Il geranio e altre storie, di Flannery O'Connor

Minimum fax porta in libreria Il geranio e altre storie, tradotto da Gaja Cenciarelli. Il libro rappresenta la summa ideale dei suoi temi: l’irruzione del numinoso nella vita quotidiana, la povertà di spirito e quella materiale, il razzismo e l’intolleranza, la grandezza e la miseria di un Sud insieme nobile e senza riscatto.

Cattedrale vi propone la prefazione al libro a cura di Romana Petri, per gentile concessione dell’editore.


Romana Petri

Non mi stupirei se scoprissi che il Nobel portoghese, José Saramago, avesse letto «Il geranio» di Flannery O’Connor prima di scrivere La caverna. In fondo si tratta di due vecchi che avevano la loro vita lontano dalla città, e che le loro figlie hanno sradicato per portarli a vivere all’inferno. Nel primo caso, in uno di quegli appartamenti un po’ periferici fatti di tanti piani e tanti lunghissimi corridoi con una porta dietro l’altra, nel secondo, addirittura in una casa dentro un centro commerciale. Un vecchio, in questi casi, su qualcosa deve fissarsi, e quello di O’Connor sceglie un vaso di geranio che non è nemmeno suo. Sta sul davanzale di una finestra di fronte. Quella pianta racchiude il suo passato, diventa il suo passato. Dunque tutto. La vecchiaia può essere fragile come un vaso di coccio. E i figli che scelgono, di certo in buona fede, per i loro anziani genitori, possono commettere danni pericolosi. Non è normale guardare tutto il giorno un geranio. E non è normale sentirsi morire quando un colpo di vento lo fa cadere e laggiù, nel cortile, non ne restano che le radici a spuntare dalla terra. Ma non lo è per i figli; lo è invece per quei vecchi che sono stati trascinati via da una stabilità mentale. Si pensa sempre che per un anziano l’assistenza sia tutto.
O’Connor sa che gli occhi ci vedono male, e che l’entrata migliore, per vederci chiaro, è sempre quella del cuore. O’Connor diceva: «Chi non conosce tutte le cose non può essere ateo. Solo Dio è ateo. Il diavolo è il più grande credente e ha le sue ragioni». Come darle torto. In chi dovrebbe credere Dio, in se stesso? Il diavolo, invece (secondo John Milton un’invenzione di Dio), è talmente credente da essere diventato l’avversario del Bene. Ma tra i due può esserci collaborazione. Chi finisce nella famosa «terra del diavolo» ha spesso più possibilità di riconoscere la grazia rispetto a chi non si è mai perso. Dio, in genere, preferisce i reietti, i miscredenti, se non addirittura gli assassini (se pensiamo al Balordo del racconto «Un brav’uomo è difficile da trovare»). I più arditi del male si lasciano tentare, seguono l’aria peggiore usmando, e quando si trovano nel territorio del diavolo, all’inizio nemmeno se ne accorgono. Sarà quando cominceranno a vedere l’invisibile, quando avranno la sensazione di udire un richiamo repellente e attraente insieme. Lo sentono, ma lo rifiutano, come Haze, protagonista dello straordinario racconto «Il pelapatate» che poi, rivisto con la meticolosità tipica della scrittrice americana, diventerà il terzo capitolo del suo primo romanzo: La saggezza nel sangue. Nel racconto, intuita la possibilità della grazia (che non è mai un favore, semmai una necessaria dannazione), Haze si limita a camminare con dei sassi dentro le scarpe per punire la sua presunzione. Nel romanzo sceglierà ben altro. Perché la grazia, tutto sta nell’accettarla, e poi si entra nel dramma per sempre. I prescelti, si sa, sono tali per soffrire, per dare e darsi, per sacrificarsi. Insomma, per fare nel loro piccolo quello che il Figlio di Dio ha fatto per noi. La grazia è dunque un dono doloroso, difficile da accettare essendo uomini di questo mondo. Del resto, per avvicinarsi al Cristo che si è fatto uomo, e dunque essere meno Dio per comprenderci meglio, l’uomo dovrà fare lo sforzo di essere un po’ meno uomo per avvicinarsi al Signore ed esserne degno.
