La signorina Mary Pask, di Edith Wharton

Neri Pozza porta in libreria Fantasmi, di Edith Wharton. La raccolta fu concepita nella sua forma attuale dalla stessa Wharton prima di morire ma, pubblicata postuma nel 1937, finí ingiustamente dimenticata. In questi piccoli capolavori ritrovati, sottilmente inquietanti, ora presentati nella nuova traduzione di Tiziana Lo Porto, si possono riconoscere tutti i temi cari alla sua letteratura. Avvolti nell’abito sontuoso che tanto bene le conosciamo: la prosa nitida e affilata che sa illuminare i territori nascosti della realtà quanto, insospettabilmente, quelli del soprannaturale. 

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

La signorina Mary Pask
di Edith Wharton

I

Fu solo la primavera successiva che mi feci coraggio e raccontai alla signora Bridgeworth cosa mi era successo quella notte a Morgat.
Tanto per cominciare la signora Bridgeworth era in America. E dopo la notte in questione ero rimasto diversi mesi all’estero, non per piacere, Dio lo sa, ma per un esaurimento nervoso che si pensava fosse dipeso dall’avere ricominciato a lavorare troppo presto dopo il mio attacco di febbre in Egitto. Ma anche se fossi stato vicino di casa di Grace Bridgeworth non avrei potuto parlarne prima, né a lei né a nessun altro, non prima di essere guarito e tornato in piedi in uno di quei meravigliosi sanatori svizzeri dove ti rimettono a nuovo. Non avrei nemmeno potuto scriverle, non senza rischiare la vita. Gli avvenimenti di quella notte dovettero essere ricoperti da uno strato dopo l’altro di tempo e oblio prima che potessi tollerarne un ritorno.
L’inizio fu stupidamente semplice: solo il riflesso improvviso di una coscienza del New England che agisce su una costituzione indebolita. Stavo dipingendo in Bretagna, in un clima autunnale incantevole ma instabile, un giorno era tutto azzurro e argento, e il successivo era burrasche ruggenti o fitta nebbia. Sulla Pointe du Raz c’è una rozza locanda imbiancata a calce, brulicante di turisti in estate ma solitaria e bagnata dal mare in autunno. E io me ne stavo lí a cercare di dipingere le onde, quando qualcuno disse: «Dovrebbe andare a Cap qualcosa, oltre Morgat».
Vi andai e vi trascorsi una giornata argentea e azzurra, e sulla via del ritorno il nome Morgat creò un’inaspettata associazione di idee: Morgat, Grace Bridgeworth, la sorella di Grace, Mary Pask – «Sai che adesso la mia cara Mary ha una casetta vicino a Morgat? Se mai andrai in Bretagna, vai a trovarla. Vive una vita troppo solitaria, e la cosa mi preoccupa molto».
Ecco come accadde. Conoscevo la signora Bridgeworth da anni, ma non avevo particolare confidenza con Mary Pask, sua sorella maggiore e nubile. Sapevo che Grace e lei erano molto legate. La cosa che aveva piú addolorato Grace, quando aveva sposato il mio vecchio amico Horace Bridgeworth, ed era andata a vivere a New York, era che Mary, da cui non si era mai separata fino a quel momento, si fosse ostinata a restare in Europa, dove le due sorelle erano andate in viaggio dopo la morte della madre. Non ho mai capito bene perché Mary Pask si fosse rifiutata di raggiungere Grace in America. Grace diceva che era per la sua «vena artistica» – ma conoscendo l’anziana signorina Pask e la natura estremamente elementare del suo interesse per l’arte, mi chiedevo se non fosse piuttosto perché non le piaceva Horace Bridgeworth. C’era una terza alternativa – piú plausibile nel caso di Horace – ed era che forse le piaceva troppo. Ma la cosa tornava a essere impensabile (quantomeno cosí credevo) conoscendo la signorina Pask: la signorina Pask con il suo viso tondo arrossato, i suoi occhi sporgenti dall’espressione innocente, il suo appartamento da vecchia zitella carico di ninnoli e la sua vaga e timida filantropia. Lei, aspirare a Horace…!
