoccupata del mio interesse. Dissi così perché voi siete il più nobile uomo che mai incontrassi, perché rilevo in voi un animo pieno di generosità e di finezza».
«E con tutto questo» ribatté Denis «eccomi qui, condannato a morire in questa trappola come un sorcio!». Una nube d’angoscia volò sulla faccia di lei, che rimase silenziosa, per un istante. Poi una luce brillò improvvisa nei suoi occhi e, sorridendo, ella riprese a dire:
«Io non voglio che il mio paladino pensi così bassamente di sé. Chi fa getto della propria vita per un’altra persona, sarà accolto in Paradiso da tutti gli angeli e arcangeli del buon Dio. Ma, ditemi, pensate ch’io sia bella?» proruppe infine arrossendo.
«Lo penso davvero» diss’egli.
«Son contenta di questo» rispose ella cordialmente. «Ebbene, pensate che vi possano essere molti uomini in Francia che, chiesti in nozze da una bella ragazza, e di sue proprie labbra, abbian rifiutato? So bene che di simili trionfi voialtri uomini fate poco caso. Ma noi donne sappiamo meglio di voi quello che v’è di più prezioso nell’amore: e non c’è nulla, credetemi, che più di questo possa innalzare una persona nella nostra stima: noi donne nulla s’apprezza più caramente».
«Vi ringrazio delle vostre gentili parole» diss’egli «ma voi non potete farmi dimenticare che io ero domandato di pietà e non d’amore».
«Di questo non son ben certa» replicò la fanciulla col capo chinato. «Ascoltatemi, signor de Beaulieu. Immagino quanto dovete disprezzarmi voi, e sento ch’è giusto lo facciate. Sono una troppo misera creatura, io, per occupare un pensiero nel vostro cuore. Tuttavia è pure vero che voi siete condannato a morire per me, stamani. Ma, sappiatelo, se io vi domandai che mi sposiate, sì, sì, fu perché io vi stimavo, perché vi ammiravo, perché, dal momento che pigliaste le mie difese contro lo zio, ho sentito d’amarvi con tutta l’anima. Oh, se aveste potuto vedervi allora, non disprezzo, ma pietà avreste sentito per me. E ora» continuò, rattenendolo con una mano «sebbene, posto da parte ogni riserbo, io sia arrivata a dirvi di queste cose, sappiate che i vostri sentimenti verso di me io già li conosco. Io non vorrei, essendo nobile di nascita, tediarvi con dimostrare l’utilità di un consenso da parte vostra. Io pure ho il mio orgoglio, e vi dichiaro davanti la santa Madre di Dio, che se voleste tornare sulla parola data, quant’a me, ho tanto desiderio di sposare voi quanto di non sposare… il lacchè di mio zio».
Denis sorrise un poco amaro.
«Gli è un piccolo amore» disse «che adombra un piccolo orgoglio». Ella non rispose, ma assai probabilmente aveva formulato il suo pensiero.
«Qua, venite alla finestra» ella disse, additandogli uno di quei finestroni. «Guardate: è l’alba!».
Infatti l’alba era di già levata. La volta del cielo era tutta soffusa dell’essenziale luce del giorno, nitida ma ancora scolorita, e la valle sottostante era percorsa tutta da un grigio riflesso. Radi e lievi vapori stavano covigliati nell’insenature della foresta, o strisciavano via lungo il corso serpeggiante del fiume. Tutta la scena emanava un’ineffabile sensazione di pace che appena venne turbata quando i galli cominciarono a innalzare il loro canto dalle fattorie. E forse tra essi era quel medesimo compare che, mezz’ora prima, aveva gettato così orrido strido nell’oscurità della notte, e ora alzava più gaio il suo saluto ad accogliere la venuta del giorno. Fra gli alberi della vallata un venticello si levò tutt’affaccendato, vorticante. Poi, grado grado, dall’oriente, la luce venne inondando ogni cosa: finché diventò incandescente, e spremé fuori, rossa palla di cannone, il sole.
Denis guardava giù tutte quelle cose con un poco di brivido. Aveva preso tra le sue le mani della fanciulla e la ratteneva lì, quasi inconsciamente.
«Di già fa giorno!» ella esclamò; poi, alquanto incongruente:
«La notte è stata così lunga… Ahimè, che diremo allo zio quando ritornerà?».
«Ciò che vorrete» fece Denis, e strinse le piccole dita fra le sue. Ella taceva.
«Bianca…» egli ripigliò con un concitato incerto accento pieno di passione «avete veduto com’io temo la morte. Ora dovete saperlo bene che io sarei felice di gettarmi da questa finestra quanto lo sarei di mettervi pur un dito addosso senza il vostro consenso. Ma, se un poco vi date pena di me, non fate ch’io abbia a far getto della mia vita per un semplice equivoco; poiché io vi amo, Bianca, più del mondo intero; e, per quanto abbia caro morire per voi in tutt’allegrezza, mi parrebbe godere tutte le gioie del Paradiso s’io potessi continuare a vivere accanto a voi, dedicare la mia vita interamente a voi…».
Aveva appena cessato di parlare che, dall’interno della casa, una campana cominciò a rintoccare pesantemente, e un frastuono d’armati si sparse per il corridoio: il che attestava che le guardie ritornavano ai loro posti, e che le due ore eran scorse.
«Ebbene, avete sentito?» ella mormorò piegandosi verso di lui, tutta labbra e occhi.
«Non ho sentito nulla» rispose Denis.
Ella gli sussurrò all’orecchio:
«Il capitano si chiamava Florimond de Champedivers».
«Non l’ho mai udito nominare» egli rispose; e, pigliando fra le sue braccia l’elastico corpo della fanciulla, ricoprì di baci l’umido viso.
Dietro loro s’udì un melodioso gorgheggìo seguito da una risatina soffocata, poi la voce del Sire di Malétroit che augurava buon dì al suo nuovo nipote.

In attesa di Charlie, di Lily King

Fazi Editore porta in libreria i racconti di Lily King, autrice statunitense dallo stile caustico e intelligente. In Cinque martedì d’inverno, una serie di splendide storie raccontate dalle voci intime di personaggi complessi, Lily King esplora con eleganza il desiderio, la perdita e l’inesorabile spinta verso l’amore. Romantica, piena di speranza, brutalmente onesta e capace di costruire interi mondi in pochi tocchi, l’autrice si conferma una delle più grandi narratrici del nostro tempo.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.



In attesa di Charlie
di Lily King

Tutti gli avevano detto di parlarle «normalmente». Ma come faceva, se la testa rasata era abbandonata in direzione della finestra, se il camice dell’ospedale si era allentato e lasciava intravedere un torace lentigginoso e piatto come una tavola da stiro, coi grossi seni che ricadevano ai lati; se era appoggiata ai cuscini sotto un cartello che diceva: «LA PZ NON HA OSSO SUL LATO DESTRO DEL CRANIO». Gliel’avevano asportato per via dell’infiammazione dopo l’incidente. Altrimenti sarebbe morta. Ora, a distanza di settimane, il gonfiore era scomparso e quel lato della testa era incavato, come un melone marcio. Si era abituato ai propri deterioramenti: l’anca, i polmoni, la pelle che si lacerava come un fazzoletto di carta bagnato. Doveva dormire con l’ossigeno. Sanguinava senza una ragione, attraverso i vestiti. Ma vedere questa ragazza di neanche venticinque anni malconcia al punto di non avere ripreso conoscenza era una cosa a cui non si sarebbe mai abituato. Non sarebbe mai più tornato lì. Mai più.
Si fa presto a dire «normalmente».
«Ciao, Charlotte». Attese che si girasse e lo salutasse. Certo, conosceva bene le circostanze, ma quando mai negli ultimi novantun anni aveva rivolto la parola a qualcuno in una stanza silenziosa senza ricevere risposta? Parlò più forte. «Ho detto: “Ciao, Charlotte”». Era sicuro di farla rinsavire, nell’ora che gli era stata assegnata. Nella vita aveva fatto cose ben più eccezionali.
Lo sapeva: i suoi nipoti avevano paura di lui. O ne avevano avuta. Era stato un uomo grosso, col vocione. Non gli piaceva che masticassero gomme e che rispondessero male. Ora si dispiacque per tutte le volte che aveva detto a quella nipote che aveva i capelli troppo corti, che già non stava bene che si facesse chiamare Charlie. Ma a volte i bambini avevano bisogno di una guida.
C’era una sedia vicino alla finestra. L’avvicinò a sé e vi sedette.
«Charlotte, sono tuo nonno. Sono venuto fin qui da solo per stare con te. Ti ordino di svegliarti. Hai dato troppe preoccupazioni a tutti quanti». Rammentò che sua moglie gli aveva detto di non dire niente di negativo e proseguì: «Sei un’attrice bravissima, ma adesso basta».
Ci fu uno schiocco deciso, come di una cosa dura e secca che si spaccava in due. Vide la bocca larga di un tubo posato sulla clavicola di lei. Riconobbe lo stesso apparecchio dell’ultima operazione che aveva fatto. Pompava nell’aria il quindici per cento d’ossigeno in più e l’aveva fatto sentire al sicuro. Sembrava che non sfregasse contro niente, se non la pezzuola che c’era sotto. La mandibola di Charlotte si mosse e ci fu un altro schiocco. Arrivava dall’interno della sua bocca.
«Ehi, questo non si fa». Le mise le mani sulle guance. Aveva la pelle scivolosa per il sudore. Tra le sue dita, il mento di lei dondolò ancora da un lato all’altro, emettendo quel rumore orribile. Ebbe paura di scoprire che aveva tutti i denti rotti, ma quando le aprì la bocca erano a posto. Li conosceva bene, quei denti. Charlotte aveva passato un’intera estate con lui: l’estate in cui le sue sorelle più grandi erano andate in campeggio e i suoi genitori avevano divorziato. Aveva otto anni: i denti o le crescevano o cadevano. Gli faceva vedere gli ultimi sviluppi quasi tutte le sere. Era stata una bambina paurosa, ma da grande era diventata una ragazza audace e sicura di sé. Troppo, forse. I suoi nipoti erano tutti troppo sicuri. Quando li criticava per questo, per l’aggressività, l’avventatezza, ridevano. «Da che pulpito», dicevano. Aveva visto una foto della discesa dov’era caduta. «Io non sarei andato su quella pista. Troppo ripida, troppo gelata, si vedevano le rocce nude. È stata una stupidaggine». Pazienza. Bisognava sgridarla. Forse non ne poteva più della gente che veniva a farle tante moine, sdilinquirsi e compatirla.
Aveva bisogno di una mano ferma. «Una vera stupidaggine».
Su una lavagnetta bianca davanti al letto, davanti al cartello che diceva del cranio, le sorelle avevano scritto col pennarello cancellabile: «Buongiorno, Charlie! Oggi è sabato 15 febbraio. Hai avuto un incidente mentre sciavi. Noi siamo da papà e torniamo presto. Non vediamo l’ora di vederti!». Su tutta quella parete c’erano fotografie, poster, disegni, poesie e lettere. Poi c’erano le rose rosse e un mucchio di biglietti di San Valentino sul termosifone.
C’erano anche vari flaconcini di vetro in un cestino sul davanzale. Uno era pieno di grani rossi. Lo rigirò; sull’etichetta c’era scritto: «PEPE ROSA INTERO». Gli altri erano liquidi: «ACQUA DI MARE», «GRANATINA», «ACETO».
«Come andiamo?».
C’era un’infermiera sulla porta. Cercò di pensare se avesse bisogno di qualcosa, poi ricordò che non era lui il paziente.
L’infermiera vide il cestino sulle sue ginocchia. «Pensava di farle un po’ di aromaterapia?».
«No».
«Sa», disse lei, come facevano sempre le infermiere, completamente assuefatte alla resistenza, «il terapeuta non viene la domenica, quindi potrebbe essere una bella idea. Basta che tolga il tappo da un flacone e glielo faccia annusare un pochino. Gli odori sono incredibili. Liberano i ricordi più in fretta e più intensamente di qualsiasi altro tipo di stimolante sensoriale».
Scelse un flacone con l’etichetta strappata. Svitò il tappo e un profumo di limoni pervase la stanza. Lo respirò avidamente. Era un odore buonissimo. Pensò alle sue tre nipoti in estate, quando mettevano le sedie pieghevoli arrugginite in giardino e si spremevano i limoni sui capelli bruni. Dopo il divorzio si fermavano spesso a dormire da lui, malgrado l’appartamento di suo figlio si trovasse a pochi isolati. Dicevano che i letti erano più comodi. Le mise il flacone sotto il naso. Non ci fu nessuna reazione. «Charlotte, ti ricordi Dennis Wight? Ha chiesto di te, l’altro giorno».
Una volta in piena notte aveva trovato Dennis in una delle sedie pieghevoli; russava così forte da tirare giù un intero piano della casa. Il ragazzo aveva aspettato di intravedere Charlie attraverso uno strappo della tenda nella camera degli ospiti.
«Voi bambine vi abbronzavate tanto. Avevate striature d’oro nei capelli». Senza bisogno di guardare percepì la desolazione di febbraio dall’altra parte della finestra, le pozzanghere di fango mezze ghiacciate nel parcheggio di sotto. «L’estate è una bellissima stagione, Charlie». «Sicuramente».
Si era dimenticato dell’infermiera. Si domandò cosa aveva detto e a cosa aveva solo pensato. Rimise il tappo al limone e tirò fuori i grani di pepe. Non avevano odore.
Se li mise sotto il naso. Niente. Scosse il flacone, annusò e gli esplose la testa. Tossì, starnutì, si asciugò gli occhi con il fazzoletto. Nel frattempo l’infermiera rise. Lui desiderò che se ne andasse all’inferno.
Tenne il flacone verso Charlie, che continuò a respirare lievemente senza reagire. Aveva visto tanti morti in guerra, eppure mai, in quella lunga vita, una cosa così agghiacciante come la faccia che aveva davanti adesso. Tutti i muscoli erano diventati flaccidi. La carne sembrava gelatina. Il mento ammassato sul collo; le guance che ricadevano sulle orecchie. Le si erano appiattite persino le narici. Fisicamente aveva perso tutto quello che un tempo l’aveva caratterizzata. Guardò da un’altra parte, le proprie gambe. I vecchi calzoni marroni si gonfiavano come una sottana; gli orli toccavano terra. La cintura dal cuoio logoro al primo buco adesso era chiusa all’ultimo. Tra poco doveva fargliene un altro. Si stavano staccando tutti e due dal loro corpo. E senza il corpo cosa siamo noi? Aveva mai creduto veramente all’anima?
Scosse forte il flacone e continuò finché la sentì inspirare. Lui starnutì quattro volte; e ricordò i raggi del sole, il polline e i libri impolverati, ma non ebbe effetto su di lei.
L’estate del divorzio dei suoi genitori era andata di stanza in stanza dicendo che si annoiava.
«Non ti annoi, lì dentro, Charlie? Non ti annoia da matti questo coma?».
L’infermiera si allungò sopra il letto e gli mise una mano sul braccio. «Non dica così».
«Non posso dire “coma”? È una parolaccia qui?».
«Potrebbe farle paura».
«È lei che fa paura a me».
Non si lamentava così da quand’era bambino. «Forse adesso è ora di andare».
«No. Per me no. Non è ora di andare per me». Sentì come gli batteva veloce il cuore e capì di doversi calmare. Rovistò nel cestino e trovò una boccetta di liquido blu con scritto «DOPOBARBA» sull’etichetta. La aprì e inspirò i balli di quand’era giovane, il bagno della casa di sua madre e suo padre, suo fratello Tom che monopolizzava il lavandino e il profumo della propria colonia fra i capelli di una ragazza alla fine della serata. Non era mai stato religioso, ma sapeva che, se a Charlie fosse successo qualcosa, Tom sarebbe stato ad aspettarla. Ora dovevano avere più o meno la stessa età. Tom era morto a ventiquattro anni soltanto. Gli sembrava impossibile aver vissuto per sessantasette anni senza di lui.
Finse un altro attacco di tosse e si asciugò gli occhi. Era troppo. Troppe perdite inutili. Era sempre stato così. Tenne il dopobarba sotto il naso piatto di Charlie. Lei inspirò lentamente e aprì un occhio. Le scese la pupilla e lo guardò diritto. Restò troppo sbalordito per salutarla. Ma eccola. Ci era riuscito.
«Succede», disse l’infermiera. «Apre solo quell’occhio. Sempre quello».
Docilmente, l’occhio iniziò a percorrere la stanza in lungo e in largo. Quando rifece il giro e tornò su di lui, la salutò con la mano e sorrise come davanti a una macchina fotografica. Nessuno, nemmeno gli specialisti, con quel gergo complicato e tutti i macchinari, sapevano se Charlie era ancora lì con loro. Rimise a posto il flacone blu e pescò ancora nel cestino, distrattamente. Ma non era certo di avere la forza di fargliene sentire un altro e fu sollevato quando l’infermiera disse che tre in una volta erano più che sufficienti.
«Erano buoni odori, vero, Charlie?», disse l’infermiera; poi le controllò i parametri vitali e se ne andò.
La sua presenza era stata una seccatura, ma quando non ci fu più la stanza sembrò svigorita e disabitata. Prese la mano di sua nipote, una mano stretta a pugno sul petto di lei, e cercò di pregare. Non aveva mai imparato a pregare. Sapeva solo supplicare. Supplicò che questa bambina fosse risparmiata, ma anche nella piccola cavità della sua mente la sua voce fu flebile.
Si rimise sulla sedia. Non aveva notato il gigantesco orologio. Gli erano rimasti quaranta minuti.
Fuori, in corridoio, passava continuamente gente. Ogni tanto infermieri e OSS deceleravano e lanciavano un’occhiata dentro, perché erano stati informati del vecchissimo signore in visita nella 511.
«Sono un arrogante», sussurrò. «Credevo che fosse più facile».
Era una bella stanza, più grande di tutte quelle che aveva avuto lui in quell’ospedale. Ormai gli ospedali avevano un che di confortante. Gli piacevano l’ambiente, le voci all’altoparlante che dicevano nomi di gente sconosciuta, il vapore che usciva dal tubo dell’ossigeno, la spia luminosa del pulsante di chiamata vicino al letto, il rollio dei carrelli e delle sedie a rotelle in corridoio, l’odore di pulito e di sterile. Lì si sentiva più protetto che a casa, dove gli incidenti erano in agguato, dove l’assistenza era dalla parte opposta della città. Qui la morte sembrava lontana, lontanissima.
La sedia era comoda. Una pioggia leggera cominciò a picchiettare sulla finestra. Avvertiva l’ossigeno aggiunto nella stanza e lo respirò con gratitudine. Gli venne sonno, un sonno denso e lento, e subito prima di cedere sentì che il ritmo del suo respiro si adagiava su quello di Charlie, si adagiava in un posto più facile, più semplice, dove forse finalmente si sarebbero ritrovati.


Allevata dai lupi, di Simon Rich

Nottetempo porta in libreria Il grande sonnellino, di Simon Rich, tradotto da Alessandra Castellazzi.
Strappandoci a ogni frase una risata, queste storie raffinate e irresistibili raccontano l’approdo alla vita adulta, i cambiamenti di sensibilità del mondo che ci circonda e le assurdità che caratterizzano ogni famiglia. Definito “lo Stephen King della scrittura umoristica”, Simon Rich compone con la sua arte comica un indimenticabile mosaico della società contemporanea.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.


Allevata dai lupi
di Simon Rich

Nel 2003 un gruppo di cacciatori trovò in Siberia una giovane donna che apparentemente era stata allevata dai lupi. Gli scienziati non riuscirono a rintracciare le origini della bambina, ma una visita medica stabilì che aveva all’incirca diciotto anni ed era in condizioni di salute sorprendentemente buone, considerate l’infanzia e l’adolescenza fuori dal comune. I ricercatori chiamarono la donna “Lauren” e collaborarono con le autorità affinché potesse integrarsi nella società umana.
Con un certo sforzo, Lauren riuscì a mettersi in pari con i coetanei, nella sfera sociale e intellettuale. Ottenne una laurea e a trentacinque anni era ormai sposata con un assicuratore di nome Gabe e aveva partorito una figlia in buona salute. Aveva smesso di interagire con i lupi che l’avevano allevata, tranne quando andavano a farle visita per il giorno del Ringraziamento.

Lauren stava valutando se prendere un Clonazepam quando suo marito entrò a passo strascicato, arrancando sotto il peso di un alce morto. “Non ce n’era bisogno,” disse Lauren.
“È il minimo!” disse Gabe con un’allegra vocetta da boy-scout.
“È davvero gentile da parte loro venire fin qui”. Scaricò la carcassa sul tavolino da caffè, mandando in frantumi diverse ciotole di noccioline e olive.
Lauren sospirò.
“Che c’è che non va?” chiese Gabe.
“È solo che non riesco a capire perché dobbiamo sempre adattarci ai loro comodi”.
Gabe le lanciò un’occhiata di rimprovero.
“Perché sono i tuoi genitori. E sono nostri ospiti”.
Lauren si ficcò in bocca il Clonazepam e lo mandò giù con una sorsata di pinot grigio.
“Senti, capisco,” disse Gabe. “È dura coi genitori. Anche i miei mi fanno impazzire. Mio padre, con quei giochi di parole? È terribile”.
“Penso che i miei siano peggio,” disse Lauren. “Cioè, crescere con loro è stato un incubo in piena regola”. “Forse ne hai un ricordo peggiore di com’è stato?”
“È tutto documentato dagli scienziati,” disse lei, la voce venata di frustrazione. “Ci sono diversi libri al riguardo e anche un documentario che ha vinto dei premi”.
Gabe le massaggiò le spalle in un modo che riuscì a farla sentire persino più tesa. “So che i tuoi non sono perfetti,” disse. “Ma si sono fatti tutto il viaggio dalla Siberia. Hanno corso e nuotato per mesi, e nel giro di mezz’ora si leveranno di torno. Il minimo che possiamo fare è essere cortesi, o sbaglio?”
“Immagino di sì,” disse lei.
“Fantastico!” disse lui, suggellando il patto con un bacio accondiscendente sulla fronte. “E poi, potrebbe essere divertente. Dai, devi ammettere che le storie di tuo padre sono leggendarie”.
Lauren sorrise a denti stretti mentre Gabe vorticava nel salotto, disponendo tovaglioli e tele cerate. Gli aveva raccontato tutto della sua infanzia incasinata.
I latrati, i ringhi, l’assoluta mancanza di struttura e supporto. I suoi genitori non erano mai stati violenti, ma l’ambiente domestico era comunque disfunzionale.
La sua psicologa l’aveva confermato. “Non ti vedevano,” le aveva detto. “E non ti ascoltavano”.
Eppure, benché Gabe sapesse delle trasgressioni dei suoi genitori, non vi aveva mai assistito. I genitori di Lauren si erano notevolmente addolciti con l’età. Dopo l’ictus suo padre aveva smesso di ululare alla luna e nonostante un paio di false partenze sua madre era riuscita a rinunciare all’alcol. Lauren sapeva che avrebbe dovuto sentirsi grata per quei progressi, ma in qualche modo la irritavano. Riabilitandosi, i genitori le avevano tolto un pubblico per le sue sofferenze. L’ennesima deprivazione: l’ultima di una serie che si estendeva a ritroso fino all’infanzia.
Si udirono in lontananza due penetranti ululati canini.
“Credo siano loro,” disse Gabe.
“Gli apri tu?”
“Vai pure tu,” rispose lei.
Rabboccò il bicchiere di vino fino all’orlo. Sentiva i suoi genitori ridere con Gabe nell’ingresso, mentre si scambiavano i soliti convenevoli sul viaggio. Voleva ritardare l’incontro il più a lungo possibile, ma i suoi genitori la fiutarono subito ed entrarono a grandi falcate nel salotto.
“Scusa il ritardo!” disse sua madre. “Sai com’è tuo papà – non voleva chiedere indicazioni!”
“È un bene che con me ci sia la mia dolce metà!” disse lui.
Lauren rabbrividì mentre i suoi genitori si strofinavano il naso l’un l’altra.
Quando era piccola, suo padre tradiva in continuazione sua madre, con le amiche, con le vicine, e una volta con un tronco d’albero bucato. E ora erano disposti a fingere che avessero un matrimonio perfetto? “Allora, come vanno le cose?” le chiese suo padre. “Il lavoro?”
“Va bene,” disse Lauren.
Ci fu una pausa di due secondi, che Gabe si affrettò a riempire. “Il lavoro va più che bene,” disse, colpendo Lauren al braccio con un fastidioso eccesso di forza. “Tesoro, raccontagli la grossa novità!”
“Non è niente,” disse Lauren.
“Non è vero che non è niente,” protestò Gabe.
Si girò verso i genitori di Lauren e la indicò come il presentatore di un quiz televisivo. “State parlando con la nuovissima Responsabile Marketing di zona per le Comunicazioni di Verizon!”
I genitori di Lauren le saltarono addosso e le leccarono la faccia. “Siamo così orgogliosi di te!”
“Grazie,” disse Lauren.
“Allora, che significa?” chiese suo padre. “Potrai cacciare animali più grossi?”
“Non sono una cacciatrice,” disse lei. “Lavoro per Verizon. È una compagnia di telecomunicazioni”.
“Ah, capito,” disse lui, abbassando gli occhi. “Scusa se mi sono sbagliato”.
“Non ti sei sbagliato,” gli disse Gabe in tono rassicurante. “Ha ottenuto un aumento del venti per cento, che è un po’ il corrispettivo umano di cacciare animali più grossi. Giusto, tesoro?”
“Bah, immagino di sì,” disse Lauren evasivamente.
“Be’, è fantastico!” disse sua madre. “Non mi stupisce. Lo dicevamo sempre: ‘Ecco Lauren, il nostro genietto!’”
“Ah,” disse Lauren.
Gabe le lanciò un’occhiata di avvertimento, che lei ignorò.
“Cosa?” chiese sua madre.
“Niente,” disse Lauren.
“Tranquilla,” disse sua madre. “Dì pure”.
“È che non ricordo di avervelo mai sentito dire,” disse. “Da quel che ricordo, anzi, non mi avevate neppure dato un nome”.
I suoi genitori chinarono la testa.
“Qualcuno vuole assaggiare le chiappe di questo alce morto?” chiese Gabe.
“Grazie,” disse suo padre. “Ma non ho molto appetito”.
“Ok, mi dispiace,” disse Lauren, alzando gli occhi al cielo. “Non avrei dovuto dire niente. Avrei dovuto ricordare la regola di famiglia: mai e poi mai affrontare un argomento scomodo”.
Il padre di Lauren mise la coda tra le zampe. “Forse abbiamo sbagliato a venire qui,” mormorò. “Forse dovremmo saltarcene fuori dalla finestra”.
Lauren scrollò le spalle. “Non sarebbe la prima volta che te ne vai”.
“Tesoro,” disse lui supplichevolmente. “Ne abbiamo già parlato dalla psicologa. Il motivo per cui ho lasciato la famiglia non c’entrava niente con te. È stato un periodo di confusione. Credevo che quel tronco bucato fosse tua madre. Davvero, credevo che il legno fosse il suo corpo e il muschio la pelliccia. È stato un periodo folle della mia vita. Avevo la rabbia”.
“E allora io adesso dovrei dispiacermi per te?” chiese Lauren. Malgrado il vino e il Clonazepam, le tremavano le mani.
“Non chiediamo la tua compassione,” disse sua madre. “E se c’è qualcosa che vuoi dirci, siamo qui per ascoltarti. Vero, caro?”
“Sì,” disse suo padre. “Siamo pronti a onorare le tue emozioni”.
Lauren serrò i pugni; odiava quando parlavano come un libro di psicologia.
“Cominciamo dal mio abbandono,” disse il padre. “Dimmi perché ti turba così tanto”.
“Oh, non so,” disse Lauren sarcastica. “Forse perché era il giorno del mio cazzo di compleanno?”
I suoi genitori si guardarono di sottecchi.
“Fatemi indovinare,” disse Lauren. “Non ve lo ricordate”.
“Onestamente no,” disse suo padre.
“Allora stai dicendo che me lo sono inventato?”
“Non è quello che sto dicendo!” disse lui, alzando le zampe sulla difensiva. “Sicuramente può essere andata come ricordi. Sto solo dicendo che io ricordo diversamente”.
“Ok, bene,” disse lei. “Come ricordi il giorno in cui te ne sei andato?”
“Be’ – ripeto, potrei sbagliarmi. Stiamo parlando di un fatto accaduto molto tempo fa, e il mio cervello ha le dimensioni di una pigna, e non ho alcuna comprensione del tempo e dei numeri. Ma io ricordo che quel giorno stavo camminando nei boschi. E poi il grande dio giallo che vive nei cieli ha cominciato a splendere rovente. E poi c’è stato un odore, tipo: ‘Ok, è ora di andare’. E così ho corso fino al posto bagnato dove fa freddo. Ripeto, potrebbe non essere una descrizione perfettamente accurata di come sono andate le cose. Ma è come me lo ricordo”.
“Ricordo anch’io così,” disse sua madre.
“Tutto questo non ha senso,” disse Lauren. “Ogni volta è così frustrante”.
“È frustrante anche per noi!” disse suo padre. Sospirò. “Mi dispiace di aver ringhiato. Ero sommerso”.
“Non preoccuparti,” disse Lauren. “Continua”.
“Grazie,” disse lui. “Il punto è: so che non siamo stati i genitori migliori del mondo. Eravamo giovani, ed eravamo lupi, e non sempre sapevamo cosa stavamo facendo. Ma quando ci vediamo non facciamo che scusarci, ancora e ancora, e non è semplice. Per farlo abbiamo dovuto imparare a parlare la vostra lingua, che ci gratta la gola e ha un suono assurdo. Sentire la voce che mi esce dalla bocca in questo momento… è così innaturale e inquietante. Perciò se vuoi ancora sentirci dire che ci dispiace, con queste strane voci da animali strozzati, lo faremo. Perché siamo dispiaciuti. Ma a un certo punto… la palla passa a te”.
Nella stanza cadde il silenzio, che permise a tutti loro di sentire uno squittio in lontananza.
“Sembra proprio che qualcuno si sia svegliato!” disse Gabe, grato di avere una scusa per fuggire dal salotto. Tagliò la corda e tornò poco dopo tenendo in braccio Haley, la figlia di tre anni, che stringeva una pallina arancione – la fonte dello squittio. Aveva gli occhi annebbiati dal sonno, ma quando vide i nonni cacciò uno strillo e seppellì la faccia nella loro pelliccia.
Lauren era sorpresa che Hailey si ricordasse di loro. Aveva passato pochissimo tempo insieme a loro, soltanto il Ringraziamento dell’anno precedente e il Memorial Day in cui l’avevano spedita in aereo in Siberia perché la sorella di Gabe si sposava, e non c’erano altri bambini al matrimonio, e quella era la soluzione più semplice. Lauren si era aspettata che Hailey provasse nostalgia di casa quel fine settimana nella tundra, ma per qualche motivo si era divertita. Ovviamente non guastava il fatto che i nonni l’avessero viziata all’inverosimile. Lauren aveva chiesto che mettessero dei paletti a Haley sull’uso dello schermo, ma le avevano lasciato guardare tutti i cartoni animati che voleva. Sostenevano di non avere idea di cosa fosse uno schermo e di non saper distinguere tra un iPad e qualsiasi altra superficie riflettente, come una pozzanghera o un occhio. Lauren sospettava che mentissero, ma per qualche motivo quell’indulgenza l’affascinava. Nel modo in cui coccolavano Haley percepiva il loro desiderio di rimediare al passato, una consapevolezza subconscia che dovessero riparare dei torti. Haley lanciò la pallina arancione dall’altra parte della stanza e i nonni corsero obbedientemente a prenderla. Per Lauren era surreale vedere i suoi genitori così docili, ma ovviamente per sua figlia aveva perfettamente senso. Ai suoi occhi non erano una coppia di lupi feroci. Per lei erano soltanto Nonno e Nonna.
Un giorno avrebbe dovuto raccontare a Hailey la verità sulla sua infanzia, e il trauma che aveva subito. O forse no. Forse avrebbe raccontato una storia diversa, incentrata sulle cose che dopotutto avevano azzeccato. Il modo in cui le avevano dato un riparo, l’avevano nutrita e protetta dai falchi. Malgrado la disfunzionalità complessiva, alla fine era cresciuta bene. In qualche modo, le mancanze dei suoi genitori avevano persino contribuito al suo successo (sapeva, per esempio, che il saggio su di loro era stato un fattore decisivo nell’ammissione alla Brown).
Haley stava per lanciare di nuovo la pallina, quando invece si avvicinò alla mamma. “Ora Mamma lancia,” disse, ficcandole la pallina fradicia nel palmo.
Lauren se la rigirò tra le mani. Difficile dire se la bava fosse della bambina o dei suoi genitori. A Haley stavano spuntando dei denti nuovi. Di recente Lauren l’aveva portata dal dentista ed era rimasta sconvolta dalla radiografia alla mascella di sua figlia. Non c’era niente di eccezionale, ma era inquietante vedere tutti i denti adulti innestati nel cranio, una vita intera di canini e molari che aspettavano il momento giusto per emergere. Prima che quei denti perforassero la gengiva sarebbero passati anni, in alcuni casi decenni, scanditi da apparecchi odontoiatrici, retainer ed estrazioni. Perché gli umani non potevano nascere già pienamente sviluppati, dotati di tutto il necessario? Perché ci volevano così tanto tempo e dolore per crescere?
Guardò i suoi genitori, ora accucciati sul tappeto in una posa deferente. La loro età equivaleva a quattrocento anni umani. Si chiese come fossero stati cresciuti. Allevati anche loro dai lupi, ovviamente. Non parlavano mai dei propri genitori, e solo adesso Lauren si accorse di non aver mai fatto domande al riguardo. Sollevò la palla e i suoi genitori la fissarono con occhi gialli e stanchi. Il respiro era affannoso, ma le pupille concentrate, seguivano la palla che lei muoveva esitante nell’aria. Li sentiva uggiolare appena, come due cuccioli che implorano per gli avanzi. “Lancia, Mamma,” supplicò Hailey. “Lancia”. Lauren alzò la palla, avvertendone il peso denso e appiccicoso. Poi fece un respiro profondo e allentò la presa.

Ragazzacce, di Barry Gifford

Jimenez edizioni porta in libreria Il mondi di Roy, di Barry Gifford, tradotto da Michele Carpi. Il mondo di Roy raccoglie i racconti brevi, a volte brevissimi, che Barry Gifford ha scritto nel corso di decenni, tutti con protagonista il giovane, irresistibile Roy, suo palese alter ego. Il mondo di Roy è, a suo modo, il romanzo di formazione che Barry Gifford non ha mai scritto: una carrellata di diapositive piuttosto che un film, una storia che procede in modo ellittico, che mescola realtà e immaginazione e che dà forma, come in un sogno, a ricordi e desideri, speranze e paure, per tornare sempre lì dove solo la buona letteratura sa arrivare, nel cuore del personaggio e del lettore.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.


