L’Orma editore riporta in libreria Gigi, uno dei capolavori della scrittrice Colette, in questa edizione tradotto da Ornella Tajani.
Cattedrale vi propone la postfazione di Daria Galateria per gentile concessione dell’editore.
Colette 1902 / 1942
di Daria Galateria
Gigi è stato scritto nel 1942 ed è uscito in volume nel giugno ’44, pochi giorni dopo lo sbarco in Normandia. L’incantevole racconto lungo, che con un tocco resuscitava Jane Austen e Cenerentola, fu concepito cioè nel periodo più cupo della storia di Francia e della vita di Colette. Per la penuria di carta, fu pubblicato in Svizzera; il terzo marito dell’autrice, Maurice Goudeket, all’epoca dormiva nelle soffitte dei vicini, e rientrava a casa alle nove. Era stato arrestato già una volta dalla Gestapo, nel ’41, alle sei e mezzo del mattino, e ne aveva tratto la stravagante persuasione che in mattinata il pericolo era passato, e poteva scendere a occuparsi della moglie, ormai quasi immobilizzata sul suo «divano-zattera»; e iniziava a dedicarsi alla ricerca del cibo: la carne costava 400 franchi al chilo, lo stipendio di un operaio. Colette voleva pure trovare burro (750 franchi) e sapone per la figlia, che, con sua grande soddisfazione, faceva parte della Resistenza. Tutti i vicini del Palais-Royal li aiutavano, e si mangiava alle cene delle amiche ricche. Poi, con la stella gialla cucitagli addosso «nel modo più civettuolo possibile», Maurice si spaventò davvero e partì verso sud per il libero Midi; lì passò a prendere un caffè dai nuovi proprietari della Treille muscate, la loro villa in Provenza col suo pergolato d’uva moscata: «Ci sono ancora tutti i mobili» raccontava mestamente a Colette – le scriveva tutti giorni – e si complimentava (è il settembre del ’42) per Gigi: «Mi secca che i bambini nati quando sono lontano vengano così bene. È forte, è spoglio; bravò, cara». Il breve romanzo diventò presto leggendario, e Colette fu la prima a stupirsene; «devo aver toccato un nervo» diceva con modestia, pur ammettendo che aveva faticato molto. L’aveva prima pubblicato a puntate su rivista, tra l’ottobre e il novembre del ’42, col titolo L’Attardée. Gigi, benedetta ragazzina, così ingenua! Sembra un po’ tonta alla nonna e alla prozia che le impartiscono un’educazione severa da gran dama, per farne una cocotte di rango. Poi Colette, che lo considerava un racconto lungo, l’aveva pubblicato in volume, unendolo ad altre novelle; nel 1946 la traduzione, isolata, a New York, su «Harper’s Bazaar», ne consacrò la gloria.
La storia, Colette, ce l’aveva in mente da vent’anni; secondo Goudeket, nel 1926 erano in albergo a SaintRaphaël, e i proprietari avevano raccontato di una loro nipote il cui matrimonio aveva stupito «mondani e mondane» (il monde e il demi-monde). E comunque tutti, a Parigi, conoscevano la vicenda del magnate, proprietario e direttore del «Journal», Henri Letellier – per cui Colette aveva lavorato – che si era innamorato di un’adolescente di diciassette anni, Yola Henriquet: orfana, era stata allevata dalla zia, una cantante di media fama, che, ancora piccola, l’aveva avviata alla scena. Di trentasei anni più grande, Letellier le aveva chiesto, nel 1926, la mano! La donna-bambina era rimasta affascinante nel tempo, fino a sedurre nel 1932, e per sempre, lord Louis Mountbatten, viceré delle Indie legato alla famiglia reale inglese. Ma il grande lavoro fu per Colette collocare la vicenda all’epoca delle carrozze, delle prime auto e delle grandi mantenute. «Lavoro come un paio di buoi di media stazza» scrive a un’amica il 18 giugno del ’42: «Sono a pagina 66, e preferirei aver piantato 66 cespugli di lamponi», Colette conosce bene le fatiche del giardinaggio. Da grande scrittrice, sa che i romanzi, e finanche le fiabe, vanno incastonate in una robusta impalcatura di realtà. In un’altra guerra, Marcel Proust rievocava le più labili mode, infilzandole, come un entomologo, esattamente nella loro stagione: come l’inverno in cui i gentiluomini entravano nei salotti col cilindro in mano, e lo deponevano, sedendo, ai piedi della poltrona. Così Colette scrive a un amico: «Sono impegolata in una storia che si svolge intorno al 1898-1900. Con quali personalità della politica, finanza e industria potrebbe cenare da Larue un magnate delle raffinerie, in quell’epoca?».