Ebbene, era tutto piuttosto enigmatico, o lo sarebbe stato se fosse stato abbastanza interessante da suscitare in me la voglia di occuparmene. Ma non lo era. Mary Pask era come centinaia di altre vecchie zitelle sciatte, allegri rottami contenti dei loro innumerevoli piccoli surrogati di vita. Persino Grace non mi avrebbe interessato particolarmente se non avesse sposato uno dei miei piú vecchi amici e non fosse stata gentile con i suoi amici. Era una bella donna efficiente e alquanto noiosa, votata al marito e ai figli, e senza un briciolo di immaginazione, e tra il suo attaccamento alla sorella e l’adorazione di Mary Pask nei suoi confronti c’era l’inevitabile abisso che c’è tra i sentimenti di chi non ha una vita sentimentale e quelli di chi ha una vita affettiva appagante. Ma una stretta intimità aveva legato le due sorelle prima del matrimonio di Grace, e Grace era una delle donne dolci e coscienziose che continuano a usare il linguaggio della devozione nei confronti delle persone che amano senza vederle. Tanto che quando disse: «Sai che sono anni che io e Mary non ci vediamo, non la vedo da quando è nata la piccola Molly. Se solo fosse venuta in America! Basti pensare che… Molly ha sei anni e non ha mai visto la sua cara zia…», quando lo disse, e aggiunse: «Se vai in Bretagna, promettimi che cercherai la mia Mary», mi ritrovai in quella profondità oscura del nostro essere in cui prendiamo impegni non necessari.
E cosí accadde che, in quel pomeriggio argenteo e azzurro, l’idea «Morgat – Mary Pask – compiacere Grace» risvegliò improvvisamente in me il senso del dovere. Molto bene: avrei messo un po’ di cose nella borsa, dedicato le ore di luce a dipingere, sarei andato a trovare la signorina Pask quando la luce si fosse affievolita, e avrei passato la notte alla locanda di Morgat. A tal fine ordinai a un traballante veicolo a un solo cavallo di aspettare alla locanda che tornassi dal mio studio dove dipingevo, e con esso mi avviai verso il tramonto in cerca di Mary Pask…
All’improvviso, come un paio di mani sbattute sugli occhi, la nebbia marina piombò su di noi. Un attimo prima attraversavamo un vasto altopiano brullo, girando le spalle a un tramonto che colorava di cremisi la strada davanti a noi, un attimo dopo eravamo avvolti nella piú densa delle notti. Nessuno era riuscito a dirmi con esattezza dove abitava la signorina Pask, ma pensai che probabilmente lo avrei scoperto nel villaggio di pescatori verso il quale stavamo cercando di dirigerci. E avevo ragione… Un vecchio su un uscio ci indicò: sí, sopra la prossima altura, e poi giú per un viottolo a sinistra che portava al mare; la signora americana che vestiva sempre di bianco. Oh, lui la conosceva bene… vicino alla Baie des Trépassés.
«Sí, ma come facciamo a trovarla? Non conosco quel posto» brontolò il ragazzo riluttante che mi stava accompagnando.
«Lo capirai quando saremo arrivati» commentai.
«Sí… e nel frattempo il cavallo si è azzoppato! Non posso correre rischi, signore. Mi metterò nei guai con il padrone».
Finalmente un valido argomento lo indusse a sbloccarsi e a guidare il cavallo zoppicante, e noi proseguimmo per la nostra strada. Sembrò che strisciassimo per un bel po’ in mezzo a un’umida e impenetrabile oscurità, rischiarata dal bagliore della nostra unica lanterna. Ma di tanto in tanto la coltre si sollevava o le sue pieghe si aprivano, e allora la nostra debole luce tirava fuori dalla notte un oggetto perfettamente ordinario – un cancello bianco, il muso di una vacca dallo sguardo fisso, un mucchio di sassi lungo la strada – reso portentoso e incredibile dall’essere cosí distaccato dal suo ambiente, capricciosamente spinto verso di noi, per poi ritrarsi di colpo. Dopo ciascuna di queste proiezioni l’oscurità diventava tre volte piú fitta, e la sensazione che avevo da tempo di scendere un pendio sempre piú ripido ora diventò quella di essere diretti verso un precipizio. Saltai fuori in fretta e andai a mettermi accanto al mio giovane conducente che reggeva la cavezza del cavallo.
«Non posso andare avanti… non lo farò, signore!» piagnucolò quello.
«Ehi, guarda, c’è una luce laggiú… proprio lí davanti!»
Il cielo si rischiarò per un istante e vedemmo due quadrati scarsamente illuminati dentro una forma bassa che era sicuramente la facciata di una casa.
«Portami fino a lí, poi se vuoi puoi tornare indietro».
