L'avanguardismo di Willa Cather

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di Marina Bisogno

Prima del movimento femminista, prima di qualunque considerazione sul ruolo della donna nella società moderna, c’è stata Willa Cather, scrittrice e giornalista, premio Pulitzer nel 1923. Autrice di racconti, romanzi e articoli di critica teatrale, ci sorprende ancora oggi per la lucidità con cui ha scandagliato l’animo femminile. I suoi personaggi, da Marian Forrester a Myra Driscoll, sono perennemente in bilico tra deferenza e impertinenza, tra buone maniere e impetuosità. Cresciuta nel bel mezzo dell’era dei pionieri, Willa Cather modella il suo sguardo nel selvaggio West. La nostalgia per il tempo che va, la caducità degli eventi, le pennellate di parole per fissare sulla pagina la meraviglia hanno a che fare con la sua biografia (la passione per la natura, i cambiamenti nella società americana tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento). Ma è il periodo newyorkese a portarle la fama e la riconoscibilità, prima come articolista, poi come narratrice. Quando giunge a New York, Willa non è nuova al mondo del giornalismo. A Pittsburgh, dopo la laurea, aveva già lavorato come editor al magazine The Home Monthly. Nella Grande Mela lega il suo nome a quello del McClure’s Magazine, un periodico che pubblica, tra gli altri, Kipling, London, Twain e Stevenson, ricoprendo col tempo un ruolo centrale in redazione. Tuttavia, Willa non è soddisfatta. Questa insoddisfazione la induce a lasciare il lavoro in redazione per dedicarsi in toto alla narrativa. Ha già scritto La ragazza boema, uno dei racconti che Passigli editore (traduzione di Federico Mazzocchi) ha inserito nella raccolta La ragazza boema, quattro racconti. Siamo nel 1912 e il personaggio di Clara Vavrika dà scandalo pronunciando la sua sentenza sul matrimonio:

Vedi, ti prendono di mira, Nils; voglio dire, se sei una donna.
Dicono che cominci a deperire. È questo che ci spinge a sposarci; non sopportiamo le risatine
”.  

Il cinismo e la sfrontatezza di questa frase fanno il paio con i sensi di colpa che affollano l’animo di Clara e di ogni donna occidentale. Clara ha amato profondamente Nils, un uomo che le ha spezzato il cuore. Si rivedono, lui è un viaggiatore senza radici, lei una moglie e una donna intiepidita dagli eventi, non più la ragazza indomita di una volta. I dissidi interiori di Clara sono quelli che racconterà tra gli anni Quaranta e Cinquanta Alba de Céspedes (Dalla parte di lei, Il quaderno proibito, ecc.), aprendo la strada al dibattito femminista e puntando l’attenzione su ciò che si agita nel cuore delle donne che fin da bambine sono bombardate dall’urgenza di trovarsi un marito. Lo dirà anche Jean Rhys, nella sua autobiografia, Smile please (Sellerio, traduzione di Anna Maria Torriglia):

 

A quell’epoca si supponeva che una ragazza dovesse sposarsi, era la sua missione nella vita, ed era una fallita se non lo faceva. Era una cosa terribile diventare una vecchia signorina sullo scaffale, come la definivano. Il fatto che io conoscessi parecchie donne nubili che sembravano completamente felici, in realtà più felici e allegre delle donne sposate, non metteva assolutamente in dubbio questa supposizione.

 

Il Pulitzer arriva in seguito e con altri registri. Ad aggiudicarsi il premio è Uno dei nostri, il romanzo che mira al cuore di un’America ormai incapace di sognare, distrutta dalla guerra. Lo sguardo è quello di Claude Wheeler, un arruolato volontario deluso da sé stesso e dal circostante. Nel 1923 viene pubblicato Una signora perduta (Adelphi editore, traduzione di Eva Kampmann), romanzo breve di neanche centocinquanta pagine. La signora in questione è Marian Forrester, altro personaggio destinato a riecheggiare nell’immaginario dei lettori. Bellezza intensa e naturale, Marian è un’amante della vita. Fa parte di una classe sociale agiata, che, partita alla conquista del West, vi ha poi radicato la sua opulenza. Il capitano Forrester, suo marito, è un proprietario terriero, ex pioniere. Intorno ai due e alla loro tenuta, cresce una generazione di futuri professionisti, a tratti spietata, scettica verso un sogno americano nel quale non si riconosce. Mentre tutto cambia, non per forza in meglio, risucchiando i simboli di un’era passata, l’unica a non mutare di una virgola è Mrs Forrester. Non è in grado di rinunciare agli agi, alle feste, alle frequentazioni mondane. Ravvivare i salotti e rianimare gli spiriti di uomini annoiati la tiene in vita. A differenza del consorte e di tanti amici che periscono sotto il peso della tristezza, Marian Forrester, dopo un momento di sbandamento, ritrova il guizzo per vivere alla sua maniera. Niel Pommeroy, devoto alla grazia di Mrs Forrester fin da bambino - l’unico che con gli anni sarà in grado di parlare e di raccontare di lei - la tiene d’occhio. Mrs Forrester brilla solo nella ricchezza: disposta a fermare il tempo per non soccombere, riemerge dalle ceneri per restare uguale a se stessa, in mezzo a un mucchio di fantasmi. Marian tenta di trattenere l’incanto, di opporsi al deterioramento, all’alterazione. Non vi si oppone, arrendendosi alla malattia e alla grandezza di certi eventi, Myra Driscoll, protagonista de Il mio nemico mortale, altro romanzo breve (Adelphi, traduzione di Monica Pareschi), apparso per la prima volta in America nel 1926. Myra è una donna chiacchierata: da ragazza è scappata con un uomo, rinunciando a un’eredità sostanziosa. La sua altezzosità e il suo buon gusto appaiono fenomenali agli occhi di Nellie, la ragazzina, voce narrante, che incontra Myra a New York, dove va in vacanza insieme a sua zia Lydia. Nellie ritroverà Myra quando niente assomiglierà ai fasti di un tempo, neanche loro due.
L’espediente di affidare a personaggi giovani la focale su protagoniste attempate, espressione di un’epoca al tramonto, sintetizza bene il punto di osservazione della scrittrice. A New York non è inusuale incontrarla tra Park Avenue e Washington Square Park. Vive con Edith Lewis, giornalista ed autrice del memoir Willa Cather Living, che ci risulta non tradotto in Italia. La sua identità sessuale è oggetto di maldicenze e le sue scelte sono antesignane di un senso comune di modernità, ancora inaccessibile. Willa ed Edith viaggiano molto, arrivano in Francia e in Inghilterra, paesi molto presenti nel racconto La bellezza di un tempo, pubblicato postumo e proposto da Sellerio nella raccolta La bellezza di un tempo e altri racconti (traduzione di Domenico Scarpa).
Il personaggio di Gabrielle Longstreet polarizza tutti i temi cari dalla Cather: la celebrazione del bello, la malinconia che si cristallizza nello sguardo di un vecchio amico di Gabrielle, Seabury, al quale l’autrice fa pronunciare questa frase: “È così triste quando queste donne bellissime invecchiano, non è vero? E del resto, non ce ne sono mai troppe in circolazione”. Willa Cather è alla ricerca dell’imperituro, ma più lo cerca, più si accorge che nulla sfugge al cambiamento. L’esitare sui particolari degli ambienti esterni per poi concentrarsi sullo stato d’animo dei personaggi è un espediente per ricreare specularità. Il suo è un realismo onirico, ancora lontano dal disincanto del modernismo americano. La celebrazione della bellezza femminile le ha fornito il pretesto per sondare anche l’emotività delle sue eroine, amate o detestate, a seconda dei casi. Leggere la Cather vuol dire immergersi in un mondo che non esiste più, fatto di party, di salotti animati e baciamano. Ma vuol dire anche stupirsi di una modernità di fondo, che rende questa autrice affascinante e in qualche modo avanguardista.

 

I fantasmi e il metaverso di Jeanette Winterson


di Debora Lambruschini


Se la letteratura è lo specchio dei tempi, preoccupa ma non sorprende che in questi nostri tempi particolarmente bui il genere gotico viva una stagione ricchissima, tra riletture di classici e nuove esplorazioni di un universo letterario la cui influenza non si è mai davvero sopita ma che, casomai, si rinnova, rispondendo alle paure profonde dell’essere umano di ogni tempo. Nato negli ultimi anni del Settecento e a lungo considerato letteratura meramente popolare, forma di evasione che nulla aveva a che spartire con il novel che di lì a poco avrebbe consolidato la propria egemonia letteraria, il gotico si declina fin da principio in tipologie differenti ma, allo stesso tempo, gli elementi fondanti del genere sono ben distinguibili: l’ambientazione tetra, le scene notturne, il confine sempre più labile tra realtà e immaginazione, l’isolamento dei personaggi (da intendersi tanto come luoghi in cui si svolge l’azione quanto come emarginazione sociale), la presenza di elementi sovrannaturali, la suspence che attraversa la narrazione. Un genere estremamente popolare che influenza in modo profondo la storia letteraria tra Sette e Ottocento, dal vecchio continente fino al nuovo mondo e, mutate le ambientazioni, dismessi – ma non del tutto – i castelli diroccati, le giovani donne facilmente suggestionabili e corruttibili dal malvagio di turno, il gotico ha saputo rinnovarsi in forme nuove fino al nostro contemporaneo. Al di là della fascinazione e delle molteplici possibilità letterarie, la ragione ancora valida delle potenzialità del gotico e della sua popolarità è la stessa individuata da Todorov negli anni Novanta quando, all’accendersi finalmente dell’interesse della critica nei confronti di questo genere, per primo attribuiva al gotico una funzione psicanalitica, quale mezzo per esorcizzare le paure della società entro cui si sviluppava. Tesi che resta tuttora valida e confermata anche dalla produzione letteraria più recente, con la ripresa di istanze tipiche del genere e il tentativo di dare voce alle paure più profonde dell’uomo contemporaneo: il gotico, dunque, come genere letterario che si interroga sulla società in cui viviamo e dunque anche sulle possibilità della tecnologia, i limiti della scienza, il confine tra vita e morte. La progressiva secolarizzazione del mondo non cancella il mistero ma, al contrario, la realtà in cui siamo immersi genera semmai altri dubbi e problemi complessi e la letteratura – gotica – è il mezzo per porsi nuovi interrogativi. I discorsi su etica, fede, reale e sovrannaturale, si intrecciano dunque a riflessioni su intelligenza artificiale e metaverso, coscienza e spazio corporeo, terreno fertile anche per l’immaginario letterario.
È con una sezione denominata “dispositivi” e con tre racconti legati alla tecnologia che si apre l’interessante raccolta La riva notturna del fiume della scrittrice britannica Jeanette Winterson, tradotta da Chiara Spallina Rocca per Mondadori, e che comprende tredici storie gotiche legate, in modi diversi, al soprannaturale, alcune, le più salde, connesse alla tradizione, altre alle derive del mondo contemporaneo.
Il volume di Winterson si inserisce in un solco di opere contemporanee che, come raccolte di racconti, comprendono, per esempio, Gotico londinese di Nicholas Royle uscito per 8tto edizioni un paio di anni fa, le storie perturbanti di Mariana Enriquez, ma anche il più recente Qualcosa là fuori curata da Jordan Peele e John Joseph Adams e appena uscita per Sellerio – qui la virata è più nettamente verso l’horror, ma non mancano punti di contatto. I racconti di Winterson riprendono le istanze più caratteristiche del gotico e si muovono nel mondo contemporaneo per indagarne le ambiguità, le problematiche, legando alla narrazione di genere con tutte le sue peculiarità evidenti tematiche e spunti interessanti, riprendendo archetipi per fondere insieme tangibile e intangibile.
I tredici racconti della raccolta sono, si accennava, divisi in sezioni: dispositivi, luoghi, persone, visitazioni, tutti narrati in prima persona con un punto di vista interno – e inaffidabile – alla storia, creando una connessione diretta profonda con il lettore e la sua più intima partecipazione alla vicenda. Punto di vista che si sposta tra personaggi diversi per genere, età, condizione, una voce autoriale sempre salda e riconoscibile e una narrazione che attraverso la parola crea l’atmosfera, il mistero, l’ambiguità appunto per mezzo di una lingua ricercata, letteraria a tratti, la costruzione di un sistema di immagini funzionale.
La maggior parte delle storie di questa raccolta sono autonome l’una dall’altra e a tenere insieme l’opera il genere di appartenenza e l’idea di fondo: che mondo tangibile e mondo intangibile non siano realtà parallele ma più vicine e capaci di influenzarsi:

 

Per noi, il mondo invisibile non è parallelo al mondo visibile, non scorre al suo fianco o nelle sue vicinanze. Non sta di sopra, né di sotto. Altri mondi, altre entità, attraversano il nostro mondo, pullulano al suo interno, lo inceneriscono, lo piegano, lo alterano con la loro presenza.

 

Ecco, dunque, che il manifestarsi del soprannaturale può avvenire anche in luoghi ordinari, tra le stanze di una casa di città, in quel metaverso dove riscrivere la propria storia e abbandonare la materialità del corpo, nelle case che abitiamo, non sempre immediatamente riconoscibile come tale. Nel racconto eponimo l’idea di altri mondi che «attraversano il nostro mondo» si lega all’elemento naturale, all’acqua, tanto nella metafora quanto nella lingua:

 

Credevo che il mondo fosse una distesa di terraferma dai confini definiti. Credevo che la vita e la morte fossero due stati separati. Ora so che tutto è liquido, poroso, tutt’altro che solido.

 

Il volume di Winterson è interessante anche per la sua stessa struttura: in apertura una breve efficace introduzione attraverso cui l’autrice ripercorre velocemente le tappe più salienti del genere gotico dalle origini alla contemporaneità e che suggerisce l’universo letterario e le influenze su cui tale raccolta si fonda, oltre a fornire al lettore una prima mappa con cui orientarsi in queste storie, la malleabilità della materia, il legame con il contemporaneo, i timori e le questioni con le quali siamo chiamati a confrontarci, i sentimenti  e le paure che trascendono il tempo e lo spazio; ogni sezione è chiusa da una nota autobiografica, un racconto nel racconto, dove l’autrice riporta le sue esperienze con il soprannaturale, sezione che, francamente, sarebbe stato meglio evitare: immergersi in una narrazione significa come lettori siglare quel famoso patto di sospensione dell’incredulità in un tacito accordo con l’autore e, dunque, accettarne l’universo immaginifico; le sezioni autobiografiche e qui e là pure nella narrazione la domanda che si rincorre – e tu credi nei fantasmi? – rompe quel patto e in certa misura infrange il potere letterario dell’opera stessa.   
Il punto non è tanto chiederci se è vero oppure no, se crediamo o meno al soprannaturale, ma quanto la letteratura sia capace di spingerci oltre certe fragili certezze, farci osservare da un’angolazione diversa il mondo in cui siamo immersi, preferire il dubbio alle risposte semplicistiche. E, ancora, quanto la parola abbia la capacità di creare mondi, ammaliare, produrre un effetto sul lettore. Quelle di Winterson sono scelte con attenzione, riprendono i dettami del genere tentando di liberarlo da stereotipi e allo stesso tempo rifacendosi a un sistema consolidato di atmosfere, ambiguità sottili, non detto.
La traduzione di Chiara Spallina Rocca aderisce alla voce di Winterson, ne segue la musicalità, le ombre, l’indefinito – casomai un appunto all’editore per qualche refuso rimasto sulla pagina.
Nell’intreccio di elementi gotici tradizionali e tematiche contemporanee, attraverso il filtro del soprannaturale, ci interroghiamo su dolore, perdita, colpa e violenza. Lo sguardo dell’autrice indugia sulle relazioni, a partire dal racconto d’apertura, “App-arizioni” in cui al tema del lutto si lega la riflessione sulla violenza domestica, la manipolazione, le derive della tecnologia, in una tensione crescente fino all’inattesa svolta finale. All’indomani della scomparsa del marito, una donna pare essere perseguitata da quel che resta di lui e confluito in un’app che in un certo modo lo mantiene in vita, capace di interferire con la vita della moglie, controllarla, trovare nuovi modi per farle del male.

 

Quella notte non succede niente. Fatico a chiudere occhio, come mi succedeva quando lui rimaneva fuori fino a tardi e mi domandavo cosa avrebbe fatto, cosa mi avrebbe fatto, al suo ritorno. Il clic della porta d’ingresso che si chiudeva. Il rumore dei suoi passi. Com’è possibile che tanta paura si annidi in un passo?

 

La prospettiva interna, la narrazione in prima persona, funzionano perfettamente nelle storie e in questa in particolare, calando il lettore al centro della paura e avvicinandolo alla visione della protagonista della quale percepiamo i sensi all’erta, lo spettro dei sentimenti dalla paura allo sgomento fino, appunto, all’inatteso finale. L’io narrante ci cala al cuore delle storie ma è, per sua natura, inaffidabile e anche per questo particolarmente interessante e funzionale nell’ambito del gotico e di questi racconti. In “La pelliccia” e “Gli stivali”, ma anche in “Una storia di fantasmi senza fantasma” e “Il paese inesplorato”, l’io permette di osservare i fatti da due punti di vista differenti, ora di un personaggio della storia ora dell’altro, e confrontarsi con la malleabilità del reale, lo sguardo soggettivo sulle cose e, non da ultimo, le dinamiche delle relazioni. Nei primi due racconti, attraverso ora la voce della donna ora di quella dell’uomo, osserviamo una coppia percorrere sentieri sempre più oscuri, influenzati da una presenza malvagia rimasta a infestare la tenuta di campagna dove vivono per qualche tempo. Il male ha impregnato ogni cosa, un’antica storia di violenza e orrore indicibile aleggia in quelle stanze e si insinua tra loro, generando sospetto, gelosia, risvegliando una ferocia animale che forse era soltanto latente. Le ombre, pare suggerire l’autrice, fanno parte dell’essere umano, il loro manifestarsi fa leva su sentimenti latenti ma non del tutto estranei. È solo un altro modo di guardare le cose, è la verità a cui scegliamo di credere.

Cenavano a lume di candela: voleva essere una cosa romantica, ma le ombre sedevano a tavola con loro e due candele non bastavano a illuminare i piatti. Nel buio sembravano diversi, così, a poco a poco, diventarono diversi.

 

L’oscurità dentro il cuore degli uomini immaginata da Shirley Jackson nel suo mondo senza fantasmi – e forse per questo ancora più spaventosa – riecheggia nelle storie di Winterson che, pur intrecciandosi al soprannaturale spingono a chiedersi quanto della violenza sia influenzata dal mondo non tangibile o quanta, invece, sia già parte di questi uomini e queste donne, con le loro relazioni imperfette, violente, gli inganni, i desideri reconditi. Tra Shirley Jackson e Amparo Dàvila, i racconti di Winterson si avvicinano alle atmosfere perturbanti di Mariana Enriquez, ma ben salda la tradizione da cui derivano le sue ghost stories, quel gotico della tradizione che rivive pienamente in alcune storie di antiche dimore in rovina, scricchiolii notturni, morti violente, apparizioni.
Ecco, un altro elemento che mi pare interessante è la rappresentazione del tempo e la sua concezione:

 

Ancora oggi, se guardate attentamente, scoprirete che il passato si è accumulato in strati di tempo, sedimentandosi e comprimendosi, e tra quelli strati si annidano avvallamenti e gallerie dove quel che c’era prima non è del tutto scomparso, anzi, mantiene ancora la sua forma.

 

Se il mondo intangibile non è parallelo a quello tangibile ma «tutto è liquido, poroso», per certi versi lo è anche il tempo. Una porta che conduce a una vecchia stanza nell’ala non ristrutturata di un albergo di montagna dove alloggia, senza trovare pace, un esploratore del secolo scorso e dentro alla quale il tempo, tanto cronologico quanto atmosferico, si dilata, avvolge ogni cosa e persona al suo interno perdendo sempre più il contatto con lo scorrere regolare. È una finestra sul passato, ma un passato che è anche presente, confini labili e mutevoli. È quello che accade anche in un appartamento nel cuore di Londra, nella stanza per gli ospiti della casa affittata da una donna all’indomani del divorzio, dove un’antica presenza si fa sempre più concreta e svela la sua storia di tormento, infelicità, perdita.
C’è tutto l’armamentario del gotico che si rispetti in questi racconti: stanze segrete, apparizioni, paure notturne, donne imprigionate vittime della brutalità maschile, interferenze elettriche, la sensazione di mani gelide che si posano sulla nuca, la nebbia che sale nei boschi. Ma ci sono anche donne sole e ordinarie che attraversano un confine senza accorgersene, uomini in lutto per la perdita del compagno che non sanno più come fare a vivere e camminano in un limbo o, ancora, un sentimento a tenere in bilico tra la realtà e «il paese inesplorato». È proprio in questi aspetti, è proprio quando Winterson posa lo sguardo sull’intimità dei personaggi che la raccolta La riva notturna del fiume si inserisce perfettamente nella bibliografia dell’autrice, la postura autoriale simile a narrazioni autobiografiche come Perché essere felice se puoi essere normale?, l’ironia e l’io sfuggente di Scritto sul corpo.  
Forse il mondo che conosciamo non è «una distesa di terraferma dai confini definiti», forse è qualcosa di molto più complesso, inspiegabile con il filtro della ragione; forse, antiche credenze, timori e superstizioni devono fare i conti con le complicazioni derivanti dalla tecnologia e il confine tra ciò che è reale, tangibile, corporeo e ciò che non lo è trova nel metaverso il suo ultimo mistero.
E di sicuro, il gotico, non ha ancora esaurito la sua influenza nella conoscenza del mondo.

L'insurrezione letteraria di Armonía Somers

di Alice Pisu

Nel complesso panorama letterario latinoamericano occupa un posto rilevante dopo anni di marginalità Armonía Somers. Divenuta un’autrice di culto e tra le maggiori scrittrici femministe ispanoamericane, è ingiustamente rimasta sconosciuta in Italia sino al 2023, quando Ventanas edizioni pubblicò La donna nuda grazie alla lungimiranza di Laura Putti che ha curato anche la traduzione e la selezione dei racconti Morte per scorpione usciti tra il 1953 e il 1988.
Somers ha definito con le sue opere una personale letteratura attraverso una peculiare poetica del disastro, dalla prosa tersa e fosca al contempo, innovativa per temi ritenuti rivoluzionari per il secondo Novecento e per la capacità di generare una destabilizzazione totale nel lettore ancora oggi, a oltre settant’anni dalla prima uscita.
Determinante l’influenza avuta dai luoghi natii (nacque a Pando nel 1914). Paese di luci e ombre, con un alto tasso di criminalità ma al contempo progressista per la netta divisione tra Stato e Chiesa e per la tutela dei diritti (risalgono al 1877 l’obbligo scolastico generale, ben quarant’anni prima della Germania, e al 1913 l’introduzione del divorzio per volontà della donna), l’Uruguay divenne nel tempo la patria di grandi voci letterarie.
Somers assorbì precocemente la necessità di giustizia e l’attenzione per le fragilità sociali, fece proprie le grandi contraddizioni della società uruguaiana in cui si formò, e seppe tradurre le istanze femministe in ogni sua opera generando accesi dibattiti per i temi affrontati e per la complessità della prosa, come dimostrato dal clamore generato per l’uscita de La donna nuda nel 1953.
“Il suo spagnolo è immaginifico – ha dichiarato Laura Putti su Tuttolibri –. Quando sembra pieno di riferimenti, quando sembra che tu lo debba decodificare per rendere la vita un po’ più facile al lettore, è valido in realtà soltanto quello che leggi. E così devi tradurre. Parola dopo parola. Senza domandarti il perché”.
Ogni opera di Somers trasuda dolore e desiderio, impasta di continuo una materia rimaneggiata su traumi e svolte necessarie, anche per le influenze subite negli anni di insegnamento nei quartieri marginali di Montevideo che la portarono a compiere studi significativi sul disagio e la criminalità giovanili.
Nel tempo Somers continuò a misurarsi in ugual misura con forme brevi, novelle e romanzi, anche per affrontare il difficile rapporto con la malattia che segnò gli ultimi venticinque anni della sua vita. Furono le discussioni innescate dai suoi libri a portare la critica a focalizzarsi sulla sua letteratura, all’inizio con profondo scetticismo e solo successivamente riconoscendone un rilievo tale da inserire Somers tra le voci letterarie uruguaiane alternative e eclettiche, accanto a Felisberto Hernández, Horacio Quiroga, Juan Carlos Onetti, Mario Levrero, tra gli altri.
La matrice anticonvenzionale di scrittura e vita di Somers incise nella generale discordanza sulla sua opera. Un esempio su tutti il passo indietro di Mario Benedetti rispetto al giudizio negativo espresso per il suo esordio. Dieci anni dopo quella uscita prese atto della grandezza e della profonda originalità di una narratrice che in particolare con i suoi racconti meritava di essere antologizzata, come suggerì nel contributo critico apparso nel 1964 poi confluito nel Saggio sulla letteratura uruguaiana del XX secolo.
Benedetti rimase affascinato dalle implicazioni metafisiche di questa letteratura anomala, della quale sottolineò la capacità di celebrare orrori senza redenzione in un destino cieco che condanna l’essere umano alla miseria e a una solitudine inesorabile.
Tutto ricade in una dimensione perversa, allucinata, il cui senso non sempre è chiaro, sulla base della definizione dell’esistenza concepita dall’autrice come un gioco dimenticato dalla morte. Solo le opere successive avrebbero chiarito la visione di Benedetti in merito a Somers, per condurlo ad affermare che seppur con i limiti di un esordio, le sue prime storie non si riducono a manierismo ma palesano un’angustia metafisica.
Somers risultò come una scrittrice perennemente estranea al canone, eclettica e anomala, anche rispetto ai suoi contemporanei. Le sue storie scatenarono presto nette divisioni tra quanti ne elogiavano l’originalità formale e quanti ne denunciavano il caos e la mancanza di senso. Quel che sfuggiva era la straordinaria capacità di far coesistere sulla pagina scenari capaci di suscitare emozioni contraddittorie e vivide, di produrre compassione autentica e repulsione per un personaggio, di favorire un’uguale dose di eccitazione disturbante e orrore per visioni orrorifiche e seducenti inserite all’interno di un disegno più ampio che si addentra nelle pieghe recondite della perversione.
L’atto brutale, feroce, violento, che sovente apre le storie, non mostra cause intelligibili e non fornisce un appiglio adeguato nel contestualizzare nel tempo e nello spazio la narrazione: induce un generale effetto destabilizzante acuito dall’indeterminatezza che si posa su personaggi e luoghi.
La dorsale che attraversa l’intera produzione di Somers è il rapporto con il desiderio, declinato nel superamento dei confini del noto attraverso esperienze estatiche, spirituali e carnali al contempo, o nella privazione e repressione del piacere con esiti devastanti a livello individuale e collettivo. Aspetti resi attraverso un affresco su condizionamenti sociali, stereotipi, patriarcato delle relazioni, in un continuo dissidio interiore e tra soggetti narrati che rende i luoghi depositari di memorie oscure.
Ogni figura convive con tensioni agli antipodi e si scopre capace di crudeltà e tenerezza secondo una duplice natura per convenzione ritenuta contraddittoria ma che, come Somers mostra, è la matrice più autentica dell’umano, a partire dalla necessità di nutrirsi di morbosità e desolazione.
Il testo che apre Morte per scorpione, Il crollo (1953), segue uno schema narrativo ricorrente nelle novelle e nei racconti di Somers: la colpa che grava sul protagonista (Tristàn, assassino afrodiscendente); la fuga; il degrado privo di salvezza (una baracca che ospitava una moltitudine di disperati, “un forte miscuglio di umanità, pidocchi e peccato che russava per terra”); un incontro decisivo che funge da catalizzatore e rappresenta un’epifania (la statua della Madonna che veglia sul tugurio e prende vita invitando Tristàn a sciogliere la cera che la ricopre e renderla umana per vendicarsi di chi ha ucciso suo figlio); l’inesorabile tracollo psichico e esteriore (il traballare della baracca con “quel rumore che precede i crolli”).
Ogni storia definisce il suo senso ultimo a partire dalla svolta inattesa che anticipa un disfacimento in grado di alterare i connotati del tangibile e favorire nuove consapevolezze nel dolore e nel piacere. La svolta è spesso legata alla dimensione sessuale che nell’universo narrativo dell’autrice travalica il mero erotismo. Emblematiche ne Il crollo le pagine dedicate al graduale scioglimento della cera della statua della Vergine con il tocco del peccatore che prova un desiderio irrefrenabile di penetrarla e che assiste, incredulo, alla sua prostrazione grata davanti a lui.