A Flannery O’Connor capita spesso di scrivere dei racconti che poi diventeranno capitoli di un romanzo. E non è nemmeno difficile accorgersene, perché finiscono lasciando al lettore molte possibilità per proseguire da solo, se davvero si è lasciato suggestionare dalla scrittura incendiaria dell’autrice, oppure con la certezza che sarà lei stessa prima o poi a rimetterci le mani. O’Connor diceva che scrivere romanzi era un impegno arduo e doloroso. Una vera sofferenza. In realtà era la sua malattia a renderle il percorso difficile, quel lupus eritematoso che scoperse di avere giovanissima e che aveva già ucciso suo padre Ed. L’unico della famiglia che aveva intuito il potenziale di quella ragazzina formidabile, diversa da tutte le altre. Il lupus era all’epoca una malattia molto debilitante e che portava alla morte. C’erano giorni in cui la scrittrice faceva fatica anche a battere a macchina, le sembrava che i tasti opponessero una forte resistenza. Era per questa ragione che considerava i romanzi una sfida, non certo per mancanza di fiato creativo.
Qualche volta, soprattutto quando era sotto l’effetto dopante del cortisone (e lo era purtroppo spesso), le idee non le davano pace nemmeno di notte. Davanti ai suoi occhi di un azzurro profondo, molto scuro, che puntava su un soffitto nero, devono esserle sfilate davanti storie meravigliose che poi, di giorno, non riusciva a rimettere insieme. La mente galoppava ben più veloce delle sue piccole mani. È per questo che per ben due volte ha riesumato qualche suo racconto nel quale sentiva che l’incompiuto prometteva moltissimo. E non sbagliandosi, dato che ne sono venuti fuori La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti. Titoli biblici e apocalittici, che già racchiudono il suo cattolicesimo ortodosso nemico di ogni perbenismo e bigottismo Quando era già molto malata e sapeva che il tempo a lei concesso si stava accorciando, ha accarezzato l’idea di scrivere un romanzo (ci metteva sempre cinque anni) tratto dal racconto «Amore e rabbia». Non si fa fatica a crederle e a rimpiangere che questa immensa autrice non abbia avuto il tempo per farlo, perché c’erano tutti i temi a lei cari. Un padre un po’ despota che ha un colpo apoplettico, una madre generalessa che solo perché donna si rifiuta di prendere il comando della casa, e Walter, il figlio designato, che invece si crogiola in lunghe, teologiche e filosofiche letture che sua madre ritiene inutili. È nel finale che si sente la necessaria nascita del romanzo, quando andando a sfogliare a caso un libro di suo figlio, la madre legge di un re con una spada che gli spunta dalla bocca e che rade al suolo tutto quello che trova sulla sua strada. Allora, in un soprassalto, solo ripensando a quelle parole, si rende conto che quel re è Gesù, lo stesso che non è venuto a portarci la pace, bensì la spada, e che ci esorta a lasciare l’ombra in favore della luce. È sempre una questione di grazia che ci viene offerta quando ci smarriamo, e accettarla è una sfida travolgente. Il più delle volte, però, chi riceve la «chiamata» sa che non potrà tirarsi indietro. Nasce così quella lunga lotta che porterà alla dolorosa accettazione. Pensiamo a Haze che voleva predicare una religione senza Cristo, e ricordiamo la risposta di Flannery a una cena durante la quale è stata sempre muta; quando però ha sentito la padrona di casa dire che l’eucarestia era ormai solo un simbolo, rischiando di essere blasfema le ha risposto che personalmente di un simbolo non sapeva cosa farsene. Per lei la religione, la vera fede significava credere ciecamente nell’eucarestia, a quel miracolo che si riproduceva ogni volta durante la messa, e cioè che il figlio si era fatto uomo diventando per noi di carne, sangue e ossa.