La coltre ci avvolse nuovamente, ma il ragazzo aveva visto le luci e aveva riacquistato coraggio. Di sicuro c’era una casa davanti a noi e di sicuro doveva essere della signorina Pask, dal momento che non ce ne potevano essere due in un tale deserto. D’altronde il vecchio del borgo aveva detto: «Vicino al mare», e quelle infinite modulazioni della voce dell’oceano, tanto familiari in ogni angolo della terra bretone che si possono misurare le distanze servendosi di quelle piuttosto che della propria vista, mi dicevano da tempo che ci stavamo dirigendo verso la riva. Il ragazzo continuò a guidare il cavallo senza dare alcuna risposta. La nebbia si era addensata piú che mai e la lampada ci mostrava semplicemente le grosse gocce rotonde di bagnato sulle cosce irsute dell’animale. Il ragazzo si fermò di scatto.
«Non c’è nessuna casa, andiamo dritto in mare».
«Ma le hai viste quelle luci, no?»
«Pensavo di sí. Ma dove sono ora? La nebbia si è di nuovo diradata. Guardi, riesco a distinguere gli alberi piú avanti. Ma non ci sono piú le luci».
«Saranno andati a letto» suggerii scherzosamente.
«Allora non dovremmo tornare indietro, signore?»
«Come? A due metri dal cancello?»
Il ragazzo taceva: certo c’era un cancello davanti a lui, e dietro gli alberi gocciolanti doveva esserci una qualche abitazione. A meno che non ci fosse solo un campo e il mare… il mare, la cui voce affamata continuava a chiedere, vicinissimo a noi. Non c’era da stupirsi che il luogo si chiamasse Baia dei Morti! Ma cosa poteva aver spinto la rosea benevola Mary Pask a venire a seppellirsi qui? Naturalmente il ragazzo non mi avrebbe aspettato… lo sapevo… la Baie des Trépassés, davvero! Il mare gemeva laggiú come se fosse l’ora del pasto, e le Furie, i suoi guardiani, l’avevano dimenticato…
Ecco il cancello! Tastando con la mano lo avevo trovato. Cercai alla cieca il chiavistello, lo aprii e strisciai tra i cespugli bagnati fino alla facciata della casa. Non un luccichio di candela da nessuna parte. Se la casa era davvero della signorina Pask, di certo si alzava presto e andava a dormire presto…

II

Notte e nebbia adesso erano una cosa sola, e l’oscurità era fitta come una coperta. Cercai invano un campanello. Alla fine la mia mano entrò in contatto con un battente e lo sollevai. Il rumore con cui ricadde mandò un’eco prolungata nel silenzio, ma per un minuto o due non accadde altro.
«Non c’è nessuno lí, glielo dico io!» urlò impaziente il ragazzo dal cancello.
E invece c’era. Non udii passi dentro la casa, ma l’attimo dopo si sentí scorrere un catenaccio e una vecchia con un berretto da contadino spinse fuori la testa. Aveva posato la candela su un tavolo dietro di sé, e il suo viso, circondato da ali di pizzo, restava nell’oscurità, ma capii che era anziana dall’incurvatura delle spalle e dai movimenti maldestri. La luce della candela, che la rendeva invisibile, mi cadde in pieno sul viso e lei mi guardò.
«È la casa della signorina Mary Pask?»
«Sissignore». La sua voce, una voce molto vecchia, era abbastanza piacevole, per niente sorpresa e persino amichevole.
«Vado ad avvisarla» aggiunse, trascinandosi dentro.
«Pensa che mi riceverà?» le urlai dietro.
«Oh, perché no? Che idea!» quasi ridacchiò. Mentre si allontanava, vidi che era avvolta in uno scialle e aveva un ombrello di stoffa sotto il braccio. Ovviamente stava uscendo, forse tornava a casa per la notte. Mi chiesi se Mary Pask vivesse tutta sola nel suo eremo.
La vecchia sparí con la candela e io rimasi nel buio piú totale. Dopo un po’ sentii chiudersi una porta sul retro della casa e poi, dall’esterno, arrivò un lento battere di vecchi zoccoli di legno lungo il lastricato. Evidentemente la vecchia aveva preso i suoi zoccoli in cucina ed era uscita di casa. Mi chiesi se prima di andare via avesse detto alla signorina Pask della mia presenza, o se si fosse limitata a lasciarmi lí, bersaglio di un macabro scherzo. Di sicuro non si sentiva alcun suono dietro le porte. I passi si spensero, sentii lo scatto di un cancello, poi il silenzio piú assoluto si richiuse come la nebbia.
«Mi domando…» cominciai a dirmi, e in quel momento un ricordo soffocato affiorò bruscamente alla superficie della mia mente languida.
«Ma è morta… Mary Pask è morta!» Per lo stupore quasi lo dissi ad alta voce.
Erano incredibili gli scherzi che la mia memoria mi stava giocando da quando avevo avuto quella febbre! Sapevo da quasi un anno che Mary Pask era morta – era morta all’improvviso l’autunno precedente – e anche se avevo pensato a lei quasi di continuo negli ultimi due o tre giorni, fu solo in quel momento che il fatto dimenticato della sua morte esplose di nuovo alla coscienza.