RAGAZZACCE
di Barry Gifford

Jimmy Boyle chiese a Roy di accompagnarlo ad Uptown a incontrare una ragazza che aveva conosciuto il sabato prima al cinema Riviera.
«Perché non ci vai da solo?» domandò Roy.
«Ha detto che viene con un’amica» disse Jimmy.
«Ho bisogno che mi dai una mano, che ci parli tu con la sua amica».
«Sono delle buzzurre?».
«Penso di sì. Babylonia mi ha detto che la sua famiglia si è trasferita qui dal West Virginia».
«Babylonia? Si chiama Babylonia?».
«Sì, ma dice che tutti la chiamano Babs».
«La maggior parte di quelli che si sono trasferiti qui dagli Appalachi vivono ad Uptown» disse Roy.
«Babs mi ha detto che fino ai dieci anni ha vissuto in una città così piccola che non c’era neppure un semaforo, poi si sono trasferiti a Wheeling e sono rimasti lì fino a un anno fa. Sono arrivati a Chicago il giorno dopo che aveva compiuto tredici anni».
«Com’è?». Jimmy fece un’alzata di spalle.
«Non so. Capelli castano chiaro, occhi azzurri, un po’ magrolina. Ma la sua pelle è bianca come una statua. Più bianca del latte».
«Dove dovresti incontrarla?».
«Sulla Kenmore, dietro il Graceland Cemetery, all’una. Lei dice ai suoi che va al cinema con l’amica». «Perché il cimitero?».
«Credo abiti lì vicino».
Era metà novembre ma non faceva troppo freddo. Nel cielo, completamente grigio, non si vedeva volare neanche un uccello, cosa che fece sentire Roy come se fosse uno degli ultimi sopravvissuti in un pianeta in agonia. Lui e Jimmy Boyle si avviarono dalla Ravenswood alla Montrose, svoltarono a sinistra e si diressero verso Kenmore Avenue. Le strade erano vuote come il cielo.
«E se non vengono?» disse Jimmy.
«Ce ne andiamo a fare un giro al Loop, e magari incontriamo lì qualche ragazza».
Non c’era nessuno all’angolo tra Kenmore e Montrose, così i ragazzi si diressero verso sud e camminarono lungo il lato est del cimitero.
«Conosci qualcuno sepolto qui?» domandò Jimmy.
«No. Papà è stato seppellito al Rosedale».
«Eccole» disse Jimmy. «Te l’ho detto che sarebbe venuta».
A metà dell’isolato c’erano le due ragazze, entrambe con un foulard nero intorno alla testa, caban blu, gonna corta nera con calze nere e scarponcini neri. Una delle due stava fumando una sigaretta. «Ragazzacce» disse Roy.
«Lo spero» disse Jimmy Boyle.
Quando furono più vicini, Roy notò che la ragazza che fumava aveva in bocca anche una gomma da masticare. Aveva i capelli neri e gli occhi neri. L’altra era quella di Jimmy. «Ciao, Babs» disse Jimmy Boyle. «Lui è Roy».
«Ciao, Jimmy» disse Babs.
«Ciao, Roy. Lei è Sunny».
«Sunny con la u o con la o?» domandò Roy.
Sunny si tenne il gomito destro con lamano sinistra. Aveva la sigaretta nella destra e non sorrideva. Fece schioccare la gomma da masticare. «Lei lo scrive con la u» disse Babs.
«Roy come Roy Rogers» disse Sunny.
«Roy Rogers è adorabile» disse Babs.
«Mia madre dice che è mezzo indiano».
Sunny si era truccata per nascondere dei brufoli sulle guance e sul mento, ma Roy pensò che era bellissima, addirittura bella come Gene Tierney. Aveva sentito dire dalla madre del suo amico Frankie, una che leggeva un sacco di riviste hollywoodiane, che Gene Tierney era pazza e che periodicamente dovevano ricoverarla in manicomio. Comunque, Sunny era molto più carina di Babs, anche se quello che aveva detto Jimmy sulla pelle di Babs era vero.
«Andiamo da qualche parte?» domandò Babs.
«Dove volete andare?» disse Jimmy.
«Ho fame» disse lei.
«Andiamo da Billy the Greek’s a Irving Park. Possiamo tagliare per il cimitero».
Jimmy Boyle e Babs si avviarono per primi e Roy e Sunny gli andarono dietro. Dopo un minuto, Sunny disse a Roy: «Sono greca. I miei vengono dal Pireo. Ma mi hanno avuta qui, quindi sono greco-americana».
«Anch’io sono americano di prima generazione» disse Roy. «Mio padre veniva da Vienna, in Austria».
«Non credo di avere mai conosciuto qualcuno dell’Austria».
Sunny gettò via la sigaretta. Era alta quasi quanto Roy. «Quanti anni hai?» chiese lui.
«Quattordici, come Babs. E tu?».
«Quattordici e mezzo».
Proseguirono un altro minuto senza parlare, poi Sunny disse: «Ti piacciono i cimiteri?».
«Non da quando papà è morto» disse Roy.
Sunny si fermò e poggiò la mano destra sull’avambraccio sinistro di Roy. Si fermò anche lui. «Oh, Roy, mi spiace avertelo chiesto».
Roy la guardò negli occhi. Erano marrone scuro con una sfumatura di rosso. «È tutto a posto» disse. «È morto un paio di anni fa».
Sunny intrecciò il braccio destro al sinistro di Roy, e ripresero a camminare. Con la sinistra si tolse la gomma di bocca e la lanciò a terra. «Mia madre è morta un anno fa» disse Sunny, «quando io stavo al Chicago Parental».
«Sei stata in riformatorio?». Sunny annuì.
«Per cosa?».
«Assenteismo cronico».
«Che vuol dire cronico?».
«Vuol dire che facevo sega a scuola troppo spesso» disse Sunny. «Ero sconvolta, perché mamma stava male e io non potevo fare niente per aiutarla. Suo marito? Non è mio padre. Mio papà, quello vero, è andato in Corea con l’esercito e non è mai più tornato. Probabilmente è ritornato in Grecia».
«Com’è il tuo patrigno?».
«Ah, lui. Un ubriacone. Lavorava al carico dei camion al South Water Market. Ha provato a stuprare mia sorella il giorno del suo sedicesimo compleanno, così adesso è in galera. C’era sempre una brutta aria a casa nostra, e io stavo fuori tutto il tempo. Sono stata al Chicago Parental per tre mesi. Mi hanno fatta uscire quando mia madre è morta e sua sorella, zia Edita, è venuta a vivere con me e mia sorella. È molto gentile». «Vai di nuovo a scuola?».
«Sicuro. Ho la media della B».
Camminavano lentamente, lasciando che Jimmy Boyle e Babs andassero avanti.
«Abbiamo delle cose in comune, Roy. È molto importante, non credi? Voglio dire, se diventeremo amici». «Il tuo patrigno ci ha mai provato con te?».
«Naah. Valeria è più bella di me, e ha già le tette grosse. Per cui non badava molto a me. È ungherese». «Bene, sono contento che ci sia tua zia a prendersi cura di te».
«Suo marito, zio Ganos, un giorno ha dato di matto, non voleva più uscire da un armadio. Quando la polizia ha provato a tirarlo fuori, ha preso uno sbirro a morsi sul naso, gliel’ha quasi strappato via dalla faccia. Mia zia ha detto che a quel poveraccio gliel’hanno dovuto ricucire addosso. Avevo otto anni quando è successo».
«Gesù» disse Roy. «Che è successo a tuo zio?».
«È al Dunning, l’ospedale psichiatrico statale dalle parti di Foster. Probabilmente ci rimarrà per il resto della sua vita».
Quando Roy e Sunny arrivarono a Irving Park, non c’era traccia di Babs e Jimmy. «Saranno già al Billy the Greek’s» disse Roy.
Sunny e Roy erano una di fronte all’altro.
«Roy» disse lei, «vuoi baciarmi?».
Sunny si sporse in avanti e infilò la lingua nella bocca di Roy, poi la fece roteare un po’ di volte.
«Dove l’hai imparato?» chiese Roy.
«Me l’ha insegnato Valeria» disse Sunny. «Una ragazzaccia».

La radio e il ferro da stiro sono spariti, di Pauline Melville

Autore: Pauline Melville
Titolo: Uno di questi due paesi è immaginario
Editore: Tamu Edizioni
Traduzione: Pietro Deandrea
pp. 270 Euro 16,00

La casa editrice Tamu, nata a Napoli nel 2020, esordisce con la narrativa portando in Italia i racconti di Pauline Melville, contenuti nel libro ‘Uno di questi due paesi è immaginario’.
Tra Londra e i Caraibi vanno in scena le metamorfosi di questa raccolta di racconti di Pauline Melville. Tra negozi di spezie africane nella metropoli inglese e caseggiati popolari in desolate città dell'America centrale si muovono i personaggi di queste storie, dove emarginati della working class incontrano carismatiche figure dai poteri soprannaturali e il confine tra sogno e realtà si fa labile tanto quanto la distanza tra le due sponde dell'oceano. Nei racconti, la pura cattiveria della vita quotidiana è compensata da un'immaginazione comica, componendo trame inquietanti e allo stesso tempo divertenti, che giocano con il "caleidoscopio genetico" offerto dalla storia delle migrazioni e del colonialismo.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

LA RADIO E IL FERRO DA STIRO SONO SPARITI
di Pauline Melville

«Sono una naufraga, Molly!»
In piedi sulla veranda, Donella Saunders contemplava l’arida macchia di giardino fino alla casa dei vicini. Una casa che, come la sua, aveva bisogno di una mano di vernice. La bianca costruzione in legno aveva ceduto in vari punti, con la ruggine insinuatasi fin sul tetto di zinco della rimessa. Tra le due proprietà, la recinzione zigzagava coi paletti tutti storti sotto il peso degli ibischi che, non potati, la percorrevano dall’inizio alla fine. Seduta sulla sedia di vimini, la grassoccia donna bianca, con una catenina di punture di zanzara attorno al collo, non diceva nulla.
«Non riesco proprio a spiegarmi perché tu sia venuta», proseguì Donella. «Siamo in una situazione critica, qui. Estremamente critica».
Oltre la cinquantina, la pelle bruna, era una donna alta e incredibilmente magra, con la fronte spaziosa e l’aria di un’eleganza devastata. Si era tirata via dal volto i capelli castani ondulati, appuntandoli alla buona con dei pettini. Faceva cadere la cenere nel giardino con colpetti nervosi, imbronciata, gli occhi fissi di fronte a sé, senza guardare nulla in particolare.

Molly Summers si crogiolava nella soddisfazione di conoscere il motivo preciso per cui lei era lì, nell’assolata capitale della Guyana. Il fine era quello di arricchire la vita dei suoi scolari in Inghilterra. Consapevole solo in parte del malumore dell’altra donna, stava gustando una tazza di caffè freddo e si esaminava i sandali nuovi. Provò a immaginarsi il negozio di scarpe di Finsbury Park dove li aveva comprati, là a continuare la sua solita attività mentre lei era seduta migliaia di chilometri lontano, sull’altra sponda dell’Atlantico. Dal primo momento in cui, già un po’ di anni prima, aveva mormorato «Oh sì, Signore» nel silenzio e nella quiete della Friends’ Meeting House di Muswell Hill, aveva individuato la propria missione: comprendere, promuovere e sostenere la cultura delle razze oppresse in Inghilterra; garantire parità di trattamento almeno per quanto riguardava la scuola elementare Moseley Road – aveva persino proposto (senza successo) di cambiare il nome alla scuola. Ritrosa di natura, vinceva spesso la propria timidezza per fare interventi alle riunioni collegiali. Frequentava tutti i corsi contro il razzismo organizzati dalle autorità scolastiche locali e lanciava occhiate di rimprovero ai colleghi che facevano osservazioni razzialmente ambigue. Studiava la storia delle Indie Occidentali preemancipazione, provando un sommesso piacere per il ruolo del movimento quacchero nella lotta contro la schiavitù. La fede quacchera faceva per lei, con quel suo unico dio così pallido e semplice e quieto che a malapena pareva esistere. Una grande autostima era un’idea ripugnante per Molly, da sempre in bilico sulla corda tra il cercare di fare del bene e il cercare di non compiacersi per averlo fatto. Ma sulla questione razziale si gloriava di stare proprio dalla parte della ragione. L’opportunità di visitare le Indie Occidentali era giunta grazie a una proposta buttata lì dall’unica insegnante nera della scuola, la quale non avrebbe mai immaginato venisse accolta e messa in pratica: volendo visitare i Caraibi, Molly avrebbe potuto stare da suo fratello. E Molly l’aveva colta al volo: andarci era suo dovere. Soffocando decisa ogni timore, si era consultata con la collega sull’abbigliamento appropriato. Ed eccola qui.

Erano le dieci del mattino. Il sole si stava mettendo in posizione per i colpi di mezzogiorno e Molly avvertì un formicolio lungo gli avambracci, come se minuscoli aghi di cristallo le si infilassero sotto la pelle. Levò una mano paffuta per darsi lievi pacche sul capo. Se solo le avessero ricordato di portarsi un cappello qualsiasi. Il volto gentile e insignificante era incorniciato da un casco curato di capelli grigioferro, con un taglio a scodella con la frangia. Quando sorrideva, l’espressione trepidante unita al taglio infantile la faceva sembrare una di quelle foto sfocate sui giornali, tipo di una bimba di dieci anni assassinata. In realtà aveva cinquantanove anni.
Donella si strinse il kimono giallo attorno a un corpo tutto spigoli, come un insetto stecco, e guardò Molly dicendo: «Scusami il déshabillé, mi devi perdonare. Anche la mia testa è in disordine, stamattina». L’accento era bizzarramente da inglese snob, senza quasi traccia di guyanese, risultato di anni trascorsi in Inghilterra come figlia di un diplomatico d’alto livello. Se ne stava in piedi davanti a Molly, dando boccate di sigaretta brevi e nervose.
«La radio e il ferro da stiro sono spariti», annunciò. «Qualcuno è entrato dalla finestra. Sono decisamente sconvolta. Assolutamente, decisamente sconvolta. Pensi che la domestica non abbia chiuso a chiave la parte superiore della porta? ...O sono entrati dalla finestra? Oltre tutto, questa è l’ultima goccia. Della radio posso fare a meno, ma non del ferro da stiro. Mi è costato trecento dollari. Non abbiamo niente, qui. Sono affranta». Aleggiò dalla veranda verso il salotto, in cerca di un posacenere. Un minuto dopo ritornò: «Scusami tesoro. Ecco alcune riviste da sfogliare». Lasciò cadere sul tavolo qualche copia datata di «Harper’s» e una di «Tatler»: «Temo che il telefono esiga la mia costante attenzione».

Molly la sentì comporre un numero e poi raccontare con voce lamentosa la storia della radio e del ferro da stiro. Era stata scaricata a casa di Donella dal suo riluttante padrone di casa, Ralph Rawlings, che aveva delle faccende da sbrigare in città. Una volta tornato, Molly voleva convincerlo a darle un passaggio in una libreria dove avrebbe potuto trovare del materiale didattico da portarsi a casa. Aveva iniziato a collezionare piccoli oggetti come una calabassa, cartoline, manufatti amerindi, quel tipo di cose che potevano diventare uno stimolo durante le lezioni. Adesso le servivano libri, libri di racconti e storie illustrate.
Prese svogliatamente una rivista e la rimise subito giù. Una nera grassa e vecchia uscì sulla veranda della casa di fronte e rovesciò in giardino il contenuto di una pentola. Il caldo teneva Molly incollata alla sedia. Le venne in mente la notte in cui era arrivata all’aeroporto di Timehri. Nulla l’aveva preparata alla bellezza di Georgetown. Le strade erano le più ampie che avesse mai visto. Verso il cielo si assottigliavano palme reali alte e slanciate, il fogliame stagliato contro le nubi notturne come un ragno danzante sulla punta di un bastoncino. Il taxi costeggiava palazzi coloniali antichi ed eleganti, in cui tramezzi e verande parevano bianchi merletti lignei, e proseguiva lungo ponticelli per attraversare reticoli di canali. Ma il mattino seguente, al suo risveglio, la città le sorrideva con denti putridi. Molly si trovava su una fogna a cielo aperto. Un’esitante passeggiata le aveva rivelato che la città era costruita su un sistema di scarichi e canali stagnanti, odorosi di liquirizia e ostruiti da spazzatura. In uno di questi, un enorme ratto rigonfio galleggiava a pancia in su. Molly era scioccata. Più tardi, col suo passo regolare da maestrina, aveva raggiunto l’argine marino, gettando lo sguardo oltre il mare rosa metallico, dove immaginava si trovasse l’Inghilterra. Uno di questi due paesi è immaginario, aveva pensato. E credo che sia questo.

Donella era ferma sull’uscio. Dietro di lei, la domestica dall’incarnato d’ebano teneva lo sguardo basso, intenta a spolverare con scrupolo e a spostare oggetti attorno al tavolo.
«Mia cara, saresti così gentile da porgermi le sigarette? Ti prego di comprendere che mi hai colta in un tremendo stato confusionale, a causa dell’effrazione. Maxine! Portami dei fiammiferi, per cortesia». La domestica le portò i fiammiferi. «Sarà il caso di recarmi al mio guardaroba per trovare qualche abito da gettarmi addosso dopo la doccia. Sai, in Inghilterra facevo la doccia con qualunque freddo ci fosse, incurante di quali mie parti si stessero congelando fino a staccarsi. Se ben ricordo, gli inglesi non si detergono troppo frequentemente». Poi se ne andò in un’altra stanza della casa.

Il legno della veranda scricchiolò, dando per un momento a Molly l’impressione di trovarsi sul ponte di un’enorme nave bianca che veleggiava senza meta sulla terraferma. Scosse la testa per scacciare quella sensazione d’irrealtà e si alzò dalla sedia per spostarsi in fondo alla veranda, dove Maxine stava spazzando. L’acqua sporca e maleodorante del canale di cemento lungo la strada le rivoltò lo stomaco. Molly fece per incrociare lo sguardo di Maxine con un sorriso. La domestica la ignorò risoluta.

Qualcosa si avvicinava giù dalla strada. Molly sgranò gli occhi: a prima vista sembrava un albero errante. Guardò di nuovo: era un uomo, nero e magro, interamente rivestito di stracci e brandelli d’indumenti che tempo, sudore e calura avevano reso neri come la sua pelle. I capelli raggrumati e selvaggi, l’andatura maniacalmente regolare, le gambe rigide come rami ricoperti da pezze svolazzanti di tessuto. A piedi nudi, procedeva con velocità stupefacente, gli occhi fissi davanti a sé.
«Chi è questo, Maxine?»
«Il Re degli Stracci», rispose, masticando uno stecchino.
«Che fa?»
«E che ne so? Cammina e basta».
Maxine teneva ancora il broncio perché Donella l’aveva accusata di non aver chiuso a chiave la porta. Continuò a spazzare in modo sistematico, poi aggiunse con un ghigno: «Forse cammina per qualcuno». «Che intendi dire?» Molly si chiese se voleva dire che aveva qualche commissione da sbrigare.
«Forse cammina per far fuori qualcuno». Controsole, strizzò gli occhi guardando Molly. «Noi la possiamo fare, ’sta cosa qui, sai? Camminerò io per te». Le puntò il dito contro come a fingere una minaccia, poi si mise a ridere.

Donella ricomparve vestita con pantaloni grigio chiaro e una costosa camicetta fatta su misura. Maxine le servì la colazione in veranda: «Perdonami, cara, se consumo la mia colazione. Suppongo tu l’abbia già fatta».
«Non preoccuparti», disse Molly con una sopportazione da martire, mentre la guardava rimpinzarsi di uova strapazzate e pomodoro. Dalla bocca le cadde del cibo sul tavolo: «Sai, quand’ero in Inghilterra ero in ottimi rapporti con la famiglia del Duca di Blenheim. Sua cugina era una mia carissima amica. Li conosci, per caso?»
«Temo di no. Sono un po’ fuori dalla mia portata», rispose Molly con aria compiaciuta.
Donella continuava a cianciare: «Sì, venne a farmi visita in clinica quando nacque mio figlio – così ubriaca, mia cara, che continuava a cadermi attorno al letto, pregandomi di farle tenere in braccio il bambino e io che le dicevo: ‘Ehm… no… per favore no’. Mi viene quasi da dire che, se tornassi là adesso, si aspetterebbe le spazzassi i pavimenti». Si pulì la bocca con uno di quei tovagliolini di carta strappati in quattro per farli durare più a lungo: «Lasci quel paese e a nessuno importa un cappero!» aggiunse con amarezza.

Suonarono alla porta. Dopo un paio di secondi, Ralph Rawlings attraversava l’ampio pavimento verniciato per venire a salutarle. Era un mulatto robusto e quasi calvo, di circa quarantacinque anni, con una camicia sgargiante e le scarpe che cigolavano. Si aggiustava di continuo gli occhiali dalla montatura nera sul naso: «C’è una specie di rivolta di polli, in centro».
Ralph sembrava sempre esasperato, impaziente. Ora si sentiva particolarmente oppresso da questa straniera bianca che la lontanissima sorella gli aveva affibbiato, a cui doveva fare gli onori di casa.
«Che tipo di rivolta?» Donella accentuò un leggero panico.
«Stamattina dovrei svolgere una sorta di supervisione per una persona in città».
«A quanto pare è arrivato un po’ di pollo dagli Stati Uniti a metà prezzo. La gente ci si scanna. Il problema è la distribuzione, in ’sto cacchio di paese. La distribuzione, come sempre».
«Chiamerò immediatamente il negozio, devo avvisarli che sono troppo affranta per svolgere supervisioni oggi. La perdita della radio e del ferro insieme è una catastrofe. Coglierò l’occasione per volare nel Rupununi. È da giorni che tento di organizzare un volo per andarci. Quindi, Ralph, come potrei persuaderti ad accompagnarmi in aeroporto? La mia auto è fuori servizio, finché non giunge la nuova frizione in volo da Miami. Ho la valigia bell’e pronta». Batté le mani con un entusiasmo da ragazzina.
Ralph guardò l’orologio: aveva un paio d’ore libere e Donella gli era utile, con quei suoi contatti nel ramo trasporti e le conoscenze per il commercio di legname.
«Che ne dici di venirtene in aeroporto con noi?» domandò a Molly.
«Beh, per stamattina avevo in programma di andare in centro a comprare un po’ di libri e materiali per i miei studenti…»
Donella la interruppe: «Che sciocchina che sei, mia cara. Tutti quei libri vengono dall’Inghilterra, puoi comprarteli al ritorno. Oltretutto ne abbiamo già così pochi qui, ci manca solo che tu te ne parta con metà della letteratura del paese».
Molly non provò neanche a discutere. La strada per l’aeroporto era lunga e dritta. Molly rimbalzava su e giù tra le molle rotte del sedile posteriore. Di tanto in tanto spuntava tra la boscaglia il marrone del fiume Demerara. Donella si rivolse a lei dal sedile anteriore: «Vedi Molly, ho una cara amica, la mia alter ego, che è rimasta bloccata nella sua fattoria nel Rupununi. Non ha nulla da mangiare, letteralmente nulla, se non farina. Lei conta su di me. Il gregge le si è ammalato di rabbia. Ora è stato vaccinato, ma non potrà vendere animali per tre mesi. La situazione è decisamente critica».
Si rivolse a Ralph: «Ho a mia disposizione una quarantina di litri di lattice. A quanto me li compreresti?»
I due si misero a contrattare accaniti sul prezzo.

Molly si aggrappò al finestrino per guardare fuori. Lungo il ciglio erboso a lato della strada sfrecciava verso di loro un uomo scuro, basso e mingherlino, con un piede sul pedale della bicicletta. All’avvicinarsi dell’auto, Molly lo sentì tirare su il catarro dal fondo della gola. Lo sputo la colpì dritto in fronte. Si ritirò svelta contro il sedile e prese dalla borsetta un fazzoletto per ripulirsi, che poi gettò di soppiatto fuori dall’auto. Non c’è da stupirsi, pensò, vista la storia del luogo, che qualcuno debba sputare su una faccia bianca. Si sentì rincuorata dall’essere così magnanima e comprensiva riguardo all’accaduto. Sempre impegnati a trattare sui litri di lattice, gli altri non si erano accorti di nulla. Dopo un po’ Ralph accostò per comprare lungo la strada tre fette di ananas fresco tagliate per lungo, da una donna indiana con lo sguardo penetrante. Molly rimase sul sedile posteriore, sorridente. Mi dà sui nervi, pensò Ralph nel rimettersi alla guida.

Attraversarono un aeroporto in preda al caos. L’aria condizionata era rotta e una moltitudine di gente assediava il solo uomo dietro al banco del check-in, con mani che sventolavano biglietti e permessi di soggiorno per attirare la sua attenzione. Seduti sulle valigie accanto al banco, altri passeggeri si rifiutavano di andarsene, anche se il loro volo era stato cancellato. Ralph sospinse Molly verso uno spazietto libero in mezzo alla folla. Attorno al telefono, un gruppetto sconsolato guardava un uomo sbattere su e giù la cornetta per cercare di farla funzionare. Donella se ne andò a cercare di organizzarsi il volo. Molly soffocava il proprio disgusto di fronte a quella baraonda.
«Scusami Ralph», disse, «devo andare alla toilette».
Si fece strada per l’atrio pieno di gente, col rimpianto di non aver fatto un salto in libreria come programmato. Quella confusione la turbava. Raggiunto il bagno delle signore, venne colpita da un tanfo di marcio. Trattenendo il respiro, entrò in uno dei servizi: il water era stracolmo di merda. E così l’altro, e l’altro ancora. Uscì di corsa e riprese fiato: «Non è molto bello lì dentro», disse in tono di scuse.
«Dovrebbero fare qualcosa per questo posto», rispose Ralph, cupo in volto.
Andarono al bar al piano di sopra. Era buio, ma non così affollato come all’esterno. Una nera con il grembiule a quadretti bianchi e verdi ciondolava indolente dietro al bancone: «C’abbiamo un blackout… Niente bevande fresche, solo aranciata frizzante o amarena», disse mentre passava un pezzo di carta su e giù per il bancone.
Ralph ordinò vodka e amarena, Molly finì per ritrovarsi con un’aranciata che non voleva. Le era venuta la nausea. «Vedi quell’uomo laggiù», le fece Ralph. «È il ministro per lo Sport, a quanto pare soffre di cuore e dovrebbe dimagrire».
Molly si voltò a guardare un gruppo di uomini afroguyanesi che bevevano e ridacchiavano nell’angolo della sala. Rideva anche il ministro, ma pareva inquieto allo stesso tempo, gli occhi che guizzavano a destra e sinistra come se nel bar potesse esserci un nemico. «Ralph Rawlings!»
Spalancò le braccia verso Ralph un’elegante donna malese, con i capelli neri in una permanente ben curata e una boccuccia a bottone. Il suo completo di lino rosso dava uno spruzzo di colore all’oscurità del bar. Molly si sforzò di sorridere, mentre attendeva di essere presentata.
«Signora Chan, come va? Questa è Molly Summers, in visita dall’Inghilterra».
Una rapida stretta di mano e la signora Chan si rivolse di nuovo a Ralph: «Beh», sospirò, «sono dovuta tornare. Pensavo di essermi sistemata a Miami per sempre, ma poi mi sono risposata con un guyanese e sono dovuta tornare».
Si diede un’occhiata intorno e un velo di disgusto le passò sul volto. Si accorse che Molly la stava fissando: «I miei figli sono rimasti, però», aggiunse con orgoglio, «ora sto proprio andando a trovarli».
Abbassò la voce in modo da essere appena percepibile nel baccano del bar: «Anche Joan Robson è tornata», disse con malevola soddisfazione.
«Guardala là. Te la ricordi com’era sempre brillante? È successo qualcosa. Stava alla Columbia University. Qualche storia, razzismo… è successo qualcosa di orribile. Un suicidio… qualcosa. C’è stato anche un incidente stradale, guarda che cicatrici ha in faccia».
Molly esaminò l’esile donna dall’incarnato color miele che sedeva al tavolo accanto. La pelle del volto delicato era a chiazze più chiare. Innesti cutanei. «Era così bella!» continuava la signora Chan, mascherando a stento la propria esultanza. «Ha un corpo che sembra vecchio, adesso. C’è stato una specie di esaurimento nervoso. Anche cocaina, ho sentito… Pare una appena uscita dalla riabilitazione, non credi?»
Un truce compiacimento le brillava dagli occhi neri: «In ogni caso… è tornata anche lei. Commercia in peperoncino. Il che mi ricorda… Ralph, vuoi comprare del cemento? Posso vedermela io con il carico, ma non con i dazi, con quelli proprio no. Ti chiamo quando rientro, tu pensaci. Beh, suppongo sia ora di andare a dimenare un po’ il didietro per quelli dell’immigrazione».
Ralph scosse la testa, nel guardarla sgusciare via tra i passeggeri in attesa: «Sono le donne, oggi, a fare tutti gli affari», disse, come se anche lui sentisse l’indefinibile subbuglio che colpiva Molly.
All’arrivo di un volo da Trinidad a lungo atteso, si levò un urlo di gioia. Sulla camicia di Ralph, sotto le braccia, erano comparse due chiazze scure di sudore, e ora stava litigando con quella del bar, che per sbaglio gli aveva servito acqua naturale al posto della vodka. La ragazza si stava sbellicando dalle risate per il proprio errore.
Una nera in avanzato stato di gravidanza e i capelli molto corti, che aveva tenuto d’occhio Molly, colse subito l’occasione per scivolarle proprio di fronte. Molly dovette piegare il capo per sentire cosa le diceva: «Ce l’hai un dollaro per me, per favore?» Il pancione le sollevava il vestito sul davanti e lo faceva lungo di dietro, come una bambina.
Parlava sottovoce. Molly frugò nella borsetta e le diede volentieri tre dollari. Lei li prese e sparì. La sala buia brulicava di conversazioni: Molly aveva la sensazione di trovarsi sott’acqua. Incapace di respirare liberamente. Chiuse gli occhi per cercare di concentrarsi sullo scopo del proprio viaggio. La voce squillante di Donella penetrò il rumore diffuso: «Che disperazione».
Stava giusto di fronte a loro, le mani sui fianchi. «Niente voli! Freddie deve aspettare la consegna di un qualcosa bloccato alla dogana. È devastante. La mia alter ego morirà di fame».
I tre si trascinarono per il parcheggio dell’aeroporto: Donella a lamentarsi torcendosi le mani, Ralph in un bagno di sudore, e dietro Molly che camminava sulle punte per via dell’asfalto, che le stava bruciando la pianta dei piedi perfino attraverso i sandali. Un calore disumano e incessante sostituì la confusione vorticosa dell’aeroporto. Molly sentiva di essersi trasformata in un miraggio, luccicante e irreale. Il suolo irradiava calore. Prima di salire in auto, si sollevò dal petto il vestito blu di cotone, ormai fradicio. Il sedile le ustionava le cosce. Si sentiva girare la testa.

«La macchina c’ha ancora tutt’e quattro le ruote, signore… L’ho tenuta d’occhio io per te».
Ralph diede al monello un po’ di spiccioli e si infilò alla guida. Molly si appoggiò sfinita allo schienale non appena ripartiti. I pensieri le si facevano sconnessi, non riusciva a concentrarsi su nulla. Chiuse per un istante gli occhi, ma poi di colpo li riaprì e vide una distesa infinita di cielo azzurro e due nuvole bianche come meringhe. In lontananza una macchiolina nera, un avvoltoio, volteggiava sulla boscaglia. Chiuse di nuovo gli occhi: troppo cielo, pensò. Nel viaggio di ritorno, dietro le palpebre le fluttuavano diverse immagini: la mendicante incinta che teneva una lezione nella sua scuola di Londra; Maxine, la domestica, che guardava un espositore di scarpe al negozio di Finsbury Park mentre con noncuranza masticava uno stecchino. Arrivati in città, Ralph passò davanti allo Stabroek Market, verso la banca Chase Manhattan. Molly intravide il Re degli Stracci, stavolta immobile accanto a una pila di gusci di cocco secchi, mentre parlava a un uomo che teneva in mano un vassoio con degli orologi in vendita. Accostarono davanti alla banca, e dal marciapiede la gente si riversò attorno all’auto. Molly cercò di sopprimere una sensazione di ripugnanza verso quell’ammasso di facce sconosciute: facce color mogano, facce cannella, facce ebano, facce agata. Anelava alla fresca quiete della Meeting House.

La sagoma si avvicinò al suo lato dell’auto con una tale rapidità che lei ebbe appena il tempo di accorgersene. Per qualche secondo il sole accecante le impedì di vedere che si trattava di un bianco, di venticinque anni al massimo. La barbetta grezza, corta e ispida gli luccicò rossiccia sulla parte inferiore del viso, mentre si sporgeva dentro il finestrino. Aveva i capelli corti tagliati a spazzola, come un soldato o un detenuto. Il viso arrossato dal sole dava intensità a quegli occhi azzurri. Nel chinarsi verso Molly, sbatté le palpebre: «Sei inglese?» Aveva un accento londinese cockney.
«Sì».
Per lo stupore, Molly corrugò la pallida fronte.
«Dammi dei soldi», piagnucolò in tono minaccioso.
Lei lo fissava incredula. «Dammi dei soldi, voglio mangiare».
Molly tentò debolmente di alzare il finestrino, ma la manovella era rotta.
Lui insisteva: «Ero nella prigione di Pentonville, la conosci? Vicino a Kings Cross».
Lei annuì senza dire una parola. Quello spingeva la testa sempre più dentro l’auto, mentre Molly si ritraeva nel suo nido di doppi menti.
«Vivevo a Streatham Hill. Le conosci quelle zone?»
Annuì di nuovo, ammutolita, la bocca secca. L’immondizia nel canale di scolo lo fece scivolare indietro di un passo: gli vide le scarpe da ginnastica sudice e senza lacci, i jeans stracciati al fondo, la canotta blu scuro strappata e macchiata.
Alzando gli occhi, lui le sembrò enorme. Un’aureola fiammeggiante gli danzava attorno alla testa, che eclissava il sole, mentre il cielo si estendeva alle sue spalle.
«Mia moglie m’ha lasciato, ho avuto un esaurimento nervoso, è stato lì che m’hanno messo a Pentonville. M’ha spedito qui il dottor Rhodes, di sicuro avrai sentito parlare del dottor Rhodes. È lui che m’ha spedito qui. Lui m’ha spedito qui».
La voce riecheggiava nelle orecchie di Molly. «Aiutami, devo tornare a casa. Sto cercando di tirare su i soldi del biglietto».
«Ma… ma», balbettò Molly, «ma tu sei inglese, non dovresti fare così».
Le stava accadendo qualcosa. Sembrava che il sole avesse rotto gli ormeggi e girasse in tondo nel cielo. Sentì di nuovo quella voce, che ora pareva lontana: «Dai, dammi almeno i soldi per mangiare. Sto morendo di fame».
Ralph uscì dalla banca, spinse via l’uomo e salì in auto. Sul sedile posteriore, Molly emetteva piccoli gemiti. «Tutto bene ragazza?» le domandò preoccupato.
«È inglese… quel mendicante… un bianco».
Si rese conto che Donella e Ralph si erano voltati indietro e la osservavano in modo strano. Di colpo si sentì consumare tutta da una rabbia enorme, come se in un certo senso fosse stata ingannata. Provò a parlare, ma non le venne neanche una parola. Ralph si accorse che le mancava l’aria, e che le stavano spuntando sul viso delle chiazzette viola. Molly provò a correggere il proprio errore: ciò che voleva dire le era perfettamente chiaro in testa e avrebbe rimesso tutto a posto. Avrebbe messo fine agli sguardi dubbiosi e accusatori sulle facce di quei due che la fissavano dai sedili davanti. Ma le labbra si muovevano senza produrre suono, come un pesce fuori dall’acqua. Accasciata sul sedile posteriore, cominciò a farfugliare. Aveva i capelli grigi zuppi di sudore. Un bimbo la punzecchiò attraverso il finestrino per cercare di venderle delle noccioline.
«Che diamine!» pensò Ralph. «Non mi dire che ’sta donna s’è fatta tutto il viaggio fin qui per morirmi sul sedile di dietro». Mise in moto e si diresse verso l’ospedale pubblico.