Il mondo delle grandi etere lo ricordava personalmente, e rievocarlo era una specie di compensazione in quel periodo di penuria. Nelle passeggiate al Bois – l’ultima fu a maggio del ’44, era così fiorito «da far male» – le tornavano in mente le Amazzoni della Belle Époque, e l’amica americana Natalie Clifford Barney: «L’ho vista a cavallo… era di una perfezione deliziosa» rimpiangeva. Al Bois de Boulogne ora ci si andava in velotaxi, o nella grossa auto, trainata all’occasione, in carenza di benzina, da un vecchio cavallo, che le prestava la musa di tutti gli artisti, la pianista Misia Sert – il marito, ambasciatore del generale Franco presso la Santa Sede, aveva brigato per liberare Maurice internato nel ’41; e sarà dal suo balcone, nel ’44, che Colette assisterà alla sfilata trionfale di de Gaulle sugli Champs-Élysées, pasteggiando a champagne e prosciutto spagnolo. Ma le cocotte che le servono d’ispirazione per Gigi appartengono al volgere del secolo trascorso: la Belle Otero, i cui ampi cappelli imponevano alle auto una capote svasata – i costruttori si informavano dalla sua modista – e Liane de Pougy, che a inizio carriera tentava il suicidio per far colpo sugli amanti facoltosi. Il suicidio per amore era in effetti praticato anche dalle grandi dame; per esempio Léontine Arman de Caillavet, la cospicua moglie d’armatore che aveva nutrito la passione e la riuscita sociale di Anatole France. Quando lo scrittore si era stancato ed era partito per un’allegra crociera di lavoro, la donna aveva cercato di suicidarsi col gas; l’avevano salvata, ma si era così malridotta che in un anno si spense (era il 1910: pentito e straziato, France ne convocò immantinente la prima cameriera, e finì per sposarla). Si trattava insomma di un espediente in uso, che lusingava la vanità dell’amante irrequieto; e l’incantevole gineceo un po’ equivoco delle educatrici di Gigi valutano professionalmente se il loro amico Gaston Lachaille cadrà nel tranello del suo «primo suicidio», trappola intentatagli, per non essere lasciata, dalla cocotte Liane, sua amante. Gaston, che chiede a Mamita la camomilla, sembra in una fase di stanchezza, rispetto a tutta l’indiavolata falange delle cocotte. Otero, l’amante di cinque sovrani, viene citata da Colette in apertura del Mio noviziato, memoir del suo matrimonio con «Willy», pseudonimo dello scrittore Henry GauthierVillars: apprendistato del tradimento del cuore, del furto della scrittura (il marito firmò il ciclo di Claudine scritto da lei), e dell’allegra società mondana e letteraria di Parigi. Colette ha conosciuto Otero e Liane de Pougy proprio negli anni in cui collocherà Gigi: citate e riconoscibili dai loro favolosi collier di perle (la collana con cui gioca già nelle prime righe Chéri ha fatto identificare in Liane de Pougy il modello di Léa, l’amante matura del ragazzo). Ma Colette in Gigi è straordinariamente precisa; si parla ad esempio del bolero di diamanti di Eugénie Fougère. Eugénie è una demi-mondaine famosa appunto per i suoi favolosi monili: tanto che un’inserviente infedele organizzò una rapina nella sua casa di Parigi, dove la signora fu ritrovata assassinata, legata mani e piedi nel suo letto. Era il 20 settembre 1903, ma per l’appunto, ha specificato Colette, Gigi si colloca tra il 1899 e il 1902; e dunque Mamita, la nonna di Gigi, non può ancora conoscere il fatto di cronaca nera, e semmai la scrittrice si compiace di isolare dal suo fatale futuro il momento in cui Fougère risplende ancora come avida cocotte. Anche madame Antokolski, evocata per il suo coupé troppo vistoso secondo i gusti austeri di Mamita, appartiene al mondo della prima giovinezza di Colette: Alexandra, la figlia minore del celebre scultore russo Mark Antokolski, era una protagonista della Parigi saffica (nel 1915 diventò contessa Sforza Cesarini). Colette frequentò il salotto di Gomorra della rue Jacob, regno dell’amica Natalie Barney, e, tra tutte le Amazzoni, era proprio lei che rievocava ancora nel ’44. Colette e il marito Willy la conobbero nel 1902. Era appena uscito Claudine sposata, e loro si erano trasferiti nel grande appartamento di rue de Courcelles; la invitarono, e Natalie rimase sbalordita dalla palestra di Colette.
