di Debora Lambruschini
La poetica del bardo texano
Un paio di anni fa è uscito anche in Italia un volume piuttosto corposo, tra saggio critico e dialogo con il lettore, nato dalla lunga esperienza di George Saunders come docente di scrittura creativa: Un bagno nello stagno sotto la pioggia, tradotto da Cristiana Mennella e pubblicato da Feltrinelli, che rappresenta un tassello fondamentale per addentrarsi nella produzione letteraria dell’autore e, in qualche modo, comprendere più a fondo i suoi stessi racconti. Il saggio nasceva dall’esperienza ventennale di Saunders come docente di scrittura creativa presso la Syracuse University – la stessa università dove aveva conseguito un Master e dove pronunciò il celebre graduation speech confluito poi in L’egoismo è inutile – e si concentrava sui racconti di quattro scrittori russi dell’Ottocento, Čechov, Tolstoj, Turgenev e Gogol, di cui scandagliava i testi, in modo mai didascalico o accademico ma estremamente puntuale ed efficace, e più in generale costruendo una personale poetica della forma breve densa di spunti e riflessioni. Ho ripensato molto a quel volume leggendo l’ultima raccolta di Saunders appena pubblicata in Italia, Giorno della liberazione, come ho pensato molto anche al punto in cui questi nove racconti si collocano nella bibliografia dell’autore, dalla prima folgorante raccolta, Bengodi, del 1996, passando per Pastoralia, l’eccezionale Dieci dicembre, l’incursione nella narrativa lunga con lo strabiliante Lincoln nel bardo, i saggi già citati. In quel volume sui grandi russi Saunders poneva a sé stesso e ai lettori una serie di domande fondamentali sulla narrativa breve: che cos’è un racconto? Quando un testo può dirsi tale? O, ancora, come si conciliano nella short story cesellatura, brevità e digressioni? Perché è importante osservare le dinamiche interne di un racconto e non limitarsi alla sola trama? Perché saper creare il rapporto causa-effetto è il marchio principale di un bravo scrittore?
Smontando pezzo per pezzo i racconti selezionati tentava di dare risposta a queste domande, consapevole che parte del mistero della scrittura sarebbe rimasto tale e ci ricordava che leggere racconti richiede uno sforzo notevole, nel rispetto del lavoro di selezione e cesellatura operato dal suo autore. Leggere un testo, dunque, specialmente un racconto, significa andare oltre la superficie, non fermarsi alla trama – laddove questa ci sia – ma osservarne le increspature sulla superficie, scandagliare le sue profondità.
Quando li analizziamo [i racconti] tendiamo a ridurli alla trama (quello che succede). Sentiamo, non a torto, che il loro significato risiede lì. Ma i racconti traggono significato anche dalle loro dinamiche interne – dalla maniera in cui procedono, in cui una parte interagisce con l’altra, nell’accostamento istantaneo, percepibile, degli elementi. (Un bagno nello stagno sotto la pioggia, p. 177)
Tengo ben a mente le considerazioni di Saunders sul racconto, dunque, mentre leggo la sua ultima raccolta, Giorno di liberazione - pubblicato da Feltrinelli e tradotto da Cristiana Mennella - nel tentativo di andare oltre la superficie e cogliere qualcosa del mistero della scrittura di un autore come lui particolarmente devoto alla forma breve. Giorno di liberazione contiene nove racconti che si muovono su punti di vista e registri diversi, tra realismo, distopia, fantastico, e si collocano perfettamente nella bibliografia dell’autore: riconosciamo in queste storie l’ironia di Saunders e il desiderio di sperimentazione tematica e strutturale, la riflessione amara sulla società e la violenza che l’attraversa, le contraddizioni del contemporaneo, la dolente condizione umana, la precarietà delle relazioni, le derive del consumismo. In ognuna di queste storie i personaggi sono in qualche modo imprigionati, in varie accezioni del termine, e il giorno della libertà, laddove arriva, non è detto sia una liberazione vera e propria, quantomeno non nel senso che ci si aspetterebbe. Un racconto dopo l’altro la raccolta appare sorprendentemente coesa, nonostante le differenze sostanziali dei singoli testi e, come si diceva, i diversi registri su cui si muovono; nove storie indipendenti l’una dalle altre ma che contribuiscono a tracciare una mappa interessante per orientarsi nell’universo letterario di Saunders, a comporre una poetica ben delineata. Dei nove racconti – la maggior parte già apparsi su riviste – colpiscono in modo particolare i testi più marcatamente distopici, a partire dal racconto che dà il titolo alla raccolta tutta, con l’ambiguità e il perturbante che li attraversa.