Morta! Ma non avevo forse trovato Grace Bridgeworth in lacrime e vestita di crespo il giorno stesso in cui ero andato a salutarla prima di salpare per l’Egitto? Non mi aveva forse messo il telegramma davanti agli occhi, in lacrime, per farmi leggere: «Sua sorella morta all’improvviso questa mattina chiesta sepoltura nel giardino di casa particolari per lettera» – con la firma del console americano a Brest, un amico di Bridgeworth, mi sembrava di ricordare? Riuscivo a vedere le parole esatte del messaggio stampate nell’oscurità davanti a me.
Mentre me ne stavo lí in piedi, ero molto piú turbato dalla scoperta dei miei vuoti di memoria che dal fatto di essere solo in una casa buia, vuota o abitata da estranei. Mi era già capitato negli ultimi tempi di notare questa strana cancellazione temporanea di un fatto ben noto, ed ecco che era successo di nuovo. Decisamente non ero cosí guarito dalla mia malattia come mi avevano detto i medici… Be’, sarei tornato a Morgat e me ne sarei stato a letto lí per un giorno o due, senza fare nulla, solo mangiare e dormire… Assorto com’ero nei miei pensieri, avevo perso l’orientamento e non ricordavo piú dove fosse la porta. Cercai un fiammifero in ogni tasca, ma visto che i dottori mi avevano fatto smettere di fumare, perché avrei dovuto trovarne uno?
L’impossibilità di trovare un fiammifero aumentò il senso di irritazione e di impotenza, e stavo brancolando goffamente per l’atrio tra gli spigoli di mobili invisibili quando una luce tagliò in obliquo la parete grezza delle scale. Ne seguii la direzione e sul pianerottolo sopra di me vidi una figura vestita di bianco che con una mano ombreggiava una candela e guardava in basso. Un brivido mi attraversò la schiena, perché la figura aveva una strana somiglianza con quella della Mary Pask che conoscevo.
«Oh sei tu!» esclamò con una voce stridula e cinguettante che sembrò per un istante il tremulo di una vecchia, e l’attimo dopo il falsetto di un bambino. Scese trascinandosi nei suoi larghi abiti bianchi, con i suoi soliti movimenti goffi e ondeggianti, ma notai che i suoi passi sulle scale di legno erano silenziosi. Be’, certo che lo erano!
Rimasi fermo senza dire una parola, guardando la strana visione sopra di me e dicendo a me stesso: «Non c’è niente lí, niente di niente. È la tua digestione, o i tuoi occhi, o qualche altra dannata cosa che non va in te…»
Ma la candela c’era di sicuro, e mentre si avvicinava e illuminava la stanza intorno a me, mi voltai e mi aggrappai al chiavistello. Perché, ricordate, avevo visto il telegramma e Grace con il suo abito di crespo… «Ehi, che succede? Ti assicuro che non mi disturbi!» cinguettò la figura bianca, aggiungendo con una lieve risata: «Non ho cosí tanti visitatori ultimamente…»
Aveva raggiunto l’atrio e mi si era fermata davanti, alzando la candela tremolante e guardandomi in faccia. «Non sei cambiato, non quanto avrei pensato. Ma io sí, eh?» mi chiese con un’altra risata, e mi posò bruscamente la mano sul braccio. Guardai la mano e pensai tra me e me: «Questa non può ingannarmi».
Ho sempre fatto attenzione alle mani. La chiave del carattere che gli altri cercano negli occhi, nella bocca, nella forma del cranio, io la ritrovo nella curva delle unghie, nel taglio dei polpastrelli, nel modo in cui il palmo, roseo o giallastro, liscio o segnato, si gonfia dalla base. Ricordavo vividamente la mano di Mary Pask, perché era cosí simile a una caricatura della proprietaria: rotonda, paffuta, rosa, eppure prematuramente vecchia e inutile. E lí, in modo inequivocabile, giaceva sulla mia manica: ma cambiata e raggrinzita, in qualche modo simile a uno di quei pallidi funghi maculati che il minimo tocco trasforma in polvere… In polvere? Ma certo…
Guardai le morbide dita rugose, con i loro stupidi polpastrelli ovali che una volta erano rosa in modo cosí innocente e naturale, e adesso erano blu sotto le unghie ingiallite, e la pelle mi si alzò in creste di paura. «Entra, vieni» cinguettò, inclinando la testa bianca e spettinata da un lato e alzando gli occhi azzurri sporgenti verso di me. La cosa orribile era che praticava ancora le stesse arti, tutte le astuzie infantili di una goffa e capricciosa civetteria. Sentii che mi tirava per la manica e mi trascinava nella sua scia come un cavo d’acciaio.