L’esplorazione fisica e interiore studia le tensioni antitetiche dell’essere umano come pura corporeità esposta agli eventi, destinata al logoramento e a un’inesorabile trasfigurazione. Ogni individuo pare destinato a fare i conti con contraddizioni che lo caratterizzano e lo conducono allo smarrimento, alla perversione, al decadimento.
La sensualità della prosa di Somers riserva una cifra di sacralità nel corpo, depositario del fervore liberatorio reso attraverso scene surreali elette per attestare i percorsi sotterranei dell’inconscio. Al di là della parvenza blasfema, lo slancio visionario e rivoluzionario nello sguardo letterario di Somers risiede nel definire in termini nuovi le frontiere della salvezza nell’amore. Edifica un riparo che non risparmia dalla morte (semmai la predice) ma illumina il vero attraverso la pietà per chi è segnato dalla colpa: afferisce alla consapevolezza di un’umanità celata persino negli individui ritenuti abietti, considerati uno scarto della comunità, indegni di esistere. È a tali soggetti che Somers si rivolge costantemente, nel renderli protagonisti delle sue storie e elevarli a emblemi di una società incapace di scrutare sé stessa.
L’impronta crudele che caratterizza molti dei soggetti delle sue storie riserva i risvolti imprevedibili propri di una dimensione di solitudine che accomuna l’essere umano: sono legati a una malvagità irrimediabile, a un’espressione di odio indiscriminato che rappresenta una forma di difesa da altro dolore o che palesa le radici dell’intolleranza spesso nei confronti della libertà femminile, delle unioni omosessuali, dell’emancipazione da regole triviali.
Il rapporto con la fine è una delle costanti nella produzione di Somers. Il racconto Requiem per Goyo Ribera studia il peso del compromesso nel sopravvivere alla morte di una persona cara. Lo splendore della rovina dell’altro, il dolore nel mancato riconoscimento pubblico, l’impossibilità di una reale elaborazione del lutto sino al curioso rovesciamento dell’epilogo, si sostanziano nel graduale svelamento della complessità di un soggetto in relazione all’orientamento sessuale, alla sua libertà, al problema di coscienza definito “l’organo accidentale della vigliaccheria” di chi è annientato dal proprio conflitto interiore e non vuole “cani che lo sbranino”.
Come nel racconto eponimo, la morte è lo spettro ineludibile, frammista al crescendo definito dal desiderio osceno, morboso, sottaciuto, che corrode le relazioni e si insinua come il veleno stesso dell’aracnide annidato negli angoli remoti di un’abitazione emblema di un’unità famigliare in bilico.
Risulta ineludibile l’isolamento in cui versa chi resta, privato, come chi muore, di un conforto ultraterreno: una sorte che non contempla redenzione perché non concepisce la presenza divina.
Come ricorda nelle sue pagine: “Dio io non ti ho mai trovato”. L’assenza di Dio riveste una questione centrale nella poetica di Somers, definisce l’agire del singolo e lo smarrimento esistenziale inestinguibile, si lega al senso assunto dal lato oscuro, abietto, misero, del vivere, e illumina quello che Benedetti definì il carattere osceno del mondo.
È la scrittura stessa ad acquisire una cifra divina, incarna l’impulso vitale originario che sancisce l’inizio e la fine. Come dichiarò in un’intervista: “Penso e dico sempre che non inventiamo la finzione nel suo senso assoluto, ma che questo compito delirante dipende in qualche modo dal Demiurgo dei platonici o dei neoplatonici, e che noi non siamo certo i loro obbedienti scribi”.
Lo studio narrativo sull’umano si regge sull’idea di messa a nudo, sullo smascheramento, sulla decostruzione di stereotipi, per far rilucere la cifra vulnerabile più autentica e indurre in chi legge un cambio di prospettiva. Persino quelle che all’apparenza sono storie d’amore celano stratificazioni sotterranee grottesche, macabre, che lambiscono l’assurdo per amplificare gli esiti dell’abbandono totale all’altro e le conseguenze di relazioni insane in cui si rimane invischiati nell’incapacità di una reale emancipazione.
Le ricorrenze nell’intera produzione letteraria di Somers sono definite in dettagli minimi portatori di significati assoluti e caratterizzano in senso più ampio la bizzarra costellazione di personaggi e vicende: orologi fermi mai più ricaricati; binari simbolo di partenze e ritorni impossibili; nudità rivelatrici di perversioni altrui; boschi come porte verso dimensioni ignote, selvatiche, spesso scenari di cambiamenti radicali.
Che si tratti di racconti o romanzi, ogni storia composta da Somers getta chi legge in un atipico smarrimento dall’efficacia inalterata. È un’alienazione generata da una sovrabbondanza di rimandi al mito, al trascendente, all’assurdo, al fantastico, per comporre una personale epica dell’abbandono con figure che sfilano sulla pagina sovrastati da fardelli insopprimibili che tuttavia non inibiscono la capacità di stupore. L’apparente sfuggevolezza del senso ultimo delle sue storie tradisce l’intento di mostrare la cifra caleidoscopica di ogni vicenda in favore di una riflessione sulla natura fragile di un’epoca incapace di misurarsi con la propria memoria.
Leggere racconti come La deviazione o romanzi come La donna nuda porta a percepire un’affinità recondita nel raffigurare un’epopea amorosa screziata da un lato mostruoso e marcio. Ancora una volta la stazione è lo scenario d’elezione di Somers: nel racconto La deviazione una coppia nasce proprio dall’incontro in un luogo di scambi e incontri fortuiti. La casualità innescata da un bambino sulla banchina con un mucchio di palloncini favorisce sguardi decisivi per un contatto fatale tra un uomo e una donna che da quel momento in poi passeranno un lungo periodo a bordo. Nella loro carrozza il tempo e lo spazio sembreranno non avere più importanza al di fuori della compagnia reciproca e delle mele per il sostentamento. L’idillio del vivere l’uno per l’altra mano nella mano con la sola evasione del mangiare fuori dalla cabina sotto un cielo stellato è segnato da un presagio che si fa strada nella sensazione di correre all’inverso del tempo.

Confesso ora quella sensazione di andare in senso contrario a qualcosa che veniva fatto a pezzi tra i nostri denti, ma il cui dolore non era quello
che avrebbe dovuto essere conformemente all’importanza della privazione.

 

Sono i rimandi biblici a cadenzare il crescendo nefasto di una vicenda che lambisce l’assurdo per il senso claustrofobico di essere in trappola sovrapposto al romanticismo di un’esperienza di coppia totalizzante: il frutto come simbolo d’amore e di peccato, la creazione e la ricorrenza del sette (il viaggio di sette giorni che si trasforma in sette anni è percepito ironicamente come “il tempo giusto per quello che sta succedendo. Che infallibile e misurata precisione. Dio e i suoi incantevoli enigmi”).
Il tempo dilatato e lo spazio ristretto ridefiniscono i contorni del noto imponendo una ricomposizione del disordine con un epilogo che assegna ancora una volta a una figura esterna il ruolo risolutore estremo che annulla i pochi riferimenti considerati certi e cancella ogni prospettiva futura.
Una straordinaria affinità lega racconti come Jezebel a romanzi come La donna nuda per il rimando alla dimensione selvatica e per il ricorso a elementi fantastici nel dare forma all’esplorazione del sentimento amoroso sulla base di una decostruzione di stereotipi fomentati da misoginia e omofobia. In entrambi gli esempi a stagliarsi su una società ottusa e triviale sono figure illuminate dalla libertà.
In Jezebel il protagonista prova verso un giovane sconosciuto un’attrazione irrefrenabile che si sostanzia nel desiderio di possederlo sessualmente e di annientarlo al contempo. Traspare la denuncia del mascheramento di aneliti ritenuti moralmente disdicevoli: quel rifiuto di accettare la reale natura del proprio desiderio si trasforma in odio e violenza.
Ne La donna nuda una comunità intera organizza spedizioni per stanare la giovane avvistata senza vestiti, e porta ognuno a fare i conti con la propria coscienza (dalla coppia di gemelli al boscaiolo e persino al prete) e a prendere atto che il peccato non risiede nel corpo nudo come emblema di tentazione, ma nella repressione violenta da scardinare attraverso la perdita di una coscienza di stampo convenzionale. Quella figura che si aggira senza vestiti nei pressi del borgo dopo essersi mozzata la testa e averla poi riposizionata sul proprio collo, innescherà una vera e propria rivoluzione con la sua sola presenza: impone a chi la guarda di rispecchiarsi in quello sguardo morboso, unica e reale oscenità. È un esempio fulgido di pensiero femminista: la sua libertà è possibile grazie alla sua nudità, ma “la libertà individuale dell’atto in sé” trascina ciascuno a pensare “all’impossibilità della propria”.
Grazie a sottili sconfinamenti del grottesco nel tragico Somers offre, in particolare con le sue storie brevi, istantanee fulminanti e attuali di una società invischiata nelle proprie incongruenze.
La riscoperta oggi di Armonía Somers permette di interrogarsi sul senso del vivere e sulla direzione dell’umanità attraverso il furore di una scrittrice il cui dirompente femminismo ha contribuito a rappresentare un nuovo corso per un’idea sovversiva di letteratura, nell’audacia di temi affrontati per l’epoca (misoginia, omofobia, libertà di coscienza, aborto, relazioni tossiche, dipendenza emotiva, perversioni, repressione sessuale, ecc.), e per la singolarità di una scrittura virtuosa e brutale, poetica e terrosa, con accenti fantastici, surreali, toni da fiaba macabra, rimandi gotici e un sapiente uso del comico per definire una personale visionarietà del reale.

 

Ho perso la mia libertà e sono uscita.
Ho lasciato le convenzioni alle spalle, i rovi mi hanno graffiata per questo.

Nel territorio del diavolo con Flannery O’Connor


di Debora Lambruschini

Il 25 marzo scorso Flannery O’Connor avrebbe compiuto cento anni. Il suo primo libro, Wise Blood, (La saggezza del sangue) venne pubblicato per la prima volta nel 1952: un romanzo, certo, ma nato a partire da quattro racconti apparsi in precedenza su rivista, su cui lo sguardo dell’autrice si è fatto più ampio. E oltre settant’anni dopo le parole di Flannery ancora incendiano la pagina. Il suo passaggio sulla terra è stato piuttosto breve: morì a trentanove anni a seguito di complicazioni dovute alla malattia incurabile di cui soffriva, il lupus; i racconti – trentuno, quelli di cui finora siamo a conoscenza – , i romanzi, le lettere, le sopravvivranno a lungo, continuando a incatenare i lettori del tutto spiazzati da quell’ironia feroce che attraversa le pagine.

Di cosa è fatto il mistero della sua scrittura? Ripercorro le sue opere, i racconti, i romanzi, i preziosi saggi, le biografie, nel tentativo di indagarne il mistero, consapevole che ne scalfirò solo la superficie. A guidarmi, in questo viaggio «nel territorio del diavolo», ci sono le parole di Flannery ma anche di chi le ha sapute interpretare – Gaja Cenciarelli, la sua perfetta voce italiana – e di chi ne ha perlustrato l’esistenza terrena e i testi – Romana Petri, nel bellissimo romanzo da poco pubblicato, La ragazza di Savannah. E dunque parto dalle parole, dal modo peculiare di Flannery di intendere il racconto:

 

La narrativa opera tramite i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliono per convincere tramite i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non crederà a niente di quello che il narratore si limita a riferirgli. La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare e toccare. È questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine, come un modo abituale di guardare le cose. (“Scrivere racconti”, Un ragionevole uso dell’irragionevole, p. 72)

 

I sensi sono all’erta, viviamo ogni storia in cui ci addentriamo con un’intensità tale che non si esaurisce certo nello spazio breve della narrazione. Di recente ho selezionato per uno dei miei gruppi di lettura la raccolta Un brav’uomo è difficile da trovare: per molti era il primo contatto diretto con la scrittura di Flannery O’Connor e l’opinione comune è stata la necessità di centellinare le storie, per l’impatto notevole che ognuna provocava. Viviamo, dunque, le storie di Flannery, non per quell’orrido principio di immedesimazione che sta contaminando questi nostri tempi, ma per come ogni cosa che l’autrice mette sulla pagina coinvolge tutti i sensi, mentre persegue la verità di quello che racconta.

 

Io per arte intendo semplicemente scrivere qualcosa che sia dotato in sé di valore e di efficacia. Base dell’arte è la verità, nella sostanza come nella forma. Chi nella propria opera persegue l’arte, persegue la verità, in senso immaginativo, né più né meno. (“Natura e scopo della narrativa”,  Un ragionevole uso dell’irragionevole, p. 51)

 

Le storie di Flannery ci turbano per la brutalità che le attraversa, certo, ma anche perché rincorre una verità tanto di sostanza quanto di forma che mette il lettore di fronte all’ambivalenza del mondo: la grazia che si intreccia al grottesco, la fede, la violenza, l’ironia feroce, il realismo, il divino, una commistione di comicità e orrore. Lo fa con una voce che aderisce e crea il reale, i dialoghi vivi, i dettagli che danno forma ai personaggi e agli ambienti, muovendosi su registri stilistici diversi, rifuggendo le etichette, prima fra tutte quella problematica di “scrittrice del Sud”. Quella di Flannery è una scrittura che non teme di sporcarsi, fatta di carne e sangue, indifferente a compiacere il lettore, la critica, i benpensanti, solo a raccontare la verità che le si presenta davanti.

 

La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo fatti di polvere, dunque se disdegnate di impolverarvi, non dovreste tentare di scrivere narrativa. Non è cosa abbastanza nobile per voi. (“Natura e scopo della narrativa”,  Un ragionevole uso dell’irragionevole, p. 54)

 

Di certo Flannery non ha mai avuto timore di impolverarsi con le faccende umane. Mi sono chiesta spesso se il suo rifiuto di ripulire le storie a una forma che l’opinione pubblica del tempo avrebbe trovato meno scandalosa avesse a che fare con la necessità di non perdere tempo dietro a questioni inutili, per una scrittrice che di tempo, ha saputo presto, ne avrebbe avuto poco. Difficile addentrarsi nelle storie di O’Connor senza pensare alla persona dietro l’autrice, alla malattia, alle perdite, alle rinunce, al tempo che si restringeva con una velocità allarmante.
Qualche mese fa Mondadori ha portato in libreria un testo particolarmente interessante, cui accennavo in apertura, a cui apponiamo per comodità l’etichetta di romanzo: La ragazza di Savannah, di Romana Petri, è un testo prezioso, accuratissimo, in cui l’invenzione letteraria e la forma romanzesca si fondano su solide ricerche bibliografiche, sui testi di Flannery che qui prendono vita, sulle numerose lettere che ci ha lasciato, sugli studi critici che negli anni si sono susseguiti. È anche dalla lettura di questo volume che ho avuto conferma della sensazione che sempre mi ha accompagnata tra le pagine di Flannery: una scrittura minuziosa, cesellata e allo stesso tempo urgente, a cui si è tenuta tenacemente aggrappata da quando ha iniziato ancora bambina fino all’ultimo istante.

 

Non scriveva ancora molto, ma le era ben chiaro che cosa volesse scrivere: il suo mondo del Sud, la sua violenza, le anomalie, la mostruosità, le cose che succedono quando si perde l’unica strada da percorrere. Non si poneva il problema se i lettori avrebbero capito le sue vere intenzioni. (La ragazza di Savannah, p. 60)

 

E scrive, principalmente, dalla fattoria in cui vive con la madre, Regina, dove ha trascorso la maggior parte della sua vita. Da Savannah si è allontanata poco e per periodi sempre più brevi, tutto il suo mondo pare ridursi a quella casa, alle cure materne, ai polli e ai pavoni che la ossessionano fin da piccola. A differenza di Emily Dickinson, per Flannery quel confinamento non è volontario, ma dettato dalla malattia sempre più invalidante a cui solo dopo qualche anno viene dato un nome: il lupus. La stessa malattia di cui soffriva suo padre, morto quando Flannery era ancora molto giovane e che pareva assurdo si ripresentasse nella stessa famiglia, con tanta ferocia. I medici inizialmente escludono che si possa trattare di lupus, ma quando la diagnosi arriva non c’è tempo per abbandonarsi al dolore: la scrittura è già iniziata e se il tempo terreno che le è concesso sarà così limitato non è possibile concedersi distrazione, compatimento, autocommiserazione. C’è spazio solo per la scrittura, che mira sempre alla perfezione, a qualsiasi costo e in qualsiasi condizione. Per qualche breve incursione nel mondo, che presto si accorge di questa scrittrice fuori dal comune e impossibile da contenere e incasellare, dal carattere difficile, scontrosa e brillante nello spazio di una stessa sera. E quando lei non avrà la forza fisica per quelle incursioni sarà il mondo a venire alla fattoria, attraverso i fittissimi scambi epistolari, le visite di amici e colleghi.
L’urgenza della scrittura, dunque, il minuzioso lavoro di cesellatura, di revisione, cui sottoponeva ogni racconto. I personaggi non conformi, gli sbandati, i problemi e i difetti fisici che popolano le sue storie e, non da ultimo, il tema della fede che le attraversa in modo peculiare. Il male, nel Novecento secolare e materialistico, necessario per arrivare alla grazia, come sottolineava Marisa Caramella nella brillante prefazione al volume Bompiani di Tutti i racconti di O’Connor, il divino a sconvolgere l’equilibrio di un mondo antropocentrico ma anche il mezzo per vedere il mistero nel quale siamo immersi.

 

Nei miei racconti il lettore troverà che il diavolo getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace. […] A garanzia del nostro senso del mistero, occorre un senso del male che veda il diavolo come uno spirito reale, spirito che va costretto a dichiararsi, e non semplicemente come un male indefinito, bensì come una personalità specifica per ogni occasione. (“Nel territorio del diavolo”, dalle lettere scritte a Winifred McCarthy, Un ragionevole uso dell’irragionevole, p. 92)

 

 

La fede che pervade ogni pagina, in modi non convenzionali perché, come sosteneva la stessa O’Connor, se scrive come scrive è perché è cattolica, non benché sia cattolica e il diavolo cammina tra quei balordi, senza redenzione né grazia. Ma la grazia è proprio lì invece, viene fuori dal male. Il Sud, ritratto nel solo modo che conosce, quella verità che da sempre va cercando; grottesco, ma solo negli occhi di chi quei luoghi non li abita, non li conosce, per lei non è altro che reale.

 

Gli scrittori non fanno che parlare di quel che fa “funzionare” un racconto. In virtù dell’esperienza che mi viene dal tentativo di far “funzionare” racconti, ho scoperto che quello che occorre è un’azione assolutamente inattesa, eppure assolutamente credibile, e ho riscontrato che, nel mio caso, essa indica sempre l’offerta della grazia. […] In breve, leggendo ciò che scrivo, ho constatato che l’argomento della mia narrativa è l’azione della grazia in un territorio occupato in gran parte dal diavolo. (“Nel territorio del diavolo”, dalle lettere scritte a Winifred McCarthy, Un ragionevole uso dell’irragionevole, p. 93)

 

Le storie di Flannery O’Connor sono dunque fatti di brutalità e grottesco, di ironia feroce e realismo, di comicità e orrore, di fede cattolica, urgenza, cura. La sua scrittura è un mistero difficile da svelare del tutto e nemmeno necessario. Possiamo solo restarne totalmente ammaliati, scossi nel profondo dalle virate improvvise delle sue storie, da un talento tanto selvaggio.

  

Reykjavik, amore di Gudrún Eva Mínervudóttir

di Debora Lambruschini

Ho pensato a lungo a quale sia l’etichetta più idonea a inquadrare questa raccolta di racconti, Reykjavík, amore, della pluripremiata scrittrice islandese Gudrún Eva Mínervudóttir, da qualche mese in libreria nel catalogo Iperborea tradotta da Silvi Cosimini. Ci ho pensato, ci continuo a pensare, propendendo ora per raccolta di racconti “pura”, ora per short story cycle. Non è un esercizio sterile, fine a sé stesso, passatempo di un critico letterario pignolo: mi sembra invece una delle chiavi con cui accedere al testo, alla sua complessità, alla tradizione su cui poggia, approdare ad altri testi, altre tradizioni, altri mondi. E, di riflesso, onorare una forma, il racconto, ancora troppo spesso osservata solo superficialmente o scandagliata con gli strumenti inadatti, che non le appartengono. Eppure, nonostante tutto, non penso mi convincerò davvero di un’etichetta o dell’altra a proposito di questi racconti, ma ho le mie buone ragioni per cedere a un certo grado di vaghezza.
Uno short story cycle (o short story sequence, come preferiscono definirlo alcuni critici a sottolineare l’importanza della sequenzialità delle storie) è una raccolta in cui ogni racconto non rappresenta di per sé un’esperienza formale chiusa ma esplica il suo significato e potenziale nell’insieme, in rapporto con gli altri; è quindi un equilibrio sottile tra autonomia del singolo e unità dell’insieme. L’architettura che tiene insieme questi racconti, sottolineava la critica statunitense Susan Garland Mann, può essere data dalla ricorrenza di temi, ambientazione, personaggi, simboli, motivi. Va notato però che non tutte le raccolte sono quindi delle sequenze, le quali devono avere unità e ordine preciso dei singoli racconti, e oltre al carattere sequenziale lo short story cycle implica anche una partecipazione più diretta del lettore alla sua comprensione, alla comprensione dei legami tra singolo e tutto.
Mi perdonerete, spero, se insisto ancora un attimo su questo aspetto, perché la lettura della raccolta di Mínervudóttir mi ha dato modo di riflettere parecchio sulla questione e sono convinta la cosa non sia una mera questione di etichette. In un interessante articolo apparso anni fa sulla rivista The Millions Michael Deagler partendo dalla distinzione tra romanzo e racconto dava già una certa idea delle ambiguità insite in una raccolta di racconti:
Una raccolta è formata da tante narrazioni separate che mantengono la loro coerenza anche se prese singolarmente. L’ordine di lettura non è importante per capire il loro significato, così come non cambierebbe niente se ne leggeste solo tre, a caso, senza guardare le altre. Nelle mani di un bravo scrittore, a volte capita che una raccolta di racconti sia più della semplice somma delle sue parti. Possono rappresentare dei piccoli spaccati di vita di una persona o di una comunità e ricordare, quindi, quel senso di immersione che si prova quando si legge un romanzo. Si chiamano «raccolte di racconti correlati» o «cicli di storie». Ma non sono romanzi, e non ci provano neanche a esserlo.
Con Reykjavík, amore la questione, dunque, si fa interessante: i cinque racconti della raccolta sono tanto perfettamente autonomi e coerenti singolarmente quanto allo stesso tempo non possiamo dire che presi da soli siano un’esperienza formale chiusa, a partire da quel «senso di immersione» cui si riferisce Deagler è quell’architettura sottolineata da Susan Garland Mann: la ricorrenza di temi (l’amore), ambientazione (Reykjavík), motivi, talvolta personaggi. Non sempre e non in egual misura e, va detto, che si seguano o meno queste tracce, la lettura del singolo racconto e della raccolta intera sono comunque possibili. Accettando però l’etichetta di short story cycle e tutto ciò che implica, quelle ricorrenze appaiono al lettore attento qualcosa di più di semplici rimandi interni, ma la creazione di un microcosmo e una comunità che Mínervudóttir ha saputo costruire con dettagli mirati in cinque storie fuse in quest’eco di dettagli e simboli.
Forse è la prima volta che riflettendo sullo short story cycle mi trovo da questa parte della questione, se lo sia o meno e non, come accade più di frequente, a tentare di spiegare le ragioni del perché non si possa parlare di romanzo, nonostante le etichette editoriali, e a tirare in ballo esempi problematici come La vita delle ragazze e delle donne di Munro, Olive Kitteridge di Strout o, più di recente, Il primo desiderio di Rossella Milone.
I personaggi di queste cinque storie di Mínervudóttir si muovono tra le strade della capitale islandese, o meglio, dentro le sue case, le fabbriche, i negozi, spinti dal vento, sorpresi dallo scorcio del mare; quello che tratteggia con mirabile abilità è un quotidiano ordinario, privo di lirismi, autentico, carnale, con le cinque donne protagoniste di fronte a una svolta decisiva, necessaria. Mínervudóttir le osserva da una vicinanza stretta, scegliendo la prima persona con tutte le sue complicazioni e criticità per raccontare cinque storie che si muovono su piani temporali diversi, emozioni e ricordi evocati da parole e oggetti in un modo che ricorda certe atmosfere di Lydia Davis. La cura attenta nella creazione del mondo sulla pagina si lega a una prosa – e qui mi riferisco direttamente e solo alla traduzione di Cosimini non possedendo gli strumenti necessari per accedere al testo in lingua originale – che non cede mai agli eccessi, limita al minimo sentimentalismi e metafore e quando vi inciampa non vi indugia più del necessario.

 

“Non riuscivo a togliermelo dalla testa. Il mio cuore era una mongolfiera che mi sollevava da terra.”

 

I sentimenti, dunque, ma non i sentimentalismi, al centro della narrazione, in una gamma variabile di intensità, origine, intimità, desiderio. È l’amore nelle sue sfaccettature il fil rouge che lega la raccolta ma anche l’onda che trascina le cose e le persone, spesso trasportandole in luoghi e situazioni inaspettati. Ripensandoci ci sono altri motivi oltre alla questione delle etichette che possono in un certo senso legare questi racconti a La vita delle ragazze e delle donne di Alice Munro: se per l’autrice canadese l’attenzione era focalizzata su una singola protagonista osservata in diversi momenti ed età della propria vita, per Mínervudóttir il femminile è esplorato attraverso cinque donne diverse, pare lo stesso esserci una postura simile nell’intensità con cui entrambe le autrici si calano dentro i personaggi, ne scandagliano i sentimenti e le relazioni, senza mai distogliere lo sguardo e accettandone complessità, debolezze, paure, tormenti, chiedendo altrettanto a noi da questa parte della pagina.
Al lettore Mínervudóttir chiede quindi di seguire le tracce, di accettare la criticità dell’io, rincorrere i pensieri che compiono tragitti propri e paiono spingersi lontano dal centro per poi rendersi conto che il centro era diverso da quello che ci si aspettava. I diversi piani temporali su cui si muovono le storie sottolineano la distanza necessaria per le protagoniste da cui osservare e comprendere le cose ed ecco come dettagli minuscoli del passato vengono riportati al presente, investiti di una luce nuova, ora finalmente comprensibili appieno.

 

Se ripenso a cosa c’era di così stupendo in quel mattino, credo che sia l’equilibrio perfetto tra premura e indipendenza, tra intimità e libertà. È il ricordo più bello che ho.

 

Non è solo l’amore romantico che trova spazio in queste storie ma la complessità delle relazioni e dei legami affettivi e famigliari e che fa i conti, inevitabilmente, con la perdita, la solitudine, le distanze e quel certo grado di incomunicabilità tra gli individui. Se la mappa dei sentimenti è complicata, non lo è per contro quella dei luoghi in cui si compiono, cui Mínervudóttir presta un’attenzione particolare, tanto per le strade quanto e soprattutto per le stanze entro cui si muovono i personaggi, circondati dalla semplicità di oggetti quotidiani che non ci pensano proprio ad assurgersi a simbolo di qualcosa di altro ma, casomai, a popolare di vita e di anni quelle stanze in cui l’autrice ci lascia entrare.
Mínervudóttir, si diceva, scandaglia l’amore e i sentimenti in molti suoi aspetti, dal legame genitori figli al rapporto tra fratelli, passando per diversi stadi del rapporto di coppia, i sentimenti, il sesso.

 

[…] le relazioni d’amore sono come dei falò. È bello scaldarsi intorno al fuoco, ma ogni tanto uno dei due innamorati, se non entrambi, deve avventurarsi nel buio a prendere la legna per tenerlo vivo.

Alle immagini più evocative si intrecciano relazioni complesse, egoismi, meschinità, ma anche sentimenti irrazionali e totali, affetto, desiderio, possibilità.
Ecco, le possibilità. Sono le porte che si presentano davanti alle cinque protagoniste, pronte o meno ad aprirle, con il carico di incertezza, preoccupazione, brama. Desideri latenti che non possono più restare sopiti.