Ma la O’Connor, proprio a dispetto di ogni retorica bigotta, era anche una cattolica ortodossa progressista, e lo esprime con chiarezza e dolore nel racconto «Il barbiere». Qui il tema sul quale dobbiamo ragionare è che i bifolchi hanno sempre la meglio su chi ha studiato. Se lo mangiano proprio in insalata, perché chi ha studiato conosce il dubbio. Il bifolco mai. E così, parlando di certe votazioni e del candidato da scegliere, il povero cliente uscirà sbeffeggiato. Le sue idee progressiste fanno ridere. Che farà allora il pover’uomo? Si scriverà una specie di relazione che farà leggere a una distratta e disinteressata moglie, per poi tornare trionfante dal barbiere e dai suoi bifolchi clienti, che della conversazione precedente si erano addirittura dimenticati. Sarà lui a ricordarla, e a leggere quelle parole in modo stentato, così trascinato dalla timidezza che tutti rideranno di lui.
Chi ha cervello sembra non avere molta fortuna nei racconti di O’Connor. Perché averne significa essere diversi dalla massa. E i numeri contano, i numeri possono far apparire un uomo di buon senso un perfetto idiota agli occhi degli altri. La vera difficoltà sarà dimostrare il contrario.
In «La Festa delle azalee», per esempio, la O’Connor me la immagino con arco e frecce per scrivere quell’impeccabile racconto sulla idiozia umana. E questa volta non salva nessuno. C’è un paese che ha il suo momento di gloria durante la Festa delle azalee, sembra non coltivino altro e pretendono che tutti comprino il distintivo. Be’, una sciocchezza. Che potrà mai succedere a chi si rifiuta? Dipende da chi è: se è uno che ha fama di mezzo matto può accadergli di tutto, anche che lo chiudano in una prigione improvvisata e sporca in compagnia di una capra. E che lì dentro lo tengano giorni e giorni, per tirarlo fuori a loro comodo. Non esiste il loro comodo senza rischi. Quell’uomo era già disturbato di suo, e cosa fa? Torna in tribunale con un fucile e ne fa secchi sei. Poi va in una prigione psichiatrica senza muovere un muscolo.
Nel paesotto, però, arriva il nipote di due anziane signore che lo vezzeggiano come fosse ancora un bimbetto. Ha le sue idee, è convinto che il mezzo matto abbia ragione e chi gli dà manforte è una vicina di casa, una ragazza bella e snob. Quell’uomo ha agito così perché è un santo. Forse è addirittura Cristo. Lo devono salvare. Ma non si tratta di farlo evadere. Lui è uno scrittore e lei una saggista, scriveranno qualcosa che lo riabiliterà. La gente del paese dovrà vergognarsi di quello che gli ha fatto. Non si tratta così un uomo. E poi si meravigliano pure che sia tornato a fare una strage? Era il minimo. Non hanno scelta, lo devono conoscere a tutti i costi. Ci andranno con la macchina di lei, si faranno passare per dei suoi parenti. Quell’uomo, quel Cristo d’uomo va salvato. Al lettore giudicare un finale davvero elettrizzante. Era un Cristo o un semplice pazzo? Ma i semplici pazzi non hanno molte possibilità di trovarsi lì, sul nostro cammino, proprio in nome di Cristo?

Flannery O’Connor vive nel ranch di sua madre, Andalusia, quasi come una reclusa. Non mancano però le volte che parte da sola per qualche convegno con le sue stampelle metalliche e scintillanti, lasciando sua madre, Regina Cline, in apnea fino al suo ritorno. C’è un rapporto complesso tra quelle due donne costrette dalla malattia a vivere sotto lo stesso tetto. Si vogliono bene, la madre la cura con tutte le attenzioni, ma sono diverse. Basti pensare che quando Flannery le dà qualcosa di suo da leggere, il più delle volte la trova con i fogli in grembo: addormentata. Quando le viene chiesto cosa la fa addormentare, in genere risponde che fa fatica a seguire, non ci capisce molto. E poi non le piacciono tutti quei balordi che ci mette dentro. «In casa nostra di certo non ne hai mai visti».