La stanza in cui mi condusse era… be’, «immutata» è il termine che si usa di solito in questi casi. Perché di regola, dopo la morte delle persone, le cose vengono risistemate, i mobili vengono venduti, i ricordi sono inviati alla famiglia. Ma una pietà morbosa (o forse le istruzioni di Grace) aveva mantenuto questa stanza esattamente come immaginavo fosse stata durante la vita della signorina Pask. Non ero dell’umore giusto per notare i dettagli, però nel debole oscillare della luce al movimento delle candele ero in parte consapevole di cuscini sporchi, una raccolta di pentole di rame e un vaso che reggeva un ramo sbiadito di qualche arbusto a fioritura tardiva. Un vero interno alla Mary Pask!
La figura bianca guizzò spettrale verso il camino, accese altre due candele e posò la terza su un tavolo. Non mi consideravo superstizioso, ma quelle tre candele! Senza quasi sapere cosa facevo, mi piegai in fretta e ne spensi una. La sua risata risuonò alle mie spalle.
«Tre candele… ti preoccupi ancora per quel genere di cose? Io le ho superate, sai». Ridacchiò. «È un tale conforto… un tale senso di libertà…» Un nuovo brivido si uní agli altri che mi scorrevano dentro.
«Vieni a sederti vicino a me» pregò, sprofondando su un divano. «Erano secoli che non vedevo un essere vivente!»
La sua scelta di termini era sicuramente peculiare, e quando si appoggiò allo schienale del soffice divano bianco e mi fece cenno con una di quelle mani mai sepolte, il mio istinto fu di voltarmi e correre via. Ma il suo vecchio viso, al lume di candela, con le guance innaturalmente rosse come mele laccate e gli occhi azzurri che nuotavano in una vaga gentilezza, sembrò richiamarmi per la mia codardia, ricordandomi che, viva o morta, Mary Pask non avrebbe fatto male a una mosca.
«Siediti!» ripeté, e io occupai l’angolo opposto del divano.
«È cosí meravigliosamente gentile da parte tua… immagino sia stata Grace a chiederti di venire». Rise di nuovo: la sua conversazione era sempre scandita da risate sconclusionate. «È un evento, un vero evento! Perché sai, ho avuto cosí pochi visitatori dalla mia morte».
Per me fu come un’altra secchiata d’acqua fredda, ma la guardai con risolutezza, e ancora una volta l’innocenza del suo volto mi disarmò.
Mi schiarii la voce e parlai, faticando enormemente a respirare, come se avessi sollevato una lapide. «Vivi qui da sola?» riuscii a tirare fuori.
«Ah, sono contenta di sentire la tua voce, ricordo ancora le voci, anche se ne sento cosí poche» mormorò sognante. «Sí, vivo qui da sola. La vecchia che hai visto se ne va di notte. Non resta dopo il tramonto… dice che non può. Non è strano? Ma non importa. L’oscurità mi piace». Si chinò su di me con uno dei suoi sorrisi immotivati. «I morti» disse «ci si abituano naturalmente».
Ancora una volta mi schiarii la gola, ma non seguí nulla.
Continuò a fissarmi con ammiccamenti confidenziali. «E Grace? Raccontami tutto del mio tesoro. Avrei voluto rivederla… soltanto una volta». La sua risata venne fuori in modo grottesco. «Quando ha saputo della mia morte eri con lei? Era terribilmente sconvolta?»
Mi alzai goffamente con un balbettio senza senso. Non riuscivo a rispondere, non riuscivo a continuare a guardarla.
«Ah, capisco… è troppo doloroso» ammise, con gli occhi lucidi, e voltò la testa tremante dall’altra parte. «Ma d’altronde… sono felice che fosse cosí dispiaciuta… È ciò che desideravo ardentemente che mi venisse detto, e che facevo fatica a sperare. Grace dimentica…» Anche lei si alzò, e svolazzò attraverso la stanza, ondeggiando sempre piú vicina alla porta.
«Grazie a Dio» pensai, «se ne sta andando».
«Sai com’è questa casa alla luce del giorno?» chiese bruscamente. Scossi la testa.
«È bellissima. Ma venendo di giorno non avresti visto me. Avresti dovuto scegliere tra me e il paesaggio. Odio la luce, mi fa venire il mal di testa. E cosí dormo tutto il giorno. Mi stavo appena svegliando quando sei arrivato». Mi sorrise con un’aria sempre piú confidenziale. «Sai dove dormo di solito? Laggiú… in giardino!» La sua risata squillò di nuovo. «C’è un angolo all’ombra, in fondo, dove il sole non dà mai fastidio. A volte dormo lí finché non spuntano le stelle».