Ma è su Festa della mamma che vorrei soffermarmi, per gli echi che contiene, per la struttura narrativa, per il richiamo alla tradizione.
Festa della mamma
Come nella maggior parte di queste storie anche “Festa della mamma” inizia in media res: Saunders catapulta il lettore nel bel mezzo dei pensieri dei personaggi – in questo caso di Alma, la madre protagonista – e nel suo punto di vista sulla storia, da cui pezzo dopo pezzo ricostruire le cose, inquadrare la situazione.
Gli alberi di Pine Street che ogni primavera facevano i fiori viola avevano fatto i fiori viola. E allora? Che c’era di straordinario? Succedeva ogni primavera. Ma Pammy non la smetteva più: “Guarda i fiori, mamma. Stupendi questi fiori, vero?”. I suoi figli stavano cercando di arruffianarsela. Paulie era arrivato in aereo e Pammy l’aveva portata a pranzo fuori per la Festa della mamma e adesso la teneva per mano.
Per mano! In Pine Street.
La bambina che una volta aveva dato uno schiaffo alla madre che aveva tentato di aggiustarle il colletto. (p. 172)
Similmente a quanto accade per esempio in altro racconto letto di recente, Quando ormai era tardi, contenuto nella raccolta eponima di Claire Keegan, anche qui siamo istintivamente portati a empatizzare con il punto di vista della protagonista: ma bastano in questo caso poche righe per iniziare a dubitare di lei, dei suoi ricordi. Ecco, dunque, che l’immagine di sé attentamente costruita per se stessa e per gli altri non coincide con la realtà; pezzo dopo pezzo emerge la figura di una donna piena di contraddizioni: il rapporto con i figli, le innumerevoli ombre del matrimonio, la gelosia, l’alcol.
La figlia, Pammy, l’ha portata a pranzo fuori per la Festa della mamma, e ora stanno facendo una lunga passeggiata: camminare per Pine Street provoca una concatenazione di ricordi e la manipolazione della memoria alla versione cui Alma per tutta la vita si è aggrappata si sgretola un pezzo alla volta, raccontando un’altra versione, un’altra storia.
A partire dal rapporto con i due figli:
Da piccoli erano dei genietti. Ricordò il premio che Paulie aveva preso a scuola. Un bambino si era messo a piangere perché non l’aveva vinto. Ma Paulie l’aveva vinto. Eppure i suoi figli avevano fatto una brutta riuscita. Facevano lavori stupidi, non erano sposati e parlavano sempre dei loro sentimenti. Erano viziati. Be’, non per colpa sua. Lei era sempre stata di polso. (p. 174)
Quei figli che non soddisfano le aspettative materne, che si sono allontanati da lei, che ogni volta che tornano la tormentano perché continua a fumare e che ora sono qui, più o meno, per festeggiare la ricorrenza. Quei figli che erano bambini a cui dare una dura lezione per aver disubbidito, gli stessi bambini che trovavano lei o il padre o entrambi svenuti sul prato del giardino di casa dopo una sbronza. Alma è stata un’alcolista? Non lo dirà mai apertamente, ma l’alcol si è intrecciato inesorabilmente agli anni con Paul senior, il suo defunto marito.
La follia. Faceva parte del gioco. Faceva parte del loro grande amore. Come quando aveva trovato Paul senior svenuto in veranda e le era toccato metterlo a letto.
