Il grande comandamento, di Simona Lo Iacono


di Ornella Soncini

Siracusa è benedetta dalla natura generosa e dall’ingegnosità umana.
Le coste, dolcemente abbracciate dal luccicante Ionio; la giuggiulena iblea delle architetture che svetta vertiginosa sulle teste degli abitanti, da ben prima della venuta di Cristo; l’Orecchio di Dionisio scavato in quelle latomie già cantate da Cicerone, e il vicino teatro greco e le altre perle di roccia del parco archeologico; la terra fertile di Cerere e il clima mite che la colorano di fiori, ortaggi, agrumi e altri frutti vivaci.
Ma la sua bellezza sta anche dove gli occhi non possono vedere, nel mondo sotto il mondo: percorsi ipogei che l’attraversano tutta, fatti di cisterne greche, cripte medievali, catacombe ancóra affrescate, spazi sotterranei poi reinventati. E i celebri bagni ebraici.
Soprattutto a Ortigia, il cuore antico della città, dove grazie a fiumi e sorgenti che alimentano il territorio abbondano i labirinti d’acqua.
E proprio l’acqua, elemento fondante della vita – «ottima»: così principiava Pindaro nell’Ode Olimpia I per celebrare Ierone di Συράκουσαι  –, è il leitmotiv narrativo dell’ultima fatica letteraria di Simona Lo Iacono, Il grande comandamento (Apalós, 2025), una storia ambientata nella Siracusa di fine Quattrocento.
Un’opera brevissima, che si sviluppa in verticale secondo l’inclinazione stessa del racconto e avvolge completamente chi la legge come fanno le acque nelle profondità delle vasche rituali dei mikveh.
Nota perlopiù per la sua carriera di romanziera, Lo Iacono è in realtà anche raccontista: Il grande comandamento è la terza tra le opere brevi pubblicate della scrittrice siracusana ed è un buon esempio del pensiero, non ancora pienamente affermato, di Guido Guglielmi: nonostante la comune diffidenza, il racconto non ha di per sé il «respiro corto, [non è] incapace di dare il grande affresco»; si fa invece portatore della magia di quel “pensiero corto” auspicato da Gianni Celati, ritmico e intenso. Merito di Lo Iacono non solo, infatti, la scelta di episodi e dettagli che in pochissimo spazio narrano molto ma anche quella di una prosa di rimembranza biblica: in apparenza semplice, così come sembra semplice la storia del giudeo Aronne innamorato della nobile siracusana Maria, quella dell’autrice è una scrittura solenne con la sua propensione alla narrazione storica, pregna di simbolismo, preziosa nel suo veicolare riferimenti e messaggi nascosti sotto la sabbia; un tesoro precluso allo sguardo che non scava in profondità.
In venti pagine si svolge l’intera vicenda.
La tecnica adoperata è quella dell’analessi: nell’ultimo giorno della sua vita, l’ormai maturo rabbino Aronne si accinge a raccontare al dio d’Abramo la propria storia. È l’anno dell’Editto di Granada, il 1492, appena prima della grande cacciata del suo popolo dai possedimenti ispanici – la fantasticazione di Lo Iacono media la realtà storica, per cui il termine ultimo, la scelta tra l’abiura e la conversione o l’espulsione dalla Sicilia, non è il 12 gennaio dell’anno seguente ma il più simbolico 31 dicembre.
A Siracusa, la comunità ebraica era antica e ben radicata.

 

Non so bene quando i miei progenitori scelsero la Sicilia. Vagavano da troppi anni, ormai, e Siracusa era giunta al loro sguardo dal mare. Si raccontava di uno scoglio su cui si era posato un gabbiano.
E i padri dissero: è qui.

 

               Se in principio ebrei e gentili ancora si sfioravano, episodi di intolleranza e violenza si moltiplicano e si acuiscono a partire dalla seconda metà del XV secolo.

 
Poi, i cancelli. La giudecca era serrata dalla via della Maestranza che correva retta fino al mare.
[…]Inizialmente i cancelli restavano chiusi solo la notte.
[…]Poi giunsero le leggi. Non si seppe mai se l’ordine fu della Spagna o dei siracusani stessi. Se di dominanti di scoglio o di monte. Si sapeva solo che un simile editto era già stato promulgato a Toledo, o almeno così dicevano alcuni parenti provenienti da laggiù e rifugiatisi in casa nostra. E la vita, improvvisamente, cambiò. I confini del cielo si fecero angusti, e i siculi non entrarono più nel ghetto.