Mi tornò in mente la frase sul giardino nel telegramma del console, e pensai: «Tutto sommato non è una condizione cosí infelice. Mi chiedo se non stia meglio di quando era viva…»
Forse lei era piú felice, ma io ero sicuro di non esserlo in sua compagnia. E il suo modo di muoversi di soppiatto verso la porta mi fece desiderare di raggiungerla per primo. In un impeto di codardia le passai davanti a grandi passi, ma un istante dopo lei aveva il chiavistello in mano ed era appoggiata al battente, con la lunga veste bianca che le pendeva addosso come un sudario. Chinò leggermente la testa di lato e mi scrutò da sotto le palpebre senza ciglia.
«Non te ne starai andando?» mi rimproverò.
Cercai invano la voce che mi era venuta meno, e in silenzio feci segno che sí, stavo andando via. «Te ne vai… vai via? Del tutto?» I suoi occhi erano ancora fissi su di me, e vidi due lacrime raccogliersi agli angoli e scorrere sui cerchi rossi e scintillanti delle guance. «Oh, ma non devi» disse dolcemente. «Sono troppo sola…»
Balbettai qualcosa di inarticolato, gli occhi fissi sulla mano dalle unghie blu che teneva il chiavistello. D’un tratto la finestra dietro di noi si spalancò e una folata di vento, proveniente dalle tenebre, spense la candela all’angolo del camino piú vicino. Mi guardai indietro nervosamente per vedere se anche l’altra candela si stesse spegnendo.
«Non ti piace il rumore del vento? A me sí. È l’unico con cui posso parlare… Alla gente non piaccio molto da quando sono morta. Strano, vero? I contadini sono cosí superstiziosi. A volte sono proprio sola…» La sua voce si spezzò in un ultimo sforzo di fare una risata, e ondeggiò verso di me, una mano ancora sul chiavistello.
«Sola, sola! Se sapessi quanto sono sola! Era una bugia quando ti ho detto che non lo ero! E adesso vieni, e il tuo viso sembra amichevole… e dici che mi lascerai! No, no, no, non lo farai! Altrimenti perché saresti venuto? È crudele… Credevo di sapere cosa fosse la solitudine… sai, dopo che Grace si è sposata. Grace era convinta di pensare sempre a me, ma non era cosí. Mi chiamava “tesoro”, ma pensava a suo marito e ai suoi figli. Allora mi sono detta: “Non potresti essere piú sola se fossi morta”. Ma ora so che non è cosí… Non mi sono mai sentita sola come quest’ultimo anno… Proprio nessuno! E a volte me ne sto seduta qui e penso: “Se un giorno venisse un uomo e si invaghisse di me?”» Fece un’altra risatina vacillante. «Be’, cose del genere sono successe, ecco, anche dopo che la giovinezza è andata… un uomo anche lui con i suoi guai. Ma fino a stasera non si era visto nessuno… e adesso dici che te ne vai!» D’un tratto si gettò verso di me. «Oh, resta con me, resta con me… solo per stanotte… È cosí dolce e tranquillo qui… Non lo verrà a sapere nessuno… nessuno verrà a darci fastidio».
Avrei dovuto chiudere la finestra alla prima raffica. Avrei potuto aspettarmi che presto ce ne sarebbe stata un’altra, piú feroce. Arrivò proprio in quell’istante, sbattendo all’indietro la grata allentata, riempiendo la stanza del rumore del mare e di umidi vortici di nebbia, e scagliando l’altra candela sul pavimento. La luce si spense e io rimasi lí – noi restammo lí – persi l’uno per l’altra nell’oscurità ruggente che ci avvolgeva. Sembrò che il mio cuore avesse smesso di battere. Fui costretto a riprendere fiato con grandi ansimi che mi coprirono di sudore. La porta… la porta, be’, sapevo di averla davanti quando la candela si era spenta. Qualcosa di bianco e simile a uno spettro sembrò sciogliersi e accartocciarsi davanti a me nella notte, ed evitando il punto in cui quel qualcosa era sprofondato, avanzai a tentoni in un ampio cerchio, presi in mano il chiavistello, infilai il piede in una sciarpa o manica, svolazzante e invisibile, e mi liberai di scatto da quest’ultimo ostacolo. Adesso avevo aperto la porta. Entrando nell’atrio sentii un lamento dall’oscurità alle mie spalle, ma riuscii a raggiungere la porta d’ingresso, la aprii e mi precipitai fuori nella notte. Sbattei la porta in faccia a quel pietoso gemito basso, e la nebbia e il vento mi avvolsero nelle loro braccia confortanti.