Anche questo faceva parte del loro grande amore. (p. 175)
I bambini, per Alma, sono stati per lo più un fastidio. Tutto quel caos, i capricci, le richieste, tutto quello che pretendevano da lei… È colpa loro se Paul senior aveva preso a trascorrere tanto tempo fuori casa, cercare altrove la pace. E intanto le imprese azzardate del marito e il barcamenarsi per mantenere la famiglia, le innumerevoli volte che hanno rischiato di perdere la casa. In qualche modo sono sempre rimasti a galla, ma lui intanto era già altrove, a correre dietro a un’altra donna. No, Alma ricorda male, sicuramente hanno «lavorato fianco a fianco per salvare la casa, e la faccenda dei nomi/profumi si era definitivamente risolta», deve essere senz’altro andata così. È la memoria malleabile, il passato da riscrivere nella sua versione migliore. Perché allora certi rancori? Come con Debi Hater, «la ragazza strana e volgare del liceo. La figlia dei fiori», anche lei adesso invecchiata, che la sta osservando dalla veranda di casa sua mentre passano lì davanti. Una «fricchettona» che non ha mai contato niente per loro. «Non molto. Non molto, no».
È così? Chi è stata nella loro vita Debi Hather? Quale storia della sua vita ha scelto di raccontarsi, a quale versione si aggrappa? Saunders si sposta su di lei ed è Debi ora a raccontare un’altra storia o un’altra versione della stessa storia, quella di tutti loro. E basta cambiare il punto di osservazione per avere una visuale del tutto diversa. Lo sa bene Saunders, che su una scena in particolare e sui punti di vista alternati ha costruito racconti magistrali, come Giro d’onore e Dieci dicembre ad esempio, della raccolta eponima. Chi è stata dunque Debi nelle loro vite? Che cosa è stato il rapporto con Paul senior? E lei che madre è? Quella di una figlia che se n’è andata all’improvviso, lasciando una lettera nella quale diceva di non cercarla, e mai più tornata indietro.
Vite che sfilano un passo dopo l’altro di questa passeggiata lungo Pine Street, i ricordi che si contraddicono, le verità che emergono dove non vogliamo, l’ostinazione con cui ci si aggrappa a certi rancori, ancora, anche alla fine.
Gli uomini e le donne di Giorno di liberazione sono prigionieri delle proprie convinzioni e anche quando la consapevolezza su sé stessi pare farsi strada non c’è spazio per la salvezza. Sono lo specchio del fallimento morale di una società che anche nella distopia più estrema – vedi per esempio il racconto d’apertura – ha i contorni pericolosamente riconoscibili della realtà in cui siamo immersi. Lo sguardo di Saunders è impietoso, come sempre, nel tratteggiare le ombre di una condizione umana dolente, il fallimento morale di cui è intrisa. A distanza di così tanti anni – Dieci dicembre è del 2013, Bengodi del 1996 – pare non esserci spazio per l’indulgenza e, anzi, la violenza ha forse trovato nuove forme per esprimersi, ma il male è sempre stato lì, pronto a bussare alla porta di una ragazzina.
La scrittura di Saunders non fa sconti, indaga negli angoli più bui delle nostre società e ce li racconta con una lingua di volta in volta nuova, come se fosse proprio da lì a scaturire il racconto, dal linguaggio, dal punto di vista, e solo dopo farsi storia. Che siano le parole confuse di un uomo malato – Dieci dicembre – il flusso inarrestabile di pensieri e digressioni di due donne – Festa della mamma – , il linguaggio appreso dalla Parete Parlante – Giorno di liberazione – , le parole autocensurate di un nonno che risponde alla richiesta d’aiuto del nipote in un mondo distopico così tanto simile al nostro – Lettera d’amore – e ancora, più sperimentale, più capace di aderire alla storia, Saunders pare ricordarci ogni volta che cosa sia una short story. Anche nelle sue storie meno riuscite, meno brillanti o brutali, ci sono squarci che spiegano l’entusiasmo che da sempre i suoi racconti suscitano tra pubblico e critica. È una scrittura tesissima, che sfida il lettore e lo mette a nudo. Perché, come diceva lui stesso in quel saggio sugli autori russi «è una forma spietata, il racconto. Spietata come una barzelletta, una canzone, un biglietto scritto dal patibolo».