Flannery si limita ad alzare gli occhi al cielo, non vista. Ha tanti amici che le scrivono, che vanno a trovarla per parlare della sua letteratura. Ma le manca il conforto di casa, quello che avrebbe avuto di certo se suo padre non fosse morto così presto. Si consola con i polli e i pavoni (ne avrà anche ottanta), e quando torna dai suoi viaggi le piace dire che non vede l’ora di chiudersi con loro nel pollaio per dare da mangiare a chi non sa che fa la scrittrice.
Spesso li dipinge, e sua madre li appende con gioia in casa. «Se smettessi di scrivere quelle strane cose e ti dedicassi solo alla pittura. Una pittura che da queste parti tutti capiscono. Chissà quanti quadri venderesti».
La O’Connor ci patisce, ma fino a un certo punto. È grata a quel donnone che la facilita in tutto: non importa che non capisca quel che scrive. L’importante è che faccia di tutto per lasciarglielo fare al meglio.
Quando la zia foraggerà il loro viaggio a Lourdes, a Flannery viene quasi l’orticaria. Lei a queste cose da pagani non crede affatto. Ma la povera zia ha pagato tutto. Ci deve proprio andare. Ma al momento di dover entrare in quelle acque che le fanno anche un po’ orrore perché secondo lei sporche e infette, si dimentica di chiedere a Dio di farla guarire. Gli chiede invece solo di farla essere una brava scrittrice. Di darle il tempo di finire il suo romanzo. In molti potrebbero stupirsi. Non di certo chi la conosce a fondo. Flannery considerava la malattia il più bel viaggio che si potesse fare prima di morire. L’unica forma di conoscenza che ci viene concessa in vita, insomma un privilegio.
Quando nelle prime ore del 3 agosto del 1964 è mancata in ospedale, il giorno prima era riuscita a mandare le bozze della sua ultima raccolta di racconti all’editore.
Il giorno dei suoi funerali non c’era molta gente. I suoi più cari amici vivevano lontani. Questa donna che non ha mai avuto un amore, che si è innamorata senza mai essere ricambiata e che alla fine si è rassegnata a una vita senza la tanto desiderata passione, non si è nemmeno mai vergognata di scriverlo nei suoi diari. Lo ha ammesso: aveva pensieri erotici. Spesso, in concomitanza a quegli eccessi, mangiava anche parecchi dolci. A questa straordinaria donna, a questa campionessa di un immenso atletismo letterario, non restò altro che la madre. Quella che si addormentava mentre leggeva le sue cose. Ma quel giorno, mentre Regina Cline riceveva le condoglianze, non faceva altro che ripetere che sua figlia Flannery O’Connor era stata una delle più grandi scrittrici d’America.
Si era ricreduta? Si sarebbe ricreduta in seguito? La realtà è che senza quel soldato accanto, Flannery sarebbe vissuta molto meno. Regina Cline aveva fatto il suo miracolo. Anche quello di accettare proprio quel giorno, e per la prima volta, il nome che Flannery aveva scelto per sé. Non quel Mary Flannery con il quale l’aveva chiamata tutta la vita. Ma quel Flannery che andava bene per un uomo come per una donna. Perché, amara realtà, fin dall’inizio era consapevole che se qualcuno doveva comprare un suo libro, avrebbe preferito farlo sapendo che a scriverlo era stato un uomo. Al dolore di essere malata e di essere donna, ha dovuto spesso aggiungere gli scherni dei giornalisti che la definivano una zitella storpia che viveva con la madre perché non indipendente. Amore e rabbia hanno dominato la sua vita. L’amore le ha fatto accettare la grazia, a qualunque prezzo. Ma la rabbia l’ha tenuta in piedi fino all’ultimo. E lei non aveva dubbi, per amare ci voleva anche tanta, tantissima rabbia.