Animalia o la peculiare realtà dell’insolito. L’autarchia del racconto in Julio Cortázar


di Alice Pisu

“Zötl ha ragione, non c’è bisogno di inventare animali favolosi se si è capaci di rompere il guscio dell’abitudine”.
In una sorta di lettera inviata all’editore Franco Maria Ricci divenuta l’introduzione all’edizione del 1972 del Bestiario di Aloys Zötl, Julio Cortázar riconosce la straordinaria capacità del maestro tintore dell’Austria ottocentesca di potenziare favolosamente l’alleanza dell’immaginario con il visibile e il tangibile. Quegli sfondi fantastici dalla sottile e brutale leggiadria ammaliano Cortázar e lo influenzano nel rinnovare sul piano letterario la fascinazione per una fauna sul confine tra il reale e la sua effigie, tra l’esistenza fisica e quella letteraria. Riaccendono memorie sopite, evocano nello scrittore un trauma infantile ritenuto inaugurale della privata raccolta di ricordi: un risveglio terrificante al canto del gallo all’alba a tre anni, da solo, in una camera con un finestrone.

“Dal nulla, da poppate fra gatti e giocattoli che solo gli altri potrebbero rammentare, emerge un risveglio sul far dell’alba, vedo la finestra grigia come una presenza desolante, un tema di pianto; è chiara solo la sensazione di abbandono, di qualcosa che oggi posso chiamare mortalità e che in quell’istante era sentire per la prima volta l’essere come desolata spoliazione, rettangolo grigiastro del nulla per occhi che si aprivano sul vuoto, che scivolavano all’infinito in una prospettiva senza appigli, un bambino di spalle davanti al cielo nudo. E un gallo cantò, se c’è ricordo è per questo, ma non c’era nozione di gallo, non c’era nomenclatura tranquillizzante, come sapere che era un gallo quell’orrendo frantumarsi del silenzio in mille pezzi, quel lacerarsi dello spazio che precipitava sui miei vetri stridenti, il primo e più terribile Roc”.

Che sin dall’infanzia lo scrittore, saggista, poeta, accademico e drammaturgo argentino naturalizzato francese abbia sperimentato un peculiare incanto per la prospettiva animale dell’uomo e del paesaggio è evidente dal continuo ricorso bestiale che accompagna una parte significativa della sua poetica. Leggere Cortázar significa accordarsi a un’idea di letteratura che annulla il confine tra finzione e realtà nel ritoccare la Storia e rielaborare il repertorio figurativo della mitologia antica, e che rinnova un’attitudine al fantastico, al metafisico e al mistero, utile a lambire questioni esistenziali, politiche e sociali anche attraverso l’esplorazione del sogno e dell’immaginario come dimensioni sovrapponibili.

L’esordio avviene con i sonetti pubblicati nel 1938 con lo pseudonimo di Julio Denis e con saggi di critica letteraria. Antiperonista, abbandona il suo incarico accademico e finisce per dedicarsi alla collaborazione con riviste letterarie (ottenendo la stima di Jorge Luis Borges), e all’attività di traduttore di autori come Edgar Allan Poe che influenzeranno il suo sguardo. La vita in Francia dal 1951 e la scelta di Parigi come luogo d’elezione tra innumerevoli viaggi marca una direzione nuova nella sua letteratura. Lo studio di autori francesi e l’identificazione nel Surrealismo originano la ricerca di un infra-realismo dove, come scrive Stefano Bartezzaghi nell’introduzione a Componibile 62 (trad. Flaviarosa Nicoletti Rossini per Sur), “la vita evidente e la vita segreta, il significato ordinario e il significato idiosincratico, il senso comune e l’assurdo associativo continuano a scambiarsi di posto”. Il riconoscimento della sua grandezza letteraria arriva con l’uscita de Il viaggio premio nel 1960 e tre anni dopo con il suo capolavoro Rayuela, che gli permette di ottenere in seguito particolare attenzione anche per le sue opere miscellanee e per le raccolte di racconti. Da alcune delle pagine più significative della produzione di Cortázar traspare una precisa valenza civile, come nella sua opera più politica, Libro di Manuel (uscito nel 1973 e pubblicato per la prima volta in Italia cinquant’anni dopo da Sur con la traduzione di Ilide Carmignani) dove il linguaggio è insieme divertimento, contestazione e opposizione a ogni totalitarismo. Le nuove consapevolezze definite attraverso esperienze come il viaggio a Cuba negli anni Sessanta e l’impegno politico nel denunciare abusi e diritti negati in America Latina, portano l’autore a sposare posizioni rivoluzionarie nel dedicarsi alla causa di Cuba, alla situazione del Cile di Allende e al Nicaragua sandinista. In tal senso soffermarsi sulla scrittura epistolare permette di avvicinarsi alla complessità e alla ricchezza del pensiero dello scrittore, tributate in un progetto in cinque volumi curato da Aurora Bernárdez e Carles Álvarez Garriga, edito da Alfaguara, che la casa editrice Sur ha pubblicato in Italia in tre volumi grazie alla selezione, alla cura e alla traduzione di Giulia Zavagna. Oltre alle missive politiche racchiuse in Così violentemente dolce (2015), sono rivelatrici le lettere inviate a scrittori e amici raccolte in Carta carbone (2013). La corrispondenza riveste un ruolo centrale nell’esistenza dell’autore, al punto da essere considerata un complemento indispensabile alla sua opera, “una sorta di zona franca – come la definisce Giulia Zavagna – in cui realtà e finzione si mescolano, in cui gli spunti attinti dal mondo circostante si trasformano prima in pensieri sparsi e poi in progetto, in materia narrativa” che prende forma nelle pagine inviate tra gli altri a Mario Vargas Llosa, Gabriel García Márquez, Octavio Paz, Jorge Luis Borges, Osvaldo Soriano, Juan Carlos Onetti, Victoria Ocampo a Eduardo Galeano.
La musica (il jazz in particolare) ha sempre rappresentato un ulteriore mezzo di sperimentazione artistica: pur nella consapevolezza di avere scarso talento come musicista, lo scrittore riconosce in tale dimensione uno spazio creativo necessario a plasmare il suo linguaggio letterario. Significativo in tal senso l’omaggio a Charlie Parker nel racconto più celebre dell’autore, L’inseguitore, edito da Sur con le illustrazioni di José Muñoz e la nuova traduzione di Ilde Carmignani.
Nel muoversi tra il poema, il saggio, il microracconto, il romanzo e il diario, Cortázar talvolta arriva anche a riunire forme diverse in peculiari zibaldoni surrealisti come Ultimo round o Il giro del mondo in ottanta mondi (tradotti entrambi da Eleonora Mogavero per Sur), per portare alla luce molte delle poesie scritte nei decenni precedenti e affrontare, secondo schemi liberi, luoghi amati come il mito, la boxe, l’arte figurativa, l’erotismo, i misteri racchiusi nei crimini, la letteratura francese, il ‘68 in Francia, la Rivoluzione cubana, il fascino delle possibilità di cambi di rotta celati nel ricordo di un libro.
Tutto si apre e si chiude con la poesia in Cortázar, evidenza riconosciuta dalle sperimentazioni giovanili sino all’urgenza, sul finire dell’esistenza, di dedicare gli ultimi sforzi a radunare in Salvo il crepuscolo una selezione di poesie intervallate da prose “perché risulti un po’ più divertente”, come confessa in una lettera a Gregory Rabassa. In Italia l’opera vede la luce per la prima volta a distanza di quarant’anni dalla sua prima uscita con la cura e la traduzione di Marco Cassini per Sur.
Tale circolarità traspare anche nel riconoscimento di una genesi comune per la scrittura del romanzo e della poesia, rintracciata in un repentino estraniamento: sono fondamentali la tensione, il ritmo, la pulsazione interna, l’imprevisto in parametri predefiniti, “quella libertà fatale che non ammette alterazione senza una perdita irreparabile”.

Trovare oggi in un solo volume (Animalia, trad. Ilde Carmignani, Sur) alcuni dei racconti più evocativi di Cortázar grazie all’accurata selezione operata su nove libri dall’erede letteraria e prima moglie Aurora Bernárdez, permette di addentrarsi in un personale bestiario lieve e tempestoso, drammatico e profondamente ironico al contempo, e riconoscere un compendio delle fondamentali istanze letterarie sollevate negli anni da uno degli scrittori più influenti del panorama letterario. Pagine intense che nell’attestare le infinite possibilità della lingua e la ricchezza dei giochi di ingranaggi che racchiude – definiti nell’emblematico confine tra causalità e casualità, “tra la legge e il libero gioco delle cose”– restituiscono la fascinazione per creature animali reali e fantastiche e rivelano aspetti centrali dello studio letterario sull’umano. Tra le pieghe di contraddizioni perenni prendono forma paure ineludibili, questioni esistenziali decisive per dare un senso al vivere, trappole mentali, visioni sulle relazioni affettive, inconoscibilità reciproca, sulla base di uno stupore rinnovato per le trasformazioni che investono ogni cosa, nella presa d’atto dell’impossibilità umana di tracciarne la direzione.

“Senza troppa immodestia ho apportato qui e là qualche ritocco alla visione naturalistica delle cose, aiutato da una specie di sospensione permanente dell’incredulità, condizione non sempre favorevole nella città dell’uomo ma che da bambino mi ha aperto le pagine di un bestiario in cui tutto era possibile [...]”.

Così, di fronte a un axolotl osservato ogni giorno al Jardin des Plantes di Parigi, può accadere di vivere un’identificazione tale da sentirsi quella forma larvale munita di branchie, riconoscere in quelle facce azteche, inespressive e crudeli, una metamorfosi che definisce una sorta di umanità. La condizione di prigionia fisica con la condanna al silenzio abissale è riconosciuta da chi osserva, che sente di essere trasmigrato nel frattempo col pensiero in quell’organismo. Può capitare di imbattersi in un orso nato da una palla di catrame o in uno che abita nelle condutture idrauliche e sbuca con una zampa dal rubinetto; incontrare conigli vomitati da un uomo che custodiscono una forma di coscienza rivelatrice; riconoscere una diffidente alterigia nello sguardo di un casuario; percepire lo sconforto di un cammello rifiutato alla frontiera e rispedito alla sua oasi; misurare grazie a un gatto la fragilità e la mutevolezza di una relazione amorosa; imparare la libertà e l’indipendenza da formiche che decidono di ridursi l’orario di lavoro per abbandonarsi al piacere di esplorare un quadro popolandolo provvisoriamente; allinearsi alla visione di cronopios che riconoscono nelle tartarughe l’ammirazione per la velocità e disegnano rondini sui loro carapaci; interrogarsi sulle sorti di coccodrilli inesistenti, minacciati di sterminio in Alvernia.
Tra le grandi incognite dei racconti di Animalia la possibilità di avvicinarsi il più possibile a sé stessi a partire da una distanza oggettiva. Questioni esplorate narrativamente da Cortázar in senso più ampio nello studio della forma breve, nella convinzione che a definire un grande racconto sia la sua autarchia.
Come sostiene Neruda – “Le mie creature nascono da un lungo rifiuto”– il processo di scrittura richiede il distacco da quelle che lo scrittore argentino definisce presenze invadenti, proiettandole in una condizione che attribuisce una collocazione universale attraverso una polarizzazione, una separazione liberatoria. Nel definirsi un veterano nel non falsificare il mistero e tenerlo vicino alla fonte con “il suo tremore originale, la sua balbuzie archetipica”, in Ultimo round, Cortázar si sofferma in particolare sulle caratteristiche del racconto fantastico, definendolo un’allucinazione, un incubo, neutralizzato mediante “l’oggettivazione e il trasferimento a un ambiente esterno rispetto al terreno nevrotico”. Tra i criteri indicati l’esigenza di uno sviluppo temporale ordinario, perché “solo l’alterazione momentanea all’interno della regolarità rivela il fantastico, ma è necessario che l’eccezionale diventi anch’esso regola senza soppiantare le strutture ordinarie fra le quali si è inserito”. In quella peculiare realtà dell’insolito bisogna guardarsi dal rischio di ricadere nell’assurdo, perché la coerenza interna funziona con il medesimo rigore di quella del quotidiano, e “qualsiasi trasgressione alla sua struttura lo fa precipitare nella banalità e nella stravaganza”.
Ogni nuovo progetto editoriale che rinnova attenzione all’opera di Julio Cortázar è un’occasione preziosa per celebrare la poetica di uno scrittore capace di infrangere convenzioni, strutture codificate, tradizionali concezioni temporali e spaziali. Come mostra anche la pubblicazione di Animalia, leggere Cortázar richiede di addentrarsi anzitutto in un’inesausta ricerca linguistica, perdersi tra giochi di parole ricorrenti che travalicano la mera adesione alla realtà, immagini incongrue in bilico tra l’infanzia e la morte, la sottile malinconia, l’umorismo dell’insignificanza. Impone anche di confrontarsi con enigmi tesi grazie all’attenzione estrema riservata alla parola, alla complessità dei suoi sensi letterali, alla versatilità della lingua, alle sue forme inventate (che aprono scenari innescati da improbabili tipi umani e specie animali) e alle sue continue evoluzioni in relazione ai cambiamenti storici e sociali, agli equivoci da cui si biforcano nuove possibilità, e alla necessità primaria di celebrare la scrittura non come strumento per accordarsi alla verità ma per perpetuare una ricerca linguistica e espressiva volta a una decifrazione impossibile. In questo senso è emblematica la dichiarazione di poetica che riluce tra le pagine di Componibile 62. 
“Ma in fondo so che tutto è falso, che sono ormai lontano da ciò che mi è appena capitato e che come tante altre volte si risolve in questo inutile desiderio di capire, non badando forse al richiamo o al segno oscuro della cosa medesima, all’inquietudine in cui mi lascia, all’istantanea dimostrazione di un ordine diverso in cui irrompono ricordi, potenze e segnali tesi a formare una folgorante unità che si scompone proprio nell’istante in cui mi abbatte e mi strappa da me stesso. Adesso tutto questo non mi ha lasciato che curiosità, l’antico topos umano: decifrare”.

L'ironia british di Michael Arlen


di Debora Lambruschini

Se il ruolo primario delle case editrici indipendenti è recuperare gemme letterarie nascoste, Mattioli editore assolve decisamente bene a questo compito. Oltre a nuove preziose edizioni di classici della letteratura inglese e angloamericana (uno su tutti il monumentale lavoro di ritraduzione dell’opera omnia di Dickens, in corso) e la scoperta di voci contemporanee come Rick Bass, Charles Baxter, Andre Dubus, Larry Watson, James Still, Gina Berriault, l’editore si mette in cerca anche di autori e autrici del passato un tempo molto noti e finora inediti in lingua italiana. È stato per esempio il caso di Dorothy Johnson e Sarah Orne Jewett, è adesso il turno di Michael Arlen, approdato nella collana Light, dove trovano spazio sia voci conosciute con testi meno celebri ma di indubbio valore, che scritture meno note. Libretti brevi e dal formato agile, contenitori di piccoli tesori. È sempre curioso come un autore tanto popolare tra i suoi contemporanei finisca nel giro di qualche decennio nell’oblio, schiacciato dal peso di altre scritture, di altre urgenze, di nuove tendenze letterarie. Non tutto riesce a superare la prova del tempo, una società che si rinnova, gusti letterari che cambiano. Ma qualcosa vale la pena ogni tanto di essere salvato e di arrivare al lettore contemporaneo, che certo saprà contestualizzare l’opera, la poetica su cui si regge, il mondo letterario sul quale si fonda. La riscoperta di Michael Arlen, dunque, si colloca in questo solco e se pure non stravolgerà il mercato editoriale odierno e forse non darà nuovo lustro all’autore, saprà certo farsi apprezzare dai lettori per quella prosa mirabilmente restituita dalla curatrice, Silvia Lumaca, il wit che attraversa i cinque racconti selezionati, la leggerezza mai superficiale.
Mattioli dunque presenta per la prima volta al pubblico italiano una selezione di racconti di Arlen, tratti dalla più ampia raccolta The Crooked Coronet and other misrepresentations of the real facts of life, del 1937: cinque racconti che ben rappresentano una parte specifica dell’universo letterario dello scrittore, accomunati dal gusto per l’ironia e la rappresentazione della società inglese di inizio Novecento.
Nato nel 1895 da una famiglia di mercanti a Ruse, in Bulgaria, all’età di sei anni Arlen si trasferisce con la famiglia nel regno Unito, per sfuggire al terribile genocidio perpetuato dagli ottomani contro la minoranza armena, adottando dunque la cultura e la lingua del paese che divenne il suo. Dopo una bizzarra parentesi a Edimburgo dove sceglie di studiare medicina rifiutando di frequentare Oxford, lascia presto il mondo universitario per dirigersi a Londra e tentare la carriera letteraria. Questi anni a Londra coincidono anche con lo scoppio della prima guerra mondiale e la posizione di Arlen è comune ad altri autori del tempo tra cui Aldous Huxley, D. H. Lawrence e George Moore: nonostante sia arrivato nel Regno Unito con la famiglia ad appena sei anni, Arlen infatti non è ancora cittadino britannico e l’alleanza della Bulgaria con la Germania crea una situazione particolarmente complessa per lo scrittore che non può prestare servizio militare nell’esercito inglese ed è guardato con sospetto per le sue origini. L’identità divisa caratterizza le prime esperienze letterarie di Arlen che inizia a collaborare – firmandosi con il nome di nascita Dikran Kouyoumdjian – con un periodico armeno con sede a Londra e con una rivista britannica che si occupa di letteratura, politica, arte. Affascinato dal mondo letterario dove iniziano a circolare le sue prime opere, adotta dunque il nome Michael Arlen, viene naturalizzato cittadino britannico e adotta anche legalmente il nome scelto.
Elegante nei modi e nell’abbigliamento, Arlen diventa una celebrità a seguito della pubblicazione del suo romanzo The Green Hat (1924), poi adattato da lui stesso per Broadway e per il West End di Londra e dal quale pochi anni dopo viene tratto un film con Greta Garbo, censurando le parti del romanzo ritenute più problematiche (omosessualità e malattie veneree).
Romanziere e autore di racconti, saggista, sceneggiatore, attraversa dunque con successo i primi decenni del Novecento, finendo anche sulla copertina di Time Magazine nel 1927; il suo nome si rincorre sulle pagine delle riviste, non solo letterarie: frequentatore del bel mondo e dell’ambiente intellettuale, viaggia tra Europa e Stati Uniti. Allo scoppio della seconda guerra mondiale torna in patria e la sua scrittura si fa sempre più attenta alla situazione politica; riceve anche un incarico ufficiale dalla Corona, ma ancora una volta la sua fedeltà è messa in dubbio e decide dunque di lasciare per sempre il Regno Unito e trasferirsi a New York, dove rimane fino alla morte, nel 1956. Già da qualche tempo esaurita la vena creativa smette del tutto di scrivere e si dedica al matrimonio e alla vita famigliare, dopo che nel 1928 aveva sposato la contessa Atalanta Mercati e dalla quale ha avuto due figli.

Con lo scoppio del secondo conflitto mondiale e archiviato il ruolo di scrittore, il nome di Arlen viene gradualmente dimenticato dal mondo letterario e questa piccola ma molto interessante selezione operata da Mattioli è al momento l’unico testo disponibile per i lettori italiani (se si esclude la sola versione ebook del suo romanzo, Il cappello verde, per StreetLib). I cinque racconti riuniti in La tempesta su Piccadilly sono dunque la lettura ideale per conoscere una parte dell’universo creativo dello scrittore inglese e scoprirne l’ironia ancora pungente, raffinata, le svolte impreviste della trama. La penna di Arlen dà forma alla buona società inglese di inizio secolo svelandone al lettore vizi e – qualche rara – virtù, con uno spiccato gusto per ciò che si cela appena oltre le apparenze di rispettabilità. È proprio questo in fondo il fil rouge che lega le cinque storie o, dovremmo forse dire, il filo di perle (al lettore scoprire il riferimento): cambiano i toni e i personaggi, ricorrono tra le pagine inganni, apparenze da mantenere, sotterfugi, accordi matrimoniali, irreprensibili apparenze. Arlen gioca amabilmente con il lettore attraverso storie dove difficilmente il mistero viene svelato del tutto o, quantomeno, non come ci si aspetterebbe e pur mantenendo lo spirito che ne caratterizza la scrittura i racconti si muovono su piani diversi e aprono a spunti interessanti. A partire, per esempio, dal tema matrimoniale, che l’autore disvela da angolature sempre diverse e intrecciandolo a ulteriori questioni sotto l’apparente leggerezza. Nel racconto che apre la raccolta, “Quella canaglia di una cameriera per signora”, lo sguardo di Arlen entra nelle stanze private di una donna, Porzia, e la storia si compie nei fitti dialoghi con la propria cameriera personale, l’unica in apparenza a conoscere il segreto della vera età della donna. Bellissima ed elegante, più volte divorziata, ha intrecciato ora una nuova relazione con un uomo molto più giovane di lei e sul punto di chiederle la mano. Porzia gli rivelerà il suo segreto o lo sposerà lasciandolo all’oscuro? Tra vestiti da sera, telefonate, mezze verità e ripensamenti, scorre il tempo di una storia piccola ma non banale, da cui oltre il gioco e l’ironia c’è anche spazio per qualche considerazione più in profondità.

 

Porzia era un ornamento che era stato indossato, con vari gradi di piacere e rassegnazione, da tre mariti. Con ognuno di questi tre gentiluomini si era comportata con la più grande cortesia e gentilezza, ma ognuno di loro, a suo tempo, aveva deciso che Porzia, per quanto donna bellissima e ornamento senza eguali, forse non era esattamente quanto richiesto per scopi puramente domestici.

 

Sarà la rilettura de La casa della gioia di Edith Wharton casualmente seguita a questi racconti di Arlen, ma non posso fare a meno di considerare la questione dell’età femminile – e andando avanti con questi racconti altre questioni che seppur in modo profondamente diverso legano le due letture – e della sua percezione sociale, anche questo esempio di un doppio standard di giudizio che il cambio di secolo non ha davvero cancellato. Porzia, sottolinea Arlen ironicamente e più volte, è un bellissimo ornamento, ma ben oltre la soglia anagrafica accettabile per il matrimonio con un uomo tanto giovane. Anche di Lily Bart, protagonista del romanzo di Wharton poc’anzi citato, l’autrice sottolinea fin da principio il ruolo che la società si aspetta da lei e il pericolo di una gioventù che la straordinaria bellezza non potrà fingere ancora a lungo. Lily, Porzia e le donne come loro (ma la signora di Arlen ha un bel patrimonio a sostenerla ed è una differenza fondamentale) sono state cresciute per questo, per essere dei meravigliosi ornamenti in società, raffinate nei modi e poco altro.  Non sappiamo quanto questo sia vero nel caso di Porzia, ma la vivacità degli scambi con la cameriera lasciano intuire una certa consapevolezza e meno ingenuità di quanto si potrebbe pensare. Poco o nulla contano i sentimenti – e infatti non sono nemmeno oggetto di discussione in queste storie, non del tutto almeno – di Porzia, del potenziale nuovo fidanzato: contano le apparenze e il giudizio della società cui si appartiene. È qui che lo sguardo di Arlen si posa senza sosta, mai maligno ma attento a raccontare ciò che si nasconde dietro le facciate, dietro apparenti ritrosie e immacolate reputazioni. 

 

Signora, noi inglesi siamo snob, ma siamo anche puritani. Riveriamo le nostre tradizioni, lisciamo gli strascichi dei nostri superiori – ma Dio gli aiuti, signora, quando portano i loro diademi ricurvi sulla pubblica piazza. (“Il diadema ricurvo”, p. 78)

 

Ecco, dunque, che quando la reputazione irreprensibile viene messa in dubbio, quando «i diademi ricurvi» mostrano la realtà dietro la maschera, l’equilibrio si incrina. La rispettabilità di Lady Quorn, al sicuro in «uno dei più importanti matrimoni d’Inghilterra» viene dunque messa in dubbio da un uomo che l’avvicina in St. James Street e inizia a ricattarla, minacciando di svelare le sue abitudini amorose alle spalle del marito. Ancora La casa della gioia, mi perdonerete: pure nel romanzo di Wharton c’è una donna che protetta dall’apparenza di rispettabilità data dal ruolo di moglie vive la propria vita piuttosto liberamente, laddove tutti sanno – a eccezione dell’ingenuo marito – e fanno finta di niente; essere sposata le consente una libertà di movimento e la salvaguardia delle apparenze, cosa che non è concessa a Lily Bart e sarà proprio il pettegolezzo – insieme a qualche scelta avventata – a causarne la rovina. La gentildonna di Arlen, dunque, è come le altre ben consapevole del proprio ruolo in società e della posizione privilegiata che occupa e disposta a usare ogni arma in suo possesso per mantenerli. Quello tra lei e l’uomo che vorrebbe ricattarla è un gioco raffinato e dalle svolte inattese e da questa parte della storia ci ha permesso ancora una volta di ampliare lo sguardo oltre la manciata di pagine di cui si compone.
Sulla protezione che deriva dall’essere coniugata si fonda anche il racconto L’asino d’oro, che è tanto ritratto ironico delle convenzioni matrimoniali quanto dell’incalzare delle giovani americane ricchissime protagoniste di rotocalchi, romanzi e racconti del periodo. La giovane americana qui presentata è tutt’altro che ingenua e per liberarsi dal peso di corteggiatori che mirano soltanto al suo cospicuo patrimonio e alle rigide regole cui una donna nubile deve sottostare decide di prendere in mano la situazione e proporre a un giornalista di poco conto un ben preciso accordo matrimoniale che possa soddisfarli entrambi, garantendo agio all’uno e libertà all’altra. Anche qui al lettore il gusto di scoprirne le svolte inattese. L’asino d’oro nella sua leggerezza non manca di ironia intelligente sui già citati temi che si rincorrono in questa raccolta e che, mutati, ci danno ancora modo però di ragionare sui doppi standard di giudizio, la protezione e la libertà che derivano dall’indossare la maschera che risponde perfettamente alle aspettative della società, i giochi di forza dentro le relazioni.
Leggere questi cinque racconti esemplari è gettare uno sguardo sul mondo di Arlen, quello rappresentato e quello reale, finendo per comprendere la fascinazione suscitata nei suoi contemporanei e le parole di ammirazione che lo stesso Fitzgerald gli tributò (almeno in una fase della sua vita, poi ne mise in luce più la natura commerciale dei suoi scritti e le debolezze). Silvia Lumaca cura dunque un’edizione che riporta abilmente la voce di Arlen al lettore italiano e verso la quale muovo la mia solita critica per la scarsità degli apparati critico-bibliografici necessari per presentare l’autore a un pubblico che generalmente gli è estraneo. C’è, almeno, una breve ma puntuale introduzione alla raccolta, che permette di inquadrare il contesto in cui questi racconti si muovono.  
Sotto sotto sono storie di inganni, ognuna a suo modo. E ognuna lascia un buon grado di ambiguità, tanto caro a noi lettori di racconti, inarrestabili indagatori del mistero. 