Una notte di luna, di Giovanni Comisso

La Nave di Teseo, porta in libreria Un gatto attraversa la strada, di Giovanni Comisso, autore prolifico che con questi racconti ha vinto il Premio Strega nel 1955.
In questo volume, Comisso rappresenta con sguardo disincantato e anticonformista un microcosmo, un’umanità presa dalla strada, le sue ambizioni raramente soddisfatte, la fatica del vivere e gli inaspettati momenti di felicità.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

Una notte di luna

Era la più bella della stalla: aveva i fianchi grassi come un maiale, le spalle compatte, le zampe giuste e la vena che andava alle mammelle turgida a garantire latte in abbondanza. Nell’imminenza del parto le mammelle si erano gonfiate fino a rimpicciolire i capezzoli, ed era costretta a stare sempre alzata con le zampe divaricate. Sarebbe stato il suo primo parto, e il contadino ne aveva costante il pensiero da quando erano già passate le nove lune e non dava segno di sgravarsi.
Ma in quella sera, nel darle il pasto abituale si era accorto che il momento era giunto, ed ebbe un sollievo, perché da più notti era stato costretto a scendere per vedere se accennava a partorire. Mandò ad avvertire le case vicine che dopo cena venisse qualcuno per aiutare. In campagna si creano certi consorzi spontanei basati sul principio della mutua assistenza. Per i parti degli animali, per il taglio e per la battitura del frumento, per la falciatura del fieno, per le arature pesanti, e così in tutte le occorrenze tristi o liete, gli uomini o gli animali o i mezzi di una famiglia vengono scambiati con quelli di un’altra. Questi consorzi si creano strettamente nel raggio più corto di vicinanza, per chiare ragioni di prontezza ad accorrere nell’urgenza del bisogno. Di una lunga assistenza che viene convalidata col farsi reciprocamente da compari alle nozze o ai battesimi dei figli.
Vennero dalle case vicine tre uomini e nell’entrare furono concordi a giudicarla: la più bella della stalla. “Bella sì, ma è stramba come sua madre, ve la ricordate, e temo che ci faccia dannare: sono già quindici giorni che è fuori dal termine,” disse il contadino. Il più vecchio che aveva esperienza di parti di animali, disse che dipendeva dalla luna, la quale solo da tre giorni aveva fatto il colmo, e si avvicinò a osservare attento: “Primaiuola; sarà un po’ difficile, ma speriamo bene.” Nell’attesa si misero a giuocare a carte e il contadino ogni tanto dava un’occhiata per vedere come andava.
Si era coricata come tutte le altre, illuminate nei fianchi dalla lampada bassa sulla tavola, mentre le teste rimanevano in ombra. La sera passò presto, già erano giunti al pieno della notte e non si vedeva nulla di nuovo, erano stanchi di giuocare, qualcuno sbadigliava e il contadino disse: “Volete vedere che ci manderà a dormire all’alba, mi dispiace per voi, mi basta che rimanga uno con me, se vi sarà bisogno degli altri vi manderò a chiamare, un caso simile non mi è mai toccato.” Anche agli altri non era mai toccato un caso simile, il più vecchio decise di rimanere, fuori era un bel chiaro di luna nella notte fredda e le fronde spoglie degli alberi facevano intreccio contro le stelle basse dell’orizzonte. Il contadino allora ebbe meno ritegno a confessare la sua paura: “Mi dispiacerebbe, compare, che non potesse liberarsi, che mi dovesse morire.” L’altro gli contradisse con calma che se mai sarebbe morto il vitello, e tenevano fisso lo sguardo su quel corpo rigonfio che ansava lento. “Un caso simile non mi è mai toccato,” ripeté il contadino vedendola alzarsi. “È primaiuola, e non sa aiutarsi. Il vitello potrebbe essere già morto. A quest’ora un’altra avrebbe partorito dieci volte,” disse il compare ed ebbe un brivido di freddo. “Benedette le brutte, certe bestie bislacche, non sono strambe come queste di bella apparenza. Se provassimo ad aiutarla,” disse il contadino. “Aiutarla, sì, ma se il vitello non si presenta.” Il contadino sentiva con ansia ogni attimo che passava. “Io ho freddo, compare, e voi?” “Io anche, l’alba è già vicina.” E l’altro andò a prendere da bere, bevettero, ma, scacciato il freddo, gli rimase tuttavia la paura di perdere il più bel capo della sua stalla. “La luna sta per calare, ho svegliato anche mia moglie, ci prepara il caffè, che ne dite se si mandasse a chiamare il veterinario? Da soli non possiamo fare niente.” L’altro disse che era meglio, e il contadino svegliato suo figlio lo affrettò ad andare in paese. Anche le altre si erano alzate in attesa del pasto mattutino, ed essa come se volesse approfittare che la vicina le aveva lasciato più spazio si coricò lentamente. Intontiti dal freddo e dal sonno guardavano fissi quei fianchi inerti. Un gallo cantò. “Sono le cinque e mezzo, il vostro gallo canta sempre a quest’ora, è più giusto del mio orologio, fra poco suonerà l’Ave Maria,” disse il compare, e subito dopo si intese una campana suonare.
Il contadino tramutò un sospiro in uno sbadiglio. Poco dopo abbaiò il cane segnalando l’arrivo del veterinario. Il contadino si scusò di averlo fatto chiamare così presto. “Presto? dovevate chiamarmi prima, è il mio mestiere.” E subito si tolse la giacca, si rimboccò le maniche della camicia, si mise un grembiule, fece mettere paglia fresca per terra, richiese due corde, erano intanto sopraggiunti altri vicini e il figlio del contadino e sua moglie col caffè. Bevettero in fretta, e il veterinario si inginocchiò sulla paglia. La moglie del contadino si era fermata nell’ombra: “Povera bestia,” disse, “da ieri sera e non si è ancora liberata. Ricordo anch’io il mio primo parto, dal sabato al lunedì, quanto ho dovuto penare”, e si ritrasse in cucina, sebbene fosse curiosa di vedere. Il veterinario aveva affondato il braccio entro il corpo, e, visto che si agitava, ordinò a uno che la tenesse. Fece un nodo scorsoio a una delle corde e dopo averlo stretto dentro al ventre affidò la corda a uno degli uomini dicendo che era quella delle zampe. Ne fece un altro all’altra corda e, dopo averlo assicurato dentro, avvertì che era quella della testa e che tirassero adagio.
Gli uomini tirarono barcollando sugli zoccoli. “Basta, tirate l’altra. Piano, è un fenomeno questo vitello, lo sento. Ancora quella delle zampe.” Gli ordini si susseguirono. I quattro uomini tenevano le corde e il contadino stava vicino alla mangiatoia accarezzando il collo alla sua bestia che sbarrati gli occhi agitava la testa: “Forza, ancora la corda delle zampe, ci siamo.” E d’un balzo ne sgusciò fuori il vitello sopra la paglia insanguinato, viscido. “È un fenomeno, morirà, ha le zampe deformi.” Tutti si erano fatti su di esso per vedere come era fatto, chi lo asciugava con un sacco, chi gli soffiava in bocca, chi gli metteva altra paglia sotto, ebbe subito un fremito, respirò roco, dischiuse le palpebre. “Vive,” uno disse con gioia. “Presto lasciate stare quel mostro, bisogna pensare alla bestia,” disse il veterinario. “Guardatela è in affanno, del vino, bisogna farle bere del vino, dell’aceto, spruzzateglielo sul muso.” Aveva sollevato la testa all’indietro e fissi gli occhi respirava rapida. Le venne spruzzato l’aceto, le diedero il vino, e tutti ritornarono a guardare il vitello che pulito e poi asciugato già muoveva la testa, ma le sue zampe restavano ferme grosse e anchilosate. “Questo non vive,” disse il veterinario lavandosi le braccia. “Fate una buca, concimerà la terra.” Il vitello ebbe un belato, che attrasse la premurosa attenzione di tutti. “Vive, vive,” ripeterono ed era come dicessero, evviva, per incoraggiarlo a non morire. “Se vivrà dategli il latte per alcuni giorni e poi lo venderete,” disse il veterinario apprestandosi per uscire.
Tutti gli stavano dietro per uscire con lui. Il mattino biancheggiava già tutto il cielo, impallidendo la luna che ancora non era tramontata e nel silenzio intesero dalla città vicina le sirene che suonavano stridule. “L’allarme,” dissero tutti e rimasero cupi in ascolto. Poco dopo si susseguirono lontani scoppi sempre più densi, più forti, la terra ebbe un lieve sussulto, tremarono i vetri e rossi bagliori vampeggiarono. “Bombardano la città,” disse il veterinario. Tutti rientrarono impauriti nella stalla. Il vitello ebbe un altro belato, deforme come era, voleva vivere ancora.

Senso dell'umorismo, di Damon Runyon

Mattioli 1885 porta in libreria Del tutto illegale, la raccolta di racconti di Damon Runyon, grande giornalista e cronista sportivo, e autore di Bulli e pupe. Attingendo dallo slang del Jazz, dal mondo dello sport e da quello della malavita di New York, Runyon ha inventato una vera e propria lingua. Questi diciotto racconti, tradotti da Silvia Lumaca, confermano una geniale capacità di osservazione della realtà, rendendo le sue storie eternamente attuali.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.


Senso dell’umorismo
di Damon Runyon
traduzione di Silvia Lumaca

Una sera sono in piedi davanti al Mindy’s, il ristorante sulla Broadway, pensando praticamente a niente di niente, quando tutto a un tratto sento un dolore terribile al piede sinistro. In effetti, questo dolore è così terribile che mi fa saltellare su e giù come una rana toro, e cacciare delle forti grida di agonia, per usare un linguaggio parecchio profano, che non è per niente mia abitudine, anche se ovviamente riconosco che il dolore viene da un piede caldo, perché ho fatto esperienza di questo dolore in passato.
Per di più, so che Joe il Giullare dev’essere nei paraggi, perché Joe il Giullare ha un senso dell’umorismo più fantastico di chiunque in questa città, ed è sempre in giro a fare il piede caldo alla gente, e me lo ha fatto più volte di quante ne possa ricordare. In effetti, ho sentito che Joe il Giullare ha inventato lui il piede caldo, e alla fine è diventata una pensata molto popolare in tutto il paese.
Il modo in cui si fa un piede caldo è andando di soppiatto dietro un tizio che è in piedi a pensare a molto poco, e piazzandogli un cerino nella scarpa, tra la suola e la parte di sopra dove dovrebbe stare il mignolo, e poi accendere il cerino. A poco a poco il tizio sentirà un dolore terribile al piede, e comincerà a saltare di qua e di là, e a urlare, e in generale a lamentarsi, ed è sempre uno spettacolo molto comico e un gran ridere per chi lo guarda soffrire.
Nessuno al mondo sa fare un piede caldo bene come Joe il Giullare, perché ci vuole un tizio che sa avvicinarsi molto silenziosamente al tizio a cui deve fare il piede caldo, e Joe può avvicinarsi così silenziosamente che molti tizi sulla Broadway scommetterebbero che può fare il piede caldo a un topo, se trova un topo che porta le scarpe. Per di più, Joe il Giullare può prendersi parecchia cura di sé se il tizio che riceve il piede caldo vuole discutere della cosa, come a volte capita, soprattutto con i tizi che hanno le scarpe fatte su misura da quaranta verdoni e non gli va a genio avere dei fori bruciacchiati in queste scarpe.
Ma a Joe non interessa il tipo di scarpe che portano i tizi, se gli viene voglia di fare dei piedi caldi in giro, e per di più, non gli importa chi sono i tizi, anche se molti tizi pensano che ha commesso un errore quando ha fatto il piede caldo a Frankie la Belva. In effetti, molti tizi sono parecchio orripilati da questo gesto, e vanno in giro a dire che non ne uscirà niente di buono.
Questo Frankie la Belva viene da Brooklyn, dove è considerato un cittadino in ascesa da parecchi punti di vista, e da nessun punto di vista un tizio a cui fare un piede caldo, specialmente perché Frankie la Belva non ha per niente senso dell’umorismo. In effetti, è sempre molto solenne, e nessuno lo vede ridere mai, e di sicuro non ride quando Joe il Giullare gli fa un piede caldo un giorno sulla Broadway quando Frankie la Belva è in piedi a parlare di affari con qualche tizio del Bronx.
Guarda solo di traverso Joe, e dice qualcosa in italiano, e anche se non capisco l’italiano, suona così spiacevole che garantisco che, se lo dicesse a me, lascerei la città in un paio d’ore.
Ovviamente Frankie la Belva non si chiama veramente la Belva, ma qualcosa in italiano tipo Belvino, e sento che originariamente viene dalla Sicilia, anche se vive a Brooklyn da un bel po’ di anni, e si fa strada da un’origine modesta fino a diventare un operatore parecchio grosso nel commercio di questo e di quello, specialmente alcol. È un tizio grosso di forse trenta e qualcosa anni, e ha i capelli più neri di un centone infilato in un camino, e gli occhi neri, e le sopracciglia nere, e un modo lento di guardare la gente. Nessuno sa granché di Frankie la Belva, perché non ha mai granché da dire, e ci mette parecchio a dirlo, ma tutti gli fanno parecchio spazio quando arriva, perché si sente dire che a Frankie non piacciono mai le situazioni affollate. Io di mio non sono interessato da nessun punto di vista a Frankie la Belva, perché il suo modo lento di guardare la gente mi rende sempre nervoso, e mi spiace sempre che Joe il Giullare gli ha fatto il piede caldo, perché mi immagino che Frankie la Belva la debba considerare un’azione parecchio irrispettosa, e che ce l’abbia con lui e gli metterà contro chiunque sull’isola di Manhattan.
Ma Frankie la Belva ride e basta quando qualcuno gli dice che è fuori fase a fare il piede caldo a Frankie, e lui dice che non è colpa sua se Frankie non ha senso dell’umorismo. Per di più, Joe dice che non farà più nessun piede caldo a Frankie se ne ha la possibilità, ma che farà il piede caldo al principe di Galles e a Mussolini, se li piglia nel posto giusto, anche se Rimorso, lo scommettitore di cavalli, sostiene che può dare Joe 20 a 1 in qualsiasi momento che non farà un piede caldo a Mussolini passandola liscia.
A ogni modo, proprio come sospetto, c’è Joe il Giullare a guardarmi quando sento il caldo del piede caldo, e sta ridendo a crepapelle, e per di più, un buon numero di altri tizi sta ridendo a crepapelle, perché Joe il Giullare non si diverte se fa il piede caldo a meno che non ci sia gente presente che apprezza lo scherzo. Beh, naturalmente quando vedo chi è che mi ha fatto il piede caldo mi metto a ridere anch’io, e vado a stringere la mano a Joe, e quando gli stringo la mano tutti ridono più forte, perché sembra che Joe ha un bel pezzo di formaggio Limburger nel pugno e quello a cui stringo la mano è il formaggio Limburger. Per di più, è un qualche formaggio che viene dal Mindy’s, e tutti sanno che il Limburger di Mindy è molto molle e anche molto colloso.
Naturalmente rido anche per questo, anche se a dir la verità riderei più volentieri se Joe il Giullare cadesse stecchito davanti a me, perché non mi piace essere fatto oggetto di burla sulla Broadway. Ma rido anch’io piuttosto di gusto quando Joe prende il resto del formaggio che non è tra le mie dita e lo spiaccica sul volante di alcune automobili parcheggiate davanti al Mindy’s, perché mi viene da pensare a cosa diranno gli autisti quando accenderanno le loro macchine.
Poi mi metto a parlare con Joe il Giullare, e gli chiedo come vanno le cose a Harlem, dove Joe e suo fratello minore, Freddy, e parecchi altri tizi, hanno una piccola organizzazione che opera nel settore della birra, e Joe dice che le cose sono ok, considerate le condizioni del commercio.
Poi chiedo come sta Rosa, essendo questa Rosa la benamata moglie di Joe, e una mia amica personale, perché la conosco da quando era Rosa Mezzanotte e cantava all’Hot Box, prima che arrivasse Joe e la sposasse.
Beh, a questa domanda Joe comincia a ridere, e posso vedere che qualcosa solletica il suo senso dell’umorismo, e alla fine dice quanto segue:
“Beh” dice, “non hai sentito le novità su Rosa? Ha preso il largo da me un paio di mesi fa per andare col mio amico Frankie la Belva, e vive in un appartamento su a Brooklyn, proprio di fianco a casa sua, anche se” dice Joe, “capisci, ovviamente, che ti sto dicendo questo solo per rispondere alla tua domanda, non per sparlare di Rosa?”
Poi fa un altro ah-ah, e in effetti Joe il Giullare continua a ridere finché non ho paura che gli venga un trauma interno. Io di mio non ci vedo niente di comico nella benamata moglie di un tizio che se la squaglia per andare con un tipo come Frankie la Belva, così quando Joe il Giullare si calma un po’ gli chiedo cosa c’è di così divertente nella cosa.
“Beh” dice Joe, “mi viene da ridere ogni volta che penso a come si sentirà quella palla di grasso quando scoprirà quanto è costosa Rosa. Non so quanti affari faccia girare Frankie su a Brooklyn” dice Joe, “ma sarà meglio che si dia da fare se vuole mantenere Rosa.”
Poi ride di nuovo, e a me sembra meraviglioso il modo in cui Joe è capace di conservare il suo senso dell’umorismo in una situazione come questa, anche se fino a quel momento ritengo sempre che Joe sia completamente bollito per Rosa, che è una piccola bambolina, e peserà forse quaranta chili col cappello indosso, ed è piuttosto appetitosa.
Ora, ritengo da quel che Joe il Giullare mi dice che Frankie la Belva conoscesse Rosa da prima che Joe la sposasse e le sia sempre stato addosso quando cantava all’Hot Box, e anche dopo che è diventata la benamata moglie di Joe, Frankie di tanto in tanto la chiamava, specialmente quando ha cominciato a essere un cittadino in ascesa di Brooklyn, anche se ovviamente Joe non ha saputo di queste chiamate fino a quando non era già troppo tardi. E per quando Frankie la Belva comincia a essere un cittadino in ascesa di Brooklyn, le cose cominciano a peggiorare per Joe il Giullare, un po’ per la Depressione e il resto, e deve fare economia su Rosa in alcuni frangenti, e se c’è una cosa che Rosa non sopporta è che si faccia economia su di lei.
Più o meno nello stesso periodo, Joe il Giullare fa il piede caldo a Frankie la Belva, e come molti tizi dicono all’epoca, è un errore, perché Frankie comincia a chiamare Rosa più che parecchio, e le dice che posto magnifico per vivere è Brooklyn – che è vero, se è per quello – e tra questi elogi a Brooklyn e le economie di Joe il Giullare, Rosa si prepara e prende il metrò per Borough Hall, lasciando a Joe un biglietto dicendogli che se non gli piace sa cosa può farci.
“Beh, Joe” dico io, dopo che ho ascoltato la sua storia, “odio sempre sentire di queste piccole difficoltà familiari tra i miei amici, ma forse è tutto per il meglio. Mi dispiace per te, se può aiutarti in qualche modo” dico.
“Non dispiacerti per me” dice Joe. “Se vuoi dispiacerti per qualcuno, dispiaciti per Frankie la Belva, e” dice, “se ti avanza un po’ di dispiacere, tienilo per Rosa.”
E Joe il Giullare ride ancora di gusto e comincia a dirmi di un piccolo scantinato che ha su a Harlem, dove tiene una sedia attaccata a dei fili elettrici così a chiunque si siede può dare una simpatica scossa, che mi sembra piuttosto umoristico, se è per quello, specialmente quando Joe mi dice che una sera dà troppo voltaggio e quasi fa fuori il Commodoro Jake.
Alla fine Joe dice che deve tornare a Harlem, ma prima va al telefono all’angolo nel negozio di sigari e chiama dal Mindy’s, e imita la voce di una bambola, e dice a Mindy che è Peggy Joyce, o simili, e ordina cinquanta dozzine di panini da mandare subito a un appartamento sulla West 72nd Street per una festa di compleanno, anche se ovviamente quel numero che dà non esiste, e se quel numero esiste nessuno laggiù vuole cinquanta panini.
Poi Joe sale in macchina e parte, e mentre sta aspettando al semaforo sulla 50th Street, vedo dei tizi sul marciapiede fare dei balzi improvvisi, e si guardano intorno furenti, e io so che Joe il Giullare li carica con delle palline di carta stagnola che spara da un elastico piazzato tra il pollice e l’indice.
Joe il Giullare è molto esperto in questo campo, e vedere i tizi saltare è molto divertente, anche se una volta o due nella vita Joe ha sbagliato mira e ha accecato qualcuno. Ma è tutto molto divertente, e dimostra che meraviglioso senso dell’umorismo abbia Joe.
Beh, qualche giorno dopo, vedo sui giornali dove un paio di tizi di Harlem con cui traffica Joe il Giullare sono trovati dentro a dei sacchi su a Brooklyn, molto stecchiti davvero, e gli sbirri dicono che è perché stavano cercando di entrare in certe imprese d’affari che appartengono a nient’altri che Frankie la Belva. Ma ovviamente gli sbirri non dicono che Frankie la Belva ha messo i tizi dentro i sacchi, perché in primo luogo Frankie la Belva li segnalerebbe alla Direzione di Polizia se gli sbirri dicessero una cosa del genere, e in secondo luogo perché mettere i tizi nei sacchi è rigorosamente un’idea di Saint Louis, e se hai un tizio in un sacco devi chiamare Saint Louis per parlare con degli esperti in materia.
Ora, mettere un tizio in un sacco non è facile come sembra, e in effetti servono parecchia pratica e parecchia esperienza. Per mettere come si deve un tizio in un sacco, prima va addormentato, perché naturalmente nessun tizio si metterà da solo dentro un sacco a meno che non sia un completo cretino. Alcuni sostengono che il miglior modo per addormentare un tizio è sciogliergli un sonnifero di qualche tipo nel drink ma i veri esperti gli danno semplicemente un colpo in testa con uno sfollagente, che evita il costo di pagargli da bere.
A ogni modo, dopo che il tizio dorme, lo ripieghi come un coltello a serramanico e gli leghi una corda o un cavo intorno al collo e sotto le ginocchia. Poi lo metti in un sacco di iuta, e lo lasci da qualche parte, e alla fine quando il tizio si sveglia e si trova chiuso in un sacco, naturalmente vuole uscire e la prima cosa che fa è provare a stendere le gambe. Questo gli stringe così tanto la corda attorno al collo che dopo poco il tizio è del tutto sfiatato. Così quando arriva qualcuno e apre il sacco, trova il tizio stecchito, e nessuno è responsabile per questa sfortunata situazione, perché dopotutto si è suicidato, per esser precisi, perché se non provasse a stirare le gambe potrebbe vivere fino alla vecchiaia, se si riprende dalla botta in testa.
Beh, un paio di giorni dopo vedo dai giornali che tre cittadini di Brooklyn vengono crivellati di pallottole mentre camminano pacificamente lungo Clinton Street, il crivellamento è operato da un qualche tizio su una macchina che sembra montare un mitragliatore, e si dice che i tizi col mitragliatore vengono da Harlem.
Da questo giudico che a Brooklyn c’è qualche problema, specialmente visto che una settimana dopo i tizi crivellati in Clinton Street, un altro tizio di Harlem è trovato chiuso in un sacco come un prosciutto della Virginia, vicino al Prospect Park, e ora chi è, se non il fratello di Joe il Giullare, Freddy? E so che Joe sarà parecchio dispiaciuto per questo.
Ora, una sera incontro Joe il Giullare, e questa volta è tutto solo, e desidero dire che sono intenzionato a lasciarlo da solo perché qualcosa mi dice che scotta più di una stufa. Ma mi afferra mentre gli passo vicino, così naturalmente mi fermo a parlare con lui, e la prima cosa che dico è quanto sono dispiaciuto per suo fratello.
“Beh” dice Joe il Giullare, “Freddy è sempre stato una specie di pesce lesso. Rosa lo ha chiamato e gli ha chiesto di andarla a trovare a Brooklyn. Vuole parlare con Freddy di me che le dò il divorzio” dice Joe, “così può sposare Frankie la Belva, immagino. A ogni modo” dice, “Freddy dice al Commodoro Jake perché la sta andando a trovare. A Freddy è sempre piaciuta Rosa, e pensa che forse può mettere le cose a posto tra noi. Così” dice Joe, “finisce in un sacco. Lo prendono dopo che ha lasciato il suo appartamento. Non dico che Rosa gli avrebbe detto di andarla a trovare se avesse avuto idea che sarebbe stato insaccato” dice Joe, “ma” dice, “è comunque responsabile. È una bambola maledetta.”
Poi comincia a ridere, e all’inizio sono parecchio orripilato perché penso che qualcosa in Freddy che viene insaccato stuzzica il suo senso dell’umorismo, quando mi dice come segue:
“Senti” dice, “sto per fare uno scherzo fantastico a Frankie la Belva.”
“Beh, Joe” dico io, “non mi stai chiedendo un consiglio, ma te lo darò lo stesso, gratis e per niente. Non fare nessuno scherzo a Frankie la Belva, perché sento che non ha più senso dell’umorismo di una capra anziana. Sento che Frankie la Belva non riderebbe con Al Jolson, Eddie Cantor, Ed Wynn e Joe Cook che gli raccontano delle barzellette tutti insieme. In effetti” dico, “sento che è un pubblico difficilissimo.”
“Oh” dice Joe il Giullare, “deve avere del senso dell’umorismo da qualche parte per sopportare Rosa. Ho sentito che si è bollito per lei. In effetti, credo che lei sia l’unica persona al mondo che gli piace, e di cui si fida. Ma devo fargli uno scherzo. Sto per farmi spedire a Frankie la Belva chiuso in un sacco.”
Beh, ovviamente devo ridere anch’io per questa cosa, e Joe il Giullare ride con me. Io di mio sto ridendo all’idea di qualcuno che si fa spedire a Frankie la Belva chiuso in un sacco, e specialmente Joe il Giullare, ma ovviamente non ho idea se Joe sta davvero parlando sul serio.
“Senti” dice Joe, alla fine. “Un tizio di Saint Louis che è un mio amico sta facendo il grosso degli insaccamenti per Frankie la Belva. Si chiama Cappio McGonnigle. In effetti” dice Joe, “è un mio vecchio amico molto amico, che ha un fantastico senso dell’umorismo come me. Cappio McGonnigle non ha niente a che fare con l’insaccamento di Freddy” dice Joe, “ed era parecchio indignato della cosa appena ha scoperto che Freddy è mio fratello, così non vede l’ora di aiutarmi a fare uno scherzo a Frankie. Proprio l’altra notte” dice Joe, “Frankie la Belva fa chiamare Cappio e gli dice che lo riterrà un favore speciale se Cappio gli porta me chiuso in sacco. Immagino” dice Joe, “che Frankie ha sentito da Rosa cosa Freddy deve averle detto sulla mia idea di divorzio. Ho delle concezioni molto rigide sul divorzio” dice Joe, “specialmente se il divorzio riguarda Rosa. Fa in tempo a morire di vecchiaia prima che io faccia a lei e a Frankie la Belva il favore di concederle un divorzio. A ogni modo” dice Joe il Giullare, “Cappio mi dice della proposta di Frankie la Belva, così rimando Cappio da Frankie la Belva a dirgli che sa che domani sera andrò a Brooklyn, e per di più, Cappio dice a Frankie che mi insaccherà in men che non si dica. E così farà” dice Joe.
“Beh” dico, “io di mio non ci vedo nessun vantaggio nel farsi mandare chiuso in un sacco da Frankie la Belva, perché da quel che vedo leggendo il giornale, non c’è futuro per un tizio che va da Frankie la Belva chiuso in un sacco. Quel che non capisco” dice, “è quando comincia lo scherzo a Frankie.”
“Ecco” dice Joe il Giullare, “lo scherzo è che io non sarò addormentato nel sacco, e le mie mani non saranno legate, e in ciascuna delle mani avrò una John Roscoe*, così quando il sacco arriva a Frankie la Belva, io uscirò fuori sparando, ti immagini che sorpresa?”
Beh, posso immaginarmela, ok. In effetti, quando mi metto a pensare all’espressione di sorpresa che dovrà stamparsi sulla faccia di Frankie la Belva quando Joe il Giullare esce dal sacco, mi viene da ridere, e Joe il Giullare ride subito con me.
“Ovviamente” dice Joe, “Cappio McGonnigle sarà lì per cominciare a sparare insieme a me, nel caso che Frankie la Belva sia in compagnia.”
Poi Joe il Giullare risale la strada, lasciandomi che sto ancora ridendo a pensare a quanto sarà sorpreso Frankie la Belva quando Joe salta fuori dal sacco e comincia a lanciare pallottole a destra e a sinistra. Non sento più niente da Joe dopo questo, ma mi raccontano il resto della storia dei tizi molto affidabili.
Sembra che Cappio McGonnigle non porta il sacco di persona, dopotutto, ma lo manda per corriere espresso a casa di Frankie la Belva. Frankie la Belva riceveva parecchi sacchi come questo ai suoi tempi, perché sembra che fosse una sorta di passione per lui vedere di persona il contenuto dei sacchi e controllare che fossero in regola prima che venissero distribuiti per la città, e ovviamente Cappio McGonnigle sa di questa passione per aver fatto così tanti insaccamenti per Frankie.
Quando il corriere porta il sacco in casa di Frankie, Frankie lo porta di persona nel seminterrato, e là tira fuori una grossa John Roscoe e spara sei colpi al sacco, perché sembra che Cappio McGonnigle gli ha spifferato il piano di Joe il Giullare di saltar fuori dal sacco e iniziare a sforacchiare in giro.
Sento che Frankie la Belva ha un’espressione molto strana sulla faccia e sta ridendo l’unica risata che chiunque gli ha mai sentito fare quando entrano i gendarmi e lo arrestano per omicidio, perché sembra che quando Cappio McGonnigle dice a Frankie del piano di Joe il Giullare, Frankie dice a Cappio cosa farà lui prima di aprire il sacco. Naturalmente, Cappio dice a Joe il Giullare l’idea di Frankie di riempire il sacco di pallottole, e il senso dell’umorismo di Joe risbuca fuori.
Così, legata e imbavagliata, ma per il resto perfettamente in salute, nel sacco che è spedito a Frankie la Belva, non c’è per niente Joe il Giullare, ma Rosa.


*Nello slang dei gangster degli anni Dieci/Venti tra i vari nomignoli usati per indicare le armi da fuoco (in particolare le pistole) c’era quello di ‘John Roscoe’. L’origine non è chiara, ma è probabile che derivi da Roscoe Arbuckle, un attore notissimo all’epoca che fece scandalo per il suo coinvolgimento in uno scabroso caso di omicidio


Gli esantemi e i lucumoni di Alessio Mosca

Nottetempo porta in libreria Chiromantica medica, la raccolta di racconti di Alessio Mosca. Se la realtà, a ben guardarla, è spesso allucinatoria, questi racconti rintracciano le sindromi nascoste e le configurazioni anomale che guidano le storie narrate dietro la sintassi apparentemente sconnessa, a tratti psicotica, degli eventi. Gli effetti narrativi sono del tutto singolari, onirici e concreti, comici e spiazzanti, lisergici e carnali. Un nuovo narratore con un immaginario che scarta fuori dai ranghi.

Cattedrale propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.