III

Quando mi fui ripreso a sufficienza da fidarmi di me stesso e ripercorrere quanto era successo, scoprii che il solo pensiero mi faceva venire la febbre e pulsare il cuore in gola.
Era inutile… semplicemente non riuscivo a sopportarlo… perché avevo visto Grace Bridgeworth vestita di crespo, che piangeva sul telegramma, eppure mi ero seduto a parlare con sua sorella, sullo stesso divano, sua sorella che era morta da un anno! Era un circolo vizioso, non c’era modo di spezzarlo. Il fatto che la mattina seguente avessi la febbre avrebbe potuto spiegarlo, ma non riuscivo a sfuggire alla realtà soffocante di quella visione. E se fosse stato un fantasma la donna con cui avevo parlato e non una semplice proiezione della mia febbre? E se qualcosa di Mary Pask fosse sopravvissuto quanto bastava da gridarmi la silenziosa solitudine di una vita, da esprimere finalmente ciò che la donna in carne e ossa aveva sempre tenuto nascosto? Il pensiero curiosamente mi commosse: debole com’ero, piansi sdraiato nel mio letto. Un’infinità di donne era cosí, immaginai, e forse, dopo la morte, se ne avevano l’occasione, cercavano di sfruttarla… Vecchi racconti e leggende mi fluttuavano nella mente – la sposa di Corinto, il vampiro medievale – ma quale nome dare all’immagine lamentosa di Mary Pask?
La mia mente debole vagava dentro e fuori quelle visioni e congetture, e piú a lungo vivevo con loro, piú mi convincevo che ciò che era stata Mary Pask aveva parlato con me quella notte… Decisi che, quando fossi stato di nuovo in forma, sarei tornato in quel posto (in pieno giorno, questa volta) per cercare la tomba in giardino – quell’«angolo all’ombra dove il sole non dà mai fa stidio» – e placare il povero fantasma con qualche fiore. Ma i medici erano di parere diverso, e forse la mia debole volontà inconsapevolmente li assecondò. Comunque sia, cedetti alla loro insistenza di essere trasferito direttamente dal mio albergo al treno per Parigi, e poi trasbordato, come un bagaglio, al sanatorio svizzero che avevano in mente per me. È ovvio che avevo intenzione di tornare non appena mi avessero rimesso a posto… e nel frattempo, con crescente tenerezza, ma in modo piú intermittente, i miei pensieri tornavano dalla mia montagna innevata a quella ventosa notte autunnale sopra la Baie des Trépassés, e alla rivelazione della morta Mary Pask, che per me era piú reale di quanto non lo fosse stata da viva.

IV

Del resto, perché avrei dovuto dirlo a Grace Bridgeworth? Avevo intravisto cose che in realtà non la riguardavano. Se mi era stata concessa quella rivelazione, non avrei dovuto seppellirla nelle profondità piú profonde dove l’inspiegabile e l’indimenticabile giacciono insieme? E poi, quale interesse poteva esserci da parte di una donna come Grace per un racconto che non sarebbe riuscita a capire e al quale non avrebbe creduto? Mi avrebbe semplicemente definito «strano», e non sarebbe stata la sola. Il mio primo obiettivo, quando finalmente fui di nuovo a New York, fu quello di convincere tutti del mio completo ritorno alla solidità mentale e fisica, e in questo intreccio di prove la mia esperienza con Mary Pask sembrava fuori luogo. Tutto sommato, mi sarei trattenuto dal parlarne.
Ma dopo un po’ il pensiero della tomba cominciò a tormentarmi. Mi chiesi se Grace vi avesse mai fatto mettere una lapide adeguata. L’aspetto strano e trascurato della casa mi dava l’idea che forse non avesse fatto nulla, che avesse accantonato l’intera faccenda, di cui si sarebbe occupata la prossima volta, al prossimo viaggio all’estero. «Grace dimentica» sentii sussurrare il povero fantasma… No, decisamente, non poteva esserci nulla di male nel porre (con tatto) solo quella domanda a proposito della tomba, tanto piú che cominciavo a rimproverarmi di non essere tornato a vedere con i miei occhi come era tenuta…
Grace e Horace mi accolsero con la loro solita cordialità, e presto presi l’abitudine di passare da loro per un pasto, quando pensavo che sarebbero stati soli. Ma la mia occasione non arrivò subito: dovetti aspettare alcune settimane. E poi una sera, mentre Horace era a cena fuori e io ero solo con Grace, il mio sguardo si accese su una fotografia di sua sorella, una vecchia fotografia sbiadita che sembrò incontrare i miei occhi con rimprovero.