Edith Wharton: lo stretto rapporto con la narrativa breve

di Debora Lambruschini

La prima opera letteraria – così la definisce l’autrice stessa – pubblicata da Edith Wharton è un racconto. Nonostante il suo nome sia principalmente associato ai celebri romanzi The House of Mirth (1905) e The Age of Innocence (1920, con il quale vinse, prima donna nella storia, il Premio Pulitzer per la narrativa), la sua identità di scrittrice si intreccia strettamente alla forma breve, a cui Wharton si dedicò lungo tutto il corso della vita e della carriera letteraria. I racconti, dunque, sono tasselli fondamentali nella bibliografia dell’autrice, parte fondante del suo universo letterario.
Nello spazio del racconto Wharton costruisce e mantiene fede alla propria visione artistica, tanto che si tratti di storie più aderenti al realismo quanto di racconti di genere, nei quali dunque prendono forma – anche prima dei romanzi – i temi a lei più cari, tra convenzioni sociali, matrimoni soffocanti, patriarcato. Punto di osservazione interessante per addentrarsi nella produzione breve di Wharton sono due raccolte in apparenza molto diverse tra loro, che pure svelano nel corso della lettura una trama di occorrenze e rimandi, non solo dunque nell’ambito della short story ma della produzione tutta della scrittrice newyorkese e che mi pare perciò particolarmente interessante proporre ai lettori: Fantasmi, pubblicato da Neri Pozza nel 2022 con la traduzione di Tiziana Lo Porto, e Ritratti di donne del 2024, tradotto da Mara Barbuni per Minerva edizioni. Due raccolte dall’impianto differente, per genere e per composizione: Fantasmi comprende infatti undici storie composte da Wharton lungo il corso di tutta la sua carriera ed è una raccolta concepita dalla stessa autrice, poi pubblicata postuma nel 1937, a lungo finita nel dimenticatoio, infine riscoperta; i racconti contenuti in Ritratti di donne, invece, sono stati selezionati dalla curatrice della raccolta, Raffaella Cavalieri, un’operazione costruita con particolare attenzione. Entrambe le raccolte permettono al lettore italiano di entrare nella produzione breve di Wharton partendo, almeno così appare, da un punto di vista specifico e particolare, per poi rendersi presto conto delle profondità che si celano dietro le etichette di genere e le atmosfere gotiche, dietro l’apparente leggerezza, i giochi letterari. Storie stratificate, che sfidano i confini, saldamente ancorate al tempo entro cui si muovono ma che, inaspettatamente, aprono squarci anche sul presente, su una contemporaneità tanto distante dalla buona società narrata da Wharton eppure mossa da simili intenzioni.
Al centro dell’interesse letterario dell’autrice la gabbia delle convenzioni sociali, la rigidità dei ruoli prestabiliti, i matrimoni soffocanti, l’imprigionamento – metaforico o reale – delle donne. Temi che si rincorrono da un racconto all’altro, anche in raccolte peculiari come queste. Nel selezionare i sette ritratti di donne, Raffaella Cavalieri ha scelto storie che ognuna a proprio modo rappresenta una forma diversa di imprigionamento: le donne di questi racconti sono ingabbiate nelle convenzioni, in un ruolo, in un luogo; le gabbie sono quelle del matrimonio e delle aspettative sociali, sono quelle economiche, sono quelle del giudizio maschile. Il punto di osservazione dei sette racconti qui riuniti, che ben rappresentano la poetica di Wharton, è perciò il femminile costretto dalle regole del patriarcato, da cui quasi mai è possibile sottrarsi. I sentimenti stessi possono diventare una gabbia, vittime delle convenzioni, del potere dell’altro: in “Atrofia”, il racconto di apertura, la malattia dell’amante getta una donna sposata nello sconforto e la spinge a compiere imprudenze che potrebbero costarle la reputazione; la rigidità delle regole sociali e delle apparenze, costringono la protagonista dentro un ruolo a cui non può sfuggire, nonostante il disperato bisogno di sapere le reali condizioni di salute dell’uomo amato. Il racconto si poggia su un’ambiguità crescente, tra verità, menzogna, pericolo, scatenando nel lettore domande che non possono trovare risposta sulla pagina, specchio dei dilemmi che affliggono i personaggi. Ecco, dunque, che quando anche le convenzioni sociali vengono meno, le donne sono ancora prigioniere delle regole imposte, dei sentimenti, del giudizio. La vita coniugale e, più ancora, l’istituzione matrimoniale, sono campo d’interesse privilegiato per Wharton, che non smise mai di interrogarsi sui ruoli, sulle aspettative – personali e soprattutto sociali – sulle dinamiche dei rapporti e ciò che sottostare alle regole comporta.
L’autrice osserva da punti di vista diversi, maschile e femminile, ma anche tra sentimenti e delusioni, distanze, affetto. Ne “La resa dei conti” a essere messa in discussione è la base stessa di un matrimonio, ciò su cui si fonda, un comune accordo di libertà e rispetto delle scelte dell’altro che di fronte ai sentimenti e al pericolo dell’abbandono viene meno.

 

Il sangue le salì al volto. Lui aveva le sue ragioni, dunque – ora era sicura che le aveva! Nei dieci anni del loro matrimonio, quante volte si erano fermati a considerare le idee su cui era fondato? Quante volte un uomo scava nelle fondamenta della sua casa per esaminarle? (“La resa dei conti”, p. 41)

 

La teoria del matrimonio si scontra con i sentimenti, con ciò che certe scelte comportano per l’uno o per l’altra, ancora una volta imprigionati nei ruoli di genere e nel differente metro di giudizio cui uomini e donne sono sottoposti. Lasciare libero chi si ama, dunque, nel rispetto della promessa su cui l’unione si fondava, o far valere i propri diritti e piegare egoisticamente la legge alle proprie esigenze?
Dignità, orgoglio, apparenze, sono il fondamento della società ritratta da Wharton, cui aggrapparsi anche quando tutto cade e le gabbie economiche sono prigioni altrettanto inespugnabili di quelle delle convenzioni, della disparità di genere, delle miserie coniugali. Da questo punto di osservazione le storie di Mrs Manskey e Mrs Fontage, l’una che non dispone della forza economica necessaria a proteggere la vita che ama, l’altra che ha perduto ogni cosa. Mrs Mankey’s view è il primo racconto pubblicato da Wharton, apparso su Scribner’s Magazine nel 1891 e seppur con i limiti di una scrittura ancora acerba è già un esempio dell’interesse per l’interiorità dei personaggi, le solitudini, ma anche della capacità descrittiva di ambienti e luoghi. Ecco, i luoghi, che si rincorrono in queste storie, in entrambe le raccolte: la città, l’ambiente rurale, New York e l’Europa, ognuno con le proprie regole da seguire, ma anche le stanze, gli oggetti che le abitano. E sempre, al centro del mondo di Wharton, l’influenza che la società esercita sugli individui, determinandone carattere, scelte, appartenenza o emarginazione. I personaggi di Wharton, che siano parte della società o ne vengano esclusi, sono comunque il prodotto di quella collettività, dominata da regole e convenzioni. Anche per i racconti più di genere, come quelli contenuti nella raccolta Fantasmi, dietro i richiami al gotico l’interesse di Wharton è ancora una volta il ritratto sociale, i matrimoni soffocanti, la condizione femminile. Le case, dunque, diventano un simbolo molto potente, che risuona di echi letterari, dà forma alle atmosfere, apre a nuove suggestioni.
In queste undici storie selezionate dall’autrice gli elementi più caratteristici del genere gotico si manifestano mediante narrazioni ricche di suspense, costruite a partire da vicende riportate da altri rispetto ai protagonisti, dove trovano spazio antiche leggende, superstizioni, dimore decadenti o solitarie.

 

Il freddo silenzio senza risposta della casa gravava sempre di più sulla signora Clayburn. Non l’aveva mai considerata una casa grande, ma adesso, in quella luce nevosa d’inverno, sembrava immensa e piena di angoli minacciosi dietro i quali nessuno osava guardare. (“La vigilia di Ognissanti”, p. 27)

 

Le ghost stories di Wharton seguono tutte le regole del genere, tanto per atmosfera evocata che per modalità narrative, e restano sospese in un limbo di ambiguità che non sempre si dissolve nel finale.
È un turbamento addomesticato, che non scivola mai nell’orrore o nel macabro, ma che casomai si pone al confine tra realtà e sogno, tra ciò che è tangibile e ciò che è irreale, presenze vere o presunte, misteri che non sempre trovano soluzione. E stando nello spazio della letteratura angloamericana è impossibile, sfiorando il gotico soprattutto, non ragionare sul ruolo della casa, della domesticità, che nella cultura letteraria statunitense ha un valore peculiare. Da Poe a Shirley Jackson, passando per Hawthorne, James, la stessa Wharton naturalmente, il Southern Gothic. Un discorso molto ampio su cui mi riprometto da tempo di tornare in modo approfondito, ma che qui mi preme riportare ai racconti di Wharton, a quelle dimore che non si limitano a conferire atmosfera alle storie di fantasmi ma diventano parte integrante della poetica stessa dell’autrice. Citando nella prefazione i racconti di fantasmi a suo giudizio più esemplari del genere – da Janet la morta di Stevenson, le storie di Le Fanu, La cuccetta superiore di Marion Crawford fino a Giro di vite di James – Wharton spinge il lettore a una riflessione su etichette letterarie, giudizi di critica e lettori e, aggiungo, sulla profonda influenza mai esaurita del gotico, rinnovato nella forma ma costantemente in dialogo con la contemporaneità. Ho nominato più volte l’elefante nella stanza, Henry James: il rapporto che intercorre tra i due, legati da profonda amicizia, è stato oggetto di numerosi studi sia sul piano biografico che su quello della critica letteraria e la stessa Wharton nella sua autobiografia, Uno sguardo indietro, dedica diverse riflessioni al legame con lo scrittore.

 

Il mio primo incontro con Henry James ebbe luogo molti anni prima, probabilmente verso la fine degli anni Ottanta; benché sia proprio al Mount che egli appare per la prima volta nel quadro, in primo piano. Per lungo tempo, sembrò esservi poca speranza che egli vi dovesse mai apparire, perché, la prima volta che c’incontrammo, ero ammutolita davanti alla sua grandezza; non avevo mai dubitato che Henry James fosse grande, ma non potevo immaginare quanto lo fosse, finché non arrivai a conoscere l’uomo, oltre che i suoi libri. (Uno sguardo indietro, Eliot, p. 139)

 

L’autobiografia della scrittrice è parziale, sceglie di soffermarsi su alcuni aspetti della propria vicenda umana e letteraria ignorandone molti altri – su tutti, il divorzio dal banchiere Edward Robbins Wharton – e resto convinta che salvo alcuni esempi non sia il mezzo ideale per conoscere uno scrittore né tantomeno la sua opera. Uno sguardo indietro apre anche a spunti interessanti, sul desiderio di Wharton di far parte dell’élite letteraria del tempo, gli sforzi per essere presa sul serio, i lunghi soggiorni in Europa e il periodo bellico, le fondamentali amicizie con James appunto, Walter Berry, Howard Sturgis, Egerton Winthrop.  
È difficile dunque leggere i racconti di fantasmi di Wharton senza pensare al legame con The Turn of the Screw, ma anche all’opera tutta di Wharton e ciò che la avvicina e allo stesso tempo la allontana dai capolavori dell’amico-mentore. Giro di vite è forse la più celebre storia di fantasmi senza fantasmi, o quantomeno senza la certezza che siano tali, al fondo della quale resta sospesa la domanda che non trova risposta certa: esistono davvero i fantasmi – in questa storia? È solo frutto della nostra immaginazione, è solo una suggestione? Qualcosa di simile ce lo chiediamo anche di fronte a un’altra storia, ancora una volta costretta in uno spazio domestico che si fa sempre più soffocante, The Yellow Wallpaper di Charlotte Perkins Gilman: la figura imprigionata nella carta da parati della stanza è reale o è una suggestione della mente della protagonista, prostrata dall’inattività, dal confinamento in quella stanza, dalla depressione post partum? E, ancora sul racconto di Gilman, dove finisce il tangibile e inizia il soprannaturale, dove la realtà e dove il delirio? Le case e le presenze di Wharton non si spingono così profondamente nelle pieghe del patriarcato, dell’oppressione femminile ma raccontano comunque una diversa versione della buona società tra fine Ottocento e inizio Novecento, dei rapporti e delle convenzioni su cui si fondano, del matrimonio. Possono essere lette per puro godimento di una storia di fantasmi dalla quale la sensibilità moderna non rimarrà più di tanto scossa, ma qui e là ci saranno dettagli che faranno riconsiderare al lettore la leggerezza con cui li si è accolti.
Vale per le storie di fantasmi ma anche per i racconti tutti di Wharton, non produzione minore ma tasselli fondamentali e fondanti della sua bibliografia.

Una nuova vita, di Lucia Berlin

Titolo: Una nuova vita
Autore: Lucia Berlin
Editore:Bollati Boringhieri
Traduzione: Manuela Faimali
pp. 256 Euro 17,00

di Fabrizia Gagliardi

L’arte è disperazione totale. E probabilmente ci sono esempi pronti a smentirmi, ma ammettiamolo: chi è che sviscerando una qualsiasi vita artistica non ha intravisto avvisaglie, stranezze e piccole inclinazioni che hanno chiarificato gli sviluppi successivi?
Forse è solo il processo per trovare umanità nel genio, individuare spiegazioni dopo l’azione e capire la distanza tra rimorso e rimpianto. In definitiva, è cercare di spiegare l’istinto di andare avanti dopo l’esperienza.
La vita e la scrittura di Lucia Berlin sono un concentrato di questi tentativi messi in atto da lei stessa, continuamente. Con Una nuova vita (traduzione di Manuela Faimali, Bollati Boringhieri, 2024) possiamo ricostruire l’opera completa dopo che la casa editrice torinese in questi anni ha metodicamente recuperato tutta la produzione dell’autrice. Nel 2017 era comparso per la prima volta in Italia La donna che scriveva racconti (traduzione di Federica Aceto), poi era stata la volta di Sera in paradiso (traduzione di Manuela Faimali, 2018), infine, nel 2019 era arrivato l’album di famiglia e il racconto autobiografico di Welcome Home (traduzione di Manuela Faimali).

Una nuova vita chiude il cerchio curato dal secondogenito Jeff Berlin e vi troviamo racconti mai comparsi nelle raccolte precedenti, due inediti e una selezione di saggi e brani tratti dai diari di Lucia Berlin. Ogni testo si apre con una nota del curatore che identifica il momento preciso nella biografia della madre. La distanza dall’oggettività si fa sempre più marcata e sorge la stessa domanda dell’introduzione: «come si possono descrivere fedelmente i ricordi, con compassione e obiettività, preservandone almeno in parte i segreti?»
In effetti, non è necessario conoscere i dettagli più reconditi di una vita, in fondo sono quelli che la rendono uguale alle altre. È l’errore in cui si incappa nell’idea della scrittura dove i primi passi decisivi prendono le misure con una soggettività dilagante e mai modesta.
Le sbordature dell’io di Lucia Berlin non sono mai casuali e operano in maniera inversa rispetto al tenere nascosto per affascinare e al “mostrare, non dire”. L’autrice incamera tutto, tutto intorno a lei è naturalmente scarno, povero, miserabile e duro. Tutto entra in lei conservando le stesse caratteristiche nella scrittura ma, in parte, ne esce rischiarato da un’infusione di calda speranza.
La sovrapposizione è tale che leggendo i suoi diari s’incappa nell’equivoco di scambiarla per frammenti e bozzetti di altri personaggi di finzione.
Persino il tono dissacrante dei racconti più crudi come La fossa - che ripercorre l’arrivo in un centro di disintossicazione e i primi momenti di astinenza - sono composti da una padronanza linguistica più sofisticata, un talento naturale nel calibrare la cruda realtà per sublimarla in altro. Il ricordo del periodo in cui lavorava da centralinista in ospedale, ne Il centralino, aderisce al ritmo frenetico e all’umore generale di tutte le compagne d’avventura e dà spessore a personaggi che altrimenti sarebbero rimasti sullo sfondo.

Una nuova vita non è una raccolta di racconti nel vero senso del termine, è più un compendio di tentativi, successi, esercizi per esorcizzare il blocco dello scrittore (come La fanciulla e Storia d’amore. Ispirata a Čechov), temi e ricordi ricorrenti. Non è l’arrivo, ma il percorso per arrivarci.
Quando il passato è sempre presente e al cambiare dell’interiorità si plasma ulteriormente con altri significati, quando il vuoto di prospettive conduce al rimuginio, quando lo smarrimento fatica a trovare la strada sicura, Lucia Berlin non lascia andare niente: è sempre presente nella sua narrazione ma sa farsi da parte quando il disincanto rischia di planare sul reale.

Due suoi studenti all’Università del Colorado “le chiesero qual è la tua poetica, non hai una tua political agenda?”

No. Scrivo solo quello che mi sembra vero. Per sentirsi emotivamente veri. Quando c’è verità emotiva, segue un ritmo e, secondo me, una bellezza dell’immagine, perché vedi chiaramente. Per la semplicità di ciò che vedi.[...]Le mie storie sembrano parlare di me, ma di solito è quando provo amore verso le altre persone che nasce la storia. E solo la gioia di essere vivi. Quindi [non posso scrivere] se penso sempre a me stessa. Per esempio, se penso sempre ai miei mal di schiena. Penso che sia uno stato molto spirituale. È quasi come una religione. Sembra banale, ma è come recitare una preghiera o cantare un inno o qualcosa del genere. E se mi dispiace per me stessa, non scriverò. Devo essere praticamente in uno stato positivo.

I suoi racconti non sarebbero niente senza la sua storia, lei non sarebbe la stessa senza aver scritto, non puoi recidere una parte senza togliere linfa vitale all’altra. La doppia corrispondenza impone il fascino ambiguo della verosimiglianza. L’attrazione verso la lettura di cose percepite come vere, storie autentiche, risiede nel loro fondo di verità, oppure ha successo quando si allontana dalla realtà?
Quando chiedono a Lucia Berlin se i suoi racconti corrispondono a eventi reali lei risponde sì…e no, perché la verità del lettore è la trasformazione della realtà messa in atto dallo scrittore. E se tutto a origine dall’alterazione della realtà, non potremo più definirla tale, il lettore e l’autore ne creeranno un’altra, sempre diversa perché si riflette nelle storie personali più disparate.
Ed è incredibile che un tale attaccamento a un’unica, specifica, vita, in continua rielaborazione, anche dopo anni, non ha prodotto un universo piatto, ma ha generato ulteriori significati che si espandono nello spazio e nel tempo.
Forse la soluzione per pretendere il futuro, come scriveva in uno dei suoi diari («Io voglio l’immortalità»), è il tentativo riuscito di continuare a esercitare il perdono e la comprensione profonda per se stessi e per l’umanità.

La pazienza dell’acqua sopra ogni pietra, di Alejandra Kamiya

di Debora Lambruschini

 

“Scrivere nel senso stretto e fisico, di sedersi con un pezzo di carta o un computer, è una piccola parte della scrittura. La mia condizione di scrittrice permea ogni gesto, ogni atto, la mia percezione, ogni cosa della mia vita. È una specie di religione, nel senso che mi dà un centro di gravità per essere e trascendere. Quando parlo di trascendere non parlo del dopo morte ma della possibilità di essere nell'altro, di uscire da me stesso e di essere letto da un altro.Sono una scrittrice tanto quanto sono eurasiatica e latinoamericana, quanto sono madre e figlia: non posso smettere di esserlo in nessun momento. Nemmeno voglio farlo”.

 

Quando ho posato la raccolta La pazienza dell’acqua sopra ogni cosa della scrittrice argentina Alejandra Kamiya ho sentito l’urgenza di dialogare con l’autrice, confrontarmi con lei su alcuni aspetti della scrittura che mi avevano particolarmente colpita. Grazie a Gianluca Cataldo, ufficio stampa de La nuova frontiera, editore per cui la raccolta è approdata pochi mesi fa in Italia con la traduzione dallo spagnolo di Elisa Tramontin, ho potuto rispondere a questa urgenza: le parole di Kamiya sono misurate ed evocative al pari dei suoi racconti, lo scambio mi ha permesso di riflettere sul senso della scrittura, su una prosa tesa tra realtà e sogno e l’intersezione tra due culture, quella argentina per parte materna e quella giapponese del padre. Mi sono soffermata a lungo su quanto essere scrittrice identifichi Kamiya, una condizione che, come dice lei «permea ogni gesto, ogni atto», investendo ogni aspetto del quotidiano, la percezione del mondo. Scrivere, dunque, è qualcosa che va ben oltre l’atto in sé di sedersi alla scrivania davanti al foglio bianco, è la postura tutta con cui si osserva il mondo e lo si interpreta.
Nei racconti de La pazienza dell’acqua sopra ogni pietra questa postura si avverte piuttosto chiaramente: sono storie in cui tutti i sensi vengono chiamati in causa, le immagini si intrecciano a una scrittura evocativa, onirica a tratti, racchiuse nello spazio di una manciata di pagine ciascuna. Le etichette di genere sono labili come i contorni delle storie che rifuggono rigide categorizzazioni e di volta in volta si misurano con il reale, il sogno, l’incubo, la memoria, l’invenzione letteraria. Nel racconto di apertura, “Sola”, la protagonista, Eva – e la scelta del nome non è affatto casuale – , si aggira tra le stanze di casa che scopre improvvisamente vuote, avvolte in un’oscurità che attraversa ogni cosa. «Tutto può accadere nelle ore vietate alla luce» e tutto infatti è accaduto: accanto a lei nel letto non c’è traccia di Antonio, il compagno, le sue cose sono dove le aveva lasciate ma la sua presenza è come fosse svanita. Lentamente Eva si muove tra gli spazi vuoti della casa, del palazzo, per accorgersi che non solo Antonio ma tutti quanti intorno a lei sono scomparsi. Kamiya compone una storia dai contorni perturbanti, evoca altri mondi e altre narrazioni, tesa tra realtà e incubo. Un’atmosfera che si ritrova ne “Il bagno” dove al contrario però più che la scomparsa colpisce l’apparizione: una donna sconosciuta «seduta sul bordo della vasca da bagno» di Pola, lo sguardo ferito e fragile. È quasi un gioco di specchi, ciò che per un momento aveva i contorni del sogno assume la forma dell’incubo. Un’altra casa, ora è lei la donna seduta sul bordo della vasca.  
I racconti, dunque, sono sospesi tra due mondi, reale e immaginario, ma anche personale e finzionale: la narrazione si compie in tale intersezione ed è come se attraverso questa atmosfera anche le cose stesse restassero sospese, a partire dal giudizio sui personaggi e le loro scelte.

 

“[…] Non solo le mie storie si sviluppano all'incrocio tra il reale e l'immaginario ma anche la mia vita. I giorni passano lì, credo, che percepiamo e completiamo con le idee e le credenze che ci abitano. Per quanto riguarda il giudizio sui miei personaggi: cerco di non giudicarli, affinché agiscano liberamente, o almeno il più liberamente possibile.”

 

Lo spazio bianco della narrazione occupa una parte molto importante in questi racconti in cui ogni parola, dunque, è caricata di significato, amplificata dal sistema di immagini e simboli che li attraversa. Come lettori dobbiamo venire a patti con il mistero che non potrà mai essere pienamente svelato e calarci in quegli interstizi, trovare da noi la strada.

 

“Poi guardo le storie che ho, che, come dici tu, ognuna è stata scritta come un'unità chiusa, e penso a una forma, una scultura. E quindi organizzo le storie in modo da cercare quella forma e completarla”.

 

All’inizio della lettura riflettevo su quanta distanza ci fosse tra le due culture cui l’autrice appartiene e come questa distanza si traduca nella narrazione. Arrivata alla fine, in realtà, mi sembra di notare una compenetrazione ideale tra le due: è come se il mondo immaginifico di Silvina Ocampo, Mariana Enriquez e della grande tradizione del racconto femminile argentino, si sposi perfettamente alle atmosfere della tradizione nipponica.  

 

“Mi sembra che siamo di nuovo d'accordo: scrivo inserita nelle tradizioni a cui appartengo. Non so se la combinazione è perfetta come dici tu, ma so che è la combinazione di cui sono fatta. È impossibile scrivere racconti in Argentina senza sentire lo sguardo di Borges sulle mie spalle e, nel mio caso particolare, senza sentirlo anche sopra e davanti a me, perché lo ammiro fin da quando ero piccola”.

 

La scrittura, ancora, non come atto in sé ma come identità, percezione del mondo. Ecco, dunque, che i due mondi cui appartiene Kamiya si intersecano nel racconto, affondano le mani nella tradizione, la reinventano. Il perturbante, le atmosfere oniriche, il quotidiano, il realismo magico, la realtà, l’invenzione, il cuento argentino, la cultura giapponese e gli haiku: la voce di Kamiya si forma qui, in questo spazio nuovo, si fa fluida e tende ora all’una ora all’altra. L’esperienza personale entra nel racconto e assume forma letteraria, rielabora situazioni, sentimenti.

 

All’epoca essere giapponese era passato da sorta di disonore a vantaggio. Ero diventata “esotica”, e ciò che prima mi aveva procurato castighi ora sembrava essere una cosa buona. Non ho mai capito il meccanismo né ho mai potuto eluderlo. (“Luoghi buoni”, p. 66)

 

L’identità giapponese nel racconto “Luoghi buoni” passa attraverso fasi diverse di diffidenza e accettazione ma è soprattutto memoria: la voce narrante è quella di una donna anziana, fermata per strada da un ragazzo che vorrebbe donarle l’ultimo cagnolino rimasto da una cucciolata ma del quale lei inizialmente rifiuta di occuparsi per via dell’età; inizia qui il susseguirsi dei ricordi dell’infanzia e della vita adulta, scandito dai diversi cani che l’hanno accompagnata. In poche pennellate Kamiya evoca un mondo, il pregiudizio verso i giapponesi, le vessazioni da parte degli altri bambini, la consolazione dei momenti in compagnia del primo, amatissimo cane. Il tempo scorre veloce nel racconto, un ricordo ne evoca un altro e le cose mutano ma non si dimenticano. Il tempo, ancora, è scandito dai cani che danno misura anche dei rapporti, della perdita, delle relazioni.
Che siano avvolte da atmosfere oniriche o più marcatamente realistiche, le storie di La pazienza dell’acqua sopra ogni pietra sono particolarmente legate dal fil rouge delle relazioni affettive, di cui Kamiya interpreta varie sfumature. È soprattutto il rapporto genitori-figli a colpire in modo peculiare e la forma di accudimento che, in talune storie, si ribalta. “Le prove” è il testo più lungo e a tratti più doloroso di questa raccolta, ma anche il più intimo e ricolmo di affetto: attraverso la storia di una figlia che accudisce l’anziana madre, Kamiya dispiega davanti a noi la complessità dei sentimenti e, come negli altri testi della raccolta, la sensazione come lettori non è di osservare da fuori ma di abitare questa storia.

 

E penso che lei, che mi ha insegnato tanto, non mi ha insegnato a gestire questa cosa, a ridere, a dimenticare, a essere sorda, un’altra, lontana, a essere più capace. O forse l’ha insegnato e io non ho imparato: mia sorella si allontana sempre da mia madre e questo alimenta l’amore di mia madre per lei. C’è una forma di incontro in quella danza. (“Le prove”, p. 92)

 

Ci sono moltissime forme di amore in questi racconti, moltissimi sentimenti, che legano uomini e donne ma evidenti anche nel rapporto umano-animale, che Kamiya esplora con curiosità in un richiamo evidente alla tradizione cuentista sudamericana. La tradizione, dunque, l’influenza di Borges come citato dalla stessa autrice nel corso del nostro dialogo, rappresenta però le radici da cui si sviluppa una voce del tutto nuova, inafferrabile, sospesa tra due mondi e due culture di cui pare assimilare di volta in volta ciò di cui ogni racconto ha bisogno e arricchendo così una realtà letteraria in cui trovano spazio, da sempre, voci e narrazioni tanto diverse. Nella brevitas di queste storie – a proposito, vale la pena recuperare anche la raccolta precedente, Anche gli alberi caduti sono il bosco, pubblicata nel 2023 da Ventanas – c’è il mistero della scrittura, il convergere di due tradizioni letterarie, dal cuento agli haiku, dei due mondi entro cui Kamiya si muove da sempre, forse non appartenendo davvero né all’uno né all’altro. Una terra di mezzo, dove nascono le sue storie immaginifiche.