Gli esantemi e i lucumoni
di Alessio Mosca

Tutto quel che so è memoria delle fondamenta e delle mura, delle case e delle piazze, così che come una città muta io stesso cambio giacché il mio essere ricalca vie e palazzi, i miei desideri vivono nel cemento e nella calce, nel sogno proibito di una città perenne.
So del sottosuolo, di un uomo scomparso nelle viscere della Terra e di una strega affamata di luoghi infetti in grado di seguirne le tracce.
So di un dottore inconsolabile, della prima volta che si incontrarono. Lei scalciava e sputava mentre due guardie giurate la trascinavano fuori dal pronto soccorso.
“Lasciatemi! Maiali luridi che ve la prendete con una signora!” urlava.
“Tutto bene qui?”
“Niente, dottore, è solo la Sfacciata”.
“Andate pure, ci sto io”.
Mentre la donna si rassettava l’uomo notò i segni di una sindrome di Cushing avanzata, le guance gonfie, le ecchimosi e il ventre enorme sorretto da due gambette sottili come spilli. “Sta bene signora?”
La donna gli si avvicinò e gli diede una carezza.
“Lei prima era un esploratore o un archeologo. Come le città, gli uomini sono costruiti sulle rovine di altri uomini, come laggiù,” fece indicando l’ospedale.
“Lì prima c’erano delle tombe”.
Il dottore non fece in tempo a girarsi che la donna già fuggiva via. Non parli con gli infermieri, gli parve di sentire nel vento.
Era stato assunto da poco all’ospedale San Lazzaro di Volterra, a quel tempo tendeva a ignorare i piccoli falli di pietra che trovava negli interstizi dei muri, non prestava molta attenzione alle scritte sulle porte dei bagni in quell’incomprensibile alfabeto simile al fenicio o al greco antico. Li credeva scherzi o la stravaganza di qualche paziente psichiatrico. Non riusciva ad abituarsi a quei cunicoli stretti e a quelle vie che serpeggiavano nel tufo come se la città fosse emersa dalla roccia scavando fino a dissotterrarne i palazzi, sentiva che avrebbe potuto imboccare una stradina e senza rendersene conto ritrovarsi al centro della Terra.
So di quegli infermieri, del timore che incutevano, silenziosi e solenni come statue con quei nomi tutti uguali, Aulo, Aquilino, Attilio, Camilla, Lucrezia, Tarquinio. So dei loro capelli crespi e delle trecce, della barba a punta nerissima come gli occhi, grandi e allungati come se vi fosse l’ombra di un trucco ad accentuarne la forma.
“Non deve parlare con quella donna,” gli disse il caposala poco dopo che la Sfacciata era scappata via.
“Chi è la Sfacciata?” chiedeva il dottore. “Ed è vero che l’ospedale giace su una necropoli?”
Nessuno gli rispose.
Volle saperne di più, ma delle cartelle cliniche della donna non vi era traccia. Cominciò a fare domande ai colleghi.
“Lasci perdere,” gli dicevano.
“Si occupi d’altro. Che c’è? Nostalgia di casa?”
Gli infermieri invece non rispondevano affatto, alzavano le spalle o parlavano di un palazzo in costruzione. Gli sembrava che le loro espressioni lugubri si deformassero e che per attimi impercettibili digrignassero i denti e ruotassero gli occhi come diavoli o malati di tetano.

So dell’ossessione di cui a poco a poco fu preda. Decise di cercare la Sfacciata fuori Volterra a costo di frugare in ogni nosocomio, clinica o sanatorio, a costo di perdere tutto.
So che all’ospedale di Arezzo alcuni manutentori ne riconobbero la descrizione, che era stata vista entrare e uscire dagli ambulatori di Chiusi e che, a detta di un portantino, era stata ricoverata fino a pochi giorni prima al pronto soccorso di Pitigliano. Il dottore riuscì a delimitare una zona entro la quale la donna si muoveva, un’area che dall’Alto Lazio, costeggiando il Tirreno, arrivava fino a Pisa e Pistoia e, riscendendo, si allargava sfiorando la valle del Nestore e il Trasimeno. Era come se circolasse una leggenda per gli ospedali di quel pezzetto di terra dal nome dolce e divinatorio che i locali chiamavano Tuscia, una leggenda che tutti facevano finta di non conoscere ma che viveva nella febbre e nei suoi vaneggiamenti, nelle parole balbettate in punto di morte o sussurrate a mezza bocca dai portantini. La leggenda parlava di una donna impazzita, del marito scomparso anni prima nella necropoli di Veio e di come da allora lei si inducesse di proposito uno stato di immunodepressione iniettandosi del cortisone in vena pur di contrarre in quei luoghi infetti una qualsiasi malattia che le marchiasse la pelle.
A commuovere il dottore era qualcosa che aveva a che fare con l’ostinazione, quel tipo di ostinazione legata indissolubilmente ai pazzi o agli innamorati: per qualche oscuro motivo, lei in questo modo sperava di ritrovare il marito che ancora credeva vivo nelle viscere della Terra.
So che quando finalmente si incrociarono nel pronto soccorso dell’ospedale di Cerveteri, il dottore sorrideva ma le sue ginocchia tremavano, so che la donna era seduta su una barella dove, piegata sulle proprie gambe, ricalcava con carta velina le ecchimosi che le erano venute sulle cosce. Era notevolmente peggiorata, il cortisone l’aveva gonfiata ancora di più, si era ingobbita e le guance rosse sembravano infuocare il resto della pelle color della cenere.
“Chi è lei? E cosa è successo a suo marito?” chiese tenendole una mano.
La donna blaterò, si guardò intorno come una paranoica e sputò. Balbettò di cunicoli e catacombe, di reti fognarie scavate nel tufo che portavano a cripte divenute scantinati, di come ogni sera arrivasse a sfiorare le dita del marito senza mai riuscire a raggiungerlo.
“Ma io ce la farò, capito? Riuscirò a salvarlo”.
Poi ripiegò il foglio e lo mise in un quaderno che porse al dottore, un regalo, come volesse confidargli un segreto per ringraziarlo di tanta gentilezza. Proprio in quel momento entrò di corsa un manipolo di uomini vestiti di bianco, le si fecero attorno e portarono via la barella d’urgenza. Il dottore fece appena in tempo a nascondere il quaderno sotto i vestiti e a urlare: “Fermi! Fermatevi!” prima che le guardie giurate lo pestassero fino a fargli perdere i sensi.
Quando si riprese, era notte e la donna era già morta.
“Un arresto cardiaco,” dissero ridendo con gli occhi.
Il dottore allora corse a casa stringendo il quaderno sotto al cappotto, assicurandosi che nessuno lo seguisse, sprangò porte e finestre e lo sfogliò. C’erano autoscatti, la donna aveva conservato le foto che ritraevano tutti gli sfoghi e le malattie della pelle avuti negli anni e su quelle foto aveva disegnato linee e schemi, preso appunti e sovrapposto planimetrie e carte topografiche, era una sorta di trattato di dermatologia e urbanistica.
Le croste erano come fondi di caffè e i loro contorni seguivano i perimetri della città vecchia di Tuscania, le ecchimosi erano come linee di una mano o tarocchi e rispecchiavano il Mitreo di Sutri, le vescicole di un herpes erano presagi di mappe sulle quali decifrare la rete fognaria di Fiesole, le pustole della psoriasi indicavano la posizione delle grotte di Orvieto, i tunnel e le gallerie, e giuro che unendo con una matita le petecchie di una vecchia vasculite si ricostruiva il labirinto di Porsenna e pure il perimetro delle mura ciclopiche di Vetulonia.
I tumuli della Necropoli di Tarquinia erano i pomfi o le bolle che le erano venuti quando la donna era ricoverata all’ospedale di Vulci, come se quei sepolcri rivelassero l’ustione della Terra.
Le strie rubre si dipanavano come le strade cave di Sovana, le papule purpuriche indicavano la Tomba Ildebranda, quella del Tifone, delle Sirene o la chiesa di San Mamiliano. Era l’aruspicina dei cunicoli e dei mattoni, la divinazione degli esantemi e delle macule, era come se quella donna avesse scoperto un’arcana corrispondenza fra uomo e città e la memoria stessa dell’umanità fosse custodita nelle fondamenta e nei luoghi così come sulla sua pelle. Una strega che si orientava su mappe ottenute interpretando papule ed eczemi, abituata a stare sottoterra a contatto con i vermi e la muffa nella speranza di ritrovare il marito inghiottito da quell’oscurità. Era la sacerdotessa dei tunnel e delle verruche, di una rete sotterranea che collegava tutti i luoghi dei Tirreni dove un uomo scomparso nei cunicoli della necropoli di Veio poteva essere ritrovato nell’Ipogeo di San Manno a Perugia o nelle cantine abbandonate di un vinificio di Cortona.

So che quando il dottore tornò al lavoro i suoi pazienti iniziarono a morire, che non appena usciva dalla stanza quelli collassavano. Siringhe d’aria o emboli, infarti fulminanti o sortilegi. So che vedeva i risolini etruschi degli infermieri che simili ad apolli di Veio ricoprivano i cadaveri con un lenzuolo.
Pur di non allontanarsi dai pazienti iniziò a vegliarli, a dormire accanto a loro, ma bastava che chiudesse le palpebre un istante e veniva risvegliato dal rumore continuo del monitor che segnava l’assenza di battito cardiaco.
So che lo trovarono con un coltello in mano che minacciava di sventrare chiunque si fosse avvicinato alla stanza dei suoi pazienti, so che quel giorno fra loro c’era anche una bambina. Lo presero per pazzo, fu cacciato e radiato dall’albo.
Allora prese le piante e le planimetrie delle città, degli scavi, del sottosuolo. Aveva ancora con sé il quaderno su cui la Sfacciata aveva impresso le sue ecchimosi: cominciò a cercare schemi e punti di riferimento, a sovrapporre tavole e a lanciare dadi. Due lividi a forma di u potevano corrispondere alla Porta dell’Arco etrusco e alla Porta Diana, due macchie potevano combaciare con l’acropoli dietro al Palazzo dei Priori e all’ospedale San Lazzaro.
So che con una matita unì gli altri punti e disegnò corsi e stradine, fece emergere vie e piazze, e che quella mappa improvvisata gli indicò un percorso. Lo seguì finché si ritrovò davanti la chiesa di San Giusto. Entrò. Trovò una lapide incastonata nel pavimento su cui erano incisi gli stessi caratteri indecifrabili che aveva già incontrato nel suo peregrinaggio, la spaccò e si calò dentro. Si ritrovò in uno spazio circolare scavato nel tufo, una tomba ipogea dalla quale si dipanava un’intricatissima rete di grotte e gallerie. Fece qualche passo in avanti, arrivò sulla soglia del labirinto poi tornò indietro e corse via. Corse davvero.

* Appunti scritti dal dottore:
L’aorta è un architrave.
E gli occhi cortili.
Le ossa sono travi
o pilastri, i nervi solai.
Le vene sono archi e le arterie corridoi.
Il cuore è la chiave di volta.

L’erba grassa, di Romana Petri

Giulio Perrone Editore porta in libreria l’ultimo lavoro di Romana Petri: Mostruosa maternità, una raccolta di racconti che è un viaggio nella parte più oscura e indicibile dell’universo femminile. Iniziando e chiudendo con il caso Franzoni, i racconti iniziano nel Medio Evo per poi finire ai nostri giorni. In quel parte della mente può andare a finire il pianto dirotto di un figlio? Quale senso di inadeguatezza estetica durante la gestazione può fare impazzire? E perché si può accettare violenza sul proprio figlio da parte di un uomo che ne sia o non sia il padre? Che tipo di insana gelosia può provare una madre verso una figlia?

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

L’erba grassa

Akifa Šeremeta (Sarajevo), 1993

Spesso mi pento. Ogni volta me ne pento, ma siamo in guerra e non c’è scampo per nessuno.
Che non vedo la mia gente sono ormai due anni. Giorni di guerra e feste comandate, tutto da questa parte, in terra nemica. Dall’altra parte, invece, nella mia terra, c’è l’esercito di questa gente, e immagino ci sarà strazio anche per quei soldati in tanta lontananza. Lontananza nel tempo dell’assenza, perché volendo ognuno di noi potrebbe tornarsene a casa con poche ore di viaggio. Certe volte è così. Lontananza fatta di tempo che passa, non di chilometri.
Parliamo tutti la stessa lingua e questo è un bene, dice il mio comandante, la comprensione rende l’odio molto più autentico. Storie, dico io, col nemico non si parla mai. Quella comprensione che, dice il comandante, sta tutta nel pensiero, ma il pensiero esiste anche tra chi parla lingue straniere e non si comprende, perché chiunque, dal nemico, lo sa di essere odiato, lo sa e basta. Ciò che si impara qui è che il rispetto non c’è mai stato in nessuna guerra, che in fondo non esiste nemmeno in tempo di pace, perché altrimenti quale sarebbe mai il punto di partenza di una guerra? E non è vero nemmeno che si ama di più la propria gente, falso, è solo una condizione dello stare, non lo so spiegare bene, e tante volte mi addormento col pensiero che potrei svegliarmi e fare strage di chi trovo, chiunque sia.
L’unica cosa vera è che qui si pensa a caso: le lenzuola, la roba cucinata, i gesti che abbiamo visto fare fin da bambini, come quello di lucidare le maniglie delle porte che è sempre stato la passione di mia madre e il modo mio di guadagnarmi qualche soldo.
Si cambia molto qui, e per diventare tutti uguali: di una ferocia che poi non so quanto tempo ci vorrà a farla placare.
Il fatto del pentimento è cosa che se ne sta nel fondo, elemento veloce e passeggero che ha un suo peso diverso per ognuno. A volte esplode come una granata, ed è un fastidio, quasi un intralcio alla situazione nuova che dentro a ogni soldato ha preso una forma tutta sua. Il pentimento mio è del genere ubriaco, una caduta da eliminare in fretta. Ma è fatto a strati, e uno sull’altro si depositano come un ingombro di grande peso che poi si sbilancia. Lo sento dentro il corpo che se ne va in cerca di un luogo di maggiore convenienza, ci sono giorni in cui se ne va tutto dentro un piede, che diventa quello che trascino quando devo camminare, altri invece è una gobba deforme sulla schiena che mi spinge in avanti indebolendomi le gambe.
L’importante è disprezzare tutto ciò che appartiene al nemico, un bel ruscello pescoso che scorre tra le rocce, un campo arato, anche un tramonto.
Ho ucciso già molte volte, e mi sono accorto che in questo non c’è grande pentimento perché ho capito che va fatto senza pensare, prendendoci il gusto equilibrato del lavoro che va svolto. Mi dico sono uomini e stanno in guerra, come ci sto io in questo evento scritto dal destino.
Ma del nemico vanno odiate anche le donne, lo dice il comandante con una smorfia tutta obliqua della bocca, e poi sputa lontano. Dice che è colpa delle donne se ce ne sono sempre tanti in giro di nemici, ché li hanno partoriti loro con le nemiche pance. Mi è sembrata strana quella storia lì delle pance, senza una vera colpa, e ci ho pensato a lungo la scorsa primavera, mentre correvo in un campo d’erba grassa col fucile in spalla e il sudore a fiumi tra stoffa e carne. Abbandonavamo un casolare in fiamme che avevamo devastato col disprezzo necessario dopo aver ucciso i contadini senza rispetto per la loro morte. Siamo poi fuggiti tutti dietro al grido di uno dei nostri, aveva detto: «Le donne stanno nel campo oltre la valle!», e si era messo a correre veloce seguito da tutti quanti noi.
Mi avevano detto che le vecchie andavano ammazzate e le giovani prese di violenza per farle gravide del sangue dei nemici, e che al momento andavano sputate in faccia così come si esercitava il comandante quando raccontava. Lo diceva lui che andava seminato l’odio e che quello era un bel modo, lasciandosi alle spalle un po’ di seme sparso nelle schifose pance delle donne loro.
Con una donna io non c’ero stato mai, né con la forza né teneramente. E mentre correvo a precipizio, giù nell’erba grassa, sentivo che a eccitarmi era quel correre insieme agli altri, quell’arrembaggio molto fanciullesco che mi ridiede tutto il senso degli anni tanto lontani nella mia terra. Correvo io di quel momento ma anche un altro me, quello di un’epoca passata. E anche quell’altro così remoto lo sapevo trascinato dai più grandi che lo precedevano veloci. E pure lui correva dell’identico entusiasmo, ma ignaro dello scopo.
Fu questo a darmi una grande rabbia: la mia insignificanza, questo partecipare inutile e senza conoscenza. Stava calando il sole, e le ombre nostre corridore erano lunghe, frastagliate nell’erba che prendeva l’arancione di una bella luce. Lo sentivo tutto il peso del mio corpo, il suo calore, la fiacchezza senza più fiato. E poi mi ci ritrovai in mezzo e vidi ciò che facevano gli altri presi dall’impazzimento. Volevo dire: «Fermatevi che era solo un gioco!». E dentro lo stomaco sentivo che avevo fame veramente, che tutto si scuoteva dal basso verso l’alto in un battito del cuore che mi sembrava quasi esterno.
Vidi una vecchia appena uccisa, rovesciata a terra, col braccio destro mutilato da dove usciva ancora denso un flusso di sangue rosso scuro che allargava il suo disegno sull’erba grassa, in grandi riversamenti sparsi e subito assorbiti dalla terra.
Ad ascoltare e vedere ciò che accadeva tutto intorno, mi sentii preso dal verso giusto della situazione e con tutta la quantità del sangue mio che da freddo tornava caldo, pronto a partecipare a quel massacro solo perché certo di essere tra i vincenti, ché questo in guerra accade molto umanamente: di sentirsi predisposti a essere spietati quando si ha certezza di non correre noi stessi il rischio della morte. Questa è la condizione dello stare: fingimento e un poco di baldanza.
Così detti un grido forte di allegria ammattita, e dopo la breve sosta d’osservazione ripresi quella corsa a fin di male.
L’afferrai per un braccio e la voltai di forza guardandola negli occhi. Da lontano era una figurina acerba che correva, ma da vicino una donna senza attraenza, col fazzoletto scuro legato sulla nuca e scarpe troppo grosse per i suoi piedi. La sbilanciai col peso mio di tutto il corpo e le fui sopra sull’erba morbida con l’urlo nelle orecchie dei suoi lamenti di paura e il significato chiaro di tutte le parole. Mi venne voglia di ascoltare solo le sue domande e così le rispondevo dicendole dei contadini che avevamo ucciso e dell’incendio che aveva distrutto il casolare, mentre mi accorgevo che il calore del suo corpo dato dal respiro mi ripugnava come cosa estranea a me. Sentivo intanto le urla soffocate di quelle che morivano e le altre più straziate di chi subiva il furore greve del disprezzo. Mi disse: «Salva almeno me che aspetto un figlio». E me lo disse col sorriso, con la speranza di chi s’è accorto dell’indugio. Fu in questo suo atteggiamento che trovai la mia determinanza, ché tanto non avrei mai preso lei né nessun’altra. E allora la sputai, e subito la uccisi sparandole in gola, quasi soffocando nell’allagamento di quel sangue rosso che venne a sbruffarmi in piena faccia dandomi così, di tutto il mondo che vedevo intorno, la visione colorata dell’odio bellicoso.
Mi abbandonai poi supino nell’erba grassa, accanto al corpo suo morto che ancora gorgogliava di qualche solitario fiotto già scurito dal tramontare rapido del sole. E mi ritrovai nel giusto, nel gran bello e fatto che si adattava alla mia natura di soldato.
Dopo lo scempio di quel giorno ce ne tornammo tutti al campo nella stanchezza silenziosa del rientro. Di ognuno, nel bosco, sentivo il frusciare suo da animale e il viluppo che gli stava ancora addosso col profumo selvatico della violazione e del massacro.
Quando arrivammo era già notte e feci quello che andava fatto imitando gli altri, raccontai com’era andata la parte mia e dissi che dopo la violenza l’avevo uccisa per via che in quella pancia non c’era odio da lasciarci dentro. Fui giudicato giusto dal borbottio di tutti quanti prima di cominciare il giro delle bevute forti che offriva il comandante.
Mi addormentai con un pensiero esatto: quello dell’azione della guerra ben condotta e dell’anima pulita. Da quella volta ho sempre scelto donne gravide. Dei miei compagni nessuno si è mai accorto che non ne facevo abuso corporale. Con i pensieri giusti ho addomesticato sempre il pentimento momentaneo che indebolisce il cuore dei soldati, e continuo così con metodo sicuro: le sputo in faccia e poi le sparo tutte, le sparo e basta.

Il primo Natale, di Gábor T. Szántó

Anfora edizioni porta in libreria 1945 e altre storie, di Gábor T. Szántó, l’ultimo scrittore ebreo ungherese - come lui stesso si definisce. Prima opera tradotta in italiano, da Richárd Janczer e Mónika Szilágyi, si tratta di otto racconti che riflettono tematiche tra le più importanti del nostro tempo e della nostra storia. Racconti audaci, profondi e taglienti, ma nello stesso tempo toccanti, grazie allo stile asciutto e senza fronzoli dell’autore, spinto da un elementare senso di giustizia e compassione per le prospettive dei sommersi che vivono con noi (immancabile il riferimento a Primo Levi).

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

IL PRIMO NATALE

Il primo Natale Gironzolava tra i venditori di abeti di piazza Lehel. Non aveva mai comprato un albero di Natale ma, in quell’inverno del 1969, non riuscì a resistere oltre, i due bambini si lamentavano così tanto e ripetevano con tono così accusatorio che nella loro classe tutti avrebbero avuto un albero, solo loro no. Anche Anikó, sua moglie, lo guardò talmente disperata, come se cadesse veramente il mondo per il fatto che i bambini dovevano fare a meno di quel fottuto abete.
Robi, il figlio più grande, si mise a piagnucolare quando il padre lo interrogò sul perché non capisse che il Natale non era una loro festa, come non era una loro festa nemmeno la Pasqua, anche se ricevevano un uovo di cioccolato ogni anno.
Non è giusto che gli altri abbiano le loro feste e noi non ne abbiamo! disse tutto imbronciato il più piccolo tra i ragazzi, Peti, che si limitò poi a sbattere le palpebre e rimase in ascolto tutto intimidito. Il maggiore non polemizzò. Sentiva che, con il suo tumulto, avrebbe dato pena ai suoi genitori. Aveva anche paura delle conseguenze, per questo piuttosto sopportò in silenzio, ripiegato, il proprio dolore.
Non festeggiano nemmeno le feste ebraiche perché, spiegò il padre, per loro che ormai sono uomini moderni, illuminati, quelle sono cose antiquate, religiose. Le feste di famiglia, il compleanno, sono altro, come l’anniversario di matrimonio, ma gli onomastici, quelli non li osservano, perché non è usanza. All’apparenza, i bambini accettarono la spiegazione ma gli sguardi afflitti, che lanciavano al ritorno a casa da scuola, ai Babbi Natale comodamente adagiati nelle vetrine natalizie, agli abeti addobbati, mentre lui, tenendoli per mano, faceva per trascinarli via, dall’inizio di dicembre, giorno dopo giorno, non mancavano di ricordargli che i ragazzi soffrivano. Peti una volta gli fece presente, con rassegnazione: Lascia che guardiamo almeno qui, se a casa non ci sarà Natale!
Questo fece sobbalzare anche il suo di stomaco. Non aveva obiezioni. I suoi bambini soffrivano.
Decidi tu! Non voglio che poi te ne penta, che rinunci ai tuoi principi a causa dei bambini o a causa mia, sussurrò Anikó la sera quando, dopo che si erano coricati, tirò fuori l’argomento che lo logorava.
Perché io? Decidi tu! disse teso perché sentiva che la moglie desiderava molto la gioia dei bambini, voleva solo addossargli la responsabilità, perché sola era incapace di trasgredire i divieti radicati in lei dall’educazione dei genitori.

Stava lì, nel viavai del mercato, il caratteristico profumo di abete si era fatto strada nel suo naso e, mentre esaminava con lo sguardo i potenziali alberi (gli appartamenti di moderna costruzione, nel condominio di Újlipótváros, dove abitavano, avevano due metri e ottanta centimetri di altezza interna), riaffiorò in lui il ricordo del Natale del quarantaquattro, vivido anche dopo i venticinque anni trascorsi, quando il loro campo si trovava accanto a un bosco di abeti innevato.
Da allora non aveva più annusato abeti. Da allora niente più scampagnate. Era la vicina, un’anziana signora, a portare i figli in gita a Normafa o sul monte János, e badava spesso a loro anche quando andavano all’asilo; lui ringraziava ma non gradiva prendere parte alle escursioni.
Ho camminato a sufficienza per una vita intera, borbottò ad Anikó, che fece un gran sospiro:
L’aria pulita serve.
E bussò alla vicina, la signora Klári.
Stava in piedi al mercato, in mezzo agli abeti legati con lo spago, e si ricordò che nelle baracche di legno la stufa a malapena tremolava. Non sapevano se esserne contenti o no che non li spingessero a marciare ancora nella neve verso Occidente, o se avrebbero dovuto appunto considerare quella calma inaspettata come un segno di cattivo presagio. In quello stato era pressoché impossibile pretendere che proseguissero, anche se sospettavano che la distensione non fosse di buon auspicio. I viveri scarseggiavano, difficilmente avrebbero potuto contare su rifornimenti nel mezzo della foresta. Il villaggio più vicino era a due giorni di cammino nella neve che arrivava fino alle ginocchia.
Prima di mezzogiorno aveva fatto capolino un’altra unità, anche loro si accamparono lì. Chi era capace di seguire i giorni, sapeva che stavano trascorrendo proprio la sera di Natale assieme al resto dell’altra compagnia dei lavoratori forzati e del loro contingente. Avevano appeso in tutta fretta a un albero qualche decorazione fatta con fogli di giornale ritagliati e vi avevano fissato un paio di candele.
I soldati, per la gioia dell’incontro e della festa, avevano tracannato acquavite già dal primo pomeriggio e gli avevano imposto di uscire dalle baracche. Dovevano mettersi in riga e ascoltare il proclama del loro comandante, l’anziano capitano Ferenczy.
È Natale, giudei! Non so se lo sapete o no ma questa è la festa dell’amore. A quest’ora è nato Nostro Signore Gesù Cristo, che voi avete messo in croce. Ma, per farvi vedere che noi siamo diversi, noi vi lasciamo un’occasione. Allestiamo una gara di corsa e dovrà crepare solo chi rimarrà indietro. Gli altri la faranno franca. Questo è il vostro regalo di Natale. Gareggeranno, l’una contro l’altra, squadre da cinque per ciascuna delle due compagnie. Ognuno potrà sparare solo a chi rimane indietro e ai lavoratori forzati degli altri, è chiaro? si rivolse ai soldati. Senza regole non si può né giocare né vivere!
Da entrambi i lati, i membri del contingente scoppiarono a ridere.
Su, andiamo, si preparino! Se farà troppo buio, finiremo per sparare di qua e di là, manca solo che si facciano male altri, non solo chi è impotente e non ce la farebbe comunque a proseguire.
In silenzio, si tolsero di dosso, strato dopo strato, i cappotti, le giacche e i maglioni. Alcuni si tolsero perfino i pantaloni, rimasero lì a congelarsi in calzoni o vestiti solo di mutande, solo per non farsi ostacolare da nulla nella corsa.
Dovevano correre nella neve, dalla linea di partenza fino alla parete rocciosa della cava di pietra abbandonata distante ben sessanta metri. Al primo sparo, al segnale dato dalla pistola da starter, entrambi i gruppi si lanciarono a correre. Coloro che partirono in ritardo si rattrappirono completamente. Nel silenzio di tomba si udiva solo il crepitare della neve, il loro ansimare e il sibilare degli spari. Mentre muovevano le gambe frettolosamente, con movimenti sregolati, affondavano nella neve vergine fino alle ginocchia. Le pallottole che mancavano il bersaglio schioccavano sui sassi con sibili assordanti.
Il sangue puzza? guaì Váradi, il mercante tessile, appena sbatterono contro la parete rocciosa, uno accanto all’altro.
Non sapeva se il compagno stesse solo boccheggiando o se l’avessero colpito.
Non ne ho idea. Perché? rispose con una domanda, ansimando. Non si era ancora reso conto che era vivo. Perché, se non puzza, allora mi sono solo cagato addosso.
In quel momento eruppero dei suoni di guaiti anche da lui. Non solo l’altro, nemmeno lui stesso sapeva se stesse ridendo o singhiozzando, crollò così nella neve.
Voleva un regalo che rendesse memorabile per i ragazzi il loro primo Natale. Considerato che, nell’azienda di commercio estero in cui lavorava, i colleghi potevano importare articoli da regalo, per giunta esenti da dogana e senza specifici permessi, nelle due settimane restanti a Natale fu in grado di occuparsi del fatto che le sorprese che aveva adocchiato nel catalogo arrivassero ancora in tempo, prima della festa, dalla Cecoslovacchia.
Non fu tuttavia disposto a comprare gli addobbi per l’abete, le minuscole, colorate lampadine da pinzare all’albero, le bacchette scintillanti e i cioccolatini.
Comprale tu queste cianfrusaglie, va bene? disse ad Anikó, la quale annuì in silenzio e pensò: dopo essersi decisi con molta fatica di festeggiare, perché lui doveva rovinare tutto con la sua malavoglia, perché dovevano sentirsi male, quando si sarebbero potuti sentire bene?

Lui avrebbe intagliato il tronco dell’albero e l’avrebbe montato nella stanza grande, davanti alla finestra, Anikó invece l’avrebbe addobbato, così diceva l’accordo. Non era entrato nella stanza finché non si era fatto buio e la moglie, un po’ impacciata, non l’aveva chiamato con entusiasmo infantile, dicendo che avrebbero dovuto cominciare, che tirasse fuori i regali dai nascondigli, perché ormai i ragazzi erano molto impazienti. Accesero le bacchette scintillanti e dissero ai bambini che potevano venire.
I ragazzi rimasero davanti all’albero con il volto ardente, commossi. Il più piccolo guardava a bocca aperta le scintille, le luci colorate brillare e spegnersi. Inspirarono profondamente il profumo di abete e fosforo che aleggiava per tutta la stanza, Robi invece sbatteva le palpebre, ora verso l’albero, ora verso il padre e la madre, come se aspettasse da loro il segnale di cosa avrebbero dovuto fare.
La moglie gli prese la mano dietro la schiena. Lasciò che la moglie lo toccasse ma non mostrò alcuna reazione. Quando le bacchette scintillanti si spensero e rimasero solo le luci colorate, fissate ai rami dell’abete a illuminare, Anikó accese un abat-jour accanto al divano, ma egli, caparbiamente, accese il lampadario.
Cos’è? chiese Robi, prendendo in mano emozionato il regalo in comune. Peti stava già strappando anche la carta dorata dall’oggetto di forma allungata. Quando lo scartarono dalla confezione decorativa, ancora non fece capolino: la sorpresa era avvolta da un involucro in tessuto marrone.
È forse una canna da pesca? Robi volse lo sguardo al padre, pieno di meraviglia.
Ma noi non andiamo mai a pescare! Peti, perdendosi d’animo, lasciò cadere la carta regalo.
Il volto disciplinato, il sorriso enigmatico del padre non rivelavano se fossero vicini o no alla soluzione. I ragazzi allargarono l’apertura stretta del sacco ma dovette aiutarli anche lui a far sgusciare fuori dall’involucro il congegno d’acciaio, splendente di una luce nera, oleosa, discretamente pesante, ricoperto da una pellicola di nylon, un fucile ad aria compressa Slavia, modello 620.
Uh! Mitico! la riconoscenza eruppe unanimemente dai bambini. Tastarono l’arma, si misero la tracolla al collo, la portarono in giro per la stanza così, poi se la strinsero sulle spalle e provarono a puntarla, per provare quanto fosse pesante.

La madre li guardava preoccupata. I ragazzi, fino ad allora, non avevano ricevuto neanche una pistola giocattolo.
Basta che non ve la puntiate addosso e su nessun altro! Sussurrò all’orecchio del marito: Non creerà problemi?
L’uomo l’abbracciò e la strinse a sé.
La preoccupazione sul volto di Anikó non si placò. I ragazzi intanto ormai avevano piegato più e più volte la canna unendo le forze, riempivano il serbatoio d’aria e, vedendo l’assenso del padre che annuiva, avevano premuto il grilletto dell’arma scarica.
Su, ragazzi! Volete provarlo?
Sì, sì! Strillarono Robi e Peti.
Prestate attenzione! Vi mostro come si carica, glielo prese dalle mani.
Ma come potremmo provarlo qui? chiese Robi. Non abbiamo mica un bersaglio.
Un po’ di pazienza! disse il padre, che continuava a sorridere, come chi avesse premeditato il tutto.
L’abete si trovava di fronte alla finestra. Scostò le tende retrostanti e spalancò la finestra. Di fronte alla casa a cinque piani si spalancava uno spazio vuoto, terreni non edificati in attesa del proprio destino al posto dei depositi di legname di un tempo. Ritornò al centro della stanza, accanto al ragazzo.
Sui cioccolatini non si spara, solo agli addobbi! Inserì i minuscoli proiettili di piombo nel fucile e lo porse al figlio maggiore.
Robi indietreggiò stupito. Cercò con lo sguardo la madre che, con le lacrime agli occhi, strinse a sé il figlio minore.

Arrivederci, di Marzia Grillo

Giulio Perrone Editore porta in libreria Il punto di vista del sole, di Marzia Grillo. Una raccolta che dimostra una scrittura di forte impatto, solida e di grande acume letterario. Il reale e il fantastico si fondono in questi tredici racconti, in cui Marzia Grillo osserva con sguardo chirurgico il mondo da prospettive tanto umane quanto meccaniche e celesti, giocando e mischiando tutte le forme narrative.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Arrivederci

Fino a un mese fa gli aerei in partenza facevano un rumore sottile, metallico; alzavano il muso, acceleravano un poco, e via. Adesso le piste d’atterraggio sono impolverate, con mucchietti di anime rimasti incastrati alle torrette, in attesa dei corpi. Di’ loro di svolazzare piano. Di’ che tra due giorni comincia a fare caldo, siamo in un mese con la R: suggerisci di fare attenzione.
Il tuo era stato l’ultimo volo in partenza. Avevi il singhiozzo quando mi hai detto ciao. Quando hai guardato in alto e sussurrato: «Le rondini», e io voltandomi ho risposto: «Ho l’acquolina in bocca».
Il motto dell’aeroporto è: ogni rondine fa primavera. Nei periodi giusti, all’ingresso le vendevano a mazzetti, a chili nel parcheggio. I barbecue facevano un fumo del diavolo, erano ovunque. Chi non desidera una rondine arrosto per souvenir?
«I biscotti della fortuna non hanno grandi traduttori, dovresti mandare il tuo curriculum», avevi detto prima di partire. Eravamo seduti sugli sgabelli di Wok, al Terminal 2 di Fiumicino. Tenevi il biglietto davanti agli occhi. In inglese c’era scritto: “Se gli aerei stringono i denti, tagliagli le ali”. In italiano: “Chi non parte si rivede”.
Mi avevi strattonata come fossi di cartone. «Riuscirò ad andarmene, hai capito?». Avevi suonato con le bacchette sul tavolino. «Sono raggiante», avevi insistito, lo sguardo fisso sul tabellone sopra la mia testa. Negli ultimi giorni le stazioni avevano interrotto il servizio, le auto avevano iniziato a sbocciare lungo i marciapiedi, impollinate dai droni. Non volevo tornare a casa, continuava a sembrarmi una trappola. Mi avresti ritrovata al gate a tempo debito, con lo stesso sorriso spacciato.
A un tratto però è sembrato che il mondo si stesse fermando per sempre, e gli aeroporti non avessero più alcun senso. È stato allora, poco prima che tutti se ne andassero lasciandomi sola, che un impiegato con la mascherina ha provato a tracciare una tacca sul muro, laddove arrivavo. Io non riuscivo a stare ferma, lui non riusciva a fare una linea retta. Con un sorriso mesto si è complimentato, ha detto: «La tua anima sta decollando».
Ma tu non torni, e i negozi qui sono chiusi da settimane.
I banchi dell’accettazione non accettano, i nastri trasportatori non trasportano. Io ho fatto mille volte il giro di tutte le cartoline di Roma, attraverso le grate: piazza Navona gremita, la basilica di San Pietro affollata, il Colosseo animato da leoni in 3D.
Ieri, vicino ai computer a gettone, ho trovato una di quelle macchinette che stampano biglietti da visita. Ho digitato “Aspetta e…”, selezionato l’opzione fronte/retro, completato la frase. Ne ho preparati cento, li ho piegati ad arte e li ho lasciati davanti alla serranda di Wok, senza curriculum.
Sto per finire le sigarette, ma ho ancora dieci fiammiferi. La fiducia si guadagna, ma la pazienza a un certo punto si perde. Chi tra i due ha studiato Economia?
Questa mattina le rondini non mi hanno dato tregua, così ho firmato un patto con loro, lo abbiamo siglato e poi abbiamo ballato forte, sulla pista da cui sei partito. Abbiamo apparecchiato con le tovaglie a quadri, ci siamo legate i fazzoletti dell’arrivederci al collo. I barbecue stanno già fumando. Io sto fumando l’ultima delle mie sigarette. Presto o tardi tornerai, e saremo pronte a divorarti.