Al piano superiore della casa si apriva infatti un ampio studio, dove l’autrice teneva l’attrezzatura per la ginnastica. La praticava già da ragazzina nella dimora bretone di famiglia a Saint-Sauveur; e anche a inizio secolo continuava a esercitarsi in modo sistematico: la ginnastica era il «volto ascetico» della sua bellezza, e la preparazione al teatro – pantomima, commedie e music-hall –, a quella professione di attrice che avrebbe abbracciato alla fine del matrimonio. C’è una celeberrima cavallerizza da circo, Rita del Erido, in Gigi; Gaston la fa caracollare tra i tavoli all’aperto del ristorante del Pré Catelan. Rita del Erido era in realtà tedesca, ma si esibiva anche a teatro in ruoli da cowboy, attraversando le scene a cavallo; nel 1910 la sposò uno scrittore, Henri Duvernois, che suggerì all’amica Colette la più costante e preziosa delle abitudini: scrivere su carta azzurra.
Dunque, il 1902 è l’anno del teatro; la serie dei romanzi di Claudine approdò in scena, rilanciandone la fama, e diffondendo la moda delle scolarette e dei collarini, del gelato, delle cartoline e di tutto un merchandising (comparvero delle Claudine anche nelle case d’appuntamento). A teatro, fu la celebre Polaire a rappresentarla, minuta e dinamica (il giro vita uguale al collo di Willy, quarantadue centimetri); Colette dovette tagliarsi i capelli al mento come lei, vestire gli stessi abiti, e girare in coppia con l’attrice, a voler sembrare entrambe, a ventinove anni, due ragazzine. Naturalmente anche Polaire compare in Gigi, quando si parla di pattinaggio; Colette immette nel racconto, senza troppo parere, tutte le donne che brillavano in quella Parigi della sua prima giovinezza. Ma secondo le educatrici di Gigi dedicarsi al teatro è riprovevole per chi invece, si dedica con serietà a trovarsi compagni affluenti: come Émilienne d’Alençon con i suoi conigli addestrati, o Liane de Pougy nel ruolo di Colombina, imbarazzata in scena come una giovinetta. Invece la cavatina che canta Andrée, la madre di Gigi, nella foto del salotto – si tratta di un ruolo abbastanza importante, probabilmente il più prestigioso della sua vita – le conferisce una posizione professionale del tutto dignitosa.
Tutto dunque è accuratamente ricostruito, il paltò a sacco di Cléo de Mérode, i commensali di Gaston al ristorante Larue – uno è Louis Barthou, il politico mondano scomparso nel ’34: è al fratello Léon che nel ’42 Colette si rivolgeva per avere consigli d’epoca sui compagni di tavola di un magnate dello zucchero. Proprio per questo, nel 1902, per Gaston i Barthou sono due, e lui cena con quello «meno bello», il grande politico Louis, che nel ’28 aveva fatto avere a Colette una decorazione; nei circoli militari qualcuno aveva eccepito, e la marchesa poetessa Anna de Noailles aveva commentato: «Dovevano darti, invece di un nastrino, una panciera», «Vorrai dire un cache-sex» aveva ribattuto, sempre spigliata, Colette. Tutto il mondo rievocato appartiene al 1902. La casa di moda Béchoff-David a cui pensa la zia Alicia per i nuovi abiti di Gigi è stata fondata nel 1900; era famosissima, e perfino Gigi ha visto quelle creazioni, indossate dall’attrice Lucy Gérard, sulle foto-réclame di sigarette: ma gli stilisti erano tedeschi naturalizzati francesi, e con lo scoppio della guerra furono boicottati. Questo, Alicia, nel 1902 non può saperlo, e comunque sbaglia, Gaston non vuole l’ennesima signora alla moda, ma la sua ragazzina col vestito corto scozzese.