Il maestoso West di Annie Proulx

di Debora Lambruschini

 

Mi sorprende sempre come i libri possano dialogare fra loro, talvolta direttamente, altre lungo percorsi imprevedibili. Il rapporto di connessione tra loro però non è sempre così diretto, regolare, come si potrebbe pensare, ma si compone una mappa ideale di storie, autori, luoghi, interconnessi tra loro. Stavolta attraverso voci diverse prende vita un luogo, tra passato e presente, ben saldo nell’immaginario collettivo ma quasi sempre basato su stereotipi e pregiudizi, sulla leggenda dei suoi miti fondanti: il West, la frontiera, una storia di sangue, polvere, cowboy e lotta. Una storia di uomini, dove le donne hanno ben poca voce in capitolo, da un lato all’altro della narrazione.
E invece non è così. Un paio di anni fa è uscito per Black Coffee un gioiellino, Il conforto della vastità di Gretel Ehrlich, breve e puntualissima raccolta di saggi sul Wyoming composti tra il 1979 e il 1984 e che mi aveva molto colpita per la forza con cui l’autrice scardinava molti stereotipi sull’Ovest, a partire proprio dal mito dei cowboy e della Frontiera. Originaria della California, Ehrlich era arrivata in Wyoming per girare un documentario e da lì, alla fine, non se n’è mai più andata. Colpita da un grave lutto è proprio nella terra delle grandi pianure che sceglie di restare per curare il suo dolore e capire che fare della propria vita. Si immerge nella vita di un ranch e scopre che buona parte di quello che pensava del West è fondato su stereotipi ben lontani dalla realtà e inizia a scardinare molti preconcetti, tra cui l’idea di un mondo prettamente maschile. Il Wyoming e la vita in un ranch sono fatti tanto di durezza quanto di fragilità, di forza e di tenerezza: «Essere duri significa essere fragili; la tenerezza è l’unica vera forza» ed è su questi due poli opposti che si fonda la stessa figura del cowboy, emblema della frontiera.
Ehrlich è tra le ultime, in ordine cronologico, a dare un’altra rappresentazione dell’Ovest, libera dagli stereotipi su cui si è fondato il mito: prima di lei, un debito enorme verso Dorothy Johnson, la più importante scrittrice della frontiera, che ha saputo dare al genere western una connotazione letteraria e umana ben precisa. Per Ehrlich era il Wyoming, per Johnson il Montana, ma nello sguardo di entrambe la frontiera è una terra di contraddizioni e di stereotipi da abbattere. Al centro delle storie di Johnson ci sono uomini e donne molto spesso duri, come la vita di frontiera richiede di essere, ma anche profondamente umani, preda di dubbi, paure, fragilità. Uomini e donne, anglo e nativi, le cui vite sono raccontate con un’attenzione particolare al dettaglio, alla verità, basandosi su accurate ricerche storiche e restituendo al lettore quindi tutta la loro maestosa complessità.
È impossibile pensare alla frontiera e alle voci femminili che hanno saputo raccontarla senza tornare immediatamente ad Annie Proulx, al Wyoming che pulsa nelle sue storie. Ed è interessante che tutte e tre le autrici che ho citato, radicate nel territorio che hanno così magistralmente saputo raccontare, quei luoghi in realtà li abbiano scelti arrivandoci da altrove: Ehrlich, dicevo, dalla California, Johnson dall’Iowa, Proulx dal Connecticut. Come se fosse necessaria una certa distanza per affondare le mani nella realtà di quel luogo liberando lo sguardo da preconcetti, miti e leggende, e poterla così comprendere in tutta la sua brutale bellezza. Anche per Proulx, come per Johnson, raccontare significa prima di tutto andare a cercare la verità storica, comprendere e poi rappresentare le tradizioni, il territorio, le persone, i dettagli del quotidiano. Prima di dedicarsi alla narrativa – carriera iniziata a cinquant’anni con la prima raccolta di racconti, Heart Songs and Other Stories – Proulx è stata infatti una nota storica e giornalista del Vermont, dove si era stabilita per un master subito dopo la laurea in Storia. Lì si fonda questa lunga e fondamentale fase della sua vita, umana e professionale: si fa notare come autrice di articoli e libri di caccia e pesca, cucina e giardinaggio ed è sempre lì  prende avvio la carriera di narratrice – anche se la prima raccolta pubblicata è ambientata nel New England, dove ha trascorso l’infanzia e gli anni precedenti l’università – e dove si forma quella sensibilità verso la bellezza dei luoghi, il passaggio spesso devastante della modernità e le conseguenze del cambiamento. Una sensibilità che attraversa buona parte delle sue narrazioni, già a partire da Postcards (Cartoline, Minimum Fax 2023) del 1992, notevole romanzo che le valse il Pen/Faulkner Award. Proulx ha trovato la sua voce, quella che la porterà già l’anno dopo la pubblicazione di Postcards e il Pen/Faulkner Awards ad aggiudicarsi due dei più prestigiosi premi letterari degli Stati Uniti, il Pulitzer e il National Book Awards, a seguito dell’uscita di The Shipping News (Avviso ai naviganti, Minimum Fax 2018). Pochi anni dopo, l’approdo in Wyoming e le storie che hanno determinato la caratura letteraria dell’autrice: tre volumi per la serie Wyoming Stories (Close range del 1999, Bad Dirt del 2004 e Fine Just the Way It Is del 2008), in cui la fusione tra luogo e narrazione è totale e il tema western si fa letterario restando assolutamente reale.
Già apparse per editori diversi, le storie del Wyoming sono entrate stabilmente negli ultimi anni nel catalogo minimum fax – insieme ai romanzi di Proulx – e ora, a distanza di vent’anni dalla pubblicazione originale, è approdato in libreria anche l’ultimo volume della serie, Ho sempre amato questo posto (Fine Just the Way It Is) nella traduzione di Silvia Pareschi. Un progetto avviato nel 2019 con la pubblicazione del primo volume, Distanza ravvicinata e seguito nel 2022 da Cattive strade e che conclude quindi un percorso letterario importante.




Percorso che ha nella terra il suo fondamento: nella ricerca accurata su cui poggia ogni pagina scritta, nel desiderio di raccontare la realtà in cui è immersa e le sue contraddizioni, la bellezza crudele e le difficoltà. Quando parliamo di cantori dell’America rurale, di narrazioni di provincia, del rapporto fra uomo e ambiente che lo circonda, da Chris Offutt a Jack Bass, passando per Ron Rash, è alle storie di Annie Proulx che dobbiamo tornare, ai contrasti su cui poggia la narrazione, demistificata, brutale, piena di incanto.
Al cuore di ogni cosa, quindi, il rapporto con la terra, una natura inospitale, ostile ed estrema, che continuamente sfida l’uomo, lo mette alla prova:

 

Affittarono un ranch nella zona di Red Wall: casa di legno, e recinti sparsi qua e là che da lontano sembravano paletti lasciati cadere a caso. Il vento li isolava dal resto del mondo. Entrare in quella vorticosa corrente d’aria significava esserne respinti. Il ranch era alla deriva sull’altopiano. (da Distanza ravvicinata, “Il confine erboso del mondo”)

 

Qui è il vento che si insinua in ogni fessura della casa, più tardi sarà un decennio di siccità devastante con cui fare i conti:

 

Quei rancher che sperando nella pioggia si erano tenuti il bestiame furono presi in trappola come topi. Mentre l’estate si approcciava al suo rovente finale, il bene più prezioso per chi aveva le vacche era il fieno, e il prezzo del fieno eguagliava ormai quello dei rubini. Gli allevatori passavano ore al telefono e su internet cercando foraggio a prezzi ragionevoli. (da Cattive strade, “L’effetto trickle-down”)

 

«La cosa più importante nella vita è resistere», continuano a ripetersi tutti loro come un mantra. Resistere alla fatica del lavoro, alla terra ostile, all’isolamento che fa impazzire, al vizio del bere, al cambiamento. La solitudine è come un fil rouge che attraversa le storie e dà forma a quelle vite nel tentativo di combatterla, arginarla o venirne sopraffatti. Sono spesso storie di uomini, che dei sentimenti non conoscono le parole e spesso neppure i gesti. Come il vento, anche la solitudine si insinua nelle fessure, nelle relazioni:
C’è poco spazio per i sentimenti, meno che mai quando sono quelli “sbagliati”: eccolo lì, nella prima raccolta, il capolavoro, “Brokeback Mountain”. Pubblicato per la prima volta nel 1997 sulle pagine del New Yorker e acclamato da critica e pubblico, fissato per sempre nell’immaginario collettivo dal film di Ang Lee. È un gioiello, una storia struggente e brutale.

 

Se non ci pensa troppo sopra potrebbe nutrirgli la giornata, riportandolo ai vecchi tempi, a quei tempi di gelo sulla montagna, quando erano padroni del mondo e niente sembrava sbagliato. Il vento si abbatte sul caravan come fosse un carico di spazzatura che straborda da un camioncino, poi si acquieta, cessa, lascia che per un po’ ci sia silenzio. (“Brokeback Mountain”)

 

Un sogno, un ricordo, la vita in mezzo. Sono state fatte delle scelte, ci sono state delle conseguenze. E non è la sterile polemica che aveva suscitato in questo nostro angolino di mondo a farne un racconto tanto importante, quanto la scrittura tesa al massimo, la bellezza della rovina, i gesti minimi laddove non possono le parole, l’ambiente, la rottura e il rimpianto.

 

Come ampie nuvole di vapore sprigionate da una fonte termale in inverno gli anni di cose non dette e non dicibili, le ammissioni, le dichiarazioni, le vergogne, le colpe, le paure, si levarono intorno a loro. Ennis rimase come colpito al cuore, la faccia grigia segnata, contratto, gli occhi chiusi, i pugni stretti, poi le gambe cedettero e cadde sulle ginocchia. (“Brokeback Mountain”)

 

«L’immensa tristezza delle pianure a nord si riversò su di lui» ed è davvero difficile trovare parole più adatte per descrivere la perdita. “Brokeback Mountain” è un racconto di struggente bellezza ma non il solo esemplare della capacità letteraria di Proulx e si inserisce infatti perfettamente nel solco delle storie del Wyoming: un intreccio di mancanza, solitudini, nostalgia per un passato glorioso che forse non è mai davvero esistito; di una natura inospitale e sfidante, di strenua resistenza. Qui si muovono le storie di Annie Proulx, e coprono un arco temporale molto ampio, da fine Ottocento fino ai giorni nostri, per raccontare una terra, i desideri che vi si mescolano, cambiamenti e crisi, e gli uomini e le donne che la abitano, tra lampi di lirismo e brutalità. Lontana dal mito e dagli stereotipi della frontiera, il Wyoming di Proulx è un luogo dove il cambiamento ha inciso ferite profonde nel paesaggio e nelle persone:

 

Ma mentre contemplava con gioia quel territorio aspro, Hi notò i cambiamenti sopraggiunti nei due anni che aveva passato a estrarre carbone. C’erano steccati là dove non ce n’erano mai stati, e la vecchia pista White Moon era diventata una strada provinciale, con tanto di fossi e tubi di scolo. C’erano ciocche di lana impagliate nei rami di artemisia e salvia, e Hi immaginò che i pecorai usassero il deserto per far svernare le bestie. (“Il Great Divide”,da Ho sempre amato questo posto)

 

Il legame con la terra, il desiderio di piantarvi le proprie radici, si scontra con le difficoltà ambientali, tra siccità, carestie, mandrie perdute, e poi con il nuovo mondo a venire, l’età del petrolio, il declino dei grandi ranch, la Depressione, la guerra. Ma è un legame a cui pare impossibile sottrarsi, nonostante la discrepanza tra desiderio e realtà. Per alcuni di loro il richiamo degli spazi aperti è più forte di ogni cosa e sopravvive alle difficoltà, al tempo che scorre: «la morte del vecchio cacciatore di cavalli, addossato a una roccia, gli sembrava più onorevole» pensa allora il vecchio cowboy confinato in una casa di riposo dove passare gli ultimi anni della sua vita. (“Un padre di famiglia”). Il ricordo, comunque, non addolcisce la realtà, non smussa gli spigoli delle persone né cancella il peso di certi segreti e scelte. Ecco, di scelte e delle loro conseguenze sono fatte queste storie, ancora una volta intrecciate alla natura, alla terra, al lavoro. In un racconto bellissimo e brutale, “Quelle vecchie canzoni di cowboy”, Proulx narra la parabola di una famiglia e la storia piccola delle persone comuni si intreccia a quella più grande del Paese, la crisi devastante che ne segna le vite, l’allontanamento da casa alla ricerca di maggior fortuna, il pericolo dell’isolamento. Dicevo che queste sono spesso storie di uomini: “Quelle vecchie canzoni di cowboy” è invece anche la storia di una donna, del suo dolore, della sua solitudine, delle terribili conseguenze. Prima ancora, dell’essere donna in un mondo di uomini:

 

Ma per la prima volta Rose capì che lei e Archie non erano due metà della stessa persona, ma due persone diverse, e che lui, essendo un uomo, poteva andarsene quando voleva, cosa che lei, essendo una donna, non poteva fare. Adesso la capanna sapeva di abbandono e tradimento. (“Quelle vecchie canzoni di cowboy”)

 

Non c’è consolazione nei racconti di Proulx, magnifici e crudeli; non c’è nulla di mistico, ancestrale. C’è la realtà frammentata da squarci di bellezza che tolgono il fiato. C’è la vita. E qui, sì proprio qui, c’è la Letteratura.  

Mary McCarthy e l'arte dello short story cycle

di Debora Lambruschini

 

Leggendo Gli uomini della sua vita, il libro con cui esordì la scrittrice statunitense Mary McCarthy, non è facile tenere a mente quando ha fatto la sua prima apparizione in libreria, tale è la contemporaneità delle storie: preceduto dalla pubblicazione su rivista del testo di apertura, “Trattamento barbaro e crudele”, il volume è uscito per la prima volta in America nel 1942. E se forse non possiamo fingere che sia un testo di questo nostro tempo, quasi sicuramente saremo portati a considerarlo almeno degli anni Novanta, quell’epoca eternamente fissata da Sex and the city che, come scoprirete leggendolo, non è poi un così azzardato riferimento. La protagonista di McCarthy, però, la ragazza dapprima senza nome e poi presentata nelle sue molteplici identità e frammenti, Margaret Sargent, si muove per le strade di New York e i suoi circoli intellettuali, ben prima delle quattro eroine di Candace Bushnell. Ma, al pari di Carrie e le altre è una donna libera, indipendente, disinibita, e le sei parti che compongono questo libro ne raccontano – tra le altre cose – le relazioni, i matrimoni, le avventure. C’è poi il contesto, ci sono i dettagli, a ricollocare la storia e lo sguardo del lettore nel suo ambiente, la New York degli anni Trenta-Quaranta. Ma l’incantesimo ormai è stato lanciato e d’ora in poi sarà difficile credere che la voce di Mary McCarthy arrivi in effetti da così lontano.
In Italia The company she keeps, Gli uomini della sua vita, venne pubblicato per la prima volta da Feltrinelli nel 1962 e poi ristampato da Minimum fax nel 2012 con la traduzione di Augusta Darè, fino alla recente riedizione, sempre Minimum fax, di pochi mesi fa, nel luglio 2024, che a catalogo ha anche altri testi fondamentali di McCarthy, Il gruppo e Ricordi di un’educazione cattolica. L’interesse di critica e pubblico verso l’autrice e la sua opera, in effetti, non è mai venuto meno, e si concentra soprattutto su alcune questioni chiave: la componente metaletteraria, lo scarto minimo realtà-finzione, il ritratto non edulcorato della classe intellettuale, del mondo accademico e politico, della società americana, il femminismo, il patriarcato. Elementi che ben si radicano anche in questo primo testo pubblicato da McCarthy, di cui volutamente ho finora usato una vaga etichetta perché la questione è complessa e merita di essere approfondita.
Ma intanto, chi era Mary McCarthy? Ciò che di lei abbiamo bisogno di sapere arriva direttamente dalla sua voce, nell’autobiografia Ricordi di un’educazione cattolica, e ancora prima nei pezzi di sé disseminati in romanzi e racconti.
Rimasta orfana ancora bambina, McCarthy viene cresciuta da lontani parenti, a Minneapolis, dove riceve appunto quella rigida educazione cattolica che tanto profondamente la segnerà e dalla quale prenderà le distanze; un’educazione severa, segnata anche da abusi; l’infanzia e adolescenza trascorse in diversi collegi religiosi, cattolici ma anche protestanti, quando in seguito viene affidata alle cure di altri parenti ancora. L’adolescenza porta con sé la ribellione verso quell’educazione cui è stata sottoposta, tra letture considerate proibite, esperienze sessuali, indipendenza, fuga. Dopo la laurea al Vassar College si trasferisce quindi a New York, città d’elezione e palcoscenico ideale per la sua scrittura, e inizia a collaborare con numerose riviste, a partire da Nation e New Republic, fino a Partisan Review dove lavora come redattrice e critico teatrale. È il contatto con l’intellighenzia newyorkese e un ambiente, la sinistra, che la vedrà tra le protagoniste dei principali circoli culturali. Alla scrittura – e all’attivismo politico – intreccia la carriera accademica, insegnando prima al Bard College e poi al Sarah Lawrence.
Si avverte già nelle prime recensioni e analisi critiche il seme di quella scrittura brillante e lucida che caratterizzerà tutta la produzione a venire, non sempre con lo stesso esito felice, ma di certo peculiare. Quella, appunto, che già si va delineando in Gli uomini della sua vita. Che cos’è, quindi, questo testo con cui McCarthy esordì, prima sulle pagine della Southern Review e poi in volume nel 1942? Romanzo o racconti? E se racconti, di quale tipologia?  Iniziamo subito con l’indisporre l’autrice, scomparsa nel 1989 e quindi nell’impossibilità di controbattere: ha sempre definito The Company she keeps un romanzo e come lei una certa parte della critica letteraria, dei lettori e degli editori, non da ultimo Minimum fax con cui è uscito in Italia. Eppure, a ben guardare, l’etichetta più adatta a questo tipo di narrazione è quella dello short story cycle, una forma che affonda le radici nella tradizione del racconto e arriva fino ai giorni nostri, con esempi anche molto diversi tra loro ma accomunati da una certa postura autoriale e da elementi caratteristici. Come sottolineava già il critico James Nagel nel suo saggio The Contemporary American Short-Story Cycle

 

«lo short story cycle è un genere che affonda le radici nell’antichità, ben prima quindi del romanzo; dal punto di vista storico un «ciclo» è una raccolta di versi o di parti narrative incentrati su un evento o un personaggio principale. Ogni unità costitutiva rappresenta un episodio narrativo indipendente; secondo, esiste un principio unificatore che fornisce la struttura, il movimento e lo sviluppo tematico all’intera opera»

 

Il primo a definire e studiare il genere, negli anni Settanta, è stato il critico Forrest Ingramm, che individuava nello short story cycle una forma intermedia fra racconto e romanzo: un ciclo di storie è, per Ingramm, una serie di racconti in cui ognuno è legato all’altro in equilibrio fra autonomia e unità del tutto; ogni racconto che compone la sequenza, pur non perdendo la propria unicità, «non è di per sé stesso un’esperienza formale completamente chiusa, ma temi e motivi risultano evidenti nell’unità complessiva». Semplificando il più possibile, quindi, uno short story cycle è un libro di racconti in cui ogni storia è collegata all’altra, mantiene – e questa è la grande differenza di fondo dal romanzo – la propria autonomia e indipendenza anche libera dall’insieme, ma si regge su un’architettura che può essere data dalla ricorrenza di temi, ambientazione, personaggi, simboli, motivi, voce narrante. Non tutte le raccolte sono quindi delle sequenze, che devono avere unità e ordine preciso dei singoli racconti e il confine con il romanzo è talvolta labile; tuttavia c’è una differenza di fondo tra short story cycle e capitoli di un romanzo, i quali non rappresentano un’unità costitutiva autonoma. Se già definire i confini della short story è complesso, ancora di più, quindi, tentare di incasellare questa tipologia specifica, di cui, come si diceva, non mancano esempi nella produzione letteraria in lingua inglese: da Winesbourg Ohio di Sherwood Anderson o Nel nostro tempo di Hemingway, fino alla letteratura contemporanea con Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, La casa su Mango Street di Sandra Cisneros, Annie John di Jamacia Kincaid, Famiglie ombra di Mia Alvar, Lost in the City di Edward P. Jones, Uno shock di Keith Ridgway, solo per citarne qualcuno.
Se per alcuni di questi titoli l’etichetta di short story cycle – e di racconti come forma – è generalmente accettata dalla maggior parte della critica, degli editori e del pubblico, per altri la questione si fa più complicata, come per esempio La vita delle ragazze e delle donne di Alice Munro e, appunto, Gli uomini della sua vita di Mary McCarthy.  Il testo di Munro è infatti generalmente considerato dalla critica un romanzo, l’unico che avrebbe scritto, ma in realtà si tratta di una serie di sette racconti correlati fra loro, che attraversano le diverse fasi/età della vita della protagonista, in ordine cronologico. Tuttavia, come sottolinea anche Susanna Basso, traduttrice italiana di Munro, La vita delle ragazze e delle donne è una raccolta di racconti, che si sviluppa intorno a un unico personaggio: «con buona pace degli editori che si sono affannati a presentarlo come il tanto atteso "romanzo" di Alice Munro, non è di fatto più romanzo di qualunque altra sua raccolta di storie».
Il discorso si lega, specie nel contesto italiano, anche alle modalità di comunicazione editoriale, perché è ancora piuttosto radicato il pregiudizio sulla forma breve, tanto che spesso vengono scelte etichette giudicate più appetibili per i lettori come la tanto abusata “romanzo in racconti”, che era stata appiccicata anche a Olive Kitteridge. La faccenda a mio avviso va ben oltre la mera questione di etichette e ha a che fare con tutta un’impostazione mentale e, soprattutto, una mancata legittimazione della forma breve.

 

Per quanto riguarda quindi il testo di McCarthy, c’è da rivendicare l’etichetta di short story cycle, nonostante sia presentato come romanzo – ma già nella prefazione e nell’apparato critico si parla di racconti – e così indicato dall’autrice stessa. Questo perché Gli uomini della sua vita soddisfa appieno tutti i requisiti individuati poc’anzi come peculiari della forma, a partire dal più essenziale, l’autonomia del singolo capitolo-racconto inserito in un’architettura che nell’insieme rivela tutto il potenziale, tra occorrenze tematiche, personaggi, scelte formali. Quella stessa frammentarietà che ne distingue la narrazione, poi, è emblema della forma breve stessa, qui rappresentata dall'identità frammentaria della protagonista, Margaret Sargent. L’ordine dei capitoli-racconti – non cronologico – , lo svelamento delle connessioni tra l’uno e l’altro, la pubblicazione su rivista che precede il volume, sono anche questi elementi che ben corrispondono alla definizione scelta.

 

Fuori dalla questione formale, Gli uomini della sua vita si presenta come un testo che sorprende per la straordinaria modernità della narrazione che a tratti sembra quasi estraniarsi dal tempo eppure a esso e al contesto sociale entro cui le storie sono calate si lega in modo inestricabile. La voce di McCarthy è graffiante, resa egregiamente dalla traduzione di Darè, un’opera prima che non possiede quella pienezza dei testi di lì a poco in uscita, ma che inquadra già bene la direzione che l’autrice prenderà. La commistione di finzione e realtà, con la marcata componente autobiografica che lo contraddistingue – e che non venne subito riconosciuta come tale ma solo a seguito della pubblicazione dell’autobiografia – sono un ulteriore spunto di riflessione interessante, per un genere anche qui dalle molteplici forme e interpretazioni, non sempre riuscite, ma che talvolta hanno portato a risultati notevoli. L’esperienza personale ma soprattutto la ripresa in diretta di un contesto sociale che l’autrice conosceva molto bene, vengono quindi rielaborate in queste storie, ritratto quasi mai lusinghiero dei circoli frequentati da McCarthy, come si evince, per esempio, dal racconto “Ritratto dell’intellettuale come uomo di Yale”. Lo sguardo dell’autrice non fa sconti, la scrittura è brillante – eccezion fatta, a mio avviso, per il racconto “La galleria di un imbroglione”, cui un certo sfoltimento non avrebbe guastato – mai brutale o crudele ma neanche disposta a celare le piccole meschinità e mancanze della società newyorkese, filtrati dallo sguardo di una giovane donna che tenta di farsi strada. In “Trattamento barbaro e crudele” incontriamo per la prima volta la protagonista – qui ancora senza nome – quando è già una giovane moglie, in realtà a un passo dal divorzio: da tempo ha intrecciato una relazione con un altro uomo e si sta gustando quel segreto e l’impatto che avrà la sua rivelazione; le cose in realtà prederanno una piega diversa da quello che aveva immaginato. È il primo frammento di Margaret, Meg, che nel racconto successivo, “La galleria di un imbroglione” è una versione più giovane, non ancora sposata, alle prime esperienze lavorative in città. Trova impiego come segretaria presso una galleria, di cui a poco a poco si rende conto della gestione fantasiosa e pericolante. Altro cambio di prospettiva e salto cronologico per la protagonista di “L’uomo con la camicia Brook Brothers”, che già nel titolo ben inquadrava un certo archetipo maschile – e i ritratti di McCarthy le hanno spesso procurato critiche da chi si riconosceva più o meno celato dietro fattezze letterarie – , racconto di un’avventura sessuale in treno con uno sconosciuto e del desiderio di libertà della protagonista. Particolarmente interessante, accennavo prima, la rappresentazione nei testi di McCarthy dell’ambiente intellettuale, che qui si mostra nei racconti “L’amabile anfitrione” e il già citato “Ritratto dell’intellettuale come uomo di Yale”: nel primo la protagonista smania per essere ammessa nei circoli culturali che contano, tra cui la festa di un uomo particolarmente noioso che conosce però molte persone influenti le quali, tuttavia, non sono affatto interessate al loro ospite. Nel secondo, narrato attraverso la voce del protagonista maschile, un intellettuale socialista, Meg viene licenziata dalla rivista per la quale lavora per via delle proprie opinioni non edulcorate, generando inizialmente sostegno e presa di posizione del compagno, che poi ritratta a seguito di una generosa offerta di lavoro.
Impossibile non immaginare come i protagonisti di quegli ambienti ritratti da McCarthy si siano di volta in volta riconosciuti – e infastiditi – nelle sue storie; ma, la celebre lite tra McCarthy e la collega Lillian Hellman conferma che l’autrice non ha mai avuto intenzione di celare le proprie opinioni, come critica letteraria, scrittrice, militante politica.
Acerbe o meno che queste prime storie possano apparire, ci sono senza dubbio alcuni elementi che possono essere utili anche per gli scrittori contemporanei tra cui l’equilibrio fra finzione e realtà, lo sguardo diretto sul mondo che si sceglie di raccontare liberi da perbenismi. È anche da qui che si compone una narrazione capace di superare la prova del tempo.  

 

La voce femminista di fine secolo: Charlotte Perkins Gilman


di Debora Lambruschini


Quando ci si trova a studiare la short story angloamericana tra Otto e Novecento o, più nello specifico, la produzione breve femminile, è inevitabile prima o poi incappare nel nome di Charlotte Perkins Gilman e nel titolo del suo racconto più celebre e incendiario, The Yellow Wallpaper. Nelle primissime fasi di ricerca per la mia tesi magistrale, ormai diversi anni fa, accadde pure a me di notare in saggi critici anche molto diversi tra loro il ricorrere del nome di Gilman, per lo più in riferimento a quel racconto ma anche ad altri testi, di narrativa e non fiction. Fu piuttosto naturale, quindi, deviare, seppur di poco, dall’oggetto specifico delle ricerche – la short story inglese di fin de siècle e quattro scrittrici che vi diedero un contributo considerevole, George Egerton, Sarah Grand, Ella D’Arcy, Mona Caird – per approdare nella “terra di lei”, quella di Gilman: vi trovai una voce potente, capace di raccontare il desiderio femminile, la libertà e l’indipendenza, il cambiamento, che il tempo non aveva del tutto scalfito. Nata ad Hartford, Connecticut, nel 1860, Gilman (cognome che prese dal secondo marito, un lontano cugino) fu scrittrice e giornalista, ma prima di tutto fervente attivista per i diritti delle donne: il suo saggio del 1898, Women and Economics: a Study of the Economic Relationship Between Men and Women as a Factor in Social Evolution (“La donna e l'economia sociale: studio sulle relazioni economiche tra uomini e donne come fattore di evoluzione sociale, Moschini, 2007), segnò uno spartiacque fondamentale nel movimento femminista circa la riflessione del rapporto economico e sociale tra uomini e donne e la suddivisione di ruoli tra sfera pubblica e privata, argomenti che resteranno centrali nella sua riflessione critica e letteraria. La precaria situazione economica della famiglia d’origine – il padre li abbandonò lasciando la madre in gravi ristrettezze economiche – la portò ancora adolescente a cimentarsi in lavori diversi, sviluppando presto un interesse per la questione femminile e i movimenti di riforma sociale. Il suo nome, quindi, iniziò a circolare come conferenziera nell’ambito dei movimenti nazionalisti e poi, nel 1896, come delegata della California fino a Washington per la convention sul suffragio universale. Il 1890 fu un anno determinante per il percorso professionale e umano di Charlotte Perkins Gilman, da quel momento tra le voci più importanti del movimento femminista, impegnata in numerose conferenze in giro per il Paese e in Europa e al lavoro su saggi, racconti, poesie, testi critici che proprio in quell’anno iniziarono a circolare in modo capillare. È nel 1890, appunto, che scrisse anche The Yellow Wallpaper, il suo racconto più celebre, pubblicato due anni dopo dalla Feminist Press (in italiano tradotto per la prima volta da La tartaruga nel 1976). 
Esistono a oggi in Italia varie edizioni a stampa del racconto, a diversi gradi di sciatteria editoriale: sorprende francamente la scarsa cura con cui le opere di Gilman vengono perlopiù pubblicate, con qualche opportuna eccezione, di cui proprio The Yellow Wallpaper è l’esempio più lampante. Tra le recenti edizioni c’è quella a opera di Lorenzo de’Medici Press, per la traduzione di Kristi Veseli, che a mio avviso ha solo il merito di aver reso accessibile al pubblico italiano un paio di racconti fino a quel momento mai tradotti, ma la cui realizzazione sottolinea quanto evidenziavo poco sopra, la scarsa cura con cui l’opera di Gilman viene presentata al pubblico: la traduzione, duole dirlo, non è sempre coerente e diverse scelte linguistiche e ortografiche lasciano alquanto perplessi; la nota introduttiva, a cura di Veseli, è scarna, troppo per un’autrice la cui conoscenza fuori dall’ambito accademico è oggi limitata e il cui lavoro, quindi, andrebbe inquadrato con attenzione. È una mancanza questa con la quale mi trovo spesso a fare i conti, ma che nel caso di Gilman pare purtroppo una costante in edizioni diverse. Più apprezzabile, in questo senso, il lavoro dell’editore La vita felice, che scegliendo di pubblicare il singolo racconto La carta da parati gialla, ne cura in modo particolare la traduzione (di Cesare Ferrari), affiancata dal testo originale, e affida a Franco Venturi una breve ma maggiormente puntuale prefazione. Altre opere di Gilman sono accessibili in italiano: tra queste un’edizione Mondadori de La carta da parati gialla, alcuni racconti riuniti per associazioni tematiche come quelli pubblicati da Astoria (La governante e altri problemi domestici) e da ABEditore (Il glicine rampicante e altri racconti gotico-femministi), i romanzi Herland (Donzelli), Muoviamo le montagne (Le plurali), Delitto senza castigo (Le Lettere). Non esiste, a oggi, un’edizione completa di tutti i suoi racconti, con adeguato apparato critico bibliografico, ma ci auguriamo possa diventare un progetto che qualche editore prenda a cuore. Perché i racconti di Gilman non solo rappresentano un tassello importante nella storia della short story moderna, ma dialogano con la contemporaneità, per tematiche e spunti e una scrittura che non è stata scalfita dal tempo intercorso.
Emblematico, quindi, The Yellow Wallpaper, dalle molteplici chiavi di lettura, denso di spunti e stratificato, a partire dal richiamo al giallo, colore simbolico della fin de siècle.