La panchina vuota, di Francisco Tario

Safarà Editore porta in libreria Fra le tue dita gelate. Racconti fantastici, di Francisco Tario, per la traduzione di Raul Schenardi.
Dedicato all’amata moglie Carmen Farell, il “mágico fantasma” che attraversa impalpabile il respiro di ogni pagina, questo libro è considerato all’unanimità il capolavoro di Francisco Tario, enigmatico protagonista della letteratura messicana del Novecento. Scritti con una prosa di inquietante bellezza, i racconti surreali, grotteschi e sensuali qui riuniti illuminano i varchi di accesso verso una dimensione altra che scorre parallela alla comune percezione, disseminando il testo di anticipazioni che solo i lettori più scaltri sapranno individuare e svelando, solo in parte, l’enigma della narrazione.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del testo, per gentile concessione dell’editore.

La panchina vuota, di Francisco Tario
Traduzione di Raul Schenardi

Ogni giorno, a partire da quello in cui venne assassinata, aveva l’abitudine di tornare a casa sua, dove trascorreva le ore morte.
L’intimità della sua casa, gli odori del giardino, il pallido splendore degli specchi, tutte quelle cose care e familiari, ora avvolte in un emozionante mistero, le offrivano le ore migliori della sua morte, come in altri tempi le avevano riservato i momenti più indimenticabili della sua vita.
In altri tempi, tuttavia, persisteva nella casa, anche durante i pomeriggi più silenziosi, un rumore fastidioso, come se la casa intera si riempisse di foglie, ed era, oggi lo capiva, il respiro vivo della sua casa, perché allora la sua casa viveva, era lei, e la vita non è mai silenziosa.
C’era sempre qualche presenza maligna, che fosse quella del postino, o quella dell’orologio che segnava l’ora, o quella del campanello del cancello che annunciava qualche visita ina- spettata; o anche quella di lei stessa che scendeva le scale, la sua voce o quella del marito, o il proprio riflesso nello specchio.
Non era mai assoluta la quiete, come se un mare addormentato smuovesse le proprie acque sotto le piante del giardino.
E lei si lamentava spesso – ma come opporvisi? – del fatto che la sua vita, che era così breve e così bella, venisse turbata a qualsiasi ora da tante presenze tanto insistenti. Vivere sembrava inutile, era come una lotta forsennata fra qualcosa che nascondeva il suo pensiero e qualcosa che restava occulto tra i fiori.
Se n’era accorta da tempo, ma soltanto oggi riusciva a spiegarselo. Soltanto oggi, dalla sua silenziosa morte, da quell’immobile silenzio e da quella perpetua immobilità, dove non c’era niente da sperare, perché tutto quello che si sarebbe potuto sperare si era già realizzato, lei godeva di una serenità propizia per fermare il suo pensiero dove le conveniva, e per tutto il tempo necessario, sapendo che nessuna emergenza si sarebbe frapposta fra lei e il suo pensiero.
La casa era chiusa, sbarrata da anni, e sulla porta c’era un sigillo.
Quel sigillo lasciava intendere ai passanti che a nessuno di loro sarebbe stato permesso di abitare in quella casa, che era una casa proibita, forse maledetta, chiusa a qualsiasi destino di gioia. Che era, insomma, la casa stessa della morte.
Gli alberi, i cui rami secchi cadevano pesantemente sulla casa, erano fioriti e guardando attentamente quel sigillo, la donna trasaliva. Quel sigillo si riferiva a lei, parlava a tutti della sua intimità e del suo nome, era come il breve diario della sua vita. Ed erano tutte le sue memorie, i suoi dispiaceri, i suoi affetti, i suoi vestiti. Avrebbe potuto ripercorrere la maggior parte della sua vita soltanto guardando quel sigillo.
Ora toccava con timore quel sigillo, che cominciava a ingiallire sulla porta, e stava attenta che non venisse rotto, per- ché aveva l’impressione che, una volta rotto quel sigillo, si sarebbe spezzato in lei qualcosa di insolito e di caro, e che la tenue nebbia che ora l’avvolgeva, come c’era da aspettarsi, avrebbe formato un’oscura nube e l’avrebbe allontanata definitivamente dalla sua casa.
Dal balcone ora guardava i suoi pensieri; guardava le rose del suo giardino, che erano diventate selvatiche. Ricorda- va di aver avuto un cappellino giallo, con un gran mazzo di pensieri. E questi pensieri del suo giardino, quelli di cui pure era solita lamentarsi perché non ci trovava alcun aro- ma, pur essendo, come erano stati, i suoi fiori preferiti, oggi emanavano un profumo sconosciuto, che arrivava a farle gi- rare un po’ la testa. L’aroma saliva dal giardino e si diffondeva per la casa. Aspirando quell’aroma provava un vago e incomprensibile disagio. Tutto si conservava uguale; era strano. L’orologio si era fermato in una lontana e misteriosa ora, che lei non ricordava. E un giorno che le venne l’idea di mettere in moto l’orologio, questo ubbidì fedelmente, con una graziosa esattezza, e continuò per vari giorni a lasciarle sentire la sua musica. Sembrava addirittura che le rivelasse l’ora, dal suo cantuccio, in cui necessariamente qualcosa doveva succedere nella casa. E lei sorrideva nel sentirlo suonare e muoversi all’interno della sua teca di vetro. Sorrideva della sua serietà e della sua fretta, dato che non c’era più niente da segnalare e niente da fare, una volta che tutto, persino le cose più intime, era fatto. E durante interi pomeriggi la donna assassinata si sedeva sul suo grande divano rosa, con un libro fra le mani, non lontana dal balcone.
Quei libri non le offrivano alcuna novità; li aveva letti tutti. Ma restava importante far scorrere lo sguardo su un oggetto familiare, quando le cose erano tanto cambiate.
Nulla di nuovo le dicevano i libri. La riportavano a vecchi tormenti di amori e gelosie e, quando si imbatteva nelle orme della sua vita perduta, nella semplice impronta delle sue dita, in un fiore o un segnale che le ricordavano qualche vecchio fremito della sua anima, si commuoveva e sospirava, provando un tenero amore per uomini che non conosceva e per coloro che avevano scritto quei libri.
Tutto si conservava uguale e lei faceva in modo che continuasse a essere così. Non voleva disturbare l’ordine di una casa che le apparteneva in modo così completo, che era ancora sua, mentre tutti supponevano che fosse disabitata e solitaria. All’interno di quella casa c’era una vita costante, invisibile e attiva; un’esistenza occulta che spiegava di per sé perché la casa non invecchiava, perché ogni mattina sembrava più radiosa e soleggiata, e com’era possibile che gareggiasse sotto ogni aspetto con le altre case. L’edera copriva i suoi muri; ed era un’edera giovane e tenera sopra la pietra grigia del muro.
E in quelle memorabili notti fredde, quando lei e il marito tornavano da teatro e la porta dell’ingresso si apriva, lasciando intravedere l’interno completamente illuminato, e la casa intera tremava di luce, lei pensava a quanto fosse misterioso vivere, entrare piano piano nella propria casa e sentirsi avvolta nella luce e nel calore, trasformarsi in una sorta di immagine dorata o in un piccolo vuoto che si riempiva di quella luce e di quel colore così speciali.
A questa sensazione di benessere notturno e di vaga gratitudine, però, faceva subito seguito un’altra impressione più grave e precisa, conseguenza della precedente, e quasi il suo fine, quando il benessere fisico le annunciava un malessere improvviso che la spossessava di quel calore e di quella luce così speciali. E così lei pensava, notando come si chiudeva la porta alle sue spalle, che sarebbe stato orribile morire, non entrare più nella propria casa, restare abbagliati in un simile modo e non sentire più, di notte, quando la porta si chiudeva.
Allora lei e il marito cominciavano a salire le scale, lui con il cappello in mano, si sfilava piano piano i guanti e le do- mandava se non avrebbe gradito bere un caffè prima di andare a letto. Di solito preferiva un liquore, perché le piaceva guardare il liquore in controluce; e suo marito si avvicinava al camino e si fregava le mani, impaziente. Lui diceva che tempo faceva, oppure che la prima non gli era piaciuta e contemplava per un momento il giardino sollevando un lembo delle tendine. Era una dimora dorata. Dorata per il fuoco che ardeva, per la brevità e la dolcezza della vita e per i fiori dorati che decoravano il soffitto. E lei, ancora avvolta nel soprabito, continuava a chiedersi come sarebbero potute es- sere le notti, quelle notti che l’aspettavano e di cui nessuno aveva saputo dirle qualcosa. E se non sarebbe stato possibile che quelle notti, considerando quanto era giovane e bella, fossero diverse.
Si rifiutava di pensare che quel mondo complicato e vivo, così dorato, scomparisse di colpo. Che le cose più appassionate della sua vita non avessero senso. Che tutto rimanesse nell’oscurità, come quando cala la notte.
Voleva sapere se, perlomeno, sarebbe riuscita a ricordare quell’istante. Se avrebbe potuto conservare un po’ di vita. E non sapeva decidersi, se le avessero permesso di scegliere, se morire senza riserve e dimenticare tutto, oppure accumulare certi ricordi, ordinarli e classificarli, al fine di riviverli nuovamente e formare con quelli una seconda vita fatta interamente di ricordi.
Questo oblio delle cose la scoraggiava. Non si decideva a scegliere quella dolorosa dimenticanza; ma la intuiva. Sospettava che ad attenderla ci fosse un oblio di quella natura.
Allora si versava un altro calice, faceva risuonare ritmica- mente i suoi gioielli, oppure tratteneva il calice sulle labbra, per convincersi del suo sapore, del dolce miele che le lasciava sulle labbra, e non poteva accettare che tutte quelle luci che illuminavano la casa, tutte le cose che conosceva e desiderava, e tante altre che aveva riunito e conservato, così minuscole e meravigliose, la sensazione del liquore nel suo corpo, presto si sarebbero oscurate, si sarebbero interrotte contro la sua volontà, facendo pensare agli altri che lei non fosse mai esistita.
Rievocando tutte queste cose, ora la donna gettava indietro la testa contro la spalliera del divano e sorrideva. Trascorreva notte e giorno sorridendo. I ricordi la intenerivano. Il ricordo dei suoi pensieri la commuoveva.
Commossa, guardava sé stessa su un divano, all’altra estremità della sala. Si vedeva in un pomeriggio come tanti altri e sentiva il cocchiere bussare alla porta. Nel pomeriggio usciva sempre a fare un giro. Si sentiva pensierosa e sola; ma molto bella. Teneva in mano dei guanti. E adesso questa sua vecchia immagine la inteneriva, bella e giovane com’era, con quei guanti, e si sentiva perdutamente attratta verso di lei, verso quell’oscura tristezza che intuiva nella sua espressione e in quella precoce stanchezza con cui aspettava l’auto.
Commossa, le andava incontro, e si parlava, si interrogava instancabilmente su quali pensieri e quale stanchezza potesse aver avuto a quell’ora; che cosa desiderava, che cosa sperava, chi amava e, soprattutto, se l’inviolabile segreto che nascondeva nella sua anima, solo per sé, alla fine le sarebbe stato rivelato con maggiore chiarezza. Ma siccome quell’immagine del divano insisteva nel rimanere assente, dato che era un’immagine viva e innamorata, di solito si limitava semplicemente a chinarsi su di lei, a prenderle il viso fra le mani, a contemplarlo e baciarlo e stringerlo a sé, ripetendogli che l’unica cosa che riusciva a risollevarla un po’ era lo stupore che le provocavano ora la sua antica gioventù e bellezza.
Si svegliava più tardi, da sola. Quando era già giorno.
Dal giardino salivano delle esalazioni, e queste esalazioni e la sua solitudine le restituivano lo strano benessere precedente, perché quell’immagine sognata, e persino la propria voce – «A che cosa pensi?» – le avevano provocato un dolore effimero, come se esistesse di nuovo un’altra volta e di fronte a sé contemplasse non la propria immagine viva, bensì morta, come le succedeva di solito in altri tempi.
La turbava sapere che soffriva, scoprire che qualche volta aveva sofferto nella vita.
Allora si alzava, ormai tutta avvolta nel sole del mattino, invisibile come un raggio di sole, e vagava da una parte all’al- tra della casa. Sedeva al sole in giardino o si aggirava come un’immagine viva fra gli alberi. Erano dorati gli alberi e a poco a poco si stava dorando il giardino, perché era la stagione dei sempreverdi. E in questa atmosfera dorata, che da fuori sembrava di poter toccare, vagava senza sosta, speranzosa, lasciava sfuggire il tempo, si dimenticava del tempo e si sentiva piacevolmente impercettibile, curiosamente insignificante, e si chinava sui fiori, lasciandosi trafiggere dal sole, sognando di morire di nuovo, desiderando morire ancora di più, di svanire e acquisire così un’altra forma di vita, ancora più lieve, per godere meglio del giardino e della casa.
Chi l’avrebbe ricordata, ormai, pensava.
E in effetti svaniva, ma senza rendersene conto. Anche quella vita misteriosa era giunta alla fine. Anche l’invisibile aveva una fine, moriva.
Era come se, un giorno dopo l’altro, ogni nuova corrente d’aria le portasse via, a sua insaputa, una di quelle ineffabili foglie di cui era costituita. Come se un soffio di vento, che non si percepiva nemmeno, le rubasse ogni giorno una foglia.
E lei immaginava che tutto quel malessere che la invadeva, quella sensazione di cadere e perdere le foglie, come se il cielo si rannuvolasse, o qualcuno muovesse dolcemente un ventaglio alle sue spalle, costituisse una gioventù e un amore sconosciuti, in cui entrava adesso; e in effetti smetteva costantemente di esistere, ormai non era più nemmeno la propria ombra, bensì il vuoto di sé stessa, dato che il sole la feriva e la penetrava, la rendeva trasparente, e di notte veniva inondata dentro dall’oscurità; in effetti scompariva e di quello che era stata non rimaneva ormai che il nero vento notturno.
Chi l’avrebbe ricordata, si ripeteva.
Quasi nessuno la ricordava; era vero. E perciò moriva. Sol- tanto un ultimo ricordo, disperato e preciso, la teneva in vita da lontano. Di chi poteva essere quel ricordo? Chi la ricordava, desiderando ora che non morisse? Viveva i suoi ultimi giorni alla mercé di quell’unico pensiero. E non appena questo pensiero si fosse estinto, non appena quel ricordo avesse smesso di esistere, anche lei avrebbe smesso di esistere – lo capiva –, ma non aveva nemmeno la forza di pensarlo. Tutto era sempre più lieve di sera. Avrebbe voluto non dimenticare quei crepuscoli. E sentiva che anche l’ultima foglia le sfuggiva. «Mi hanno dimenticata» sospirò. E guardò la sua casa. Il sole batteva sui balconi e se lo immaginò sul tappeto. Scorse uno sprazzo di sole nel suo specchio. Si sentì lontana e confusa, infinitamente dimenticata, ma felice. Le sarebbe piaciuto fermarsi, in realtà. Ricordava ora, gettando indietro la testa e continuando a ridere mentre succedeva, una lettera che non aveva scritto.
Poi pensò che si sarebbe dovuta sedere sulla panchina. E così fece. Ma la panchina rimase vuota.

O la biblioteca o la vita!, di Alejandro Zambra

Il cambiamento può essere una forza dirompente  ̶ un’intuizione scientifica che genera una scoperta, un avvenimento che stravolge le nostre vite  ̶ o una lenta trasformazione che modifica il nostro paesaggio, mentale o naturale. Qualunque forma assuma, è proprio il cambiamento a circoscrivere i parametri della nostra esistenza, di cui è il motore fondamentale.
Provano a raccontarcelo, in questo numero di Freeman’s - la rivista curata da John Freeman che Black Coffee pubblica ogni anno a Marzo - autori celebrati come Lauren Groff, Aleksandar Hemon e Ocean Vuong accanto ad altri a noi meno noti, provenienti dai quattro angoli di questo mondo sconvolto dai recenti mutamenti. Perché è la narrazione che facciamo del cambiamento a farci capire chi siamo.

Gli autori di questo numero:

Joshua Bennett, Christy Namee Eriksen, Lauren Groff, Sulaiman Addonia, Jakuta Alikavazovic, Kyle Dillon Hertz, Rick Bass, Lina Mounzer, Ocean Vuong, Sayaka Murata, Aleksandar Hemon, Adania Shibli, Sandra Cisneros, Zahia Rahmani, Yoko Ogawa, Alejandro Zambra, Elizabeth Ayre, Mark Strand, Kamel Daoud, Yasmine El Rashidi, Valzhyna Mort, Siarhiej Prylucki, Dmitry Rubin, Julia Cimafiejeva, Uladzimir Liankievič, Lina Meruane, Julia Alvarez, Lana Bastašić, Rickey Laurentiis e Cristina Rivera Garza.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti in questo numero della rivista, per gentile concessione dell’editore.

O la biblioteca o la vita!
di Alejandro Zambra

1

«La mia patria è mio figlio e la mia biblioteca» disse una volta Roberto Bolaño, e anch’io vorrei dire esattamente la stessa cosa ma la biblioteca non ce l’ho più, l’ho regalata: tre anni fa, poco prima di venire in Messico, decisi di donare tutti i miei libri all’università dove lavoravo. Se la biblioteca è la patria, penso a volte con fare melodrammatico, io ho rinunciato a entrambe.
Il desiderio di possedere sembra una forza inarrestabile, ma è altrettanto vero che ci sono ragioni in abbondanza per disfarsi della propria biblioteca: ad esempio la mancanza di spazio, i traslochi, uno slancio filantropico, la vicinanza con la morte, oltre a ragioni meno precise e forse ignote al proprietario, come l’esaurimento, la depressione e la stupidità.
Nel mio caso tutti questi motivi si combinarono e confusero tra loro: la biblioteca che mi ero tirato dietro e avevo protetto fin dall’adolescenza era diventata di colpo una sorta di cimitero, e nessuno dei soliti alibi che usavo per giustificare l’accumulo di libri – necessità professionali o emotive, collezionismo, sindrome di Diogene, eccetera – era abbastanza forte da liberarmi da quella sensazione.
In realtà, la mancanza di spazio non è mai stata un argomento che abbia pesato più di tanto. All’inizio l’assenza di mobili adatti portò a un paesaggio di torri pendenti a un passo dal crollo; poi però lo spazio aumentò, forse pure troppo: la mia casa non era grande per una famiglia, ma quando quella famiglia smise di esistere divenne immensa per me, la mia cagna Sardina e la mia gatta Oscuridad, e perfino per gli amici, anche loro appena separati, che si disputavano la stanza degli ospiti. La biblioteca continuò a crescere al ritmo di un’edera ai tropici, ma c’era ancora spazio per appendere alla parete principale, ad esempio, la bella foto del poeta Jorge Teillier regalatami dal fotografo Miguel Sayago.
L’unica volta che ho contato i miei libri ne avevo novantadue, tutti letti e in buona parte riletti. Vent’anni dopo, nell’imminenza dell’addio, non mi è nemmeno venuto in mente di contarli; poi però ricevetti un file Excel con l’inventario, composto pazientemente dai bibliotecari dell’università: tremilaseicentotrentaquattro libri. Quindi, tra i ventuno e i quarantuno anni di età, avevo accumulato tremilacinquecentoquarantadue libri o, per metterla in cifre più intelligibili, in vent’anni la mia biblioteca si era moltiplicata di 39,5 volte. Secondo un altro modo di processare i dati, e forse quello che più mi impressiona: in quei due decenni, sulle mensole è arrivato un libro nuovo ogni 2,03 giorni.
È di pessimo gusto vantarsi dei beni materiali, perfino se si parla di libri, ma immagino che farlo col senno di poi, dal mio presente quasi francescano, possa mitigare la mia mancanza. A volte mi sorprendo a guardare come uno stupido il file Excel, come un impresario in rovina che controlla, con malinconia, vecchi estratti conto della banca. Il mio grado di pentimento varia: ci sono giorni in cui, nel ricordare i libri perduti, provo orgoglio e penso addirittura, con indulgenza, alla mia presunta generosità, o visualizzo alcuni cari ex alunni aggirarsi felici tra gli scaffali; ma mi capita anche semplicemente di non conoscere più la persona che ha preso quella decisione tanto splendida quanto idiota. Mi mancano alcuni libri in particolare, ma mi mancano anche tutti in generale, compresi i non pochi esemplari che non ce l’ho mai fatta a leggere o che so non avrei riletto mai.
A proposito, mentre mi gingillavo con l’idea di – forse è questo il verbo esatto – sgravarmi della mia biblioteca, continuai ad accumulare libri, il che non è poi tanto strano, come sappiamo bene noi fumatori, gente a cui di solito viene più voglia di fumare quando parla del proposito improrogabile di smettere.

2

Molto prima di disfarmi della biblioteca, un mattino all’inizio del 2016, a metà del periodo che trascorsi a New York, la mia amica Blanca mi chiamò da Santiago per dirmi che era incinta, e dopo le domande e i complimenti di rito finimmo per parlare di passeggini, un argomento di cui non sapevo nulla ma di cui lei e Daniel – il futuro padre – sapevano o sembravano sapere tutto: avevano studiato scrupolosamente ogni opzione fino a trovare il passeggino ideale, ma esitavano a comprarlo, perché in Cile costava quasi il doppio che negli Stati Uniti.
In un raptus di generosità di cui poi mi sarei pentito amaramente, mi offrii di portargli io stesso il passeggino, qualche mese dopo, quando fossi tornato a Santiago. Blanca rifiutò categoricamente, ma notai la speranza nella sua voce (adesso penso che forse l’aveva impostata, perché di mestiere fa l’attrice). Non feci fatica a convincerla (o lei a farmi credere di averla convinta), tanto che comprarono il fantastico stroller quella stessa sera, e io non mi capacitai del casino in cui mi ero infilato se non la settimana dopo, quando due afflitti signori di Amazon mi depositarono in salotto due enormi scatoloni.
Ovviamente non potevo presentarmi in aeroporto con quegli scatoloni: dovevo montare il passeggino e registrarlo come un bagaglio qualsiasi. Feci passare qualche giorno finché dal Cile non arrivò il mio amico Rodrigo che, con quell’incomprensibile gioia che alcune persone provano nel disimballare e assemblare aggeggi, dedicò il suo primo pomeriggio a New York a montare il passeggino che, da quel momento in poi, era rimasto in un angolo, in paziente attesa del viaggio.
«¿Y el bebé?» mi chiese, mesi dopo, un’impiegata colombiana della Latam Airlines. Aveva un tono di pura curiosità, ma mi innervosii lo stesso. «Il bebè viaggia con sua madre» le risposi, solenne. «¿Y es juicioso?» «Sì» le dissi, senza sapere che cosa mi stesse chiedendo, perché allora non conoscevo quel modo curioso dei colombiani di chiedere se un bambino si comporta bene.
«E perché non viaggiate insieme?»
«Perché non vogliamo che Jacinto» il primo nome che mi venne in mente «perda entrambi i genitori nello stesso momento. Sono partiti con il volo di ieri».
Mi avviai al gate pensando ai genitori che volano per rincontrare i loro figli, e mi dispiacqui per una lunga serie di terribili incidenti immaginari. Sull’aereo cercai di dormire, ma il mio umore cupo mi portò a pensare alla mia cagnolina, morta da poco, a dieci anni d’età: il mio amico Puppo, che badava a lei, aveva trascorso settimane atroci tra la casa e la clinica veterinaria. Era una bastardina grossa e bonaria, che ringraziava per ogni passeggiata serale con bizzarri ansiti di felice stanchezza.
«¿Y la guagua?» mi chiese il tassista qualche ora dopo, a Santiago. «Il bebè non c’è» risposi, brusco.
L’uomo mi guardò con uno sguardo di scuse, anche se la domanda era pertinente: avevamo appena sistemato nel portabagagli tre valigie pesantissime e il passeggino ancora nuovo di pacca che, grazie a un allenamento intensivo alla vigilia del viaggio, maneggiavo ormai con destrezza, come se fossi un padre abituato a montarlo e smontarlo di continuo.
Arrivato a casa, per prima cosa abbracciai Oscuridad. Dopo un anno di lontananza mi aspettavo che avrebbe opposto resistenza, che mi castigasse per qualche giorno, invece mi accolse con naturalezza, come se non me ne fossi mai andato. Poi constatai l’assenza di Sardina – il cortile era troppo silenzioso e le ciotole stavano impilate vicino a un sacco quasi pieno di mangime Eukanuba – e trangugiai un caffè orribile in piedi in salotto, guardando le mensole. Mi ero quasi deciso a disfarmi della libreria, e se ancora mi restavano dei dubbi, in quel momento si dissiparono: sentii che quei libri non mi appartenevano più, che le uniche cose mie in quella casa erano la gatta, le valigie e quel passeggino che non era neanche mio davvero.
La settimana dopo andammo dal veterinario. Mi sembrava che Oscuridad scoppiasse di salute ma non era così, anzi, tutto il contrario: morì di lì a qualche giorno. Subito dopo averla seppellita in giardino e aver pianto in modo imbarazzante per un paio d’ore, cominciai a imballare i libri, come se fossero stati suoi, cosa peraltro sensata visto che per dieci anni – gli stessi della mia cagnolina: le due non sono mai state amiche ma a volte si sdraiavano a prendere il sole insieme – Oscuridad aveva dormito in quasi tutti gli angoli della libreria e a volte l’aveva perfino difesa da un altro gatto che, come il più attaccabrighe dei critici letterari, era solito intrufolarsi in casa con l’unico proposito di pisciare su qualche libro.

3

Vivevamo a Città del Messico da qualche settimana quando scoprimmo della gravidanza. Convinto che un padre debba almeno dare l’illusione di sapere tutto, nei primi mesi mi lanciavo in frenetiche passeggiate nel quartiere per memorizzare i nomi delle strade, e studiavo anche, con una calma tremendamente falsa, i nomi degli alberi, delle piante e degli uccelli.
La sera mi dedicavo alla ricerca della carriola perfetta (uso la parola messicana per passeggino, perché per me la paternità si è svolta quasi esclusivamente nello spagnolo del Messico). A volte passavo anche due ore davanti allo schermo setacciando il mercato: paragonavo modelli, leggevo recensioni, guardavo testimonianze entusiaste e probabilmente false su YouTube. La carriola di David e Blanca, naturalmente, era tra le finaliste, ma immaginavo anche modelli più portatili e, quindi, compatibili con gli eventuali viaggi in Cile, che nella mia mente sarebbero stati numerosissimi.
Tanto girare per vetrine, purtroppo, risultò inconcludente, perché un pomeriggio una zia di mia moglie ci portò una carriola in regalo. Nella mia classifica quel modello non c’era neanche. La ringraziai a denti stretti.

4

Avevo già alle spalle due terremoti cileni, ma non ero assolutamente pronto per affrontarne uno in quella città che nemmeno i chilangos di nascita conoscono bene. Cercavo la stabilità dei nomi e la sicurezza delle carte geografiche, invece trovai un inventario di edifici distrutti che non dovetti nemmeno studiare, perché si impose da solo, con l’abituale eloquenza della catastrofe. Il terremoto, però, sortì lo strano effetto di farmi sentire al tempo stesso più messicano e più cileno di prima. Il giorno in cui nacque mio figlio (non riesco a evitare di formulare questa frase implicita: il giorno più bello della mia vita) provai la netta sensazione di vivere da anni in quella casa, sentii che in qualche modo avevo sempre vissuto lì, e che quella città schiva, caotica, inaccessibile e zeppa di contraddizioni mi apparteneva.
Durante le prime passeggiate alla guida del caval donato, volli convincermi che la carriola non fosse poi così male, ma la verità è che era pessima: pesava più di un’incudine, faticavi a curvare e, in salita, era impossibile non pensare al castigo di Sisifo. Per quanto mi prenda gioco del mio arrivismo, ogni volta che incrocio un modello particolarmente desiderabile mi sorprendo a ricacciare indietro l’invidia. Non so niente di macchine, sono cieco alla loro presunta bellezza, ma immagino che la mia invidia fosse simile a quella provata da chi guida un veicolo scalcinato quando si trova davanti una di quelle automobili luccicanti guidate dai calciatori di successo o dagli imprenditori succhiasangue. Alla fine, una sera, mia moglie si lamentò amaramente della carriola, e io pilotai abilmente il discorso per darle la sensazione che l’idea di prenderne un’altra fosse sua.
Nel bosco di Chapultepec vedevamo sempre un venditore di bolle di sapone che trasportava la sua merce su un passeggino sgangherato, così gli regalammo il nostro, che lui accettò con estrema gratitudine, anche se mi diede l’impressione che nemmeno a lui sembrasse granché.

5

Quando mi chiedono se mi piace vivere a Città del Messico mi esce un sì sonoro ed euforico, ma in realtà sto rispondendo a un’altra domanda: mi piace moltissimo la nostra vita qui, adoro la sfida minuziosa della felicità e amo condividere la gioia di mio figlio quando impara parole che sono nuove anche per me (ahuehuete, chimeco, chirundo), lancia frasi come adiós amigo quesadilla o imita il modo in cui camminano le oche. Non sono venuto in questo Paese alla ricerca di Pedro Páramo, ma qui sono diventato padre e non posso più separare le due esperienze. Adesso prendere le distanze dalla città è quasi impossibile: sarebbe come prendere le distanze da mio figlio.
Quando mi chiedono se il Cile mi manca mi esce un monosillabo e poi un flusso incontrollato di frasi confuse. A volte rispondo di no, ed è una bugia: quello che voglio dire è che a Città del Messico ho trovato un subitaneo radicamento e il premio immeritato di un nuovo inizio, e mi risulta difficile immaginarci trapiantati in Cile. Ma la maggior parte delle volte rispondo di sì, che il Cile mi manca; che quasi tutto il giorno dialogo con il mio Paese e non vorrei mai concepirlo come un luogo distante, perduto o immaginario. Perché sono consapevole del pericolo. Penso alla mia lingua cilena bloccata nel tempo, mescolata, accantonata, penso al vertiginoso ed esplosivo problema di trovare parole mie. Penso agli esiliati e ai migranti come se potessi comprendere meglio le loro vite.
È un sentimento fasullo, perché io non sono affatto un esiliato e, anche se tecnicamente sono un migrante con tutte le carte in regola, non sono venuto in Messico in cerca di una vita migliore ma perché mi sono innamorato di una messicana e abbiamo deciso di stabilirci e avere un figlio qui.
Per buona parte dell’anno la differenza di fuso orario tra Cile e Messico è di tre ore, il che mi provoca una sensazione quotidiana di ritardo: mi alzo molto presto, ma in Cile sono già le otto e mezza o le nove. L’app della radio ti permette di riascoltare i programmi, sincronizzando il tempo tra i due Paesi. È un miracolo modesto – il vero miracolo sarebbe che l’app permettesse di muoversi in avanti nel tempo – che mi procura una certa serenità, come se fosse normale ascoltare notizie importanti con tre ore di ritardo.
Per il resto, ascoltare il notiziario cileno fa parte della routine quotidiana di mio figlio fin dai primi giorni di vita. Mentre sua madre, a letto, cerca di ricostruire la sensazione di aver dormito bene, noi, in salotto, salutiamo il sole, il ritratto di Jorge Teillier (questo sì me lo sono portato dal Cile) e una sfilza traballante di peluche, e leggiamo cinque o sei volte il libro del momento (adesso è fan sfegatato di Paco y el rock di Magali Le Huche: in effetti, la prima parola che ha detto questa mattina è stata rock!!!). E mentre facciamo tutto questo, in sottofondo si sente il notiziario cileno dell’immediato passato. Poi arriva qualche minuto di indipendenza: il bambino si avvicina agli scaffali e maneggia i libri, che nelle sue mani si trasformano in Lego giganti, e me ne porge qualcuno sorridendo, come se me li consigliasse. Gli scaffali che riesce a raggiungere corrispondono alle lettere r e s dei libri in lingua inglese: molti Salman Rushdie, David Sedaris, Rebecca Solnit e Susan Sontag.
Come vedete abito di nuovo in una biblioteca, quella di mia moglie, che per certi versi assomiglia a quella che avevo io. Lei però, invece di crescere con le traduzioni, fin da bambina ha letto le edizioni originali in lingua inglese, per cui a volte, quando guardo le mensole, ho l’impressione di vedere la versione originale della mia vecchia biblioteca sottotitolata. Mi piace guardare gli scaffali, immaginarla mentre legge quei libri, trovare sottolineature e foto, e scoprire che non è mai stata preda, come invece è successo a me, di tsundoku: non ha mai accumulato più libri di quanti riuscisse a leggerne. Per il resto, la sua è una biblioteca eccellente, salvo per la mancanza, per me assordante, della letteratura cilena.
Ho sempre letto molta letteratura del mio Paese, ma adesso che i libri cileni scarseggiano faccio di tutto per procurarmeli, soprattutto quelli dei miei amici, dei miei «quasi-amici» e dei vari conoscenti, la mia famiglia letteraria con i suoi cugini di secondo grado e le nonne, gli zii e i patrigni, e perfino qualche nemico occasionale con cui ho qualcosa in comune, non so che cosa: un piano, un desiderio, un modo di ballare. 109 o la biblioteca o la vita!
Accumulo alcuni libri, sono davvero pochi e mi trattengo dal contarli, ma di sicuro posseggo la migliore biblioteca di poesia cilena del quartiere San Miguel Chapultepec.