«A proposito, Grace» cominciai con un sussulto, «non te l’ho mai detto, ma sono andato in quel posticino di… di tua sorella, il giorno prima di avere quella brutta ricaduta».
Immediatamente il suo viso si accese di emozione.
«No, non me l’hai mai detto. È stato gentile da parte tua andare!» Le lacrime le riempirono prontamente gli occhi. «Sono cosí felice che tu l’abbia fatto». Abbassò la voce e aggiunse piano: «E l’hai vista?»
A quella domanda mi assalí uno dei miei vecchi brividi. Guardai con stupore il viso grassoccio della signora Bridgeworth che mi sorrideva da dietro un velo di lacrime prive di dolore. «Mi rimprovero sempre di piú riguardo alla cara Mary» aggiunse tremando. «Ma dimmi… dimmi tutto».
Avevo un nodo in gola. Sentivo quasi lo stesso disagio provato in presenza di Mary Pask. Eppure non avevo mai notato nulla di inquietante in Grace Bridgeworth. Forzai la mia voce a uscire dalle labbra.
«Tutto? Oh, non posso…» Cercai di sorridere.
«Ma l’hai vista?»
Riuscii ad annuire, sempre sorridendo.
La sua espressione divenne improvvisamente spaurita… sí, spaurita! «E il cambiamento è stato cosí terribile da non poterne parlare? Dimmi… è cosí?»
Scossi il capo. D’altronde ad avermi sconvolto era il fatto che il cambiamento fosse cosí lieve, che alla fine ci fosse cosí poca differenza tra l’essere vivo e l’essere morto, tranne un misterioso acuirsi della percezione della realtà. Ma gli occhi di Grace continuavano a cercarmi con insistenza. «Devi dirmelo» ribadí. «So che dovrei andarci da molto tempo…»
«Sí, forse dovresti». Esitai. «Quantomeno per vedere la tomba…»
Rimase seduta in silenzio, gli occhi ancora fissi sul mio viso. Le lacrime si erano arrestate, ma nel suo sguardo sollecito si insinuò lentamente qualcosa di simile al terrore. Esitante, quasi con riluttanza, tese la mano e la posò sulla mia per un istante. «Caro vecchio amico…» cominciò.
«Purtroppo» la interruppi «io stesso non sono riuscito a tornare a vedere la tomba… perché mi sono ammalato il giorno dopo…»
«Sí, sí, certo. Lo so». Si fermò. «Sei sicuro di esserci andato?» chiese bruscamente.
«Sicuro? Buon Dio…» Fu il mio turno di fissarla.
«Sospetti che non stia ancora bene con la testa?» suggerii con una risata di disagio.
«No… no… certo che no… ma non capisco».
«Che cosa non capisci? Sono entrato in casa… Ho visto tutto, di fatto, tranne la sua tomba…»
«La sua tomba?» Grace balzò in piedi, incrociando le mani sul petto e allontanadosi in fretta da me. All’altra estremità della stanza si fermò a guardarmi, poi tornò lentamente indietro.
«Allora, dopotutto… mi chiedo…» Teneva gli occhi su di me, metà spaventata e metà rassicurata. «Possibile che non tu non l’abbia mai saputo?»
«Saputo cosa?»
«Ma era su tutti i giornali! Non li leggi mai? Volevo scrivertelo… Pensavo di avertelo scritto… ma poi mi sono detta: “Comunque lo vedrà sui giornali”… Sai che sono sempre pigra con le lettere…»
«Cosa dovevo vedere sui giornali?»
«Diamine, che non è morta… Non è morta! Non c’è nessuna tomba, mio caro! Era solo una trance catalettica… Un caso straordinario, dicono i medici… Ma non ti ha detto niente, se dici di averla vista?» Scoppiò in una risata quasi isterica: «Di sicuro deve averti detto che non era morta!»
«No» dissi lentamente, «non me l’ha detto».
Ne parlammo insieme ancora a lungo, ne parlammo fino a quando Horace non rincasò dalla cena con i suoi amici, dopo mezzanotte. Grace insisteva per tornare sull’argomento, ancora e ancora. Come lei continuava a ripetere, era di sicuro l’unica volta che la povera Mary fosse mai finita sui giornali. Ma sebbene mi sedessi e ascoltassi pazientemente non riuscivo a suscitare alcun vero interesse per quello che diceva. Sentivo che mai piú mi sarei interessato a Mary Pask, o a qualsiasi cosa la riguardasse.

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