La protagonista è una donna da poco diventata madre e costretta all’assoluto riposo, confinata in una stanza di una casa di campagna:

 

C’è qualcosa di strano in questa casa – lo sento.

L’ho confessato anche a John una sera di luna piena, ma lui mi ha risposto che avevo sentito una folata di vento, e ha sprangato la finestra.

 

L’inattività forzata, il divieto di ogni stimolo intellettuale e quella che si presume potrebbe essere depressione post partum, portano la donna a sviluppare un’ossessione per la carta da parati gialla che riveste le pareti della stanza, dalla quale inizia a vedere una figura femminile, intrappolata come lei, che tenta di uscire e liberarsi, in una fusione che via via diventerà sempre più totale tra le due.

 

Dietro a quel disegno esterno le figure velate diventano più chiare ogni giorno. È sempre la stessa forma, solo ripetuta più volte. Ed è come una donna che si china e striscia dietro quel disegno. Non mi piace affatto. Vorrei che John mi portasse via da qui!

È così difficile parlargli del mio caso, perché lui è così saggio e mi ama così tanto.

(La carta da parati gialla, La vita felice ed., p. 37)

 

Efficacemente scritto in prima persona e ispirato all’esperienza dell’autrice, il racconto scivola sempre più nell’incubo, nell’ambiguità, aprendosi a suggestioni diverse, dal gotico al flusso di coscienza del Modernismo inglese. Realtà e finzione, incubo e veglia si confondono nel racconto mano a mano che l’ossessione della donna per la figura – le figure? – imprigionata nella carta da parati si fa sempre più forte al punto da non riuscire più a distinguere chi è l’una e chi è l’altra.
Fulcro della narrazione sono la Marriage Question, argomento centrale nel dibattito del tempo, le costrizioni e l’oppressione di cui erano oggetto le donne, la separazione tra vita attiva (maschile) e vita domestica (femminile) allo scopo di mantenere le donne in uno stato infantile e di sottomissione al padre-marito, sottolineato anche dalle scelte lessicali dei dialoghi; la narratrice-protagonista insiste più volte sulle premure del marito, l’amore che prova per lei e con il quale inizialmente giustifica il suo confinamento, nell’ottica anche di mantenere il decoro.
La vicenda, tanto del racconto quanto l’esperienza personale dell’autrice, si pone anche come critica a quei medici che ignoravano il volere delle pazienti e che vedevano nell’attività intellettuale un pericolo per quello che veniva considerato il fragile sistema nervoso femminile. La protagonista di Gilman è una donna annientata dalla mancanza di poter esprimere sé stessa e oppressa da una società che delega al padre-marito-medico ogni decisione che la riguarda. Il potenziale di questo racconto, è chiaro, appare ancora oggi inesaurito, le cui analisi si legano spesso al discorso sulla depressione post partum, alla malattia mentale e che continua a rappresentare uno dei capisaldi della narrativa femminista.
The Yellow Wallpaper è, quindi, un racconto particolarmente stratificato e dalle molteplici chiavi di lettura, tra cui, come si accennava, un certo richiamo al gotico: non a caso ABEditore lo inserisce nella raccolta Il glicine rampicante e altri racconti gotico-femministi dell’autrice. Edizione piuttosto interessante, a cura di Valentina Colafati che ne firma anche la traduzione e una puntuale introduzione. Ai racconti selezionati – tra cui un altro paio di storie inedite in italiano – si alternano alcune poesie, accuratamente scelte tra la produzione di Gilman. L’etichetta di racconti gotico-femministi è in effetti appropriata per queste storie: alle atmosfere e situazioni tipiche del genere si intrecciano riflessioni più o meno velate alla questione femminile, a partire dal racconto d’apertura che dà il nome alla raccolta, Il glicine rampicante: una storia «di fantasmi da manuale» che in realtà è «arricchita dalla velata critica al controllo dei corpi e della morale femminile».
La questione femminile è, dunque, il fil rouge che attraversa tutta la produzione letteraria tra fiction e non fiction dell’autrice statunitense, di cui gli altri racconti contenuti per esempio nella raccolta pubblicata da Lorenzo de’Medici Press sono dimostrazione.
In Cambiamenti è ancora una giovane moglie e madre che attraversa una profonda crisi in seguito alla nascita del figlio; la negazione di una vita propria, di stimoli intellettuali (nel caso della protagonista di The Yellow Wallpaper era la scrittura, in questo la musica), portano la donna sempre più vicino al precipizio e sarà l’inatteso intervento della suocera a fornire quel cambiamento del titolo. Interessante in questo racconto come in altre storie di Gilman la trattazione della maternità, spesso oggetto di sentimenti contrastanti, raramente espressi in certi termini:

 

I nervi di Julia erano al limite. Sulle orecchie stanche e sul cuore di madre sensibile, il pianto stridulo proveniente dalla stanza accanto colpiva come una frusta, marchiava come il fuoco.

(Cambiamenti, p. 35)

 

Il tema dell’istinto materno e del modo adeguato di essere madre, è al centro anche del racconto Una madre snaturata, che chiude la breve raccolta e coinvolge, attraverso il severo giudizio delle donne del paese, una giovane madre del luogo che di fronte all’emergenza – un fiume in piena uscito dagli argini – dà tempestivamente l’allarme salvando tutto il paese ma arrivando così troppo tardi dalla propria figlia, che finirà vittima del disastro. Che razza di madre, si chiedono le donne, non si precipita come prima cosa a salvare la propria figlia? Una madre snaturata, appunto, quella stessa verso cui viene mossa la critica più feroce, di non aver «alcun istinto materno!», pensiero inconcepibile all’epoca ma non del tutto estraneo neanche alla società contemporanea.
Il racconto è anche l’occasione per Gilman di ragionare su un altro dei nodi più controversi del dibattito alla fine del secolo, ossia l’istruzione ed educazione femminile e, nello specifico di questo caso, l’innocenza da preservare rispetto ai fatti della vita.

 

«Le giovani ragazze devono essere mantenute innocenti!»

(Una madre snaturata, p. 86)

 

Un argomento che, più ancora di Gilman, sarà un’altra scrittrice del periodo a sviluppare: Sarah Grand (è a lei, tra l’altro, che si deve il termine New Woman, coniato nel corso di un dibattito tenuto nel 1894, a indicare il nuovo modello femminile, icona della fin de siècle) tanto nei discorsi pubblici quanto nei racconti si schiera frequentemente a favore di una rinnovata educazione femminile; compito delle madri, infatti, istruire le proprie figlie, fornire loro le stesse opportunità di istruzione dei maschi, rompendo con il tradizionale sistema del silenzio che mirava a tenere le giovani nell’ignoranza con la scusa di preservarne l’innocenza. Emblematico, in questo senso, il racconto Eugenia e, ancora di più, The Yellow Leaf. Ancora un’altra scrittrice, forse la più innovativa e purtroppo dimenticata del tempo, George Egerton (pseudonimo di Mary Chavelita Dunne Bright), esprimerà la necessità di rinnovare il sistema educativo-famigliare come fino a quel momento istituito, in un importante confronto generazionale cuore del racconto Virgin Soil, con la giovane protagonista che a cinque anni dal matrimonio torna a casa per esprimere alla madre tutto il rancore per lo stato di ignoranza nel quale era stata volutamente mantenuta; le giovani donne come lei, «terra vergine», del tutto ignare della vita, dei pericoli, delle insidie del matrimonio e quindi spesso condannate all’infelicità.
È allora, talvolta, che entra in scena un’altra donna in questi racconti, anche in quelli di Gilman, e attraverso la solidarietà femminile salvare la protagonista da un tragico destino. È quanto accade in La ragazza con il cappello rosa, in cui una donna, sul treno, assiste alle angherie di un uomo nei confronti della fidanzata:

 

«Ne abbiamo avuto abbastanza di questa storia, non è così cara? Tu non lo sai cara, ma io sono ciò che chiamano “un poliziotto in borghese”. La vedi questa stella?». Dai movimenti di lui e dagli impauriti occhi di lei, fu come se l’avessi vista anche io.

(La ragazza con il cappello rosa, p. 67)

 

Preoccupante, vero, l’eco all’attualità di certe dinamiche e abusi di potere? È un racconto del 1916, ma alcune modalità di sopruso sono cambiate di poco.
La forza innovativa dei racconti di Gilman – e di altre autrici della fin de siècle – ci arriva ancora oggi immutata, caricata di nuovi significati.

Curiose interferenze tra realtà e immaginazione. Guido Morselli ritrovato


di Alice Pisu


“È necessario guardarsi allo specchio. Bisogna «vedersi» ogni tanto; per conservare pieno e reale il senso di sé, bisogna che almeno una volta al giorno ritroviamo le nostre sembianze. Me ne sono accorto in questi ultimi tempi, in cui non trascorse settimana senza che avessi modo di usare lo specchio”.
Era il 18 novembre 1943, il trentunenne Guido Morselli trovava da tempo nel diario una dimensione utile a sviluppare i grandi temi destinati a ossessionarlo per l’intera esistenza, spenta nel suicidio per scomparire e eliminare idealmente i suoi simili, come immaginò nell’ultimo romanzo, Dissipatio H.G.
Il senso del vivere domina la maggior parte della sua produzione, destinata ad apparire postuma a eccezione dei saggi Proust o del sentimento (1943) e Realismo e fantasia (1947), che evidenziano nello sguardo filosofico uno degli aspetti determinanti nel pensiero dell’autore.
Sovrapporre l’aspetto pubblico al privato permette di rintracciare nel percorso letterario e personale gli elementi che resero Morselli un outsider tra i più raffinati e ignorati del tardo Novecento italiano. La lettura caratterizzò già la prima infanzia di Guido, con un’adolescenza segnata precocemente dalla morte della madre. Le sue prime prove di scrittura furono di impronta giornalistica, aspetto riconoscibile anche nella produzione successiva nella tendenza a una prosa nitida, con un taglio tra saggistico e cronachistico. A caratterizzare il suo sguardo le influenze letterarie, l’interesse per la filosofia e per la storia, la sensibilità ecologista, la scelta di condurre un’esistenza appartata dedita alla lettura e alla scrittura, ricca di progetti ma segnata da innumerevoli rifiuti che probabilmente incisero nella scelta di togliersi la vita a sessantuno anni, sparandosi un colpo con la sua Browning 7.65, che nei suoi diari definì "la ragazza dall'occhio nero".
Le testimonianze di amici e intellettuali che si confrontarono con lui a vario titolo restituiscono l’immagine di un uomo a tratti ombroso e irascibile, che per rigore e coerenza non cercò mai di ricorrere a raccomandazioni per ottenere una pubblicazione, e che arrivò a scagliarsi aspramente contro critici e editori che trattennero per un tempo a suo dire troppo lungo i suoi manoscritti. Sperimentò presto la crudeltà di dinamiche editoriali che tuttavia non inibirono l’urgenza della scrittura, nutrita da una visionarietà concepita come mezzo di amplificazione del reale.
La travagliata vicenda personale, l’osservazione delle trasformazioni della società, la rivendicazione di un’esistenza incentrata sulla lettura e sulla scrittura a dispetto delle aspettative paterne e sociali, il desiderio di isolamento, attestano un’indistinguibilità fra arte e vita. La fine della guerra, che disertò, gli impose di ridefinire la propria vita, abbandonando gli incontri legati al cinema, al teatro, alla socialità, per rifugiarsi nella solitudine, nei pressi di Varese, a Gavirate, in una casa che si disegnerà da solo e farà dipingere di rosa (oggi sede di un’esposizione permanente a lui dedicata).
Come ricorda una delle massime studiose di Morselli, Valentina Fortichiari, lo scrittore rimase un uomo solitario e scontroso, frustrato nel non essere riuscito ad affermarsi col suo lavoro. Emblematici due dettagli ricordati dall’intellettuale che negli anni ha curato l’opera di Morselli e gli ha dedicato due saggi: nella cartella delle relazioni con gli editori lo scrittore disegnò un fiasco, e nella carta d’identità indicò come professione quella dell’agricoltore.
L’indifferenza generale per la sua morte (nessun giornale ne diede notizia) stride con l’esplosione del caso letterario appena l’anno successivo, con la pubblicazione per Adelphi di Roma senza Papa, prima opera a portare Morselli all’attenzione del pubblico, a cui seguirono Contro-passato prossimo (1975), Divertimento 1889 (1975), Il comunista (1976) e Dissipatio H.G. (1977) con i quali raggiunse picchi letterari paragonabili a altre grandi voci del suo tempo.


Oltre alla singolarità della vicenda editoriale di opere che subirono innumerevoli rifiuti (da Mondadori, Einaudi, Feltrinelli, Rizzoli, Frassinelli, Longanesi, Vallecchi a Neri Pozza, tra gli altri, con motivazioni ricorrenti legate alla difficoltà di collocazione in catalogo), appare significativa la complessa gestione del lascito relativo ai millenovecento volumi ceduti nel testamento alla Biblioteca Civica di Varese, divenuti Fondo Guido Morselli, oltre a quella relativa agli effetti personali (come la Olivetti M20, su cui si narra che battesse con un solo dito) divenuti parte di un’esposizione permanente dedicata.
Grazie a il Saggiatore è finalmente possibile vedere pubblicati i soggetti per film, le sceneggiature, i testi per il teatro, gli articoli di giornale, gli inediti e i racconti dell’“autore postumo per antonomasia”, come lo definisce Giorgio Galetto, curatore con Fabio Pierangeli e Linda Terziroli del volume Gli ultimi eroi. Il rilievo dell’opera risiede nel portare alla luce una ricca e varia produzione che nella peculiare ricerca lessicale e nel ricorso a forme espressive attesta la complessità dello scrittore.
La profonda libertà di pensiero si traduce anche in quella espressiva: l’originalità tematica e l’anarchia rivendicata nella mancata adesione a movimenti e tendenze del suo tempo a distanza di cinquant’anni dalla sua morte rendono la voce di Guido Morselli irriverente e attuale nel sollevare istanze sulla crisi dell’individuo, la questione ecologista, le ideologie, l’incomunicabilità di coppia, la presenza del male, la sessualità, la concezione della morte nella vita, il dramma della malattia, il rapporto con l’assenza e con la perdita.
La sua intera produzione indaga la tensione, alla fine, tra paure e fantasie di morte, al cospetto della ferocia e della crudeltà del vivere, nella costante ricerca di nuovi interrogativi anche in relazione all’ultraterreno. In tal senso sono illuminanti le pagine del Diario (Adelphi, 1988) dove afferma che la sua esperienza personale coincide in tutto con l’idea di Schleiermacher in merito alla religione come intuizione o sentimento dell’infinito:

“Non ha a che vedere né con la teologia, o la metafisica, né con la prassi cioè con la morale”. “Ciascuno, in sostanza, deve formarsi la propria religione, in quanto questa è fede, non già dottrina appresa o comunicata”, entro un’idea di rivelazione intesa come questione interiore e privata per ciascun individuo. 
(7 dicembre 1943)

La scrittura intimistica si muove in parallelo rispetto alla vasta produzione letteraria, giornalistica e teatrale, appare necessaria all’autore per elaborare aspetti centrali nel suo studio sulla natura umana. Le annotazioni del Diario accolgono riflessioni dal 1938 alla morte, spaziano dalla letteratura alla complessità delle relazioni, dall’urgenza di isolamento all’osservazione delle trasformazioni continue della società anche in riferimento al legame tra lo sfruttamento del territorio e il turismo, con ingrandimenti sull’incapacità frequente dell’individuo di domare manie e ossessioni. Sono meditazioni che indagano il mondo intorno, il ruolo dell’arte, le tendenze letterarie, la fede, a partire da una dolente esplorazione delle parti oscure del sé – “Io mi sono conosciuto in sogno” (3 dicembre 1943) – che in alcuni casi si scoprono propedeutiche alla stesura di racconti, romanzi e soggetti per il teatro e per il cinema.

 

“Mi chiedo se sia possibile desumere un orientamento, ricavare una indicazione sul senso della nostra vita, di ciò che il destino – o la Provvidenza – ci ha riservato o ci viene apprestando, e che spesso ci sembra irragionevole e ingiusto se non assurdo e iniquo”. (21 novembre 1943)

 

Si tratta di un aspetto centrale in Morselli, riconoscibile anche nei testi incentrati in modo esplicito sulla malattia, come Diphteria, sviluppato a partire dal dramma di un bambino che in condizioni di infermità si strugge per la lontananza della madre. Il crescendo tragico è esaltato dalle condizioni avverse del tempo che rendono ancor più improbabile l’impresa del padre di soddisfare quell’ultimo desiderio. Tra le pagine aleggia un tetro presagio di morte: Morselli individua qui come altrove alcuni elementi-feticcio, dettagli del paesaggio (come il ponte) che si fanno emblema di un collegamento tra dimensioni diverse nel solco tra quel che anticipa e quel che segue un evento ineluttabile.

 

“È quasi buio quando raggiunge il ponte, e non può andare oltre. Lo sospingono contro la spalletta; vi si deve aggrappare, per non cadere. Ma la volontà si scioglie in una torbida indifferenza. Abbandonarsi, da una parte o dall’altra; confondersi nella corrente. La folla procede, immensa e scura. Cartelli, bandiere, a perdita d’occhio, e nomi in file serrate, muti, senza volto. Così scorre il fiume, nell’ombra, sotto di loro”.

 

Il ponte è ricorrente anche nel racconto La voce, la cui data esatta di stesura non è nota, apparso inizialmente su L’Espresso nel 1993 prima di confluire nella raccolta Una missione fortunata, Nem. Qui Morselli immagina l’incontro postumo tra il commissario Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972, e l’anarchico e partigiano Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano il 15 dicembre 1969. Un racconto emblematico per le storie che evoca e per la sorte drammatica dei protagonisti, immortalati mentre da morti passeggiano, dialogano sulla fine e attraversano un ponte. Nella rappresentazione di un confronto tra due rappresentanti di fazioni diverse, Pinelli in particolare ripercorre le tensioni, i soprusi in questura, le preoccupazioni di sua madre e di sua sorella per le sue scelte politiche, la rassegnazione che gli impedì di continuare a professarsi innocente sulle bombe, prima di sentire una voce che gli dava il permesso di cessare ogni sofferenza.
“Suicidio, non so. È suicidio quando uno non ha più fiato? Non ha più nervi? È la vita che si ritira. E quella voce non era la mia, quella voce che mi chiamava”.
Il rilievo di questo racconto risiede anche nella scelta, ricorrente in Morselli, di compiere esperimenti controstorici e ucronici per generare un dialogo ideale tra ambiti diversi e per sondare la soglia del possibile, spesso con il ricorso a ambientazioni allucinate e visionarie. Il gusto per la reinvenzione delle vicende di figure rilevanti della politica, delle lettere, della cronaca, dell’arte, si inserisce nell’ossessione dell’autore per la sovrapposizione della finzione sul reale, nell’intento di studiare possibilità inesplorate, sul confine tra l’assurdo e il verosimile.
È quel che accade tra gli altri nel racconto Il Grande Incontro (rimasto a lungo tra gli inediti e uscito poi nella raccolta Una missione fortunata) che narra il confronto in piena Guerra Fredda tra Pio XII e Stalin. La proposta riguarda l’uso di un sosia per condurre il Papa a Mosca, anticipata dalla descrizione particolareggiata di gesti e dettagli dei due protagonisti, nominati genericamente come personaggi “potenti tra i potentati, venerati tra le maestà della Terra, viventi emblemi per innumerevoli solitudini”. In tale colloquio ad assumere predominanza sarà inaspettatamente il silenzio, che assume una “prestigiosa intensità”, in grado di “compendiare immense distese di spazi e di tempi” per dilatarsi “sul mondo, fra popoli ignari e tuttavia presenti, ansiosamente aspettanti”.
La riscrittura della storia tra continue sovrapposizioni irreali, la sottile indagine filosofica e il gusto per la ricerca di nuove forme espressive nel travalicare il tempo e lo spazio sono riconoscibili anche nella scrittura di soggetti e sceneggiature per il cinema e per il teatro che spaziano dall’ambito marxista a quello cristiano, dai testi incentrati sulla sofferenza umana a quelli di critica sociale, di attualità politica, di coscienza ecologista, di fascinazione meccanica, di sensibilizzazione sui problemi del lavoro e sulla condizione del proletariato.

Degni di nota in particolare alcuni soggetti: da un estratto di Incontro col comunista, Morselli compone una commedia teatrale in tre atti, L’amante di Ilaria, che propone inutilmente a Giorgio Albertazzi. Il testo fa parte del “filone comunista” e, come sottolineato da Pierangeli, si pone come una riflessione sulla dialettica del personalismo-collettivismo nella prassi politica. Entro tale cornice l’autore compie ingrandimenti sui risvolti critici nelle relazioni affettive, un tema tra i più ricorrenti nei suoi testi.
Tra le sue commedie spicca Marx: rottura verso l’uomo, inviata a Morelli-Stoppa, a Luchino Visconti, a Gassman. L’opera segue Marx attraverso alcuni avvenimenti del suo percorso pubblico per scorgere, tra i confronti con figure come Lassalle, Bakunin e Mazzini, alcuni aspetti privati, imperscrutabili, del filosofo.
Esperimenti riscontrabili anche in altri soggetti teatrali o cinematografici come Cose d’Italia con al centro Mussolini rivisitato: debole e vittima del fascino femminile, finirà per democratizzarsi e crollare, nell’incapacità della parte politica avversa di generare un reale cambiamento condannando il popolo a divenire inesorabilmente preda dell’oppressione.
Un altro esempio riconducibile a tale tendenza creativa è Cesare e i pirati. Rappresentazione in tre atti e preambolo, definita una lotta tra amore e realpolitik, che non mira a rivoluzionare interamente la vicenda storica del suo protagonista ma a generare una deviazione funzionale ad aprire una breccia verso un racconto alternativo.
Il racconto eponimo assomma temi e stilemi cari all’autore, che indaga la follia e le storture insite in ogni conflitto a partire dalla vicenda del falegname Schölpke: rinchiuso in manicomio già prima della guerra, finisce per organizzare un esercito capace di raggirare gli americani. Come evoca l’incipit, il racconto è una riflessione sulla confluenza di farsa e tragedia sullo sfondo di eventi storici.

 

“E lo spirito di onor patrio è così tenacemente radicato da sopravvivere, quasi un istinto, anche quando dell’uomo non rimane più che la macchina; se pur non conviene concludere semplicemente, che la guerra è tutta e in tutti pazzia”.

 

A colpire è la tendenza, anche negli scritti dal taglio controstorico, di uno stile vicino a quello giornalistico, con il frequente ricorso alla paratassi, l’attenzione per il dettaglio, le insistenze descrittive con una prosa resa nella brevità e nel distacco.
Ancora una volta soffermarsi sulle pagine del Diario permette di ricondurre le apparenti divagazioni a una coerenza progettuale peculiare. Il 24 novembre 1943 Morselli appuntò riflessioni sulla possibilità di riconoscere in un aspetto della natura un estratto della storia personale di chi la osserva.
“Il valore essenziale che acquistano per noi e soprattutto nel ricordo certi aspetti del paesaggio rimane affatto inesplicabile se non ammettiamo che veramente la natura è soltanto una prospettiva fatta esteriore e sensibile dalla nostra interna vita sentimentale. Quel tratto di paesaggio quegli alberi quel cielo sono in un certo istante, e si mantengono di poi, la vivente allegoria di uno stato d’animo nostro.”
La capacità introspettiva e la necessità di rigenerazione attraverso la solitudine e l’isolamento silvestre si riverberano in passaggi dagli stacchi lirici improvvisi.

 

“La natura è una musica alla quale gli uomini sono quasi sempre sordi. Chi sa «ascoltarsi» vive più vite. Per chi attinge alla propria sensibilità profonda, il passato non è mai morto; non solo, ma la sua vita presente si dilata immensamente di là dai suoi limiti apparenti, ad abbracciare innumerevoli esperienze”.