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Temevo che mio figlio crescesse convinto che chile non fosse altro che la parola messicana per «peperone», ma non è stato così. Andammo a Santiago quando aveva appena sette mesi, e una volta di ritorno a casa, quando gli facevamo domande sul viaggio, imitava alcune galline cilene di cui conservava un ricordo vivido. Dopodiché arrivò una variante inaspettata della cilenità, un caso perfetto per il fantastico dottor Winnicott: invece di chiedere la tetta con la parola chichi, come fanno i bambini messicani, mio figlio coniò il neologismo chichile.
Adesso ha un anno e mezzo e parla di continuo, e quando gli chiedo qual è il suo Paese risponde il Cile, riempiendomi di inebetita soddisfazione; ma forse ho esagerato con l’indottrinamento, perché quando gli chiedo dove viviamo risponde sempre che viviamo in Cile. E quando lo carico sulla carriola e gli chiedo dove andiamo, lui risponde, con il volto che trabocca di risate, che andiamo in Cile.
L’idea mi piace: viviamo in un Paese che si chiama Cile e andiamo con la carriola in un Paese che si chiama sempre Cile per incontrare le galline. La nuova carriola, a proposito, è davvero buona: è leggera, comoda e versatile, e ha anche una tasca enorme dove, oltre alla borsa con i pannolini, entra un buon numero di libri. Forse la mia misera collezione di testi cileni starebbe tutta nella carriola e potrei montare una biblioteca ambulante, ma non voglio più prestarli né venderli, né tantomeno regalarli.
Oggi pomeriggio, dopo pranzo, siamo andati nel bosco, e quando il bambino si è addormentato ho parcheggiato la carriola davanti a un ahuehuete e mi sono seduto sull’erba a leggere i poeti cileni che ammiro e mi mancano tanto. Voglio farlo tutti i giorni.

Città del Messico, giugno 2019

Commedie del vespero e della notte, di Livio Santoro

Edicola Edizioni pubblica i nuovi racconti di Livio Santoro Commedie del vespero e della notte, dopo aver portato in libreria la raccolta Piccole apocalissi. Testi brevi e brevissimi, nei quali il talento visionario dell’autore prende forma in una prosa densa e musicale che sfiora la poesia. Tra atmosfere cupe e scenari estremi, in ognuna di queste “commedie” si avverte in sottofondo il ghigno inquietante della tenebra.

Cattedrale vi propone il racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Commedie del vespero e della notte

Alle attese commedie notturne e vespertine dell’itinerante e molteplice Yuri Masharawi, di cui si cominciava sempre a parlare già molti giorni prima, ogni famiglia dei paraggi partecipava secondo le proprie possibilità, in favore del bisogno di tutte. C’era per esempio chi ripuliva e levigava minuziosamente il palco, chi allestiva sedute supplementari nella cavea, assemblando rottami tratti dalla fossa degli scarti, e chi, caricandosi l’onere primario di portare la luce, predisponeva all’uopo le lampade ad olio attorno all’assito, attingendo copiosamente dalla propria riserva di combustibile. Noi, avendo casa a pochi passi dal teatro, alle spalle del palco, di solito offrivamoa Yuri Masharawi l’intimità della nostra latrina, perché adempisse in tutta calma alle sue necessità corporali, e le nostre mura discrete, perché si imbellettasse il viso e provasse gli abiti di scena senza prima svelarli al pubblico impaziente. E questo è sempre stato, per me, il più grande privilegio, tanto da farmi sentire già in principio parte attiva dell’evento e molto più degli altri. Fin dalla prima infanzia, quando dalle fenditure della porta chiusa cominciai furtivamente a spiare Yuri, che era ben consapevole della mia irrispettosa indiscrezione, godendo ogni volta alla vista dell’emersione graduale dei suoi caratteri dal mondo del racconto a cui avrebbero di lì a poco dato vita. Amavo soprattutto quando, di spalle rispetto al mio sguardo clandestino, Yuri apriva il suo consunto baule, traendone maschere atroci o scialli sottili, corna di cervo o pellicce di licheni, turbanti gemmati o palandrane di fuoco scarlatto. Ma amavo anche quando quelle vesti miracolose le indossava con grazia e lentamente, una dopo l’altra, offrendomi dunque l’impagabile agio di assistere ogni volta a una nuova genesi, a un prologo che nessun altro avrebbe visto, un prologo che andava in scena soltanto per me. E solo quando Yuri iniziò a invecchiare, diradando la sua presenza dalle nostre parti, facendosi annunciare più raramente sul palco, cominciai a capire che era tutto parte di una commedia più grande, quella che Yuri Masharawi, e noi di seguito, e l’assito, e la bonaccia e gli assioli, i grilli e il fumo delle pipe di chi assisteva alle rappresentazioni, le lampade ad olio e le sedute fatte di scarti, recitavamo giorno per giorno tra uno spettacolo e l’altro, nell’attesa febbrile del successivo. Yuri era molteplice perché noi lo eravamo, Yuri calcava il palco perché noi tutti ne calcavamo uno più grande. Quando lo compresi definitivamente, una sera che ormai in età adulta stavo ancora una volta spiando le sue vestizioni, ancora una volta credendomi invisibile al di qua della porta, Yuri si girò ed incrociò il mio sguardo nascosto, invitandomi ad entrare nel suo miracoloso camerino. Fu proprio in quel momento che scomparve, lasciando alla mia cura le vesti ed il baule, eredità che accolsi fin da subito senza amarezza, perché sapevo che Yuri, tra quelle vesti, in quel consunto baule, ancora viveva sotto forma di corona di spine o di mantello, di maglia a squame o di copricapo di arenaria. Indossai allora gli abiti di scena, accennai le espressioni, mi dipinsi il viso, e infine uscii nel tepore della sera, e presi posto per la prima volta tra le lampade, al centro del palco, mentre tutti occupavano composti le sedute, chi fumando la pipa, chi fregandosi le mani. Così, sotto il cortese incitamento dei grilli e degli assioli, che per qualche istante interruppero il verso, cominciai a recitare la mia prima commedia. E dopo aver concluso l’ultima battuta, mentre portavo il braccio dietro la schiena per l’inchino, vidi il pubblico alzarsi entusiasta ed applaudire, e gridare a gran voce il mio nome, gridare Yuri, YuriMasharaw.

Ottobre. Affumicare il salmone, di Gemma Reeves

Atlantide edizioni porta in libreria Victoria Park, di Gemma Reeves, tradotto da Marina Sirka Mosur. Un libro, come dice Naomi Ishiguro, dalla forza empatica immensa.

I luoghi uniscono le vite delle persone in modi inaspettati. Le case, i quartieri e le città, più che semplici fondali davanti ai quali si trascorre la vita, possono custodire le molteplici ragioni di un’esistenza felice, di una famiglia che si sfalda, di un amore che nasce dove non lo si aspetterebbe, di una comunità che si riconosce tale. Attraverso i protagonisti di Victoria Park – dodici, uno per ogni mese dell’anno, da ottobre a settembre – Gemma Reeves tratteggia vite e destini, scelte decisive e coincidenze inaspettate in una narrazione corale di grande eleganza e lirismo, fatta di dettagli minimi e insieme universali.

Cattedrale vi propone il primo racconto della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Ottobre
Affumicare il salmone

In fondo al giardino c’è un capanno che Wolfie aveva costruito nell’estate del 1951, lo stesso anno in cui aveva compiuto diciannove anni e aperto il deli kosher a pochi passi da Victoria Park. Aveva recuperato il legno da una casa distrutta durante il Blitz e posato il tetto con le tegole rosse sottratte alle macerie. Da sessantasei anni Wolfie usava quel capanno per affumicare salmoni. Era là quando si era fatto un nome per i migliori bagel di Hackney, quando aveva sposato Mona, quando era morta loro figlia, quando l’anno prima era finalmente andato in pensione e aveva ceduto le redini dell’attività al vicino di casa, Luca.
Quel mattino, Wolfie si svegliò all’alba e andò a controllare il salmone. Attraversò l’erba umida di rugiada fino al capanno e schiuse appena la porta per non disturbare il buio. Prese la piccola torcia appesa a un chiodo arrugginito e illuminò i salmoni. Sembravano sculture di marmo sospese alle travi. Decenni di fumo avevano stagionato le pareti ricoprendole di una patina diventata appiccicosa col tempo. L’odore di terra nel capanno gli ricordava quello dei grandi falò che accendevano nel parco per la notte di Guy Fawkes, quando lui se ne andava in giro per il quartiere a racimolare qualche spicciolo per la festa.
Nessuno tranne Mona conosceva il suo metodo per affumicare il salmone, e quel mistero lo rendeva ancora più affascinante. «Usa il succo di barbabietola?», alcuni clienti gli chiedevano. Lui scuoteva la testa, «No, no. Ma vuole scherzare?». «Miele?», azzardavano. E lui rideva. Dal giorno in cui aveva scoperto la giusta combinazione di melo e quercia in trucioli per l’affumicatura e da quando Abe, il suo pescivendolo, aveva iniziato a ordinare solo per lui il prelibato salmone scozzese Loch Duart, Wolfie non aveva modificato un solo dettaglio della procedura. Ritirava i salmoni quarantotto ore prima di venderli o di mangiarli e li trasportava subito al capanno. Poteva sistemarci sei pesci interi e li portava dentro uno per volta, adagiati per lungo tra le braccia come bebè per non rovinare la carne. Dopo affilava i coltelli, acciaio su acciaio come campane che suonavano a festa. Con due colpi sapienti eliminava testa e coda, poi faceva scorrere la lama lungo il centro. Sollevava i due filetti verso la luce per farne risplendere l’argento della pelle prima di rimuovere anche quella, quindi ne ricopriva i dorsi con un’abbondante crosta di sale grosso e un po’ di melassa e li infilzava uno a uno su un lungo gancio d’acciaio.
Il salmone per la cena dello Shabbas di quella sera era rimasto sotto sale per dieci ore. Wolfie controllò la crosta dei filetti appesi alle travi. Lava via il sale con l’acqua presa dall’innaffiatoio di latta. Accese i trucioli e chiuse con delicatezza la porta, come se non volesse svegliare le sue creature. Nel giro di dodici ore, l’arancione pallido dei filetti sarebbe diventato sempre più intenso, rispecchiando le variazioni di colore del sole all’imbrunire, poco prima di svanire dietro l’anello di faggi del parco. Solo allora avrebbe affettato il salmone dall’alto verso il basso, alla maniera scandinava, tagli di due centimetri di spessore. Trovava quel rituale molto piacevole, i gesti e i movimenti familiari, come posare un braccio intorno ai fianchi di Mona di notte.
Wolfie aprì il cancello del giardino e si diresse verso il lato ovest del parco. La passeggiata giornaliera prescrittagli da Mona subito dopo il pensionamento. «Nervi, lacrime, rabbia… Cammina che ti passa!», era solita ripetergli. E aveva ragione, come il più delle volte. L’aria fresca fresca nei polmoni lo tirava su; sgranchire i muscoli delle gambe gli procurava un bruciore piacevole, segno di vita attiva, di buona salute. Quel parco aveva quasi duecento anni e lui immaginava le radici sotto le sue scarpe da ginnastica bianche, aggrovigliate da decenni, che si spingevano oltre i cancelli, antiche e ambiziose. Pioppi neri, eucalipti, castagni: erano tutti maestosi, certo, ma anche storti e curvi; alcuni persino goffi, e questo lo aiutava ad accettare il proprio corpo. L’artrosi, i calli, le macchie della pelle. Lui invecchiava, gli alberi pure. Era il corso della natura: alla crescita seguiva il declino.
Grove Road divideva il parco in due e lui la percorse in direzione sud, verso il canale, superando il vecchio lago con le barchette. Al centro c’era un isolotto su cui spiccava una pagoda rossa, affiancata da olmi inglesi e faggi. Gli uccelli acquatici, rimpinguati dalle molliche di pane, nuotando trasformavano in macchie astratte le immagini riflesse dei salici e dei maggiociondoli. I runner si allenavano percorrendo il parco da un estremo all’altro, coppie di amici correvano e chiacchieravano, senza mai restare a corto di fiato. Alcuni che passeggiavano con i cani gli augurarono il buongiorno. Una giovane mamma che comprava sempre i bagel al deli lo salutò con la mano. Era bello vedere le stesse persone ogni mattina, come quando lavorava.
A metà percorso si sedette sulla sua panchina preferita e sfiorò la targa con la scritta in oro sbiadito: Shirley-Ann: svanito il canto, rimane la melodia. Un nome così da ragazzina, Shirley-Ann. Immaginò che fosse stata una corista, occhi azzurri e riccioli d’oro, però morta giovane, lasciando dietro di sé un fidanzato, forse. Si massaggiò le ginocchia, i dolori dell’artrite erano più intensi al mattino. Non riusciva ad abituarsi all’acuta consapevolezza che aveva ormai delle sue ossa.
Un uomo di mezza età chiamò a gran voce un bobtail. Un gruppo di donne nei pressi del roseto erano totalmente immerse in una qualche pratica New Age. Un insieme di legging sgargianti e movimenti lenti delle braccia. Giravano su se stesse come i carillon dei bambini. Non sapeva che roba fosse ma lo rilassava. Il cielo passò dal grigio al rosa chiaro.

In cucina fu accolto da una pila di piatti sporchi, la metà degli ortaggi ancora da tagliare e grandi mucchi di erbe aromatiche del giardino. Il tavolo di quercia era ricoperto di fogli d’alluminio e carta da forno. Luca continuava a ripetergli che quel disordine rimpiccioliva la stanza, era un oltraggio ai soffitti alti e alla cascata di luce che veniva giù dal lucernario inclinato. A Wolfie, però, la cucina piaceva così com’era, con la parete di fondo formata da porte scorrevoli in vetro che davano sul giardino e gli permettevano di tenere d’occhio Mona mentre si dava da fare nella sua salopette incrostata di terra, canticchiando le canzoni di Adele.
Un pentolone d’acqua bolliva sul piano cottura tutto ingombro e Wolfie programmò il timer perché suonasse dopo otto minuti. Al suo trillo scolò tre dozzine di uova e le trasferì in una zuppiera di acqua gelata. Dopo aver battuto l’estremità più appuntita di ognuna sul ripiano, le sgusciò con dita abili, facendosi strada con il pollice. Impilò i gusci e li mise da parte per il compost. Un lavoro noioso, ma lui lasciò vagare la mente. Quando gestiva il suo deli, a mezzogiorno era già stanco e irritabile. Sbraitava contro i suoi collaboratori, le fette di carne erano troppo spesse, gli involtini di aringhe non erano ben allineati sul vassoio, oppure malediceva le mensole traballanti sotto il peso delle lattine di albicocche sciroppate, delle scatolette di sardine e dei barattoli di aringhe sott’aceto. Ma all’alba, da solo, quando Mona era ancora immersa nel sonno, percorreva tutta Victoria Road, attraversava la rotatoria e apriva il deli, traendo piacere dalla familiarità di ogni gesto. Sollevava la saracinesca, accendeva le luci, metteva il denaro in cassa, un nodo deciso al suo grembiule bianco, il ricamo Wolfies in azzurro sul torace, e via al nuovo giorno.
Aveva goduto di una certa popolarità. Ai clienti piaceva la sua faccia sveglia e intelligente; per via dei capillari rotti che gli tiranneggiavano il naso, tutto l’anno aveva l’aria di essersi scottato al sole o di avere appena finito di raccontare una barzelletta spinta. Essere il proprietario del deli significava conoscere tutti i pettegolezzi di quartiere. Il marito che per l’ennesima volta era tornato a casa ubriaco fradicio oppure la giovane signorina tal dei tali che era rimasta incinta. Ma Wolfie aveva sempre tenuto per sé quelle voci. All’epoca, lo avevano considerato un uomo baciato dalla fortuna. Grazie a un ricco benefattore, diventato suo amico, era riuscito a mettersi in proprio, certo di ricavarne un guadagno alla fine di ogni mese. Così, a sua volta, cercava di essere generoso con gli altri: persino ai vicini che non gli erano granché simpatici dispensava latkes in omaggio, infilate in un sacchetto di carta. «Mangiate, mangiate!», insisteva. «Non fate complimenti! Su, prendetele con le mani. Non mordono mica!». Sapeva quali cibi potevano risollevare anche l’umore più nero. «Signora Klein, lei muore dalla voglia di un po’ di zuppa di pollo con lo zenzero», diceva con il suo lieve accento tedesco, così lieve che quasi nessuno lo notava. «Me lo sento nelle ossa!». «Oh santo cielo, sì, ne ho proprio bisogno!», si stupiva la signora. «Come ha fatto a capirlo?».
Cucinare lo aiutava a ridurre il confine tra provvedere ai bisogni degli altri e comprendere i propri.

Prese una grande zuppiera da una delle mensole stracariche, sollevandosi appena sulla punta dei piedi per raggiungerla, e con la spatola vi trasferì l’intero contenuto di un barattolo di maionese, preparata il giorno prima con tanta pazienza e un misurino abbondante di olio d’oliva. Con la forchetta sminuzzò le uova sode fino a ridurle a un miscuglio di bianco e arancione acceso. In sinagoga si era sparsa voce che la nuova rabbina avesse una predilezione per i bagel con crema di uova alla maionese. Da quel momento le avevano offerto challah a profusione. Potevano mai essere più buoni dei suoi? Se non riusciva più a fare colpo con le sue uova alla maionese, allora per lui era davvero finita. Però, la rabbina Ellensen era americana e magari loro ci aggiungevano cipolle o altre meshuge del genere? Non gliene importava granché, lui l’avrebbe fatta come sempre, il resto era nelle mani di Dio.
Wolfie amava cucinare per gli ospiti ma niente lo rendeva più felice di nutrire Mona. La sua Mona, magra come un grissino già dal giorno in cui l’aveva vista per la prima volta mentre volteggiava in una sala da ballo di Mile End. Per timidezza non le aveva chiesto subito di uscire insieme, abbagliato dai suoi capelli biondi e dalle sottovesti che svolazzavano sotto l’abito a ogni piroetta; si era limitato a invitarla con tono casuale a fare un salto al deli. «Vediamo se riesco a mettere un po’ di carne su quelle ossa!», aveva aggiunto. Con sua grande sorpresa, il giorno dopo era là, seduta al bancone con i piedini che dondolavano dallo sgabello alto e un braccio attaccato alle costole mentre divorava il piatto di tzimmes alle prugne, aringhe marinate e insalata di patate che lui le aveva messo davanti.
«Mai mangiato nulla di così buono», si era complimentata.
Le aveva portato un altro piatto con dello stufato di pollo e latkes riscaldate nel forno sul retro. «Prova anche questo!».
«Non posso, se mangio un altro boccone esplodo!», aveva protestato lei, ridendo.
«Mangia! Mangia!». I suoi mormorii di apprezzamento gli avevano dato grande soddisfazione e, mentre studiava la sua figura esile, decise che spettava a lui renderla più tornita.
All’epoca non sapeva che anche lei era arrivata con il Kindertransport, che i genitori adottivi le avevano fatto perdere l’accento austriaco a suon di botte, o che per anni l’avevano nutrita solo con gli avanzi dei pasti. Avrebbe scoperto tutto solo dopo averla sposata. Ma ora Mona non faceva altro che giocherellare con il cibo, del tutto indifferente ai piatti caldi e aromatici che lui le serviva. Le aveva preparato deliziosi tortini, fragrante pasta sfoglia ripiena di manzo cotto nella birra, ma tutte le volte lei si era limitata a punzecchiare i pezzetti di stufato o a sbriciolare la pasta. Neanche la sua zuppa di pollo, con i tradizionali tagliolini all’uovo lokshen e pezzetti di tenera carne bianca immersi in un brodo delicato, riusciva più a tentarla. Era come se avesse dimenticato la gioia che le dava mangiare bene. Era arrivata al punto che le si vedevano le costole sotto la stoffa del vestito. Wolfie lo considerava un proprio fallimento.
Esaminò il promemoria scritto a matita, i tempi di preparazione di ogni piatto elencati con precisione. Come al solito, si era fatto prendere la mano e aveva invitato tutti gli amici più cari nonché l’intero vicinato a cena. Non sopportava di stare in una casa silenziosa, odiava non vedere giocattoli disseminati ovunque e lunghe fila di panni stesi ad asciugare. L’appendiabiti dell’ingresso, in particolare, lo riempiva di una profonda malinconia quando aveva i ganci vuoti. Così, ogni occasione era buona per riunire una moltitudine di bocche affamate intorno alla sua tavola. Masticavano, bevevano, parlavano, portavano vita. Stese la pasta della challah e con gesti rapidi la lavorò in due grandi trecce.
Sentì la voce di Luca che lo chiamava dal giardino e subito si aprirono le porte scorrevoli. Luca entrò con una cesta traboccante di cicoria, ravanelli, carote e radici di rafano. Posò il carico sul bancone della cucina. «Ecco, c’è tutto», annunciò. «Come al solito, ci puoi sfamare un esercito». Si chinò a baciargli le guance. Wolfie arruffò i folti riccioli neri di Luca. «Bene, bene», disse palpando gli ortaggi, controllando se erano di qualità. «Quell’alter kocker si sta riscattando. Lentamente».
«Per favore, non ricominciamo con quella storia dei pomodori».
Wolfie si passò una mano sulla testa quasi calva e poi fece scorrere un dito sulle sopracciglia incolte, ancora nere anche se tutto il resto era ormai grigio. «È una questione di principio, ragazzo mio. Di principio». Con entrambe le mani raccolse i pezzettoni di carote dal tagliere e li lasciò cadere in una pentola di acqua bollente insieme al pesce per il gefilte.
Luca scosse la testa e osservò la cucina con espressione divertita. «Il solito caos», commentò. «Elena e i ragazzi volevano sapere il menù di stasera».
Wolfie aprì il forno e vi fece scivolare dentro le due challah. «Ah be’, allora forse dovremo essere un po’… creativi con ciò che diremo. Patè di fegato tritato. Pasticcio di pesce con radici di rafano e barbabietole rosse. Zuppa di pollo. Il mio salmone affumicato, ovviamente, poi petto di manzo arrosto, insalata di indivia e, per finire, lo strudel di Mona».
«Questa volta, mi permetti di darti una mano?».
«No, no. Tutto sotto controllo».
Luca si sedette sullo sgabello marrone da bar e prese il vecchio libro di ricette di Wolfie. Rilegato in pelle verde, aveva la copertina imbrattata da residui di cibo e macchie di unto. Lo spulciò. «C’è qualcosa che non deturpi con questi disegnini?».
Wolfie rise. «Quegli omini stecchino sono una vera forza. Non fanno che tirare o spingere roba. Se proprio devi scarabocchiarli, tanto vale metterli a lavoro», gli rispose. «Questo libro, però, avrei dovuto lasciarlo immacolato. È una prima edizione della Cucina ebraica di Florence Greenberg, oggi vale un bel gruzzolo». «Florence chi?».
«È la mia seconda Bibbia. Queste ricette mi accompagnano da quando ho imparato a bollire l’acqua. È come se fosse la mia famiglia, però non mi delude mai!».
Luca sorrise mentre continuava a rigirare il libro tra le mani.
«Il nuovo ragazzo, lì al deli, come se la cava? Lavora bene?», si informò Wolfie.
«Va alla grande, ci sa fare, i clienti lo adorano. A ora di pranzo ci sarò anch’io». Luca si chinò in avanti e annusò un mazzetto di fiori sul ripiano. «Li ha colti Mona, questi? Freddy si è offerto di venire domani a darle una mano in giardino, se le fa piacere».
«Ma certo, sarà contenta. È un bravo ragazzo, Freddy. A proposito, è ora che Mona faccia colazione. Ti dispiace farla venire giù?».
Le scale vibrarono sotto il passo pesante di Luca. Wolfie trasferì su un tagliere un bel po’ di fegato crudo, tagliò la carne rosso-marroncina a tocchi, poi li trasferì in una padella di ghisa bollente. Riempì il lavello di acqua e sapone e cominciò a lavare i suoi coltelli.
Quando sollevò il capo qualche minuto dopo e vide l’espressione di Luca, sospirò rassegnato e rimosse la padella dal fuoco.
«L’ho cercata dappertutto», disse Luca, posando la sua grande mano sulla spalla di Wolfie.
«Sicuro?».
Luca annuì.
«Oy gevalt! Oh Mona».
«Non può essersi allontanata troppo», lo tranquillizzò Luca. «Vengo con te a cercarla. Scommetto che è andata di nuovo alle giostrine nel parco. La troveremo prima che il pane sia pronto».
Cadde un lungo silenzio mentre Wolfie si voltava, apriva il frigorifero e vi scrutava dentro, come se Mona potesse essere lì. «Grazie», disse poi sottovoce. «Mi saresti di grande aiuto». Chiuse lo sportello del frigo e spense il forno. «Prendo il cappello».

Mona rifiutava di indossare l’orologio. Non le interessava conoscere l’ora esatta degli eventi. Preferiva, invece, guardare il sole e affidarsi al suo istinto. Quando era bambina, in Austria, poco prima che partisse il treno, la madre le aveva infilato furtivamente tra le mani l’orologio d’oro del papà con la raccomandazione di custodirlo con cura. A cinque anni non sapeva ancora leggere l’ora, ma aveva adorato quel cinturino di pelle morbida segnato dall’uso, la lucentezza del quadrante rifinito in oro, il mistero dei numeri romani. Della madre ricordava ormai solo i contorni della sua figura alla stazione, le spalle curve per ripararsi dal vento, il cappotto nero. Erano i suoi unici ricordi dell’Austria, ma erano così ricorrenti che a volte le sembrava d’essere appena partita. Sentiva ancora il ticchettio della lancetta dei minuti mentre ripeteva i suoi giri. Quell’orologio fu la prima cosa che le sottrassero prima di darla in affido. Così, quella mattina, quando Mona uscì di casa, sollevò lo sguardo verso il cielo blu solcato da nuvole basse e ne dedusse che fossero all’incirca le nove, più o meno l’ora in cui Patrice finiva il suo turno di notte.
Il giardino traboccava di nerine. Mona si chinò su un grappolo di quei delicati fiori rosa ragniformi e ne aspirò il profumo. Avrebbe messo insieme un bel bouquet per la sua amica. Staccò gli esili steli dal gambo principale, poi prese del filo di juta dal traliccio di rose e li legò alla base con un bel fiocco. Aprì il cancello del giardino e attraversò la strada. Entrò nel parco da Grove Road. Folate di vento sollevavano in aria le foglie dalle punte color ruggine e poi le sparpagliavano sul marciapiede, come coriandoli. Era piovuto, l’erba aveva un aspetto rigenerato, più elastico e brillante, e c’era un piacevole profumo di terra. Mona si fermò, sorpresa di non trovare le gabbie dei porcellini d’India, dei conigli e dei wallaby. Erano scomparse anche quelle degli uccelli. Forse le avevano portate via per pulirle.
Le giostrine erano era già gremite di bambini urlanti. Era fantastico essere così liberi! Niente calze sfilate e rammendate a oltranza, niente bigodini nei capelli di notte, o unghie laccate! E quant’era bello imbrattarsi le scarpe di fango! Lei stessa aveva un debole per le pozzanghere. Il bello di avere figli, supponeva, era che ti donavano una seconda infanzia. Dio solo sapeva come la prima, per lei, non fosse stata certo una passeggiata. Non vedeva l’ora di avere dei figli tutti suoi. Henry sarebbe stato un padre meraviglioso. Era uno dei motivi per cui lo aveva scelto, ovviamente. E il fatto che avesse un buon lavoro nell’impresa tessile di suo padre a Whitechapel certo non guastava. Un anno di matrimonio per acquisire una certa stabilità e poi avrebbero messo su famiglia.
Superò la pagoda cinese, ma quel giorno le sembrava diversa: troppo rossa, troppo nuova. Dove avevano trovato i soldi per ristrutturarla in questi tempi di razionamento? La brezza le agitò l’orlo del vestito giallo e Mona strinse ancora di più la cintura di stoffa lisa intorno ai fianchi. Non era mai abbastanza stretta. Avrebbe dato qualunque cosa per avere il corpo morbido e sinuoso di Betty Grable, le sue guance rosse come mele e i fianchi prosperosi, così larghi e invitanti. Forse, con qualche chilo e qualche curva in più Henry si sarebbe deciso a chiederla in moglie. Forse l’avrebbe finalmente considerata adatta a dargli dei figli. Che imbarazzo avere i fianchi spigolosi e le costole sporgenti ma, se non altro, era una bionda naturale e non doveva perdere tempo con l’acqua ossigenata ogni due settimane, come la sua amica Patrice. Non c’era nulla di più sciatto di una riga con la ricrescita marrone!
Sul lato est del parco, una donna se ne stava tutta sola, seduta con la schiena dritta e le gambe incrociate sotto l’ampia chioma di un frassino. Aveva gli occhi chiusi. Cosa mai stava facendo? Che stramberia, però quell’albero era davvero bello, aveva qualcosa di maestoso.
Mona imboccò Old Ford Road a passetti veloci e leggeri. Il sole fece capolino tra le nuvole e lei iniziò a canticchiare filastrocche del gioco della campana mentre il calore del sole le inondava il viso. Miele, arancia, zucchero e cannella, chi salta veloce vince una caramella! Patrice era sempre stata più brava di lei a saltare e a continuare a farlo… perfino al buio. Povera Patrice, cresciuta con un patetico ubriacone come padre. Non c’era da meravigliarsi che fosse finita a fare quel tipo di lavoro, sfruttata da tutti quegli uomini disgustosi. E, ma guarda, su quella panchina c’erano altri uomini pervertiti, due di loro avvinghiati l’uno all’altro, in un incastro di braccia e gomiti. Superandoli Mona emise un suono di disapprovazione.
Poi si bloccò. I negozi non erano al posto giusto. O erano sempre stati in quell’ordine? Fece mente locale: chi c’era prima? Abe con la pescheria? Aveva forse lasciato Bethnal Green? Riprese a camminare. La trattoria si stava preparando a servire i suoi pasticci di carne con contorno di purè di patate ai lavoratori. Dall’esterno osservò con desiderio i tavoli di marmo apparecchiati, i grandi specchi con le incisioni di anguille, alghe e stelle marine. Aveva fatto colazione? Aveva lo stomaco contratto che brontolava. Probabilmente l’aveva saltata. Avrebbe fatto il giro lungo con una sosta da Rinkoff’s per qualcosa di caldo con la cannella.

Dentro la pasticceria, uomini e donne si urtavano e si spingevano mentre urlavano il proprio ordine oltre il banco di vetro unto.
Mona non riconobbe il giovane che la servì. Era turco? Avrebbe fatto bene a indossare un cappello per coprire quei capelli. Gli indicò la danese alla cannella.
«Dov’è Clive?», gli chiese mentre prendeva il dolce incartato dalle sue mani grandi e pelose.
«Chi?».
«Clive. Il proprietario».
«Non ho idea di chi stia parlando, signora». «Be’, dovrebbe conoscerlo visto che è il suo…».
«Paga due e venti».
«Come, scusi?».
«Sono due sterline e venti».
Mona rise. «Che fa, mi prende in giro? Non può costare così tanto! Su, quanto le devo?».
Poggiò il mazzolino di fiori sul bancone e si frugò nelle tasche del vestito. «Oh, io… Sono uscita senza soldi».
«Roba da matti!».
L’uomo scosse la testa. «Signora, non ho tempo da perdere. Facciamo così: offro io, va bene?».
«Davvero? La ringr…». L’uomo si era già girato verso un altro cliente.
«Mah!», esclamò lei e affondò i denti nella pasta friabile della ciambella danese. La assaporò lentamente, succhiando la cannella fino a quando la sfoglia al burro le si sciolse in bocca.
«Mona? Tesoro, che ci fa qui?».
La voce aveva un accento che Mona non riusciva a riconoscere. Il tocco d’una mano sulla spalla la fece voltare di scatto. Una donna la stava fissando con espressione preoccupata. Aveva la carnagione olivastra, la pelle liscia e luminosa e gli occhi segnati agli angoli da rughe sottili.
«Chi è lei?», chiese.
«Sono io: Veronica».
Mona la scrutò con intensità. «Non… Non conosco nessuna Veronica».
«Vengo a pulirle casa ogni lunedì, Mona. Oh, mia cara, ma non ha freddo con quel vestitino estivo addosso?».
«Lei mi confonde con qualcun altro», rispose Mona, «e temo mi stia facendo fare tardi». Lanciò un ultimo sguardo alla donna, poi uscì dalla pasticceria.
Fuori, il lamento delle gru e il frastuono dei trapani la irritarono. Tutti quegli uomini con strani cappelli e giganteschi occhiali di plastica. La gente intorno a lei parlava a un volume di voce assordante. Guardò la via in cui si trovava chiedendosi per quale motivo fosse arrivata fin là. «Cos’ha da guardare?», chiese a una giovane passante che sembrò non sentirla.
Continuò a camminare. Dalle bancarelle alimentari del mercato di Whitechapel proveniva una musica strana a tutto volume. Non riusciva neppure a distinguere i singoli suoni, la disturbavano, la facevano trasalire. Lungo la via principale c’era un traffico mai visto; un tripudio di colori. Starnutì a ripetizione, qualcosa di pepato le stava irritando il naso. All’improvviso ricordò perché era là, le tornarono in mente Cable Street e Patrice che finiva il turno. Si avviò in quella direzione, percorrendo lentamente la strada stretta, ma intorno a lei si agitava un turbinio di persone. Una luce lampeggiava. Altra musica strana. Arrivò a un incrocio e restò ipnotizzata a fissare l’altezza degli alberi e delle torri di vetro verde. Tutto saliva su, su, sempre più su.