Gigi è uno dei rari happy ending di Colette, ed è il suo gran finale. Dopo scriverà ancora, di immobilità ma anche memorie dei suoi addii, eppure nulla che abbia altrettanta vita. Nel gennaio del ’46, Jacqueline Audry, la regista che ha lavorato con Pabst e Max Ophüls, e che era stata censurata durante l’occupazione, volle portare sullo schermo Gigi; andò a trovare Colette, che rifiutò: «Non parlatemi di cinema, sono stata troppo delusa». Colette, che recensiva film dal 1914, scriveva dialoghi e sceneggiature, e seguiva le riduzioni dei suoi romanzi sullo schermo (il cinema non vale il teatro, dice un’attrice in un suo testo, L’Envers du Music-Hall, ma «almeno al cine uno si vede»), non ha mai davvero apprezzato quegli adattamenti. «Non ho nessun motivo di scontento, mi capite? Fanno del loro meglio» scriveva all’amica attrice Marguerite Moreno. Ma Audry era decisa: «Gigi mi piace, non lo tradirò». C’erano difficoltà a trovare i finanziamenti, e solo il 5 ottobre del ’49 il film uscì, e nessuno si aspettava tanto successo. Poi Anita Loos (l’autrice di Gli uomini preferiscono le bionde) ridusse nel ’51 Gigi per il Fulton Theatre di New York, a vestirne i panni è Audrey Hepburn. Ci sono leggende così belle che migliorano la realtà. Si dice che Colette avesse visto la giovane Hepburn recitare nella hall dell’Hôtel de Paris a Monaco, e aveva esclamato: «Ecco la Gigi per l’America!». In realtà Colette aveva pronunciato la frase per un’ignota attrice all’epoca del film di Jacqueline Audry, e l’aveva riportata «Elle» in un articolo, il 12 dicembre 1945. Ma come rinunciare a un errore tanto delizioso?
Anche l’ultima occasione pubblica, per Colette, è legata a Gigi. È l’anteprima al Théâtre des Arts, a Parigi, il 22 febbraio del ’54. Ci fu una novità, la commedia fu trasmessa in diretta in televisione, e nell’intervallo Colette si rivolse al pubblico: la manifestazione venne organizzata dall’Académie Goncourt in «missione mondana». L’anno prima Colette aveva compiuto ottant’anni ed erano fioccate le onorificenze. Il direttore di «Le Figaro», un tempo irritato per il suo rifiuto a collaborare con il giornale, le aveva dedicato un numero speciale; la moglie del ministro degli Interni aveva annunciato a Goudeket che era stata firmata la nomina di Colette a Grand’ufficiale della Legion d’onore: «Diteglielo con riguardo» si era raccomandata la signora. La nomina le varrà, al funerale, gli onori militari; la Chiesa rifiuterà la cerimonia religiosa con il pretesto che non le erano stati richiesti i conforti d’uso, e anche questo diventerà un’occasione per celebrarla sulle pagine di «Le Figaro», con i lettori a polemizzare con monsignor Feltin, arcivescovo metropolita di Parigi. La capitale, il 28 febbraio, le aveva consegnato la grande medaglia della città, e i colleghi dell’Académie Goncourt avevano pranzato a casa della loro presidente ormai immobilizzata: nel menu, ostriche, salmone alla russa, fricassea di pollo allo champagne, vino Blanc de blancs; quando riceveva – non Marlene Dietrich, non Truman Capote, non certo Sartre, ma la regina del Belgio – Colette si serviva dal Grand Véfour, il celebre ristorante all’angolo del Palais-Royal, dove un tempo andava col vicino Cocteau, pasteggiando a Pommery, lo champagne che Chéri beveva «prima e dopo». «Si fatica a immaginarla con grandi cordoni e patacche» protestavano già da tempo gli amici: «Preferisco la Colette della Treille muscate, bella tonda, in costume da bagno, che innaffiava i peperoni». E Natalie Barney, sentendo della coccarda della Légion d’honneur, si era precipitata a offrirle qualche ranuncolo rosso «che sta molto meglio all’occhiello».