 (26 novembre 1943)

 

La celebrazione della natura come strumento di conoscenza di sé e al contempo come elemento da tutelare rispetto alla frenesia del turismo, al consumo di suolo e alla trasformazione del paesaggio sono riconducibili a una visione più ampia che contempla il conflitto insanabile tra vecchio e nuovo, la trasfigurazione di un tempo remoto come esito di una corruzione inesorabile, il fallimento epocale del far rivivere forzosamente il passato con un rifacimento inverecondo, esito del consumismo e della cementificazione imponente in relazione alla “paradossale sagacia della Natura”, come la definisce in Mondo su mondo (comprensivo degli scritti Barca-e-bottega, Alpemare e Sacro e profano).
Morselli si mostra fine osservatore delle ipocrisie e delle contraddizioni della natura umana, ne studia la matrice attraverso la composizione di un bizzarro campionario composto da figure disincantate, ciniche, sferzanti, per mettere in luce anomalie e storture, e per compiere un ironico ritratto di ossessioni comuni.
Adotta sovente il punto di vista femminile per narrare l’incomunicabilità tra generi, la crisi delle relazioni, l’inconoscibilità dell’altro, le inquietudini latenti, e interrogarsi sul conflitto tra repressione e libertà sessuale. Con narrazioni caratterizzate dal frequente ricorso all’ironia, compie entro tali ingrandimenti anche un’analisi dei tempi, con una predilezione per il racconto del mondo borghese entro cui sfilano figure femminili indipendenti, colte, emancipate, che intendono affermarsi e che per farlo sono consapevoli di dover sottostare a compromessi.
Su tutti spicca il racconto Sono sana (uscito su Panorama nel 1993, poi nella raccolta Una missione fortunata), che tratta alcuni aspetti poi ripresi nel romanzo Brave borghesi. Narra la vicenda di una vedova trentaquattrenne accusata di sevizie nei confronti dei suoi gatti. Dalla “sensibilità modernamente involuta” e dalla morale cinica, per superare l’incapacità di provare piacere sessuale intrattiene numerose relazioni occasionali. Appassionata lettrice di Bioy Casares e di Huysmans dichiarerà: “Ciò che mi paralizza, non è ripugnanza, s’intende, non è rifiuto a essere strumentalizzata, al contrario, è lo stupore di non riconoscere più l’individuo. Il meccanismo ripetitivo lo annichila. La maschera dell’uomo in foia, non è brutale, secondo me è peggio. È impersonale”.
La profonda attualità dei suoi scritti è riconoscibile anche in altri testi nei quali adotta la prospettiva femminile per affrontare l’integrazione in un contesto diverso da quello di nascita. In Addio, Piero (1971) studia i condizionamenti legati all’apparenza subiti da una venticinquenne siciliana trasferitasi a Milano divenuta self-conditioned e costretta a professare una “pulizia di fuori e di dentro; visto che pulizia, non derivante da pregiudizi e tabù, significa a sua volta libertà, garanzia da eterocondizionamenti, controlli, limitazioni, ingerenze: e grane”.
Nel racconto Ho dirottato sul guardrail, uscito inizialmente nella raccolta I percorsi sommersi, Morselli indaga l’insoddisfazione di una donna per un rapporto matrimoniale stanco, privo di passioni, sostenuto dal benessere borghese con l’aspirazione alla seconda casa, dalla prudenza di due conti in banca separati, e dalla lucida pianificazione della prole. L’autore adotta il punto di vista di una moglie disposta persino a provocare un incidente pur di destare l’attenzione di un giovane ormai spento, descritto per brevi tocchi taglienti: “Enrico; l’integrazione-nel-sistema incarnata e vestita in tweed e flanella”.
Nella sezione dedicata agli inediti spicca Marshe, l’intenso racconto delle vicende di una giovane donna francese originaria di Saint-Denis divenuta profuga a seguito dell’abbandono da parte di suo marito italiano a causa del reclutamento. Morselli usa questa vicenda per calarsi nel punto di vista di chi subisce gli effetti di un cambio repentino di riferimenti, nel dover al contempo accettare una nuova condizione e sopravvivere all’assenza in un luogo estraneo e in totale solitudine.
Réfugiée. Per lei questo termine ha perso ormai il suo tono impreciso e patetico; ha un significato ben definito: compendia la sua condizione presente, l’accomuna a una folla, stabilisce i suoi doveri, determina e regola ogni suo atto, fissa il corso dei suoi pensieri, dei suoi desideri, fissa per lei ogni istante della sua giornata come una catena e un marchio”.
L’attenzione per la geopolitica e per le ripercussioni sociali e culturali dei conflitti risuona anche in altri racconti dallo sguardo femminile come Romana, scritto nel 1972, durante la stesura di Dissipatio H.G.. Ambientato nelle alture del Golan, indaga gli esiti del conflitto arabo-israeliano attraverso le possibilità di pace insite nel semplice accordo sulle proprietà.
Morselli dissemina frammenti di sé attraverso le vicende narrate, i luoghi d’elezione, le visioni, i suoi protagonisti. Le variazioni espressive, stilistiche e formali, accompagnano le evoluzioni del pensiero: il gusto rinnovato per il racconto dei luoghi e per il rapporto tra l’individuo e il paesaggio sono resi con una marcata tendenza descrittiva, tratto comune ai racconti, agli inediti, ai soggetti per il cinema e per il teatro e, in particolare, agli scritti giornalistici (dovuta anche alle sue esperienze di viaggio come mostrano i reportages da Bonn per Il mondo di Pannunzio nell’estate 1954).
Nella continuità di azione e pensiero, scrittura e indagine filosofica, storica e sociale, non risulta determinante operare una classificazione di impronta neorealista o fantascientifica, verosimile o surreale, perché ogni opera concorre a comporre uno sconfinato mosaico in prosa sullo studio dell’umano.
La presa d’atto dello scarto tra lo sviluppo del mondo spirituale di Morselli – la sua “vita interiore” come scrive già nel novembre 1943 nel Diario –  e la povertà del presente della sua “vita pratica”, genera uno sgomento associato a una condizione innaturale presto sovvertita, che motiva ulteriormente il ricorso narrativo alla dimensione del sogno, concepito come spazio fertile per amplificare le riflessioni sulla morte, sulla perdita, sulla crudeltà, sui tormenti e le paure, e al contempo per esplorare le frontiere del fantastico, con suggestioni evocative generate dai riferimenti letterari primari dell’autore.
In Fantasia con moralità, che uscì su Contemporaneo nel 1953 prima di comparire nella raccolta Una missione fortunata, Morselli anticipa aspetti indagati nel romanzo composto poco prima del suicidio. Il racconto è caratterizzato da due sezioni distinte: la prima parte è incentrata su una catena di delitti e sul maleficio che pesava a X – cittadina “grettamente borghese”, un tempo tranquilla – tra orrore e vergogna, in un’oscena pazzia sanguinaria dilagata improvvisa che “scorreva irresistibile e sconvolgitrice”. La seconda mostra uno stacco netto, con una distanza presa dal narratore che afferma che la realtà non si lascia mai soverchiare dal sogno Homo homini lupus: “Il tipo di licantropo non differisce dal tipo medio e consueto della nostra umanità, oggi, peggio o non meglio di ieri”.
Questo racconto è tra i più intensi e complessi del volume, con picchi espressivi di rara intensità nella descrizione della “giungla dell’esistenza, spietata e assurda; da cui non si esce, perché ci governa la fatalità della morte, retaggio di un’antica condanna; e per contrastarla dovremmo credere nella vita, nella bontà e verità della vita, e non sappiamo.”
La consapevolezza del pericolo in agguato nel quotidiano e dell’impotenza umana ad affrontarlo annulla ogni potenziale cambiamento per chi si trascina senza speranza, prigioniero “del gesto primitivo dell’animale, che si guarda alle spalle”.
Il rilievo della pubblicazione de Gli ultimi eroi risiede nel tracciare l’eredità di una voce letteraria dirompente ingiustamente ignorata per decenni, e riconoscere anche grazie agli inediti e ai testi meno noti un autore classico e ipercontemporaneo, “visionario e apocalittico – come lo ha definito Galetto – ma anche ironico e caustico, fedele a un’intelligibilità del dettato che accompagna una descrizione precisa e meticolosa della realtà” spesso fittizia, convinto che l’esperienza interiore dell’individuo sia il gioco di due fattori: la memoria intesa come passato e l’angoscia che incarna il presente.
“Sono orgoglioso (è forse il mio unico orgoglio) di sentirmi, in male e in bene, un riepilogo degli uomini”.

Anna Maria Ortese e le sue piccole creature

di Matteo Moca

In Le piccole persone, magistrale raccolta di saggi di Anna Maria Ortese intorno al «dolore degli animali» (così scrive in una lettera a Guido Ceronetti), dove con la parola “animale” Ortese intende l'intero spettro di esseri viventi sulla Terra dagli uomini fino alla natura, passando appunto dagli animali, le «piccole persone» del titolo, la scrittrice quando parla della scuola, invoca in particolare il ritorno a un certo tipo di insegnamento: «una scuola – scrive Ortese nel libro pubblicato da Adelphi come tutta la sua opera – che formi le generazioni alla conoscenza della Terra, e ai doveri dell'uomo verso tutta la terra. Non ho altra politica. Né altra cultura, forse, se non che leggere nel libro della vita terrestre è la prima strada e scuola per un uomo nuovo». Nel testo che apre il libro, Ma anche una stella per me è natura recita l'emblematico titolo che funziona anche come possibile programma di tutta la sua opera, Ortese indaga il cambiamento nel rapporto con la natura durante la vita degli individui, raccontando come il legame più profondo, rispettoso e autentico esista nell'età dell'infanzia: «Il fanciullo o l'adolescente capisce ciò che l'adulto non capisce più» scrive infatti nell'altra importante raccolta di saggi Corpo Celeste. L'età dell'infanzia diventa quindi nell'opera di Ortese un luogo privilegiato, perché i bambini sono coloro che, grazie all'innocenza e alla capacità di stupirsi davanti al mondo, possono fare da contraltare alla fragilità di un tempo in cui si è più facilmente offesi tra le spire di una società in cui abita prepotentemente la violenza. Ortese, insofferente al dolore di un mondo che avvertiva in ogni sua fibra, sceglie spesso nelle sue opere di combattere questa indifferenza e questo dolore situandosi con i suoi personaggi al confine tra realtà e finzione, tra «sonno e veglia». Si tratta di piccole figure che abitano questo spazio liminare, come folletti, animali, bambini, ridotte presenza magiche e quant'altro, che vanno intesi proprio come simbolo dell'infanzia, come testimonianza di questa straordinaria capacità di vivere nel mondo e, nello stesso tempo, di catalizzare, nella loro vulnerabilità e loro malgrado, il male che lo abita.

*

Già nel suo secondo libro, L'infanta sepolta, pubblicato nel 1950 dopo la raccolta Angelici dolori, Ortese decide di abitare questo spazio di confine con la storia che dà il titolo al volume, un racconto in cui la scrittrice insiste su questo sentimento di incertezza rispetto al reale mostrando come possano essere degli oggetti all'apparenza neutri e inanimati a rivelarsi decisivi generatori di senso per lo svolgimento della storia. Protagonista è una donna che racconta come sua mamma, quando lei era bambina, pregasse la statua di un madonna nera che sembrava, agli occhi del popolo, «vivente di vita umana». Al di là della presenza di uno degli stilemi classici della letteratura fantastica, l'elemento che, assecondando la definizione di Freud, definiremmo “perturbante”, nel racconto irrompe poi un improvviso e decisivo stravolgimento quando la bambina, a cui la statua non sembra solo apparentemente viva, stringe la mano alla statua e scopre che questa è «calda di calore umano» e che, almeno le sembra, questa si muove dolcemente nella sua. Ovviamente, ed è anche il genere fantastico a richiederlo, non sapremo mai la natura di questo avvenimento, anche perché, impaurita, la bambina subito scappa e non tornerà più in quel luogo, ma ciò che è interessante è il fatto che all'interno di questa incredibile concretizzazione di una credenza popolare, sta una delle matrici del fantastico ortesiano, che trova luogo di innesco proprio in queste figure all'apparenza marginali, poco importanti, che nascondono in realtà il cuore di tutta la sua riflessione sul mondo e sul dolore di chi lo sa realmente vedere. Oltre al fatto che la statua rappresenta proprio una bambina, è interessante infatti vedere come anche l'Infanta sepolta assomigli a una delle “piccole persone” di cui parla Ortese, perché l'impressione che ha la bambina quando le due mani si toccano, è quella di un momentaneo e spaventoso incontro con la sofferenza: «Parlava – scrive Ortese con un'immagine realmente indelebile, come lo sono le sue parole quando puntano con coraggio lo sguardo sulla fragilità – come parlano a volte, quasi meccanicamente, una mano, un piede di poveri esseri massacrati, in cui la vita sussulta ancora» e, aggiunge poco dopo, che nel suo muoversi flebile avverte la «stanchezza di un fanciullo che muore». E, a consolidare ancora una lettura in questo senso circa la natura molteplice di questa figura dell'infanzia, e del rapporto tra questa e gli animali, sta il modo in cui Ortese continua a descrivere la mano della statua che, racconta, assomigliava alla «zampina di un uccello».

Proprio in questo coacervo paradossale, dove la realtà si mischia con la fantasia in una continua sfumatura dei confini che rende impossibile comprendere lo statuto di ciò che accade, sta la natura di questo stare sulla soglia di Anna Maria Ortese, nella possibilità quindi che dentro un mondo sofferente siano queste apparizioni miracolose, la statua certamente, ma anche la bambina protagonista, le uniche che riescono a sentire ciò che tutti gli altri non sentono, a offrire uno sguardo diverso sulle cose. Walter Benjamin ha scritto che la soglia non è solo uno spazio di passaggio, ma anche una zona in cui poter soggiornare e trasformarsi, uno spazio quindi, a differenza dell'idea sottesa nell'opinione comune, abitabile seppure rappresenti un filtro tra il dentro e il fuori. Il reale e il fantastico quindi, secondo la lettura di Benjamin che ben si accorda con quella di Ortese, si fondono in questa zona liminare: «La soglia [Schwelle] – scrive Benjamin nei Passages – è una zona. La parola “schwellen” [gonfiarsi] racchiude i significati di mutamento, passaggio, straripamento, significati che l’etimologia non deve lasciarsi sfuggire». Assecondando il senso delle parole di Benjamin, emerge dalla statua che Ortese descrive in L'infanta sepolta, e che esplode nei suoi significati grazie al tocco della bambina, una solitudine e una sofferenza assolute, una statua che diventa paradossalmente un fonte di vita. L'infanta sepolta è nello stesso tempo al centro delle credenze popolari e isolata dal mondo, e non è un caso che rimanga sepolta nel bombardamento della chiesa, accidente nel quale Ortese convoglia il passo devastante della grande storia, incurante di tutto ciò che si muove e che finisce schiacciato.

In un clima simile vive anche la piccola creatura protagonista di Folletto a Genova (un racconto che appartiene all'ultima raccolta pubblicata in vita dalla scrittrice, In sonno e in veglia, a testimoniare una riflessione che attraversa tutto l'arco della sua opera), un racconto straziante sulle violenze che questo piccolo essere subisce nella casa in cui vive. Il folletto protagonista è una creatura dallo statuto indefinibile, in parte assomiglia a un bambino e in parte invece a un animale, ciò che è certo nella descrizione di Ortese è che si tratta di un essere che vive letteralmente sulla sua pelle le sofferenze degli altri trasformandosi in una capro espiatorio. Come accadeva in L'infanta sepolta con il bombardamento della chiesa, una simile situazione di allerta, che genera «smarrimento» nella narratrice, anima anche questo racconto, che inizia così: «La gravità dei fatti politici è talora insostenibile. E dire politici è usare un eufemismo. Si tratta di una guerra, o stato di malessere, dell’incedere di una instancabile e martellante violenza che striscia come un fuoco su tutta la terra. Il cielo, anche il più azzurro, sembra dare nel piombo. Una gravezza amara, come se egli fosse ebbro, o la sua vita fosse per finire (e fosse stata tutta inutile), pesa come una montagna sul cuore dell’uomo». Già dalle prime righe si intuisce quindi come la protagonista, l'unica tra l'altro a compatire, nel senso più antico del termine, ovvero soffrire insieme, il piccolo folletto sballottato, picchiato e forse ucciso dalla coppia, si trovi perduta dentro questo stato di guerra perenne. Così infatti continua il racconto: «La vita sulla Terra mi sembrava, a questo punto, non dirò insopportabile (tale stadio era superato), ma proprio priva del minimo interesse, come una pietra che rotoli dall’eternità verso un’altra eternità di pietra». Queste parole sembrano tratte dai testi più “teorici” di Ortese, come Le piccole persone o Corpo celeste, ed è proprio la descrizione della situazione a funzionare come punto d'origine della narrazione: la violenza nel mondo perde la sua concretezza e, all'interno del paradigma classico ortesiano, per le conseguenze che genera nelle esistenze individuali e perché il «terzo Paese miserrimo, per non dire disgraziato» è chiunque sappia vedere cosa succede, scatena una scrittura che attraverso il filtro fantastico denuncia e critica tale condizione. Il folletto Stellino, «una creatura assurda, vestita di una mantelletta fatta di vecchi giornali», è quindi un essere che subisce le angherie e le violenza della donna con cui vive, che lui vede come una mamma, ed è, ancora una volta, una rappresentazione dell'infanzia e del mondo animale: «Alto... non più di un bambino di qualche anno, ma no, più piccino – una bambola – il corpo – soprattutto le gambine che si intravedevano sotto il giornale – simile a quello di una lepre dorata. Dovunque una gran peluria dorato-grigia, che intorno al mento era bianca». Le sofferenze che subisce Stellino e il litigio continuo tra i coniugi sono sullo stesso piano delle violenze tra Stati descritti all'inizio del racconto ed è sempre il più fragile a rimetterci, il più povero terzo stato e il folletto, come accade nel mondo che qui viene trasfigurato grazie a questa figura fantastica.

*

Allo stesso desiderio di sondare le pieghe del reale attraverso queste figure liminari obbedisce anche un racconto che Ortese pubblicò nel 1940, che affonda ancora dentro una credenza popolare e, ancora una volta, fa di una figura di questo universo uno straordinario termometro del mondo. Si tratta di Il Monaciello di Napoli, un racconto che si apre con un'esplicita dichiarazione di poetica: «Del resto, o Lettore intelligente, credi proprio che la vita sia così semplice come appare? Non hai mai, in nessun momento della tua vita, per esempio un giorno di maggio, avvertito nell'aria, coll'odor dei fiori e la danza delle farfalle, l'esistenza di un mondo più brillante, più gioioso e soave? E d'inverno, quando il vento urlava terribilmente intorno alla tua casa, con alti gridi un po' meccanici un po' umani, e tu sedevi ben caldo nella tua poltrona, non ti è mai accaduto di avvertire, in quella voce un po' disuguale e dolorosa, il lamento e la ribellione di povere creature inimmaginabili? Certo che sì, Lettore. Esse sono nascoste dovunque, e ci guardano con occhi sì puri, sì dolci, sì pieni di lagrime e raggianti d'amore. Fate dalle sottili trecce bionde, gnomi, coboldi, maghi, spiritelli, fino al caratteristico Monaciello napoletano, di cui parlava mia Nonna, questi esseri vivono, vivono!».

Il racconto ruota attorno a questa figura classica del repertorio folkloristico napoletano, una figura a metà tra un bambino e un piccolo frate, dedito ad abitare gli spazi nascosti delle grandi case in cui presta servizio, il monaciello Nicola che si muove in «un insieme di miseria, di abbandono, di malinconia» e di cui viene qui raccontata la sua storia d'amore (e di morte come accade spesso in Ortese) con Margherita, la bambina che poi lo sposerà. Nicola diventa qui, ancora una volta, un elemento simbolico all'interno del racconto: già carico di suggestioni popolari sulla sua funzione e la sua figura, qui Ortese ne fa un vero e proprio emblema di quel suo caratteristico “doppio sguardo” che riesce a vedere oltre le cose, come suggerisce la protagonista che rimpiange quello sguardo infantile che gli faceva vedere davvero:

 

L’ingresso, nella nostra cultura, del pensiero francese; i progressi della scienza che mirava con un impetuoso entusiasmo a demolire la credenza nell’irreale ch’era tanta parte della nostra vita.

 

 Il monaciello allora, come tante altre piccole figure che abitano le opere di Ortese, grazie a questa natura ambigua diventa elemento rivelatore dello sguardo della scrittrice, come l'iguana del romanzo omonimo, il puma dell'Arizona in Alonso e i visionari. Tutti questi personaggi vivono in una condizione che mescola l’infanzia e uno stato sospeso tra la specie umana e quella animale e sono accomunati da un'innocenza che li porta sulle strade del dolore e della sofferenza perché si trasformano, loro malgrado, in esseri particolarmente sensibili alla violenza del mondo e testimoni viventi della necessità di cambiare.

 

Giorgio Agamben ha scritto, con parole che ben si prestano alla lettura dell'opera di Ortese, che «le porte del mistero lasciano entrare, ma non lasciano uscire. Viene il momento in cui sappiamo di aver traversato quella soglia e a poco a poco ci rendiamo conto che non potremo più uscirne. Non che il mistero si infittisca, al contrario – semplicemente sappiamo che non ne verremo più fuori». Qual è lo statuto del folletto, del monaciello o della statua dell'Infanta sepolta? Non è questo ciò che è importante, se non per chi tenta di tagliuzzare la letteratura in cerca di fredde definizioni, perché pare assai più fruttuoso assecondare le forme di queste strane creature che brulicano nelle pagine di Ortese per poter osservare, da vicino, gli anelli di congiunzione tra realtà e fantasia, tra mondo sognato e mondo reale. Queste figure sono agenti creatori di una nuova possibilità di osservazione del mondo che può, al massimo delle sue possibilità,  portare a immaginare una realtà differente e un nuovo ordine in grado di scardinare l’uomo dalla sua posizione di ingiustificato dominio.

Le figlie di Saffo e tutte noi


di Giordana Restifo

«io dico che qualcuno si ricorderà di noi»

Saffo, fr. 147[1]

 

La prima voce femminile della letteratura greca, la donna attorno alla quale sono nate moltissime leggende, la prima poetessa conosciuta al mondo. Chi era Saffo? Cosa ha significato la sua figura per il mondo contemporaneo? L’esordio letterario di Selby Wynn Schwartz, Le figlie di Saffo, pubblicato da Garzanti nel marzo 2024 e tradotto da Mariagiulia Castagnone, è un ottimo punto di partenza per ripercorrere la vita della poetessa di Lesbo e di alcune donne venute dopo di lei.
L’opera, il cui titolo in lingua originale è After Sappho, è un «tale ibrido tra il romanzo d’immaginazione e il romanzo-verità, tra la biografia speculativa e i ‘suggerimenti per pezzi brevi’ (come li chiamava Virginia Woolf mentre cominciava la stesura di Orlando) che è impossibile inquadrarla in una categoria», come suggerisce l’autrice stessa nella nota bibliografica finale. Lasciandosi ispirare, o per meglio dire pervadere, dallo spirito di Saffo, Schwartz compone insieme frammenti di vite di donne che hanno lottato per la propria libertà, per potersi esprimere artisticamente senza sottostare alle convezioni sociali e al patriarcato.
Le storie sono raccontate da una narratrice che utilizza la prima persona plurale, quasi a spogliarsi del proprio “io” e a farsi “coro”, come quello che accompagnava e circondava Saffo. Espressione di una collettività composta dapprima da fanciulle e poi da donne. Ragazze che non si conoscono e che per qualche motivo sono attirate da una figura che faccia loro da faro, attorno alla quale riunirsi. 
Nel tìaso (θίασος – ha molti significati tra i quali associazione, schiera di persone che celebra sacrifici e danze in onore di una divinità) ove Saffo era sacerdotessa ed educatrice, a Mitilene, le giovani venivano preparate alla futura vita matrimoniale ed erano considerate sia “allieve” che “compagne”, a indicare la poliedricità dei rapporti che intercorrevano tra loro. Il tìaso di cui scrive Schwartz è composto da donne ribelli che vogliono essere indipendenti e colte; prende forma dalle letture giovanili delle poesie di Saffo e trova in Cordula Poletti la prima delle sue figlie contemporanee. Nata nel 1885 a Ravenna, cresciuta in una famiglia in cui la concezione del matrimonio rappresentava un bene irrinunciabile, ha sempre preferito scappare in biblioteca per leggere i manuali di latino e greco al ricamare il corredo di lino per la dote. Durante l’infanzia l’unica compagnia che aveva era quella «delle costellazioni che riempivano il cielo notturno»; anche nella poesia di Saffo le immagini della notte, soprattutto la luna e le stelle, rivestono un ruolo importante, ma non è l’unica analogia tra le due donne vissute a più di duemila anni di distanza l’una dall’altra.
Nel 1899 decise di cambiare nome e da Cordula diventò Lina Poletti, così la conosciamo oggi e così la conobbero le donne che incontrò nel suo cammino verso la libertà.
Al suo percorso si intreccia quello di una ragazza dovuta diventare adulta troppo presto, Marta Felicina Faccio, detta Rina. A dodici anni fu costretta da un padre intransigente a lavorare nella fabbrica di famiglia e a diciassette a sposare il suo aguzzino, l’uomo che l’aveva violentata sul posto di lavoro. Rina, che aveva provato a cambiare più volte nome, iniziò a odiare aspramente la sua vita. Nel 1902, dopo aver tentato il suicidio qualche anno prima, fuggì a Roma, abbandonando la famiglia, un marito violento e un figlio, le Marche, il suo nome e una vita finita già da tempo con l’assunzione di un’intera bottiglia di laudano. È nella capitale che diventa Sibilla Aleramo, una nuova esistenza la attende, un taccuino bianco tutto da scrivere, e, infatti, da quel momento in poi si dedicherà alla scrittura.
Ben prima di Lina e Sibilla, nel 1854, era nata, nel Sud dell’Ucraina, Anna Kuliscioff. Una donna che per tutta la vita ha lottato per i diritti umani, in special modo per quelli delle donne italiane. Ha esportato il proprio credo, ovvero che le donne non potevano essere considerate delle proprietà, in tutti i luoghi in cui ha vissuto, motivo per il quale è stata più volte esiliata, arrestata, incarcerata e oggetto di critiche e insulti. Di animo sovversivo, Anna Kuliscioff è andata dritta per la sua strada, riuscendo anche a laurearsi in medicina nel 1886 all’Università di Napoli, traguardo non scontato per una donna vissuta in quel secolo. Divenne un medico, «specializzandosi in ginecologia e anarchismo», scrive Schwartz.
Il primo incontro tra Lina, Sibilla e Anna avvenne nel 1908 in occasione del primo Congresso nazionale delle donne, al quale parteciparono in più di un migliaio. In un’Italia governata per la terza volta dallo stesso uomo, nella quale un padre, avvalendosi dell’articolo 544 del codice penale (abrogato solo nel 1981), poteva dichiarare estinto il reato di stupro nei confronti della figlia concedendola in moglie al colpevole, le donne affrontavano tutte insieme le loro esigenze:

Le suffragette volevano il voto, le insegnanti chiedevano che venissero organizzate delle campagne per la scolarizzazione, le direttrici degli orfanotrofi invocavano un aiuto per le madri nubili. Tuttavia due furono le proposte sostenute da tutte; la fine dell’odiosa autorizzazione maritale e la decisione che gli uomini presenti al congresso non avessero diritto di voto.

A intricare ancor più il racconto appare Eleonora Duse che, calcando le scene dei teatri milanesi con Casa di bambola di Ibsen, aveva raccontato a tutti la storia di Laura Kieler attraverso il personaggio di Nora. Nel frattempo, in Gran Bretagna e in Francia nascevano e crescevano altre donne le cui vite si sarebbero annodate tra loro, seppur seguendo sentieri diversi. Così, procedendo con la lettura si incontrano Miss Adeline Virginia Stephen, che nel 1912 diventò Virginia Woolf, Romaine Brooks, Natalie Barney, Eva Palmer e Pauline Tarn, la quale

 

aveva ucciso il suo nome con violenza. La pratica Pauline e la noiosa Tarn vennero entrambe bruciate dal fuoco azzurro e penetrante della sua repulsione, dopodiché lei partì subito per Parigi. Si ripromise di adottare un nuovo nome, scuro come l’inchiostro ed enigmatico, con cui avrebbe firmato le sue poesie, simili a viole che fioriscono la notte. Niente più Pauline che consumava la sua cena, niente più Miss Tarn che rammendava le calze. Lei si sarebbe nutrita solo dell’aria della sera e avrebbe cucito solo frammenti di versi. […] Nel 1899 la vediamo appoggiata a un gomito vestita con una redingote e dei pantaloni alla zuava di lana spessa, che legge Saffo. Alla luce della lampada la sua figura è una linea slanciata e scura.
Era diventata Renée Vivien. 