Wolfie camminava a passi marcati, come se stesse avanzando nella sabbia e non sul marciapiede. Non ignorava certo l’urgenza della situazione ma, forse, se avesse tenuto il passo sotto controllo si sarebbe placata anche l’ansia che lo divorava dentro. Notò che Luca aveva dimezzato il ritmo e la lunghezza della sua falcata, e iniziava a dare segni di imbarazzo misto a panico crescente. Avevano controllato le giostrine al parco e tutta Cambridge Heath. Lo preoccupavano la strada, il traffico, e i giovani ciclisti spericolati che sfrecciavano tra le auto. E se Mona fosse inciampata? Le sarebbe bastata una caduta per… Una sola.
Ora la luce del sole si rifletteva direttamente sul marciapiede. Si arrotolò le maniche della camicia e vide che l’orologio segnava mezzogiorno. Stavano camminando da trenta minuti. Sentì le campane suonare in lontananza e si rese conto che Luca gli stava rivolgendo una domanda.
«La prima volta che se n’è andata in giro così è arrivata fino a Lea Valley», gli rispose. «Da bambina giocava nei pressi delle paludi, poi è stata la volta del museo in Cambridge Heath Road, infine i Meath Gardens in Roman Road che allora, però, si chiamava Green Street. All’epoca girava tutto Hackney in lungo e in largo». «Se Lydia si spingesse oltre il parco mi verrebbe un colpo!».
«Erano altri tempi», rispose Wolfie con un’alzata di spalle. Sollevò il viso al cielo lasciando che il primo vero calore del giorno lo investisse. Chiuse gli occhi, il passato tornò a farsi vivo e con esso un fugace barlume di felicità. «Non esisteva la paura degli sconosciuti. Ci conoscevamo tutti. Gli adulti si arrabbiavano solo quando non ti presentavi in tempo per i pasti. Se la cena si freddava te le suonavano con la cinghia! Anche se, il più delle volte, si trattava solo di un po’ di pane e zuppa». Aprì gli occhi e mise a fuoco la calca nei pressi della stazione metro di Bethnal Green. La strada pullulava di persone, molte più di quando lui e Mona erano stati giovani e Bethnal era considerato un ghetto ebraico. «Avresti dovuto vedere Mona a quei tempi», disse. «Aveva i capelli color oro prima che diventassero argento».
Wolfie sentì un ronzio in tasca che lo fece trasalire, poi ricordò il regalo di Luca per il suo compleanno. Tirò fuori il piccolo cellulare nero. «Non ho gli occhiali», disse porgendo il telefono all’amico. «Che c’è scritto?». «È un messaggio di Veronica. Ha appena incontrato Mona da Rinkoff’s ma lei non l’ha riconosciuta».
«Af tsores! Com’è possibile che non abbia riconosciuto Veronica?», mormorò Wolfie. «Faceva sempre tappa alla pasticceria Rinkoff’s quando andava a prendere Patrice».
«Prendere chi?».
«La sua migliore amica da ragazza. È morta anni fa».
Luca esitò. «Credi sia arrivato il momento?».
«Non ti ci mettere pure tu. Per quanto mi riguarda, è fuori discussione».
«Man mano che passa il tempo fa cose sempre più pericolose».
«Ma quale pericolo! Siamo in pieno giorno. È solo confusa. Argomento chiuso, va bene?».
Luca aggrottò la fronte e tacque. Mentre svoltavano su Whitechapel High Street, il vocìo dei passanti divenne più sonoro, più giovane e più insistente. La strada era tappezzata di polpa di pomodori caduti, peperoncini rossi e foglie di coriandolo. Le urla degli uomini dietro le bancarelle andavano ad aggiungersi al clamore generale. Sembrava musica, un susseguirsi di suoni appartenenti a una lingua sconosciuta. Superarono gli studenti che bivaccavano davanti alla facoltà di medicina in un miscuglio stupefacente di stili, ognuno rappresentativo di un decennio della vita di Wolfie. Lo sciame di bici sfreccianti lo inquietò. «Andate piano», gli borbottò dietro Wolfie.
«Freddy vuole una di quelle bici a scatto fisso ma dovrà passare sul mio cadavere se vuole girare per Londra senza freni». Luca si fece da parte per schivare una giovane famiglia che si stava riversando all’esterno di un nuovo condominio. «Quanto odio quei posti», commentò Wolfie, indicando un Tesco Metro che aveva aperto di recente. «Con quelle corsie tristi, piene di vaschette di verdure già tagliate e di pasti da scaldare nel microonde. Una tale desolazione».
«Eccola, la vedo!», esclamò Luca in tono di sollievo. «Ma con chi sta parlando?».
Wolfie seguì il suo sguardo e colse un lampo giallo. Mona non indossava quel vestito da anni. Ricordava bene il giorno in cui lei lo aveva acquistato. Più o meno dieci, dodici anni prima. Monty li aveva accompagnati a Brighton Lanes nella sua vecchia Astra verde. Mona aveva girato tutte le stradine spulciando intere file di vestiti in esposizione, innamorandosi dei loro colori brillanti. Quando aveva scostato la tenda della cabina di prova per mostrarsi, gli era apparsa come l’immagine residua del sole, una visione impressa sulla retina. Ricordava che quel giorno aveva comprato anche una collana che però aveva perso poco dopo. Il gancio di chiusura era difettoso.
In quel momento, Mona era sull’altro lato della strada che gesticolava con foga contro un negoziante, un’ombra di peluria sotto le sue braccia nude. La guardò per un tempo che gli sembrò lungo, o magari si trattò solo di pochi secondi, quanto bastava per vedere tutta la sua vita scorrergli davanti agli occhi in un baleno, con il nulla davanti a sé.
«Forse crede che sia il magnaccia di Patrice», ipotizzò Wolfie. «Molte sue amiche dell’orfanotrofio sono finite nel giro della prostituzione».
Luca tacque, prese il braccio di Wolfie e attraversarono la strada per raggiungere Mona che urlava contro un uomo di origine bengalese.
«Mona, altz iz gut», cercò di tranquillizzarla Wolfie. «Vieni, mia cara, andiamo a casa. Lì ti sentirai meglio». Con una leggera pressione sotto il gomito appuntito, la fece allontanare.
«Ma dov’è finita Patrice? Parla con quell’uomo, fa’ qualcosa!».
Wolfie voleva fare qualcosa ma non sapeva bene cosa, quindi la abbracciò, affondò il viso nei suoi capelli, aspirò il profumo familiare di sciampo alla camomilla e ascoltò il battito accelerato del suo cuore. Mona si liberò bruscamente e gli urlò contro a pochi centimetri dal viso. Aveva l’alito dolce di cannella.

Il calore dei corpi riempiva la cucina. Erano tutti riuniti intorno al tavolo di quercia allungato con le estensioni a scatto e ricoperto con la tovaglia ricamata dello Shabbas poco prima che arrivassero gli ospiti. Wolfie aveva apparecchiato con i piatti di porcellana buona e con i bicchieri di cristallo con dentro i tovaglioli rossi piegati ad arte, il bordo dorato in evidenza. Aveva acceso le due candele lunghe dello Shabbas prima del tramonto, in obbedienza ai comandamenti della Torah di custodire e ricordare la luce di Dio, una delle poche tradizioni che continuava a osservare, e le fiammelle ondeggianti conferivano ai volti dei commensali una luminosità soffusa che li abbelliva. Nell’aria si mescolavano i profumi del pane appena sfornato, del salmone affumicato e delle spezie del patchouli, l’essenza di colonia prediletta da Monty. Tutti gli ospiti avevano portato un mazzo di fiori, tranne la rabbina Ellensen che aveva onorato l’invito con un barattolo della sua marmellata di more. I vasi non bastavano, Wolfie ne cercò altri ma Mona li aveva sistemati chissà dove.
Si sedette a capotavola, orchestrando il consumo di cibo con i suoi «mangiate, mangiate», fino a quando parlare e mangiare divennero una cosa sola. Fu tutto un masticare, convenire, inghiottire, interrompere, tagliare, stridere di posate. Esclamazioni di soddisfazione. E il clangore delle dentiere di porcellana sulle posate.
«Questa crema di uova alla maionese è strepitosa, Wolfie!», esclamò la rabbina Ellensen, baciandosi le dita della mano per far sparire le ultime briciole. Wolfie le rispose con un sorriso. Da vicino sembrava più giovane di quanto non gli fosse apparsa in piedi sul piccolo pulpito della sinagoga. Prima di lei, non aveva mai conosciuto una rabbina, per di più giovane, al di sotto dei quaranta. Gli aveva raccontato che si era trasferita dalla California per via del lavoro del marito. Erano sposati da quindici anni ed erano ancora innamorati come due ragazzini.
Si udirono mormorii di assenso sulla bontà della maionese. Sarebbe stato tutto perfetto se Mona non fosse stata su in camera, a dormire. I complimenti caddero nel vuoto, la conversazione gli scivolò addosso. Rispondeva, «Certo, sì, infatti», per poi scoprire che non gli era stata posta alcuna domanda. Diede un morso al crostino con il paté di fegato. Forse una lunga dormita sarebbe servita a interrompere quella fase di Mona; forse si sarebbe svegliata con un po’ di appetito. Non voleva disturbarla ma avrebbe tanto desiderato poggiare una mano sul suo ginocchio sotto il tavolo e permettere che la rabbina la conoscesse come si deve. Ospitare un rabbino per o Shabbas era un privilegio molto ambito e la presenza della rabbina Ellensen era stata programmata con largo anticipo. La rabbina aveva recitato un Kiddush molto suggestivo e durante la benedizione del vino aveva reso omaggio ai bellissimi ricami di Mona sui tovaglioli che ricoprivano le challah. Mentre spezzava il pane per distribuirlo tra i commensali, accennò con delicatezza al valore della shalom bayit, la pace della casa, e lui non poté che chinare il capo.
Osservò la folla intorno al suo tavolo, gli amici, i vicini con i loro figli, quella grande famiglia che lui e Mona si erano creati, e si sentì uno spettatore, non un partecipante.
Monty incrociò il suo sguardo. «Raccontaci delle tue lezioni di italiano, Wolfie», lo incitò.
«Be’, sono lo studente più vecchio dell’università, sopravanzo gli altri di almeno quarant’anni, ma a parte questo, sono contento», spiegò Wolfie. «Ho intenzione di portare Mona a Firenze e di ordinare fave e cicoria, riso, patate e cozze con un accento perfetto. Sarà una specie di seconda luna di miele per noi». Luca ed Elena si complimentarono per la buona pronuncia ma a lui non sfuggì il loro sguardo sorpreso. Provò una punta di fastidio.
«Noi non siamo mai andati in luna di miele», rivelò Elena.
«Ora che ci penso, neanche noi», rispose Wolfie. «Era ancora l’epoca del razionamento».
«Immagina che meraviglia, far compere a Firenze», intervenne Monty. «Mona ha la taglia perfetta per lo stile italiano e anche nel tuo caso qualche vestito un po’ più chic non guasterebbe».
«Per quello ci sei tu, amico mio». Wolfie si alzò e batté la forchetta contro l’orlo del suo calice di vino. «Prima di tutto, riempite i vostri calici, perché un giorno senza vino è come un giorno senza sole». Attese che il Beaujolais facesse il giro del tavolo, poi continuò. «Voglio ringraziarvi tutti per esservi uniti a noi in questo Shabbas, un grazie in particolare va alla rabbina Ellensen alla quale diamo il benvenuto nella nostra comunità e che l’anno prossimo ci farà l’onore di benedire me e Mona in occasione del nostro sessantacinquesimo anniversario di nozze».
I rintocchi di cristallo riempirono la stanza.
«Mona e io abbiamo avuto la fortuna di assistere negli anni al via vai di persone in questo quartiere e, anche se alcuni oggi sono passati a miglior vita, la nostra cerchia di amici continua ad allargarsi. È un peccato che Mona oggi non si senta bene perché niente la rende più felice di uno Shabbas in compagnia delle persone a lei care. Perciò», Wolfie alzò di nuovo il calice, «a voi, e ai nuovi inizi!».
«No, a te e Mona», rispose Monty. «Alla nostra coppia preferita di adorabili brontoloni. Vi vogliamo bene!». Wolfie abbozzò un inchino. Bevve un lungo sorso di vino, poi si diresse verso il forno e tornò al tavolo con una teglia di arrosto di petto di manzo. La carne si sgretolò mentre la affettava. Gli ospiti emisero mormorii di apprezzamento mentre l’arrosto faceva il giro della tavola. Osservò Elena mentre raccoglieva un po’ di sughetto con il cucchiaio e lo versava sulla carne nel piatto di Freddy. Il ragazzo stava con il capo chino, quasi nel piatto, e annuì per ringraziarla mentre continuava a ingollare cibo, con tanto di sonoro. Elena si concesse un sorrisetto di soddisfazione mentre lui mangiava, prima di rimboccarsi le maniche del cardigan nero e riempirsi il piatto. Luca era seduto di fronte a lei e badava a Lydia. Wolfie notò che marito e moglie non si erano scambiati una parola per tutta la sera, fatta eccezione per una volta che si erano passati il rafano. «Devi tenere per forza il cellulare sul tavolo, Freddy?», chiese Luca.
«Ma che succede qui? Dov’è Henry?». L’esile figura di Mona comparve sulla soglia della porta. I capelli in disordine dopo la dormita, il pallore del viso in contrasto con il giallo acceso del vestito, ormai tutto stropicciato.
«Chi è Henry, zia Mona?», chiese Lydia lasciando in sospeso il disegnino di un panda che stava prendendo forma sul suo tovagliolo.
«Come, chi è? È il mio fidanzato! Tu invece chi sei?».
Freddy sollevò la testa dal piatto e si voltò a guardare la madre. Monty invece abbassò il capo e il calore dell’arrosto gli appannò le lenti con la montatura in tartaruga.
Wolfie vide il viso della rabbina allungarsi per lo sgomento, una perdita momentanea di compostezza da cui si riprese quasi subito. «Wolfie, forse Mona ha bisogno di riposare ancora un po’», suggerì Luca. «O forse vuole cenare?», buttò là Freddy.
«Sì, entrambe le cose, credo», concordò Wolfie. «Vieni, tesoro, portiamo su questo bell’arrosto». Si alzò scusandosi, prese il proprio piatto e con un gesto esortò gli altri a continuare senza di lui.
Strinse la mano esile della moglie e insieme salirono le scale verso la camera da letto. L’aria nella stanza era pesante, con molta fatica tirò su il vetro della finestra e fece entrare il fresco della sera. Per un attimo restò in piedi a contemplare le sagome dei faggi e il parco.
Quando si girò, Mona era già scivolata sotto le lenzuola blu a fiori scelte l’anno prima nel negozio John Lewis, durante i saldi di Natale, dopo venti estenuanti minuti di minuziosa disamina. La ricordò mentre era indecisa tra verdi e rosa, sollevava le lenzuola controluce e ne ispezionava la stoffa. Quel suo interesse per le trame dei tessuti lo aveva fatto montare su tutte le furie e con tono esasperato l’aveva esortata a sbrigarsi e a sceglierne un paio qualunque, erano lenzuola, dopotutto. Spense l’abat-jour e il viso pallido di Mona svanì tra le ombre, i capelli argentei sparsi sul cuscino, e mentre osservava la sua espressione stanca e confusa venne invaso dal feroce desiderio di tornare a quel momento e di dirle di comprarle tutte.

La fine del mondo, di Robert Walser

In libreria trovate questa antologia di racconti apocalittici, pubblicati da Il Saggiatore e affidati alla curatela di Andrea Esposito che ha scavato fra le più selvagge e folli di queste fantasie e selezionato una partitura di pagine sulla fine del mondo: dall’orrore visionario di H.P. Lovecraft alla fantascienza steampunk di Jules Verne, da un oscuro dramma di Aleksandr Puškin all’ultimo uomo sopravvissuto di Mary Shelley. Prende forma una sinfonia percussiva che include la poesia di Sara Teasdale e di Lord Byron, la prosa di Leopardi e di Hawthorne, e che accoglie negli intermezzi rare gemme nascoste: miti norreni, vangeli apocrifi e le terribili visioni che anticiparono l’arrivo dei conquistadores spagnoli in Messico. I racconti dell’apocalisse compongono l’antologia definitiva del nostro terrore più viscerale; ci aiutano a esorcizzarlo, nel contempo facendocene assaporare il fascino primitivo e risvegliando il cupio dissolvi nascosto dentro ognuno di noi.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.


La fine del mondo
di Robert Walser

Una fanciulla, che non aveva né padre né madre, né fratello né sorella, che non apparteneva a nessuno e non aveva casa in nessun luogo, ebbe l’idea di mettersi a correre fino a quando non fosse arrivata alla fine del mondo. Non aveva bisogno di portare con sé molta roba, né di caricarsi troppo di bagagli. Infatti non possedeva nulla. Se ne andò così come si trovava. Il sole splendeva, ma la povera fanciulla non prestava alcuna attenzione al suo splendore. E correva, correva, passando accanto a molte cose meravigliose, ma anche a queste non prestava alcuna attenzione. E correva, correva, passando accanto a molte persone, ma nemmeno a queste prestava attenzione. E correva, correva… Venne la notte, ma la fanciulla non fece caso alla notte. Non faceva caso né al giorno né alla notte, né alle cose né agli uomini, né al sole né alla luna e nemmeno alle stelle. E correva, correva, e non sentiva né angoscia né fame. Aveva in testa una sola cosa, una sola idea: cercare la fine del mondo e correre fino a quando non l’avesse trovata. Sarebbe ben riuscita a trovarla, pensava. «È oltre» pensava «è oltre ogni altra cosa. È proprio alla fine». Aveva ragione la fanciulla? Aspettate solo un istante. Oppure aveva sbagliato i propri calcoli? Ma insomma! Aspettate un attimo! Adesso vedremo. La fanciulla correva, correva… Si immaginò la fine del mondo prima come un’alta muraglia, poi come un profondo abisso, come un bel prato verde, come un lago, poi come una stoffa con puntini, come una grossa e densa poltiglia, come aria e nient’altro, poi come una bianca e levigata superficie, come un mare di gioie nel quale si sarebbe potuta dondolare in eterno, come un bruno sentiero, e poi come il nulla assoluto o come ciò di cui purtroppo non riusciva a farsi una precisa idea.
E correva, correva… La fine del mondo pareva irraggiungibile. La fanciulla errò per sedici anni attraverso mari, pianure e montagne. Nel frattempo era diventata grande e robusta, ma rimaneva sempre fedele all’idea di correre fino a quando non avesse raggiunto la fine del mondo. Però non l’aveva ancora raggiunta, anzi, sembrava esserne ancora molto lontana. «Questo comunque non si può sapere!» pensava. Allora chiese a un contadino, che si trovava sulla strada, se sapesse dov’era la fine del mondo.
«Fine del mondo» era il nome di una casa colonica delle vicinanze. Perciò il contadino disse: «Si trova a mezz’ora di distanza da qui». Udite queste parole, la fanciulla ringraziò il contadino per la cortese informazione e proseguì. Ma quella mezz’ora sembrava quasi un’eternità, e allora chiese a un ragazzo che veniva dalla direzione opposta quanto tempo ci volesse ancora prima di arrivare alla fine del mondo. «Ancora dieci minuti» disse il ragazzo. La fanciulla lo ringraziò per la cortese informazione e proseguì. Era ormai allo stremo delle forze. Solo a fatica riusciva ancora a camminare.
Alla fine scorse in mezzo a un prato accogliente e rigoglioso una casa colonica. Era grande, bella, una vera meraviglia di casa. Ed era così calda, semplice, invitante, così fiera, così graziosa e insieme così nobile. Era circondata da splendidi alberi da frutta, tutt’attorno vi zampettavano i polli, in mezzo al grano soffiava un vento leggero, l’orto era colmo di verdure, sul pendio spiccava un alveare il quale, come si conviene, emanava profumo di miele, e c’era anche una stalla piena di mucche, e tutti gli alberi erano carichi di ciliege, di pere e di mele. Tutto aveva un aspetto così ricco, libero e raffinato che la fanciulla pensò immediatamente che dovesse trattarsi della fine del mondo. Grande fu la sua gioia. Evidentemente, proprio in quel momento in cucina si stava preparando da mangiare. Infatti dal camino usciva un tenero, sorridente e grazioso filo di fumo che subito scappava via volatilizzandosi come un piccolo birbante. La fanciulla, pallida e trepidante a causa della spossatezza, chiese: «Mi trovo alla fine del mondo?». «Sì, cara fanciulla» rispose la contadina «ti trovi proprio alla fine del mondo.» «Vi ringrazio per la cortese informazione…» ebbe appena il tempo di dire la fanciulla, poi cadde a terra sfinita. Caspita! Subito però fu sollevata da mani premurose e sistemata in un letto. Quando tornò in sé si accorse infatti di trovarsi in un graziosissimo lettuccio, presso quelle care e buone persone. «Posso restare qui?» chiese. «Voglio servirvi nella migliore maniera possibile.» «Perché no?» le risposero «noi ti vogliamo bene. Resta qui da noi, e aiutaci con tutte le tue capacità. Abbiamo proprio bisogno di una ragazza laboriosa, e se sarai brava ti considereremo come una nostra figlia.»
La fanciulla non se lo fece dire due volte. Cominciò a darsi da fare con solerzia e a servire con grande bravura. Tutti le vollero subito bene, e la fanciulla non corse più in cerca della fine del mondo. La sua casa ora era quella.

© il Saggiatore S.r.l., Milano 2022

Storie di fame, di Daniel Orozco

Racconti Edizioni porta in libreria Orientamento, di Daniel Orozco. A 150 anni da Bartleby, Orientamento , tradotto da Emanuele Giammarco, ritraduce la tradizione realista americana ossigenandone da capo le ferite. Scrivanie, sale relax, macchinette del caffè, ma anche spogliatoi, mense, supermercati: è la realtà che conosciamo e che ci circonda, che fa da scenario alle nostre routine, offrendo respiro e battito alle nostre vite.
Con uno stile inimitabile che sembra piegare l’asciuttezza carveriana alle esigenze kafkiane di Barthelme, che non ha paura di abbracciare e rivoltare i gerghi tecnici, che strizza l’occhio a Fantozzi per carica ironica senza mai perdere il desiderio di serpeggiare in aria come un fuoco d’artificio, Daniel Orozco ci offre uno dei mondi più verosimili che potrete mai leggere.

Cattedrale vi propone l’estratto dal brano Storie di fame, per gentile concessione dell’editore.

Storie di fame

 

Così essi mangiarono, furono saziati e Dio
mandò loro quel che avevano desiderato

Salmi, 78, 29

 

I

 

A fare la spesa ci andava tre volte a settimana, dopo il corso di aerobica, facendo tappa a un minimarket che rimaneva di strada dal centro benessere verso casa. Era un posticino a conduzione familiare con un parquet disastrato e due sole casse per pagare, male illuminato e angusto e molto in voga fra i professionisti. Sui suoi scaffali c’erano birre artigianali e barrette energetiche e rucola, a parte tutti i generi di prima necessità. Così quando aveva bisogno di pane, banane, carote, latte, ricotta – le solite cose – si fermava in zona.
Quando però sentiva di meritarsi una qualche leccornia, allora una sortita speciale – una capatina da biscotti – era d’obbligo. Per quelle preferiva andare nei supermercati più grandi che riusciva a scovare, posti che assumevano tanti commessi, che si alternavano tanto di frequente, che nessuno l’avrebbe mai riconosciuta come cliente fissa. Andava sempre la sera tardi, quando c’era meno ressa. E le piaceva gironzolare, visualizzare la corsia dei biscotti senza smettere di svoltare su e giù per tutte le altre corsie, da una parte all’altra del negozio. Ai banconi non si attardava mai. Pane, Gastronomia, Frutta e Verdura, Banco del pesce, Macelleria: quei reparti non solleticavano minimamente il suo interesse. Piuttosto erano le corsie ad attirarla, e in special modo l’effetto particolare che le faceva sfilarci dentro: a ogni svolta che prendeva, davanti agli occhi le si schiudeva una galleria di prodotti, una congestione visiva che le saturava la vista, facendole accapponare la pelle e contorcere e arricciare le budella, in una specie di tremito pre-biscotto che non smetteva mai di eccitarla in modo destabilizzante ed erotico. I biscotti stessi si sarebbero volatilizzati quindici minuti dopo l’arrivo a casa – anche prima, se apriva il pacco in auto e cominciava a sgranocchiarli alla guida. Dopodiché si spaparanzava intontita sul divano davanti alla tv, il livello di zuccheri in caduta libera, l’euforia che scemava, sentendosi sola e gonfia e in colpa, finché non si assopiva e arrendeva al sonno.
Una notte si avventurò fino al posto che preferiva in assoluto, un megastore aperto ventiquattro ore che avevano inaugurato da poco dentro un centro commerciale vicino l’aeroporto. Era il negozio di punta di una catena regionale: aveva ventisei corsie, una caffetteria e una farmacia aperta tutta la notte, il videonoleggio, e pure un salottino con i divani e l’abat-jour e un caminetto acceso con i ciocchi finti. Arraffò un cestino appena varcato l’ingresso a porte scorrevoli, bordeggiò il salottino, e si diresse verso la corsia 1a. Per i suoi standard queste serate potevano durare parecchio. Poteva bighellonare per ore, gongolando non soltanto per la quantità di prodotti, ma per la loro varietà in continua espansione: c’erano gelati con sopra pretzel ricoperti di cioccolato o tocchetti di brownie caramellato o granelli di vere bacche di vaniglia, e quelli fatti con le fragole biologiche o la crema kosher o le noccioline non coltivate nella foresta pluviale; c’erano i triangolini di tortillas bianchi, gialli, blu e rossi, e le pennette colorate integrali, asparagi, seppia e pomodoro; c’erano i cereali per la colazione a forma di arachidi, lamponi, ciambelline e girelle, a forma di waffle, di piccoli toast; c’erano quindici tipi diversi di condimento per la pasta, dieci gusti di gallette di riso, e una dozzina di acque toniche aromatizzate; c’erano otto varietà diverse per una cosa banale come la mostarda. Si sentiva immersa nell’abbondanza, e librava come un’innamorata ubriaca d’aspettative, lasciando cadere distrattamente ogni cosa nel cestino della spesa: zucchero di canna dalla corsia 2a, un barattolo di pesche sciroppate dalla 7b, una busta d’uvetta dalla 9b. A fine corsa riponeva sui rispettivi scaffali la maggior parte dei prodotti scelti, conservandone uno o due particolarmente sani per controbilanciare i biscotti. Da soli i biscotti non li comprava mai. Nessuno, sentiva in cuor suo, aveva bisogno di sapere così tanto su di lei.
Quella notte però, qualcosa non quadrava. Nonostante fosse mezzanotte passata, il supermercato era strapieno. Per passare bisognava incunearsi fra i carrelli in doppia fila, aggirare assembramenti di clienti troppo loquaci che impedivano il passaggio. Altri girovaghi notturni avevano cominciato a ciondolare ai margini del suo stesso girovagare notturno. Le si affiancavano, compulsando gli stessi scaffali che compulsava lei, le mani che si allungavano sul vasetto di marmellata accanto al vasetto di marmellata su cui aveva appena posato le mani. Un tizio le si era accodato per tutta la corsia dei cereali – inavvertitamente, ne era sicura – ma con sufficiente caparbietà da costringerla a procedere oltre. E peggio ancora, c’erano commessi dappertutto. Sgattaiolavano in ogni direzione con quei papillon già annodati con la clip e i loro grembiuli blu inamidati e appuntati di cartellino, rifornendo svelti gli scaffali, dislocando pallet ad altezza uomo con sopra prodotti nuovi ancora impacchettati e portandosi appresso i loro taglierini con un contegno da intagliatori di sushi. Non la smettevano di chiederle se aveva bisogno di rintracciare qualcosa, e lei continuava a ripetere «No, grazie». Le mettevano una fretta tale, e lei si sentiva talmente stizzita, frustrata, per aver perso il ritmo della serata, che abbreviò il suo solito giro. Saltò le corsie dalla 12 alla 21 e si avviò direttamente alla 22b, il centro del bersaglio verso cui puntava il girandolio del proprio desiderio – Biscotti e Crackers. Una volta lì, non si discostava mai dalle proprie abitudini – erano sempre o gli Sgranocchioni Olé della Nabisco o gli Ultra Cioccolatosi Deluxe della Keebler. Eppure le piaceva rimuginarci sopra, per gustarsi la finzione di dover decidere fra un biscotto o l’altro nella panoplia che aveva davanti agli occhi: Chi di voialtri mi porterò a casa stasera?
Anche qui però trovò degli ostacoli. C’erano altre persone in corsia – una coppia, un uomo e una donna, che non soltanto sostavano davanti agli scaffali dei biscotti, ma si erano piantati proprio di fronte alla sezione dei Nabisco e dei Keebler. Lei si fermò qualche metro prima e fece finta di dare una scorsa agli scaffali dei crackers, in attesa che se ne andassero. Entrambi portavano i capelli alle spalle e indossavano trench neri, che li rendevano più slanciati e snelli. Erano giovani – sui venticinque, a occhio – e molto attraenti. Se ne stavano lì, le mani incassate nelle tasche del cappotto, a parlare con trasporto senza scollarsi dal posto. Decise di tornare ai Formaggi e scambiò i suoi fiocchi di latte al due per cento con una confezione all’uno per cento, poi alla corsia 6a per rimettere a posto le pesche pre-sbucciate. Tornò indietro alla 22b. I due erano ancora lì, esattamente nello stesso punto, orgogliosamente sciancati e pigolanti in quella posa sfrontata e seducente che tengono le coppie in pubblico, solleticando la nostra esclusione dalla loro intimità. Guardate quanto ci ascoltiamo, noi, sembravano far trasparire. Guardate quanto le cose che noi condividiamo rimangono fuori dalla vostra portata.
Li sorpassò impettita e si diresse alla corsia adiacente, Pasta e Cereali. Si piazzò davanti agli scaffali, scorrendo le mani alla cieca sulle confezioni. Sentì la voce di lui che si alzava di tono, e la risata di lei. Ma che diavolo c’era da ridere a quel modo? Si mise ad ascoltarne il tono basso e ovattato, il mormorio di quelle voci languide e melodiche. Ci furono altre risate, e poi finalmente – finalmente! – li sentì allontanarsi. Li tallonò di pari passo, in parallelo al loro lento avanzare fuori dalla corsia, quando all’improvviso uno dei commessi in grembiule blu le apparve di fronte, alto, fanciullesco, scavato e con un sorriso enorme e una stempiatura incipiente e un cartellino che recitava: BRAD sarà felice di servirti! Le chiese se poteva esserle d’aiuto a rintracciare qualcosa. «No!» sbottò lei, scansandolo in fretta ma solo per incappare nella coppia della corsia dei biscotti. Bofonchiò delle scuse aprendosi un varco fra loro, e svoltò nella corsia 22b.
Era libera, finalmente. «Eccoci» si disse, una volta raggiunto lo scaffale dei biscotti. E si era messa lì di fronte da giusto due secondi – a malapena era riuscita a vederli tutti, a sistemarsi col corpo di modo che riempissero al massimo la sua visione periferica –, era appena arrivata allo scaffale dei biscotti, quando una donna che passava all’altro capo della corsia si voltò per guardarla. Anche lei indossava scarpe da corsa e leggings e una felpona morbida. I capelli li aveva scuri e tirati all’indietro in una coda di cavallo che le metteva in risalto un viso incontaminato. Lo sguardo della ragazza si rivolse pigramente su di lei, poi ai biscotti su cui aveva già posato lo sguardo, e su di lei una volta ancora. E appena prima di slittare fuori scena oltre il bordo della corsia, il volto impassibile della ragazza registrò un movimento delle labbra a malapena discernibile. Un accenno di intimo sorrisetto, la più minuscola delle spunte, ma nella cui minuzia era carica una conoscenza così ampia – una comprensione così acuta delle sue serate solitarie in quei supermercati, del suo incanto di fronte a quei biscotti, e di tutto ciò che ne conseguiva – che scappò. Si mise a correre. Via difilata fuori dalla corsia nella direzione opposta e poi lungo tutto il retro del supermercato, a grandi falcate oltre i Frutti di Mare e la Macelleria, fino all’altro capo del negozio, per trovare riparo fra la Verdura. Si aggirava in mezzo ai bidoni, fra i cari vecchi cumuli di frutta lavata, col fiatone, gli occhi arrossati, perfettamente consci della propria ridicolezza. Non sapeva se ridere o piangere. «Stupida!» sibilò. «Stupida! Stupida!» Eppure continuava, avanti e indietro, assediata dalla sua brama afflitta, sbattendo gli occhi e camminando fra i bagliori e le scintille degli specchi e l’abbondanza riflessa delle verdure appena rinfrescate dai soffioni d’acqua.

L'isola dei conigli, di Elvira Navarro

LiberAria Editrice porta in libreria L’isola dei conigli, di Elvira Navarro, con la traduzione di Sara Papini e la prefazione di Rossella Milone.
Un immaginario netto e potente, dove il passaggio, la metamorfosi, la transizione, non è sempre una liberazione. Come ne La lavoratrice, la scrittura di Navarro trascina il lettore ai confini tra reale e fantastico, ponendosi sul crinale più esterno della razionalità e chiedendo al lettore di guardare a occhi aperti l’oscurità.

Cattedrale vi propone il racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

L’ISOLA DEI CONIGLI

 Elvira Navarro

Costruì una canoa e decise di provarla nel Guadalquivir. Non gli interessava lo sport. Nemmeno aveva fatto la canoa per usarla spesso; sapeva che, non appena esplorati gli isolotti, l’avrebbe lasciata nel ripostiglio o l’avrebbe venduta. Si considerava un inventore, anche se le cose che fabbricava non potevano proprio essere definite invenzioni. Ciò nonostante, aveva iniziato a giudicare come tali tutto quello che progettava, perché non utilizzava il libretto d’istruzioni. Il suo metodo era scoprire da sé il necessario per elaborare quello che era già stato fatto. Il procedimento gli portava via mesi e lo considerava la sua vera vocazione. Inventava ciò che era già stato inventato. In questo modo otteneva un piacere simile a quello degli escursionisti che la domenica vanno in montagna e raggiungono una cima, e si domandava come mai la realizzazione personale fosse qualcosa di così bizzarro. Di mattina, il falso inventore lavorava come professore in una scuola d’arte senza sentirsi realizzato, nonostante le lezioni fossero utili per i suoi studenti.
Fin da bambino aveva desiderato raggiungere le lingue di terra che si addentrano nel mare, o le isole in cui non abita nessuno. Una volta, quando aveva diciott’anni, i suoi genitori l’avevano invitato con loro a Tabarca con la promessa di un’isola deserta. Lui aveva creduto che avrebbero pestato soltanto terra e cespugli, ma si era imbattuto in sette vie di umili case, delle mura, una chiesa, un faro, due hotel e un porticciolo. Probabilmente i suoi avevano esagerato con il fatto che non c’era nulla a Tabarca per convincerlo ad andare in vacanza tutti insieme – a loro non piaceva che rimanesse a casa da solo –; o forse quando parlava di luoghi disabitati non avevano mai capito a cosa si riferisse.