La fama di Gigi esplose a livello mondiale quando Colette, già da un lustro, era stata accompagnata così trionfalmente, lei che odiava i funerali, al Père-Lachaise: e per la cronaca va detto che, anche alla Liberazione, a nessuno era venuto in mente di rimproverarle, come era successo per altri scrittori, le pubblicazioni su riviste compromesse con l’occupazione nazista, o le cene con lo scrittore Ernst Jünger della Wehrmacht, dove Goudeket parlava con lui così animatamente che tutti stavano ad ascoltarli in silenzio. Aragon, il poeta comunista, disse: «È la più grande scrittrice francese», e non se ne parlò più. È dunque il 1958, e siamo di nuovo negli Stati Uniti, a Hollywood; Vincente Minnelli, il maestro dei musical sfarzosi ed eleganti, convocò tre attori francesi – ci vuole il French touch – per il film musicale Gigi: Leslie Caron, Louis Jourdan, e, nel ruolo di uno zio di Gaston, Maurice Chevalier. Chevalier, durante la Liberazione, entrava e usciva di galera per aver lavorato durante l’occupazione, ma ormai tutto questo era davvero lontano, e lui, pigmalione di Gigi, si inserì nella storia con eccezionale fascino e un po’ di sottesa ironia per quella favola trasognata. Certo, la sua presenza spezzava il gineceo che circonda Gigi, e il senso stesso di quella sapiente, militarizzata contesa femminile ai poteri dell’uomo; ma il cinema ha le sue ragioni, il film guadagnò nove Oscar e fu universalmente amato. Gigi diventò uno dei miti del nostro mondo. Resta il mistero della sua inarrivabile grazia letteraria. Al grande lavoro profuso in un così breve volgere di pagine – la risurrezione di tutta un’epoca – si è fatto cenno, e per la capacità di non farlo sentire, gioca il navigato talento di Colette, grande soprattutto nelle forme brevi. Eccezionale, anche per lei, l’uso perseverante del non detto, l’insistenza su quello che appare marginale e, sul più bello, il sorvolo leggero, o, per il passaggio capitale, il taglio netto. All’inizio, nel 1944, Colette pubblicò Gigi insieme a un altro racconto, La Dame du photographe, in cui molto si parla di fili di perle, venduti durante la Grande guerra. C’era poi un poema in prosa, e infine Nozze, il racconto del suo primo matrimonio con Gauthier-Villars: quando Sidonie-Gabrielle Colette – di simpatica e onorevole famiglia «spiantata», ma «famosa per la sua meravigliosa capigliatura» – venne corteggiata assiduamente da «uno dei più brillanti clubmen parigini», come scrisse il pettegolo quotidiano «Gil Blas» il 4 maggio 1893: «Non si dice che sia stata pronunciata la parola matrimonio. Pure raccomandiamo vivamente alla graziosa proprietaria delle due inverosimili trecce d’oro di non concedere i suoi baci che con l’anello al dito». Gabrielle aveva intatte tutte le sue illusioni, era così innocente e quasi stupida («attardée»), all’epoca, prima della dura iniziazione cui si stava avviando, con quel marito troppo brioso, a Parigi. Il prestigioso matrimonio si fece, e Nozze lo racconta. Nel 1945, Colette ripubblicò la raccolta che si apre con Gigi, ma nell’occasione soppresse Nozze dalla selezione, e vi fece entrare il bellissimo Bambino malato, i sogni di evasione e volo di un piccolo, allettato. È possibile che, nel cuore della guerra e della malattia, sia riaffiorata alla memoria di Colette un’epoca sentimentale tanto lontana, e quasi fuori dalla sua storia, quando, come Gigi, era piena di illusioni. Nozze andava allontanato da Gigi, era il risvolto, troppo realistico e autobiografico, di quella fase appena adolescenziale dei sogni d’amore, che pure l’autrice aveva conosciuto; ma in quella notte della Storia e della vita che era il ’42 le capitò di sentirla, e di scriverla, in forma di incantesimo.