 

 Chiusi dietro le sbarre anche in pieno giorno, è sulla soglia del confine tra puro e impuro, al cancello del ghetto, che Aronne vede per la prima volta Maria Costanza Moltalto, venuta con gli altri suoi concittadini per acquistare le stoffe filate ad arte dei tessitori ebrei. Ma se le monete fluiscono attraverso il cancello, gli scambi di natura non commerciale devono essere invece regolati col contagocce.
Ecco il canto dell’acqua, che si riverbera nel campo semantico – e del resto nella cultura di un popolo di matrice nomade non è elemento più che centrale, nonché indispendabile alla sopravvivenza in un’area come quella mediorentale? Non è certo un caso se nei testi sacri numerosi sono i riferimenti all’acqua portatrice di vita. E non è un caso se la prima frase pronunciata da Maria è «sembra mare»: il tessuto che ricevere dalle mani di Aronne, ricamato con  pietruzze di scoglio e schegge di corallo, all’interno dell’involto produce un suono «simile a risacca che s’infranga tra le conchiglie».
Sosta nel vagare di Aronne, Maria ricorda per certi versi il gabbiano in apertura al racconto, epifania di un approdo forse non ideale eppure ristoratore per un popolo in cerca di rifugio: creatura ripugnante secondo il Levitico e il Deuteronomio, carne non kosher, tuttavia è il gabbiano a indicare la terra. E in quanto uccello rappresenta, inevitabilmente, l’aspirazione alla libertà, al superamento dei confini.
Influenzato dal suo credo religioso, Aronne cerca riparo dal peccato nei bagni rituali tramite la pratica dell’abluzione. Non rinuncia, però, a ondeggiare dentro Maria «come un animale marino», né ad amarla di un amore che lo «fa affondare in lei come un sasso che scenda nelle profondità dell’acqua.
Aronne e Maria appartengono a popoli diversi, eppure si incastrano perfettamente nei rispettivi spazi e tempi, distanti e vicini, costole tra costole, un essere solo sebbene diviso in due da un cancello alto e grigio.

 

 

Ci amavamo semplicemente sapendo […] che ogni mossa ci era preclusa.

 

               L’amore impossibile è uno dei grandi, antichi tòpos letterari. E quella di Aronne e Maria è solo una delle innumerabili, possibili storie sulla tragedia del non poterlo vivere liberamete: una lettura de Il grande comandamento che si focalizzi troppo sul tormento amoroso non renderebbe dunque giustizia a Lo Iacono.
Come ben illustrato da Salvo Sequenzia nella prefazione al volumetto, il racconto – ma anche l’opera tutta della scrittrice – è una polifonia di temi, «di destini, di storie e di incantamenti». E nel panorama nostrano, ancora legato a una produzione – così Celati in L’assoluto in prosa – «naturalistica di ristagno […] fatta di procedimenti standardizzati per catturare a freddo il lettore», che propone perlopiù narrazioni d’impianto psicologico-sociale ambientate tra piccole realtà-luoghi antropologici e grandi centri quasi non-luoghi, raccolte, essenzialmente private, la narrativa di Lo Iacono si configura come una sfida al conformismo letterario contemporaneo. Le sue storie, apparentemente scollate rispetto ai nostri tempi, sanno invece raccontare con efficacia le storture e la bellezza del mondo, delle persone.
Storie raccontate in una lingua, come sottolinea Sequenzia, dalla «pastosa sonorità, limpida, preziosa; un italiano che rifiuta il parlato ‘neo standard’ coevo», che richiama la sacralità della bellezza e delle esperienze passate, «senza alcuna forzatura o stonatura, in un ‘melange’ nel quale confluiscono, sovente, dialetto e parlato quotidiano, nella ricchezza delle loro dissonanze e della loro musicalità, in un intarsio originalissimo di metafore, di modi di dire, di similitudini e di recuperi vernacolari ‘culti’».
E raccontate attraverso le azioni, anche quelle apparentemente ininfluenti, di uomini e donne di epoche e mentalità distanti eppure così ugualmente umani a noi abitanti del ventunesimo secolo; personaggi-ritagli di realtà dimenticate, figure agli angoli più remoti della Storia – l’autrice, magistrato presso il Tribunale di Catania, è nota per il lavoro di ricerca sulle carte processuali, sui registri dei notai e su altri antichi documenti.
Persino gli elementi che sfiorano il fantastico – il gabbiano annunciatore, le acque riparatrici de Il grande comandamento; le pozioni, un bambino che non può parlare, le donne sovversive de Le streghe di Lenzavacche (E/O, 2016); ’u diavulu e la tomba vuota de I semi delle fave (Emanuele Romeo Editore, 2006)… – non fanno che acuire la mimesi, poiché il mondo è spesso incomprensibile e sorprendente quanto la magia.
Aronne e Maria, quindi, tuttaltro che inattuali. Anche sotterrati dalla sabbia del tempo insieme alle storie delle loro genti, spaventate, odiatrici, insultate, ammirate, quasi cancellate ma infine sopravvissute. Entrambi ci raccontano, ancora oggi, chi siamo e chi potremmo essere. Desiderandolo.

 

Ci vorranno secoli per scavare, secoli per ricordare il punto esatto.