Era difficile contare gli isolotti della riva del Guadalquivir che costeggiava la città. Alcuni potevano essere scambiati per piccole penisole. Una mattina di settembre camminò fino al molo con la sua imbarcazione e si buttò in acqua. Passò diversi giorni a sondare la canoa, e dopo che fu in grado di controllarla, cominciò a esplorare il fiume. Non pioveva da settimane. La portata era scarsa, le acque tranquille, fetide. Percorse il perimetro delle isole con un misto di inquietudine e stupore, senza riuscire ad avvicinare la canoa alla riva. Dubitava della sua abilità di manovra rapida, temeva che la terra ai margini non fosse salda, di scivolare e di perdere la canoa. Inoltre, lo spaventava l’idea di dover tornare a nuoto, a labbra strette per non ingoiare i miasmi, e vedere tanta natura insieme, la vegetazione variopinta e vibrante di insetti, lo strato di escrementi di uccelli, il fango. Ciò che aveva creduto bello erano soltanto alberi storti dal peso dei volatili, o magari da qualche malattia, così come colonie di insetti e arbusti mangiati dall’immondizia.
Al quinto giorno di vagabondaggio con la canoa, decise di percorrere la curva del Guadalquivir. Remare verso sud gli permetteva di non perdere di vista le morbide colline della campagna. Da quelle parti le isole erano minuscole, più aspre, ed erano molto vicine una all’altra, come un’eruzione cutanea. Le aggirò a fatica; nell’ultima si imbatté nel cadavere di un uomo che galleggiava tra i giunchi. Il morto giaceva a faccia in giù, in mutande; la pelle della schiena si sollevava formando bolle grandi quanto una mano. Non sapeva se le bolle si fossero formate per via del sole, che ancora bruciava a settembre, o per il fatto che il corpo era così pieno di liquido da essersi deformato. Il fiume appestava. Chiamò la protezione civile e gli agenti arrivarono in un dinghy con cui era impossibile farsi strada tra i giunchi. Nel dinghy trasportavano una canoa; mentre un poliziotto grasso saliva su di essa, lui si avvicinò alla lancia e chiese il permesso di andarsene. Non voleva assistere al trascinamento del morto stecchito. Lo atterriva l’idea che si potesse voltare, mostrando così le viscere fuori dal corpo, divorate dai pesci.
L’episodio del morto lo tenne lontano dal fiume per diverso tempo. Poi riprese a fare il suo giro vespertino intorno alle isole, e un giorno, dopo aver racimolato il coraggio di mettere piede su quella più vicina al molo, decise di abitarla. Si disse che era stufo di vivere in città, e pure che lo eccitava fare quello che nessun’altro faceva. Si trattava soltanto di due idee peregrine con cui a volte percorreva le vie dell’urbe, troppo ossessiva secondo lui, una spirale che lo attraeva verso il centro.
In realtà non poteva dare nessuna giustificazione per spiegare il perché volesse occupare quel pezzo di terra stretto e nauseabondo, che l’avrebbe fatto sentire ancora peggio che in città.
Nonostante fosse l’isola più vicina alla riva, la boscaglia impediva di vederne l’interno. Ripulì il centro dai cespugli, abbatté alberi il cui tronco era così sottile da sembrare fatto di corda. Come faceva quel legno gracile a sostenere una chioma di un verde pletorico? Decise di montare una tenda da campeggio rossa invece che verde militare. Era ben coibentata, ma l’idea di svegliarsi ricoperto di insetti lo riempiva di terrore. Pensava che, dormendo in alto, si sarebbe difeso dalle larve che pullulavano cieche nel terreno, offuscate nella profanazione della terra, che sembravano intuire i loro predatori. I volatili le acciuffavano facilmente: mettevano il becco sotto la sabbia e frugavano. Costituivano una fonte di cibo inesauribile; tuttavia, gli uccelli non si nutrivano sempre di esse. Forse, siccome erano fatte soltanto di acqua, non erano abbastanza sostanziose, e c’era bisogno di cercare insetti più sofisticati e nutrienti. Un pomeriggio ne esaminò una. La prese in mano, e l’animaletto danzò su sé stesso. Quando la strinse un po’ con l’indice, esplose come un minuscolo palloncino.
Non dormiva nell’isolotto tutte le sere; sarebbe impazzito. Gli bastava svegliarsi lì un paio di volte a settimana. Le notti che si fermava in quella macchia del Guadalquivir, nel buio percepiva un ronzio. Gli uccelli erano silenziosi, tranne quando le civette attaccavano, e si udiva soltanto il frullo d’ali di quelli che venivano cacciati via da qualche pioppo. Stavano molto stretti; e se scuotevano la testa sotto l’ala e gonfiavano l’ingluvie, quelli che occupavano le estremità dei rami cadevano. Il ronzio che lo torturava non era dovuto a questi rantolii del sonno, ma allo strepitio dei volatili al tramonto, quando cercavano un posto negli alberi, così brutale che era impossibile fare un calcolo approssimativo di quanti giungessero a quella misera terra natale. Gli parevano migliaia. Per un’ora, pigolavano in modo tale che il suono gli rimaneva dentro, e nemmeno con le cuffie a massimo volume riusciva ad attenuarlo; a volte usciva dalla tenda gridando per metterli in fuga, ma lo stormo neanche si accorgeva della sua presenza. Era come un pezzo d’alga in mezzo all’oceano; i volatili forse lo scambiavano per un uccello ridicolo. Finiva con la gola dolorante da tanto gridare, e non voleva confessare a sé stesso che mentre urlava e faceva smorfie grottesche qualcosa dentro di lui si liberava. Spesso perdeva la nozione del tempo e continuava a ululare in piena notte, quando gli uccelli erano ormai silenziosi; allora gli scarsi viandanti sulla riva guardavano verso l’isola pensando che le urla appartenessero a qualche animale.
Gli uccelli andavano sull’isolotto a dormire, ad allevare i piccoli, a morire. Era tutto pieno di nidi e di palline di sterco, e quando il falso inventore tornava a casa, non riusciva a liberarsi dalla puzza di escremento, nemmeno facendo la doccia. A quanto pareva, quei volatili bianchi erano una piaga. Glielo aveva detto un vecchio che pescava sull’imbarcadero. Al vecchio aveva anche domandato il nome degli animali, ma questi non aveva saputo dirglielo. Cercò informazioni in Internet e non trovò nulla. Diede un’occhiata a una guida della fauna del Guadalquivir; gli uccelli della sua isola non coincidevano con nessuno degli aironi descritti. Non indagò oltre; alla fin fine, trovare a che specie appartenessero non cambiava la sua decisione di trasformarsi, per un paio di volte a settimana, in un essere che ruggiva contro creature che lo ignoravano, che dormivano nonostante scagliasse contro di loro pietre furiose. Non si degnavano di guardarlo nemmeno quando la collera lo spingeva ad agitare i tronchi gracili degli alberi. Le chiome si muovevano da una parte all’altra, e a volte quel movimento diventava violento; il dondolio dei rami dava l’impressione che alcuni robusti madonnari trasportassero l’isola sulle spalle.
Con il passare delle settimane, il falso inventore si convinse che l’occupazione fosse un atto di giustizia. Perché doveva chiedere il permesso per abitare un posto vuoto? Era per lui incomprensibile che gli altri isolotti fossero ancora vergini, ma questa non era la cosa peggiore; la cosa intollerabile era la mancanza di curiosità degli abitanti di un capoluogo dove vivevano più di trecentomila persone. Tra tanta gente, solo lui si prendeva la briga di visitare ciò che avevano davanti al naso?
Cominciò a lasciare soldi nella tenda per vedere se qualcuno li rubava. Sebbene i canoisti che remavano lungo il Guadalquivir non dovevano per forza essere ladri, di sicuro c’erano malviventi in agguato, qualche vagabondo affamato che senza dubbio avrebbe sgraffignato la sua generosa banconota. Tutti i giorni controllava che i cinquanta euro fossero ancora lì. E così era. Nessuno prendeva mai quei soldi. Nessuno metteva piede nella sua isola.
Quando non inventava ciò che era già stato inventato, il falso inventore faceva installazioni che non chiamava arte. Ad esempio, aveva tolto la pelle a dieci cani di peluche che abbaiavano e sgambettavano accendendo gli occhi. Poi aveva sistemato la pelle sulle zampette e messo i cani in una gabbia per conigli. Aveva creato un meccanismo per azionare i pupazzi con un comando a distanza. Quando gli amici andavano a trovarlo, lui schiacciava il bottone. Dieci cani di peluche scuoiati abbaiavano muovendo le zampette all’indietro sulla loro stessa pelle, accendendo un paio di occhi gialli.
I suoi amici gli consigliavano di vendere quell’installazione a una campagna per la protezione animali e lui si stringeva nelle spalle. Altri non avranno già sfruttato quell’idea? In fondo pensava che, se era venuto in mente a lui, probabilmente l’aveva visto da qualche parte, anche se magari non se lo ricordava. Per questo non voleva che qualcuno considerasse arte quelle installazioni. Lo terrorizzava l’idea di esporre e di sentire i commenti a voce alta definire le sue opere nient’altro che una copia. Non sapeva perché temesse quella critica, visto che tutto sommato non credeva nella novità e poteva argomentare a lungo a riguardo, perfino le volte in cui non era capace di ricordare l’origine delle sue appropriazioni. Oltre alla gabbia piena di cani di peluche, erano suoi un circo di pulci meccaniche all’interno di una dispensa, una piastra per sandwich costruita con due ferri da stiro con cui scioglieva formaggio stagionato sulle mani degli invitati quando festeggiavano qualcosa, una pila di libri sopra la quale si era accumulata la polvere per più di vent’anni – ciò che copriva i libri erano ormai palle di sudiciume –, e la cui importanza risiedeva nel fatto che quella polvere conteneva cellule morte di tutti i suoi famigliari, ormai deceduti.
Fu la gabbia dove teneva i cani peluche a fargli venire in mente l’idea di liberare dei conigli nell’isola per mettere in fuga gli uccelli. Decise che non si sarebbe più fermato la notte a dormire. Aveva ormai gridato abbastanza. Avrebbe lasciato la tenda per andare a osservare i conigli e a schiacciare un pisolino. Era autunno inoltrato, avevano messo indietro l’ora; non era più una follia remare alle quattro del pomeriggio e godersi il venticello frizzante del fiume, la cui portata era ancora fetida come d’estate per via della siccità. Comprò venti conigli, dieci maschi e dieci femmine, che si riproducevano a grande velocità. Nell’isola presto non ci sarebbe stato cibo per loro. Il falso inventore credeva che i nuovi abitatori, quando non avessero avuto altro da mangiare, avrebbero attaccato i nidi sistemati a terra. Se gli uccelli non potevano allevare i loro piccoli nell’isolotto, se ne sarebbe andati in un altro.
I conigli erano bianchissimi e dal pelo lungo. Avevano gli occhi rossi, gli erano costati più cari che se li avesse comprati grigi o marroni, ma aveva ritenuto necessario che avessero lo stesso colore dei volatili. Si disse che popolare l’isola con quegli animali era il suo modo di continuare ad abitarla. Finì per permettere ai conigli di entrare nella tenda, dove preferivano stare, senza dubbio perché così erano al riparo dal sole e perché la terra non era adatta a far le tane. Nella tenda si misero a partorire coniglietti senza pelo simili a ratti.
Non appena i conigli divorarono i cespugli, i nidi cominciarono a vuotarsi di uova, manicaretto che sembravano apprezzare in modo particolare, visto che in più di un’occasione aveva assistito a lotte per rodere il fine guscio azzurrino. Non litigavano, tuttavia, per i pulcini, e per il falso inventore era evidente che mangiavano quella carne appena nata a malincuore, con una certa tristezza, come se le intelligenze ottuse reagissero di fronte a quella situazione crudele. Il loro atteggiamento, pensava, era in sintonia con l’umanità che rappresentavano, che altra non era se non la sua, il loro proprietario. Forse per quello fu sorpreso che, nonostante gli scrupoli iniziali, poi non lasciassero nemmeno le ossa, come avrebbe fatto qualsiasi persona. Con i piccoli incisivi attaccavano le ingluvie delle creature, e un alone di sangue tingeva, dello stesso colore degli occhi, i musetti tremolanti e i peli sottili dei baffi. Quando finivano con la carne, frugale, passavano lunghi minuti a rodere gli scheletri, facendo un rumore peculiare, di rami secchi spezzati. Si mangiavano anche il becco, e una volta concluso, si lucidavano fino a far tornare il manto di un bianco splendente.
Durante il banchetto, gli uccelli volavano intorno gracchiando angosciati. Rimanevano per ore sul luogo del delitto, come se da un momento all’altro la loro prole potesse apparire dietro a una pietra. Il falso inventore trovava curioso che non pensassero di attaccare i conigli. Sarebbe stato semplice per i volatili strappare con i becchi affilati gli occhi di quei predatori, ma forse le manovre di gruppo erano estranee al loro istinto.
Non calcolò che i coniglietti nati lì non avrebbero mai mangiato altro che carne e uova, e che quello snaturamento avrebbe arrecato qualche conseguenza funesta. Per un altro po’, i volatili furono abbastanza scemi, o audaci, da continuare a nidificare nell’isola, ma quando i nidi cominciarono a scomparire, il falso inventore si accorse che lo facevano anche le cucciolate di conigli. Una mattina fu testimone del perché: i loro congeneri se le mangiavano. Lo spettacolo lo inorridì e si sbarazzò dell’idea che quegli animali fossero un’estensione della sua persona. Anzi: gli parvero una piaga, esattamente come gli uccelli, e se continuò a frequentare l’isola, fu perché si sentiva in colpa ad abbandonare quelle bestie che aveva degradato.
Un giorno provò con il mangime. I conigli si limitarono ad annusarlo, poi si dedicarono a incontri sessuali che possedevano un pizzico di morbosità. Avevano imparato a riprodursi per mangiare, e ciò moltiplicava gli accoppiamenti. Il falso inventore pensò che il bisogno accelerasse la gestazione. Ogni volta che una femmina partoriva si alimentavano tutti; quando avveniva il parto silenzioso, i conigli braccavano la partoriente come se ci fosse la possibilità di mangiarsi anche lei. Siccome non mostravano più interesse per i nidi dei volatili, questi tornarono a nidificare.
La tenda da campeggio si vedeva dalla riva. A lui non importava. Ciò che c’era in quel pezzo di terra non era tanto diverso dagli accampamenti che rom e mendicanti montavano sotto i ponti delle circonvallazioni. Finché non davano fastidio, nessuno proibiva loro di dormire lì. La sua isola era lontana dal complesso monumentale che si scorgeva dall’altra sponda del fiume. Aveva di fronte la fine della città, dove, oltre a edifici nuovi e brutti, c’era soltanto un centro commerciale vicino a uno stadio che non era mai stato importante. Anche lui era visibile quando stava sull’isolotto, e alcuni bambini lo salutavano dal molo e gli chiedevano urlando di caricarli sulla canoa. Il falso inventore rispondeva loro scuotendo la testa in maniera enigmatica. L’attenzione dei bambini lo imbaldanziva e lo preoccupava allo stesso tempo. Non voleva che sapessero cosa stava succedendo coi conigli, che si intravedevano dal belvedere; erano come piccole palle bianche che si scontravano l’una con l’altra. Di notte, se c’era abbastanza luna, lo splendore del loro manto si confondeva con quello degli uccelli, e sembrava che i volatili dormissero a terra.
I conigli non mangiavano mai i propri cuccioli fuori dalla tenda. Sembrava che sapessero di trasgredire a una legge. E anche se guardarli mentre si nutrivano dei propri discendenti stringeva il cuore e li rendeva abietti, quando se ne stavano tranquilli diventava evidente che in loro c’era qualcosa di ipnotico, maestoso, che aumentava col passare del tempo, e che magari aveva a che fare con l’agire contro natura. Forse avevano smesso di essere conigli, pensava, o in qualche modo sapevano di essere i protagonisti di qualcosa che non era mai accaduto in quel modo nella loro razza. In certi momenti, il falso inventore sentiva pena per la loro scomparsa, e allora si dimenticava delle circostanze per cui quegli esseri avevano finito per sbafarsi i propri figli. L’evento spiccava come un fatto puro, senza motivo; un fatto chiamato a inaugurare un mondo nuovo. Tutto ciò avveniva in sordina, perché ancora non esisteva un linguaggio per una realtà che iniziava a compiere i primi passi. Il falso inventore si limitava a continuare ad andare sull’isolotto e a rispondere con diffidenza alla richiesta degli infanti di essere portati in canoa. Di notte, nel casone in cui viveva, ereditato dalla nonna, sognava i genitori di quei bambini, udiva le loro voci come se fossero una montagna di gente che lo schiacciava mentre le camere si riempivano d’acqua e del colore azzurro delle piscine. Si diceva che si trattava di una volgare ossessione da cui si sarebbe liberato non appena si fosse deciso ad abbandonare quelle creature, e soltanto per via di alcuni atteggiamenti del corpo, improvvisamente estatico accanto ai conigli, era possibile dedurre che cominciava a sentirsi come uno di loro. Forse i capelli, precocemente incanutiti, avrebbero raggiunto il bianco favoloso di quegli animali ormai sacri, e i suoi occhi, insanguinati da piccole emorragie che l’oculista attribuiva a una congiuntivite persistente, sarebbero finalmente guariti solo una volta diventati completamente rossi.
Un giorno, il falso inventore smontò la tenda da campeggio e smise di andare sull’isola. Gli abitanti degli edifici sulla sponda si domandarono che fine avesse fatto quel pazzo che allevava conigli che erano morti poche settimane dopo la sua scomparsa, e i cui cadaveri avevano formato un grazioso manto bianco.

Il sortilegio, di Charlotte Brontë

Clichy edizioni, ha portato in libreria Il sortilegio con Il trovatello, di Charlotte Bronte, per la traduzione e la curatela di Francesca Rizzi, proponendo ai lettori i racconti inediti del ciclo di Angria, il regno immaginario creato a Charlotte Brontë dieci anni prima di scrivere il suo capolavoro Jane Eyre.
Un’affascinante immersione nel mondo fantastico creato da Charlotte Brontë negli anni della sua giovinezza insieme al fratello Branwell, un viaggio alle radici del talento dell’autrice dell’intramontabile Jane Eyre, di cui si possono intravedere stile, tracce e temi nei due racconti Il sortilegio e Il trovatello, scritti all’età di diciassette e diciotto anni e pubblicati ora per la prima volta in Italia. 

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Il sortilegio
di Charlotte Brontë

Capitolo 1

Il giovane marchese di Almeida è morto. Tutti lo sanno. Come eredità ha lasciato due troni vacanti. Adesso i regni di Wellingtonsland e di Angria attendono un erede. Morte inesorabile! Tutte le guardie e le precauzioni che il re Zamorna avrebbe potuto prendere per il proprio primogenito - suo diletto, prima speranza del suo regno e seconda del padre - non avrebbero potuto contrastare quella falce dalla lama affilata che recide tanto il fiore appassito quanto quello che germoglia. Vane furono le ossequiose attenzioni di centinaia di servi, l’esercizio scrupoloso delle conoscenze scientifiche, le materne cure dell’infermiera Mina Laury, che con la propria dolcezza riuscì una volta a salvare il padre ma non il figlio dalla morte, il raccolto silenzio del solitario maniero, l’aria balsamica respirata in quei boschi antichi, nelle fragranti valli e presso il rapido, precipite torrente. E infine, vano del tutto fu anche il gran desiderio che di continuo occupava l’anima del re Zamorna, fin quando non si spense nella disperazione: che il figlio - amato con un affetto tale da non poterlo esprimere con le parole, giacché era l’unico nato della madre - potesse vivere e crescere per ricordargli la defunta. Morì, reciso troppo presto, richiamato prima di sapere cosa fosse quel mondo sulla cui distesa così fulgido era sorto il suo giorno.
Il duca allontanò Lord Julius dalla sua presenza, affinché l’ansia dei genitori, tesa e torturata dall’evidente delicatezza della pianta che osservava, non diventasse un ostacolo invece che un incoraggiamento al suo benessere. So che quando la tomba si chiuse su Marian, un timore nervoso gli prese la mente, nel timore che i semi della malattia della madre potessero, con l’esistenza, venir trasmessi al bambino.
Egli odiava osservare le guance colorate e i vivaci occhi del figlio, gli arti meravigliosamente aggraziati e la carnagione chiara sotto la quale si potevano scorgere le vene e le arterie serpeggianti in linee ondulate del più tenue e delicatissimo violetto. L’ho spesso sentito gemere e maledire quella bellezza, che gli recava solo pensieri d’inestricabile pena, quasi che con un sospiro straziato avesse deposto la squisita miniatura della sua stessa grande immagine, dopo averla guardata per alcuni brevi momenti di evanescente e, ben lo sapeva!, infondata esultanza. «Quanto darei» aveva mormorato in alcune occasioni, «perché mio figlio avesse un po’ meno, appena un po’, della delicata bellezza della madre. Oh, aborro adesso con tutta l’anima ogni tocco di bellezza che appare troppo eterea per l’umanità: una qualsiasi sfumatura di colore su una guancia, ogni raggio di luce in un occhio che troppo ha di divino e troppo poco di terreno, persino ogni inflessione di voce la cui dolcezza arriva direttamente al cuore con un brivido improvviso, causano in me agonia e non diletto!».
Quando giunse la prima lettera da Grassmere, lasciando intendere che la tisi si stava ormai aggravando, esclamò (lo so perché ero nella stanza, ovviamente a sua insaputa, quando la lesse attentamente): «Sapevo che sarebbe successo! Sono quasi felice che gli orrori del dubbio sian passati! Non dovrò più avvelenare la speranza, ora che c’è un chiaro cammino di certezza. Resisterà ancora per alcuni mesi, forse settimane. Sì, a Florence diedero solo otto settimane di vita. Dopo troverà un luogo di riposo in quella maledetta tomba. Sì, vorrei che fosse già tutto finito: la malattia, la morte, la sepoltura e tutto il resto! Allora potrei essere soddisfatto, se non felice, ma fino ad allora…». Si lasciò cadere su una sedia vicino alla scrivania, staccò un foglio di carta, e, rapido come il fulmine, scrisse le seguenti righe:

Inestimabile Mina, il vostro lavoro è quasi ultimato. È stata un’impresa difficile salvaguardare ciò che il destino aveva marcato col declino. So quanto avete adempiuto al vostro dovere. D’ora in avanti con le mie stesse labbra dichiarerò la mia approvazione. Vegliate su di lui ancora per qualche giorno e per qualche notte. Aspettate solo l’ultimo battito e l’esalare dell’ultimo respiro. Dopo, mia cara, potrete riposarvi dal lavoro. Non voglio da voi una sola parola, non una sillaba, finché non sarete certa che sia finalmente calato il sipario, fino a quando sembrerà avere le forze per magari non più di una settimana, in altre parole, mia cara, fino a quando il respiro non comincerà a rantolargli in gola, quella brillantezza infernale gli sparirà dalle guance e la carne (quel poco che ne resta) diventerà perfettamente diafana, come dissanguata ma scheletrica. Quando si verificheranno questi eventi, potrete scrivermi e parlarmi. Io, se possibile, ucciderò l’attesa. Addio, mia dolce rosa selvatica! Temo che la vostra bellezza possa sfumare a causa delle veglie di morte prima che possa rivedervi. Ma non preoccupatevi, non m’importa di questo, e se il mio cuore e il mio amore sono vostri, so che a Mina Laury poco interessa la luce - favorevole o meno - nella quale il resto del mondo può ammirarla. Fedele fino alla morte (la tua o la mia intendo, ragazza, non quelle intermedie, che paiono affollarsi), io sono e sono e sarò sempre,

il vostro Zamorna

Tale fu la risposta che inviò alla timida e apprensiva lettera della povera Mina. Che strano! O almeno così pensai. La sigillò e la indirizzò, poi richiese la carrozza e lasciò la città di Verdopolis per dirigersi verso Angria. Nulla poté attenuare l’incessante e l’irritabile violenza che segnarono la sua condotta nelle cinque o sei settimane successive. È sempre stato energico, sempre entusiasta in ogni impresa. Da quando lo conosco ha sempre avuto l’abitudine di mettere anima e corpo nella realizzazione di un disegno sperato, ma ora sembrava addirittura rischiarci la vita.
Persino Warner riuscì a malapena a reggere il suo passo. Si immerse completamente nel folto delle incombenze, cercando ogni volta con estrema attenzione l’occupazione più impegnativa, ma sempre sembrando trovare assai poca soddisfazione in ciò che aveva trovato. Si poteva vederlo passeggiare tutto il giorno per le strade disselciate di Adrianopolis, ora a vigilare e supervisionare con lena le fatiche degli uomini che lavoravano duramente, ora a dirigere la costruzione di un arco, ora il sollevamento di alcuni grandi blocchi di pietra o marmo, in piedi in mezzo al frastuono e al tumulto delle piazze e delle case in costruzione, mentre nel terreno si scavavano le profonde fondamenta di future dimore.
Era possibile vedere ovunque l’imponente figura snella del giovane, nel suo aderente abito nero e col poco ornamentale cappello ben aureolato di riccioli, muoversi con passo e portamento autorevoli per controllare ogni cosa intorno a sé come il sovrano spirito della tempesta. A volte quella figura sembrava stagliarsi alta nel cielo, in piedi su un’impalcatura appesa, con un infinito cielo blu tutto intorno, davanti e dietro allo scheletro di un palazzo incompiuto, circondato da archi e vaste travi sparsi ovunque, fra strapiombi che avrebbero fatto girare la testa a un qualsiasi giovane marinaio. E lì il monarca si muoveva senza paura come un’aquila che incombe sospesa sopra il nido. Gli occhi dei severi sudditi dalla carnagione scura lo osservavano con ammirazione mentre saltava come un giovane alce da una stretta sporgenza a un’altra e camminava a grandi passi sulle malcerte travi con la schiena dritta e un’aria altezzosa come se stesse attraversando un salone di palazzo Wellesley. In altre occasioni era possibile vederlo torreggiare su una folla di sudditi radunata attorno alla fossa di alcune fondamenta mezzo affondate, intento a supervisionare mentre si allestiva un marchingegno per far esplodere le rocce sottostanti e, una volta completata l’operazione, dare l’ordine di trarsi indietro con voce piena ed elettrizzante, aspettando per ultimo ad arretrare fin quando un tuono che squarciava il cielo emergeva dalla tomba di pietra con uno schianto da far tremare la collina e le pianure, lontane e vicine, e allora egli levava il trionfante urrà, con un’intensità crescente man mano che il rumore del sisma si attenuava in echi borbottanti. Ma una volta finito tutto, verso sera, quando gli uomini si ritiravano dalla formicolante scena, quando gli architetti, i mastri muratori e i carpentieri raccoglievano righe, squadre, compassi e tornavano a casa, se uno spettatore si fosse trattenuto sulla scena, avrebbe potuto distinguere quella maestosa figura solitaria seduta sui rozzi gradini di una sala in costruzione. Intorno a lui solo silenzio, solitudine e desolazione. Immobile come Palmira nel deserto, muto come Tadmor in mezzo al mare. Non si udivano né mazze, né martelli, né asce né scalpelli. Il fragore del giorno dimenticato, le grida dei lavoratori sopite, i loro passi echeggianti scomparsi, la quiete del crepuscolo che avanza furtiva su una lieve brezza e il sordo gemito della vecchia città deserta, giù dal cielo, su dalla terra, per tutta l’acquietata regione. A quell’ora si poteva scorgere la figura di Zamorna, unico abitante della sua sorgente città, con le braccia probabilmente conserte sul petto; gli occhi, in un’espressione frammista di pensiero e vigilanza, senza molto dolore, rivolti verso la gialla prateria che gli si stendeva d’innanzi verso est, senza altro confine che l’orizzonte dorato; la fronte giovine e bella, oscurata da una nuvola di severità che vi si adagiava come l’ombra di un cielo minaccioso sul muro in marmo bianco di un palazzo; le fresche labbra rosse strettamente serrate, placidamente immobili come se l’eterno silenzio le avesse chiuse col suo sigillo, e nessun segno apparente di profonda emozione, nessun sentimento, in effetti, tranne la meditazione assorta, tranne il variato sfumare della guancia, che di tanto in tanto, a lunghi intervalli, improvvisamente, dall’abituale caldo rossore luminoso smoriva in un pallore afflitto e incolore.
Allora sarebbe stato possibile accorgersi che un tarlo gli rodeva il cuore, che una fitta di dolore più forte del solito aveva richiamato il sangue alla fonte. Ma ben presto il puro eloquente bagliore vinceva di nuovo sulla carnagione impallidita, e quando il duca cambiava appena posizione e rivolgeva gli occhi più fissi verso il fioco Oriente, o forse li lasciava cadere sulle rive del Calabar, era evidente che il suo spirito aveva sconfitto, almeno per un momento, il suo tormentatore interiore, e che i piani di ambizioni bellicose o politiche erano ancora una volta costretti a prevalere sull’angoscia paterna il cui ritorno così amaramente lo affliggeva.
Stava così seduto una sera quando dei passi riecheggiarono nella piazza silenziosa, ed Eugene Rosier avanzò dalla lunga ombra degli edifici circostanti.
«Ah!» disse il padrone, alzandosi e andandogli incontro. «Salve Eugene! Sono arrivati?»
«Sì, mio signore, ieri sera alle dieci. C’erano solamente tre carrozze: miss Laury e il signor Sydney, la vettura funebre con il cadavere e il carro del becchino».
«Eugene, basta così! Ma dove sono Ernest ed Emily e… tu mi intendi… gli altri». Quella parola venne pronunciata con enfasi.
Eugene si inchinò. «Penso che verranno domani, mio signore» rispose. «Sua grazia è andato a incontrarli fino a Free Town».
«Sua grazia! Cosa? Quindi il duca è stato qui?»
«Sì, mio signore, nelle ultime quattro settimane, ma non a palazzo Wellesley».
«Chissà perché non l’ho visto».
«Aveva paura di eventuali scontri; la strada per Angria è assai scoperta».
A questo punto Zamorna abbassò lo sguardo e posò con fermezza la mano sulla spalla di Rosier.
«Hai detto» mormorò in tono sommesso, «che è stato per quattro settimane nei dintorni di Verdopolis. Finic è stato in guardia?»
«Sì, mio signore, come una belva, e io con lui, ma non è servito a molto. È molto cauto nel suo modo di agire».
«Bene» disse il duca, facendosi indietro. «Sono soddisfatto, perché so di poter contare su di te; se solo pensassi diversamente per un momento…» fece una pausa e rivolse uno sguardo penetrante al paggio, il quale lo sostenne con coraggio.
«Vi ho detto la verità, mio signore» rispose, «poiché so che una bugia, specialmente su questo argomento, mi porterebbe inevitabilmente, prima o poi, al fiume di fuoco e al boccone di piombo. Inoltre, le circostanze rendono testimonianza in mio favore. Egli non osa approfittarne anche volendolo, perché sa come e quanto Vostra Grazia potrebbe vendicarsi» concluse Rosier con una risatina e uno sguardo sornione dei suoi ineffabili occhi maliziosi.
«Silenzio!» disse Zamorna, con un timbro profondo quasi quanto un tuono soffocato. «Come osi prenderti gioco di me? Non desidero affatto vendicarmi. Vendicarmi! No, se mi avesse dato motivo di vendetta, la faccenda sarebbe conclusa. In tal caso la sua vita o la mia sarebbero le uniche carte ammesse alla grande partita che così a lungo abbiamo giocato insieme. Come e quando finirà? Vorrei che la posta in gioco venisse spazzata via, non mi importa da quali mani».
«Dalla mano che per prima l’ha calata» mormorò un’altra voce, forte nelle inflessioni quanto quella di Zamorna.
Il duca non sembrò sorpreso da questa improvvisa interruzione. Rispose con calma, senza giri di parole: «Sì, sarebbe la più adatta per il lavoro. Ma, vecchio mio, esci allo scoperto. Riconosco la tua parlata, fatti vedere. Non ci sono estranei di cui aver paura, a meno che un pipistrello o un uccello notturno non siano considerati tali».
«Alcuni di questi, presumo, rimangono ora fra le canne del Calabar» replicò la stessa voce e una figura oscura emerse da dietro un enorme mucchio di malta e si fermò di fronte a Zamorna.
«Pochissimi» fu la replica.
«Vanghe, zappe e asce del capomastro sono state un ammonimento così forte per i vecchi abitanti di quella pianura e di quelle rive coperte di giunchi che ora è rimasta a malapena un’ala a sventolare tra noi e l’orizzonte». «Vanghe e zappe stanno dando un avvertimento altrove» rispose l’estraneo. «Si è scavato una tomba a Verdopolis, stasera».
«C’è una cripta aperta» disse il duca. «Come fa una lanterna a olio a illuminare quel passaggio sotterraneo buio? E in che maniera la chiave si accorda con le sue arrugginite difese?»
«La lanterna a olio illumina con coraggio» ribatté l’altro, «e tiene d’occhio le coperture di tre bare principesche. Non dovrebbe esserci spazio per una quarta? La chiave gira come se l’umidità sotterranea l’avesse oliata invece di indurirla e la tomba si aprirà domani sera senza rumore alcuno, come se al di là delle sue sbarre si trovassero i malati invece dei morti. Ma Zamorna, dove deve giacere il bambino?»
«Fra le braccia di sua madre» replicò Zamorna, con un accento duramente represso.
«Già, e lì dovete deporlo. Lei si rivolterebbe nella tomba se altre mani dovessero assolvere quell’incarico, duca. Ci saranno altre persone in lutto al funerale?»
«Poche, penso. Su un corpo di soli sei mesi scendono poche lacrime».
«Tanto meglio. Lasciatemi raccontare la storia di coloro che probabilmente saranno presenti».
«Potete chiudere l’argomento?» esclamò Zamorna in un impeto che fino a quel momento aveva trattenuto, o per rispetto o per qualche altra ragione.
«Lo farò quando mi andrà» replicò il suo amico.
«Mio giovane signore, ovviamente vedrete vostra moglie in occasione della visita alla sua dimora; tra voi e lei si interporranno solamente una trave sottile di cedro e un rivestimento di velluto. Sollevandoli, Lady Florence, l’orgoglio dell’Occidente, giace lì in tutto il suo fascino. Anzi, non tutto, è un po’ sfiorita e sciupata, bisogna ammetterlo, ma che importa al suo gentile marito se l’occhio è spento, la guancia s’è fatta di argilla e i lineamenti sono cancellati per sempre? È troppo fedele per amarla di meno per un qualche lieve difetto in quella bellezza che un tempo riteneva ineguagliabile».
Una maledizione mormorata ma terribile uscì dalle labbra del duca in risposta a questo sarcasmo. Le rispose la risata bassa e a bocca chiusa dello sconosciuto, che proseguì: «Davvero, duca, mi meraviglierei se vi rifiutaste di parlare con lei faccia a faccia. Lei non si è tirata indietro quando vi ha messo tra le vostre braccia il vostro primogenito, quindi perché voi dovreste ritrarvi da lei quando ricambierete quel tenero compito? Ah, lei guarderà triste il suo Arthur e soffrirà quando se ne sarà andato, come fece quella notte lasciando la sala del Gladiatore. Voi allora la sentiste, ma non aveste compassione per lei, così ella sedette in silenzio per adempiere al suo destino, per sopportare la propria sorte».