 

Nonostante né Saffo né Schwartz facciano mai riferimento al tìaso, queste donne facevano parte di veri e propri movimenti, votati all’arte, alla letteratura, alla politica. Così agli inizi del ‘900 le ritroviamo radunate nei loro circoli: il Tempio à l’amitié, al numero 20 di Rue Jacob presso l’abitazione di Natalie Barney a Parigi; The Girls of the Future Society; il Lyceum, nel palazzo della contessa Gabriella Rasponi Spalletti a Roma, del quale si diceva «fosse un luogo sovversivo, dove le donne si abbandonavano a tentazioni saffiche»; l’annuale Congresso internazionale delle donne che si svolgeva a Roma; Odéonia, regno di Gertrude Stein, poco lontano dalla casa di Natalie Barney, un luogo piccolo ma pieno di libri che le donne potevano consultare o prendere in prestito se non potevano permettersi di acquistarli; la Libreria delle Attrici, aperta da Eleonora Duse vicino via Nomentana, un posto dove le attrici potevano recarsi «per imparare a pensare con la propria testa, quello che gli inglesi definivano ‘una stanza tutta per sé’».
Anche se molto attive e impegnate, la maggior parte di queste donne conviveva con un pensiero rivolto sempre altrove: «guai a chi cercava di ostacolare il nostro viaggio verso Lesbo!». Irrequiete, desiderose di salpare verso l’isola sulla quale era nata la loro genitrice, utilizzavano tra loro, per comprendere meglio questo stato d’animo, l’ottativo, il modo verbale del greco antico per esprimere speranza o desiderio. «Dal latino desiderium, formato da de-sidera, preposizione che indica lontananza e ‘stelle’. Fissare con lo sguardo una cosa o persona che attrae, come si fissano di notte i geroglifici delle stelle. Allontanamento, cioè togliere lo sguardo, rivolgerlo altrove. Le stelle non si vedono più. Mancare. Fissare allora con il pensiero una cosa o una persona che non si possiede e che si brama. Quindi, desiderare. In greco antico, tutto questo si dice al modo ottativo» (A. Marcolongo, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, Laterza, 2017).
Tra loro c’era chi davvero era partita verso Lesbo, verso Delfi, chi aveva ripiegato su Capri, chi si era imbarcata alla volta di Creta o di Atene e chi ancora bramava di raggiungere Mitilene. Leggevano la poetessa e pensavano alle sue sofferenze, al suo esilio da un’isola (Lesbo) a un’altra (Sicilia); ognuna cercava il proprio locus amoenus, luogo fisico ma anche mentale della pace e della bellezza, un’immagine diventata topos di immensa fortuna letteraria proprio grazie a Saffo. Come accadeva nel tìaso tra le fanciulle greche, anche tra loro gli affetti erano sinceri ma spesso effimeri, i rapporti di sorellanza e quelli amorosi venivano vissuti con intensità per poi abbandonarsi alla tristezza per la partenza, alla nostalgia e al ricordo. 
Allo stesso modo di Saffo, queste donne contemporanee sentivano la tensione che c’è nel momento prima che accada qualcosa, si affidavano alle stelle e alla luna. Quest’ultima è un elemento tipico nell’opera della poetessa poiché scandisce il tempo interiore dell’attesa e della solitudine ed è caratterizzato da una potenza evocativa tale da poterlo utilizzare anche per parlare e scrivere d’amore. Dopo tutto questo attendere, qualcosa avvenne, gli uomini avevano deciso per tutti, la pace e la bellezza vennero messe da parte per fare la guerra, che forzò la separazione dalle donne amate, lodate, ammirate, «Ci giunse soltanto voce che la nazione italiana non permetteva più certe cose». Lina Poletti scomparve, «Avevamo temuto per la sua vita, ma in verità lei aveva molte vite, tutte le sue e le nostre intrecciate insieme». Non vollero credere alla morte di Lina ma pensarla rifugiata in qualche villaggio e tra «le rovine più polverose della Grecia», come mai credettero alla leggenda del suicidio di Saffo dalla rupe di Leucade per amore di un uomo, Faone, che l’aveva rifiutata. Lina Poletti è rimasta tra le donne e con le donne a parlare di letteratura e di diritti, di emancipazione, a fare politica senza dire di farla. D’altronde anche a Mitilene le donne erano istituzionalmente escluse dalla sfera politica e nel tìaso non se ne faceva menzione, ma ditemi se istruire giovani ragazze non è un atto politico. Saffo nel frammento 147 (riportato nell’esergo di questo articolo), prendendo in prestito da Cassandra la facoltà della preveggenza, sa che non ci si dimenticherà di lei e delle sue ragazze, l’opera di Selby Wynn Schwartz lo testimonia, come lo dimostrano i tanti gruppi di donne che si riuniscono quotidianamente in Italia (e nel mondo) per resistere attraverso la letteratura, la musica, la danza, il teatro, l’arte e la lotta. E se per caso una donna dovesse sentirsi sola o afflitta potrebbe provare a riunirsi con altre, interpretare un inno cletico ad Afrodite, a Saffo, a Lina Poletti, e chiedere soccorso; «ci deve essere in qualche lingua un verbo che indica il fatto di lasciare le lampade accese per qualcuna che non è ancora arrivata».
Dei tanti brevi paragrafi che compongono Le figlie di Saffo non sono qui citati quelli dedicati a William Seymour, Florence Nightingale, Miss Case, Liane de Pougy, Giacinta Pezzana, Sarah Bernhardt, Penelope Sikelianos e Isadora Duncan, Nancy Cunard e a molte altre donne le cui storie si intrecciano safficamente e sorprendentemente, fino ad arrivare a oggi, «un frammento è qualcosa di incompiuto, ma noi andremo avanti insieme».
Per provare a dare una risposta agli interrogativi iniziali, Saffo è una musa ispiratrice, il bagliore di una stella, Espero, la rottura di un equilibrio e l’inizio di uno nuovo, un chiaro di luna:

Piena splendeva la luna
e allorché esse intorno all’altare si disposero.
fr. 154[1]

 

 

[1] Saffo, Poesie, Ilaria Dagnini (a cura di), Roma, Newton Compton, 1982, p. 93.

[2] Questa traduzione è riportata direttamente dall’opera di Schwartz, ne esistono altre, tra le quali: Piena splendeva la luna/quando presso l’altare si fermarono, S. Quasimodo, Lirici greci, Milano, Mondadori, 2020, p. 29.

Il racconto in Michele Mari, di Marco Mongelli

Il racconto italiano, nella sua ricchezza e varietà, è stato esplorato negli ultimi decenni da scrittori diversi per generazione e formazione. Se non è possibile scrivere una storia lineare della forma breve, si avverte sempre più l’urgenza di ragionare attorno a questa forma e studiarne le innumerevoli declinazioni. Il fascicolo, risultato di una giornata di studi, raccoglie interventi su racconti di autori molto diversi (come Tommaso Landolfi, Anna Maria Ortese, Claudio Magris, Michele Mari, Giulio Mozzi), coprendo mezzo secolo di scritture e abbracciando diverse estensioni (tra cui le raccolte di Walter Spina sulla Libia coloniale e postcoloniale, degli alpinisti che rievocano le loro scalate, fino al fenomeno dell’autoproduzione). 

Estraiamo e pubblichiamo parte del capitolo 'Infanzia e fantasmi, la forma racconto in Michele Mari' di Marco Mongelli.


Michele Mari appare un alieno nella letteratura contemporanea italiana anche se pensiamo ai suoi racconti, così distanti sia dall'esperienza dei Cannibali sia dall'asciutto minimalismo importato dagli americani, ma anche dal nuovo realismo degli anni Zero. Quando si smette di considerare quelle qualità “intrinseche” alla forma-racconto e si approccia un ragionamento più storicistico, il racconto di Mari appare davvero in controtendenza, se non proprio incollocabile. Il racconto degli anni '80 aveva infatti secondo Angelo Guglielmi il fine di distanziarsi da ogni idea di totalità e come caratteristiche peculiari quelle di rappresentare «frammenti di realtà visti per sé e non dentro una ideologia del tutto» in una maniera antiletteraria e che tendeva alla funzionalità della scrittura invece che alla sua espressività. Risulta evidente come la forma breve in Mari abbia caratteristiche del tutto opposte, essendo al massimo grado, e fieramente, letteraria ed espressivista, e soprattutto avendo l'ambizione di dire una totalità assoluta e irrevocabile. Anche se qualcuno ha sostenuto che il racconto sia un genere meno assertivo del romanzo a me sembra vero piuttosto il contrario e che invece rifiuti l'ambiguità, la polivalenza e qualsivoglia sfaccettatura per farsi invece mezzo di una spiegazione assoluta del mondo. Come ha scritto Lodoli, in maniera sorprendentemente calzante all'opera di Mari, il racconto con la sua emblematicità costante si presta a essere scrittura di un destino, alimentato da una «fedeltà ossessiva» dei suoi personaggi.
Nel tracciare l'evoluzione del genere, dagli albori connessi all'oralità, passando per la codificazione della novella e arrivando fino allo sfuggente passaggio al racconto moderno, si tende a definire il racconto novecentesco come qualcosa che si è liberato della tirannia del finale, espressa in drammatizzazioni, costruzioni ascendenti ed effetti di clôture. In Mari, al contrario, notiamo sempre una grande importanza accordata ai finali: anche quando il peso narrativo si sposta più verso il centro, soprattutto nelle prove più lunghe, se non tirannico il finale è comunque sempre decisivo. Uno dei miracoli narrativi dei suoi racconti è proprio la capacità di fondere funzionalità e ricercatezza. Oltre che preciso e concreto il linguaggio non rinuncia a essere ricco e forbito come è nelle pagine dei suoi romanzi e così facendo riesce a essere sempre incisivo. Se «l'esemplarità è l'inconscio letterario del genere racconto» di quale esemplarità sono portatori i racconti di Michele Mari?

Innanzitutto, egli ha sperimentato le possibilità dello scriver breve attraverso i vari generi e le forme del narrare. Ad esempio, nelle giornate del finto diario di Io venìa pien d'angoscia a rimirarti, negli interventi saggistici raccolti ne I demoni e la pasta sfoglia o nelle poesie quasi epigrammatiche di Cento poesie d'amore a Ladyhawke. Nei casi citati il macrotesto che raccoglie queste scritture brevi le inscrive in un progetto generale senza far perdere loro autonomia e consistenza. Alla stessa maniera, dunque, credo dovremmo leggere le raccolte di racconti, che raccolgono e restituiscono le angosce e le febbri del passato infantile. In uno scandaglio progressivo, Mari comincia il suo doloroso movimento all'indietro con un riferimento all'Orfeo che girandosi perde quello che era andato a ritrovare (Euridice aveva un cane); poi addita e apostrofa quel passato (Tu, sanguinosa infanzia), e infine mette a punto una trattazione precisa sulla genesi della scrittura dei fantasmi (Fantasmagonia).
Possiamo ritrovare nella produzione di Mari una molteplicità di lunghezze e di forme: da quella breve o brevissima (apologhi o favole con tutto il peso sul finale – come le poesie “a effetto” diCento poesie), a quelli più lunghi e stratificati, dove c'è una concentrazione narrativa maggiore al centro e dove il finale è sì fondamentale ma non così “improvviso”. Mentre la prima e l'ultima raccolta sono composte da molti racconti di varia lunghezza e natura quella centrale risulta più compatta e per questo estremamente indicativa per capire il valore della forma-racconto nell'opera di Michele Mari. Se il compito di una raccolta è quella di mostrare la logica unitaria che guida ogni racconto, il cui senso si deve dispiegare in modo vario ma coerente, allora appare evidente che in Tu, sanguinosa infanzia ogni pezzo è ben incastrato in un'architettura superiore: si ha cioè quella percezione dell'insieme che auspicava Poe nel suo celebre La filosofia della composizione. Se nella novella ciò che conta è l'effetto centrale, verso il quale debbono tendere tutti i particolari, e il dénouement, che deve spiegare tutto quel che precede, poniamoci ora la domanda: in che modo l'infanzia e le sue presenze fantasmatiche si declinano nei racconti di Mari?

Cercherò di rispondere attraverso riferimenti ai racconti più noti.

Iniziamo dall'infanzia dunque, che è sempre in Mari una fase della vita seria e decisiva per tutto quello che avverrà dopo. L'età adulta è un mero prolungamento temporale in cui ossessioni e compulsioni restano le stesse: «non sarai titolare di un letto se non avrai dormito in un lettino […] non leggerai e non possederai Columella o Malebranche se non avrai letto e posseduto Collodi o Salgari» (“I giornalini”, p. 4). L'infanzia è inoltre l'età della paura, perché popolata da mostri e fantasmi, ma anche perché il sentimento di diversità dalla «disgustosa logica della strada» (“L'orrore dei giardinetti”, p. 39) costringe costantemente il bambino nel terrore. Nell'infanzia si sviluppa già l'atteggiamento fondamentale che ogni protagonista di Mari assume verso la vita, infliggendosi un rigore impensabile, non per motivazioni ascetiche ma per un'estrema fedeltà al proprio mondo mentale. L'irriducibile distanza dagli altri esseri umani e la propria solitudine presa come un destino irrefutabile, sono certezze scolpite dal primo giorno e con cui si deve fare i conti fino alla fine. Questa alterità rispetto ai coetanei e rispetto al mondo è assunta senza piagnistei ma anche senza indulgenza: i giochi e gli amori sono seri e nessuna voce li relativizza mettendoli fra virgolette. Si tratta di esperienze solipsistiche che nel testo ci vengono riferite con una sola voce e un solo sguardo. A volte pare che questa esibita insofferenza abbia qualcosa di stoico, altre di terribile ma che funzioni sempre da esorcismo verso tutte le paure infantili. Così gli oggetti, i giornalini, i puzzle, i fumetti, i palloni, le figurine sono oggetti dal valore assoluto e non negoziabile, marchi di un'appartenenza stabilita una volta per sempre e quindi incancellabile.

Credo che il racconto più bello e rappresentativo della prima raccolta, ancor più di quello omonimo, sia quello iniziale, ovvero “I palloni del signor Kurz”, dove emerge già chiaramente la sublime capacità di Mari di far coincidere il verso alto, eroico, alla materia più comune, senza sfigurare né l'una né l'altra. Un connubio perfetto che nella forma breve rifulge: per la nettezza e la rapidità con cui sono tracciati gli elementi essenziali di un mondo mentale tanto particolare quanto limpido e per la precisione e la secchezza dell'andamento narrativo, che può essere tale solo nella forma breve. Nonostante sia più lungo degli altri racconti della stessa raccolta “I palloni del signor Kurz” presenta il consueto finale netto e sorprendente, che si rivela spesso la conclusione più logica per un racconto di Mari. I bambini di questa raccolta sono iniziati alla vista del sesso femminile (Cicoria matta), impongono ai coetanei un ferreo rigore nei loro giochi (“L'ora di Carrasco”) o vivono una dolorosa e costante alienazione dal mondo circostante (“Euridice aveva un cane”).

Con Tu, sanguinosa infanzia, siamo invece di fronte alla quintessenza della poetica dell'infanzia di Mari. Quei temi e quelle riflessioni prima accennati e ripresi, si presentano qui al massimo grado di precisione e altezza estetica. A partire dal titolo ci accorgiamo di un'altra qualità che ha l'infanzia, quella di essere sanguinosa: una ferita sempre aperta e non rimarginabile. In ogni racconto di questa raccolta l'uomo adulto la fissa e la qualifica, la riconosce e decide di conservarla. Nel primo racconto l'infanzia delle avide letture va salvaguardata da ogni sguardo infedele, persino quello del figlio che sta per nascere. I giornalini sono «monumenti della mia solitudine» (“I giornalini”, p. 6) dice il protagonista, non sono semplici documenti che stanno lì a testimoniare un passato ormai attingibile solo col ricordo, ma la concretizzazione sempre presente di quel passato. In “L'uomo che uccise Liberty Valance” è presente un altro topos di Mari, quello del senso di colpa dell'uomo adulto verso quegli oggetti che mentre cresceva ha fatto scivolare in secondo piano, addirittura perso o scambiato. Tenere tutto ciò che si è amato anche un solo istante non è però un'operazione difensiva che serve ad allontanare il rimpianto, ma la spia di quell'atteggiamento di feticistica conservazione che ogni personaggio di Mari deve avere verso la sua infanzia e le sue manifestazioni tangibili: tutte le copertine di Urania devono essere scrupolosamente archiviate dal lettore e «memoratore», anche a costo di uscirne «sfibrato» (“Le copertine di Urania”, p. 29). Se l'infanzia è il luogo dove tutto è già accaduto – «Non c'è stato molto altro nella vita» «No, è quasi tutto laggiù» (“Laggiù, p. 129) – dopo c'è solo «l'orrenda vita da vivere» (“Le copertine di Urania, p. 31). Solo nella reiterazione sempre più minuziosa di un gioco di emulazione, nella sua descrizione istante per istante «tu bambino angosciato trovavi la pace» (“Mi hanno sparato e sono morto”, p. 35), ci dice Mari. Una parte fondamentale di questa fenomenologia dell'infanzia la ricoprono i libri: in “La freccia nera” il bambino scopre le paradossali epifanie che possono derivare dalla lettura di due edizioni diverse di uno stesso libro; in “Otto scrittori” l'adulto cerca di capire a chi, fra i suoi scrittori preferiti, deve la maggiore devozione. Ma è forse nel racconto intitolato “Certi verdini” che Mari, attraverso lo schermo di un altro oggetto-feticcio, il puzzle, ci dona la più precisa metafisica dell'infanzia. La maniacale, rigorosa iniziazione all'arte della composizione di un puzzle ci dice che per Mari ogni gesto vuol dire principalmente se stesso, perché nella sua gratuità disinteressata c'è tutto il suo valore.
Per questo si dovrebbe intraprendere un puzzle non “per passare del tempo” [...] ma solo per amore di tale cimento in se stesso, così come non sa cosa sia la lettura chi apre un libro per altro che sia il puro piacere di leggere. (p. 94)

In Fantasmagonia, che raccoglie racconti scritti lungo il corso di parecchi anni ed è per questo meno coesa delle raccolte precedenti, notiamo un aumento del carattere breve di molti racconti, che spesso sfruttano una trovata brillante per un finale a effetto. In generale la riflessione sull'atto stesso della scrittura come rielaborazione dei propri fantasmi è molto più esplicito e l'infanzia perde la sua centralità in favore della fase adolescenziale, come in “Iride e madreperla” e “L'ultimo buscadero”, fra i racconti più riusciti della raccolta.

L'altro grande tema di Mari, qui assoluto protagonista, è quello orrorifico dei mostri. Innanzitutto va chiarito che per Mari mostro vuol dire, dall'etimo, prodigio. E prodigiosa, ovvero piena di mostri, è la sua infanzia. Con queste presenze il bambino e poi l'adulto instaurano una lotta che è sempre una lotta contro se stessi: se questi fantasmi sono proiezioni del sé tuttavia non perdono mai il loro carattere corporeo, divenendo presenze che perseguitano ma con le quali instaurare un dialogo. Sono nemici ma anche alleati, spesso coincidono con un io dai desideri indicibili e repressi. Nel testo queste ombre assumono quindi una forma peculiare, quella dei nostri lati oscuri. I racconti di Mari ci dicono l'evidenza dei nostri fantasmi e la loro supremazia su qualsiasi altra realtà: ci sconfiggono sempre perché hanno sempre una concretezza materiale, seppur onirica o immaginosa, che procura dolore oltre che spavento. In definitiva, i fantasmi «non esistono perché essi SONO» (“Fantasmagonia”, p. 150).

Gli spiriti abitano edifici (“In virtù della mostruosa intensità”, “La legnaia”), gli oggetti (“Forse perché”) e le persone: «chissà perché in ogni cosa riesco solo a vedere la morte» (“Forse perché”, p. 127) si chiede il bambino nell'ultimo racconto di Euridice aveva un cane. La risposta chiude il cerchio tra infanzia e fantasmi: perché è proprio il bimbo, in quanto portatore di uno sguardo di morte, a essere il mostro. Sguardo di morte anche inteso come assuefazione all'orrore, allo spavento: «E io, quando da grandicello vidi L'esorcistaLa cosaLa casaLo squalo e Alien, non vidi nulla che non mi fosse familiare, molto familiare da sempre» (p. 124) dice una voce in “Laggiù”, ultimo racconto di Tu, sanguinosa infanzia. Ma le presenze ultraterrene che parlano al bambino ormai cresciuto possono anche prendere le sembianze di un padre giudicante (“L'uomo che uccise Liberty Valance”), di scrittori benevoli (“Otto scrittori”) o una proiezione di una coscienza che considera malevoli dei sentimenti che altrove si chiamerebbero semplicemente infantili. Ma ormai sappiamo che non c'è nulla di innocente in quest'infanzia capace di generare dolori e desideri di spaventosa grandezza. In Fantasmagonia il primo e l'ultimo, omonimo, racconto dicono la parola definitiva sul tema: in “Conversazione notturna con il mostro”, il protagonista scopre il legame indissolubile a cui il proprio mostro è in grado di costringerlo; in “Fantasmagonia”, invece, è questione precisamente della nascita dei fantasmi. «Per fare un fantasma occorrono una vita, un male, un luogo» (p. 142): così comincia questo finto racconto, in realtà una breve trattazione per punti, in cui si enumerano le caratteristiche necessarie al soggetto per essere abitato. Dall'immutabilità al riconoscimento, passando ovviamente per la paura e la commozione, sono diciannove i passi di questo cammino. Se la letteratura è «l'unica scienza esatta in materia» (p. 145) di presenze fantasmatiche è a essa che in ogni pagina tende l'ultima silloge di Mari.

È difficile parlare di un'evoluzione nella narrativa di Mari, proprio a causa di quella coerenza di temi e stili che da ormai un trentennio ne fa un autore riconoscibile da poche righe. Eppure io credo che il meglio, l'apice di questa ricerca letteraria e stilistica sia da ricercarsi negli anni che vanno dal 1997 al 1999 in cui con Tu, sanguinosa infanzia e Rondini sul filo Mari mette a fuoco tutte le tematiche a lui care con una concentrazione narrativa ed espressiva inarrivabili.
Proprio la seconda raccolta è forse il vertice assoluto e i racconti ciò che rimarrà più a lungo della sua produzione, ciò che si leggerà sempre con lo stesso entusiasmo, perché posseggono, ciascuno singolarmente e tutti presi nell'insieme, quell'unità d'effetto che è il primo comandamento di ogni buon racconto. Nettezza e compiutezza espressa nei toni più disparati: dall'assertorio al lirico, passando per l'epico e l'elegiaco, l'effetto è sempre quello di una folgorazione, il riconoscimento di qualcosa che vedevi confusamente e a cui non riuscivi a dare un nome.
In conclusione, se l'infanzia come tempo della vita è un'esperienza condivisa da tutti, non credo sia così universale riconoscersi nell'infanzia per come ce la racconta Michele Mari. Per farlo, infatti, ci vuole uno sguardo preciso e direzionato, in qualche modo sperimentato di persona. L'iniziazione a quella sorta di culto, che sono i libri di Mari, passa secondo me in prima istanza da questo. Da quell'oltranzistica, fanatica, ossessiva volontà di mettere ordine nei propri fantasmi privati unita a un umorismo di struggente tenerezza. È ciò che crea quell'originalissima e inimitabile miscela, che chiamerei, con un ossimoro, il massimalismo privato di Michele Mari.
Il paradosso della scrittura di Mari, in definitiva, è che essa eccelle in tutto ciò che è negletto dalla nostra contemporaneità: lo scrivere breve ma non frammentato, la citazione mascherata o rielaborata, uno stile consapevolmente manierato. Eppure, nemmeno il più ostinato dei detrattori potrà negare che l'originalità e l'altezza di questa operazione sta nel sentimento profondo che anima la letterarietà ricercata ma vivacissima di Mari: una tenace fedeltà, incantata senza essere ingenua, un'immaginazione che non distingue fra alto e basso, ma che rifugge la volgarità ed elegge i propri oggetti d'amore.

Utopie di morte e rinnovamento nei mondi di Livio Santoro

di Alice Pisu

 

Con Le favole nuove (Edicola, 2024) Livio Santoro compone un complesso mosaico di storie che rivelano nella forma breve l’esaltazione della salvezza nella disgregazione. Le micronarrazioni misurano la complessità di scenari soggetti a continue deformazioni esaltate da una prosa dal passo epico e dagli scorci lirici che attestano l’inesorabilità della dispersione. Il peculiare uso dell’elemento fantastico è funzionale a enfatizzare le anomalie del reale. Gli ingrandimenti su catastrofi personali e storiche a partire dall’esordio Piccole apocalissi (Edicola, 2020) tracciano un percorso cupo, oscuro, che riconosce nelle Commedie del vespero e della notte (Edicola, 2022) la cadenza delle stagioni di un dolore inestinguibile attraverso illusioni e abbagli, sacrifici estremi di figure estromesse dalla comunità, prive di salvezza, e che raggiunge il suo culmine con Le favole nuove nell’indagare il solco tra morte e rinnovamento.
La revisione di figure appartenenti al mito e a leggende popolari esalta gli aneliti sopiti e le fantasie di distruzione che dominano l’essere umano anche attraverso un dialogo aperto e sospeso con creature anomale, per stilare un catalogo di traumi corali che esprimono il conflitto irrisolto tra i soggetti narrati e il mondo che abitano.

 

Una creatura irregolare fatta di innumere spoglie aveva preso forma, un ammasso lunghissimo variamente decomposto fatto di mani e di braccia, di gambe e di piedi, di ventri, di lingue e di teste, avanti a tutte quella di Glodana Mosselet. E stava emergendo rapida là sotto,
per farsi portatrice di propositi tutt’altro che concilianti.

 

Sfilano sulla pagina eremiti in fuga nel bosco, bestie parlanti, divinità generatrici di vita, senzatetto che diventano monti appuntiti dal capo brullo, esuli prede di gabbiani famelici, nomadi tormentati da presagi di sangue e distruzione. Ad accomunare le storie la costante riscrittura di una genesi mutevole che, a partire da Memorie del prima, si rinnova con motivi espressivi e tematici nuovi nelle descrizioni di figure sovrannaturali che preesistono al tempo, come Brali in Occhi sorgivi ed equestri primordi che nell’unione spirituale e carnale con Arnali generò gli esseri umani e i cavalli – “Il resto, tutto il resto, venne soltanto dopo” – o come l’essere bifronte fatto in parti uguali d’anima e di carne anteriore che regola gli eventi e vigila il passaggio tra i mondi: con i suoi due membri asperge di seme le due dimensioni, fecondando quanto già inumidito con il latte dei seni (Imaiami).
Le riflessioni sull’origine si nutrono di allegorie e metafore per indagare gli esiti di una trasformazione nell’estrarre la pietra della follia, per riconoscere le condizioni sociali primarie, per immaginare la ricostruzione di paesi deserti e identificare gli elementi necessari a favorire un passaggio di stato. Emblematico in tal senso il racconto Parabola dell’uva, incentrato sulla proposta di un modello per il popolo seguendo l’esempio del grappolo. Occorre saper riconoscere negli acini gli individui capaci di dare vita a una comunità grazie al loro modo di essere collegati tra loro, pur nella consapevolezza che solo uno di loro ne determinerà l’esistenza.


[...]per salvare il tuo popolo devi essere quell’acino, pur sapendo di non poterlo essere tu stesso. Devi esserlo tu ed al contempo devi incoraggiare tutti gli altri ad esserlo, senza che tuttavia nessuno in particolare lo sia. Solo così potrai salvare il tuo popolo, e potrai salvarlo proprio nell’atto di dargli vita.

 

Nel muoversi tra edifici in rovina, boschi infiniti con miracolosi cespugli di luppolo, rotaie e case cantoniere abbandonate, cordigliere, dimore di estremi presidi sacerdotali, meli che generano frutti avvelenati, terre brune, giardini senzienti e minacciosi che preesistono alle città di cui sono i carcerieri, i soggetti di Santoro si scoprono perennemente tormentati dal tempo, e finiscono per diventare agenti del cambiamento nel contribuire a strutturare universi magici. Si confrontano con una natura ostile, indifferente alle loro sorti, non dichiarano sino in fondo i loro scopi nell’errare in regioni utopiche o nel permanere nella soglia tra mondi diversi.
“C’era spesso un interminabile orizzonte, una strada da percorrere per arrivare chissà dove”.
Le apparizioni composte sulla pagina trovano nella dimensione sotterranea e onirica il preambolo al tragico, l’amplificazione di una follia celata da tormenti e brame, il miraggio di un eterno ciclo di disfacimenti e nuove creazioni. Le narrazioni di Santoro ispezionano l’inganno del noto, trovano in scenari apocalittici le possibilità per esperire la fine e immaginare un rinnovamento che passa per una trasfigurazione singolare e collettiva, dagli accenti surreali che amplificano riflessioni sul significato del sacrificio, sulla colpa, sul potere, sulla rabbia e la follia, su un’idea di giustizia in relazione al castigo, sulle vessazioni subite da popoli improvvisamente accesi dalla rivalsa, sulla conoscenza originaria.

 

E Calonia Vanià, che impotente aveva assistito allo scempio, profondò nella colpa: lacrime penitenziali presero a sgorgarle in gran copia dagli occhi, tanto da colmare in breve la forra, che divenne infine rivo: il tristo rivo di Calonia Vanià, come viene ricordato ancor oggi. Tristo per la sua lacrimosa genesi, certo, ma anche per aver inghiottito in un batter d’ali due popoli e due milizie, quando per darsi battaglia cercarono a tutti i costi di valicare le acque senza nemmeno togliersi le vesti, senza nemmeno sfilarsi l’armatura.

 

L’invenzione favolistica che approda alla parabola definisce un’attrazione per il lato oscuro e selvaggio dell’esperienza, misura inquietudini remote e miraggi. La singolare voce letteraria di Santoro si palesa nel bizzarro universo narrativo, nella linea espressiva: i tratti grotteschi dagli stacchi lirici, le distorsioni parodiche, caustiche, tragiche, mostrano gli esiti di un’alienazione che trova nel singolo l’emblema di uno smarrimento che invade ogni cosa e che solo in apparenza è generato da un cataclisma, da un flagello divino o da un destino avverso.
La vena fantastica favorisce nell’opera l’analisi della miseria umana, il presentimento della fragilità di una società moderna svilita dei suoi ideali, intuita negli scenari che ne anticipano le sorti. La prosa febbrile, incorrotta  perlustra le possibilità linguistiche attraverso un groviglio di simbologie, dal canto di versi endogeni –  “Versi di belva ardente e cieca che emerge furiosa in cerca d’aria e di respiro” emessi da bocche dalle “lingue sconosciute di lava” (Poetica dell’igne) –  al verbo che da una voce porpora precede e genera l’oblio o ricostruisce il ricordo (La sua parola).
A definire l’atipicità di questa voce letteraria sono gli esperimenti linguistici, l’espressività stilistica, la ricercatezza lessicale, l’attenzione estrema riservata alle possibilità della lingua, il carattere fantastico, il richiamo simbolista, i motivi tematici, lo studio formale, che rimandano agli esempi di Tommaso Ladolfi, Giorgio Manganelli, Antoine Volodine, Jorge Luis Borges, Julio Cortázar. Con Le favole nuove Livio Santoro esperisce un rinnovato tempo del mito, scandisce visioni arcaiche e allucinazioni fantastiche, illumina presenze conturbanti e figure inumane che avanzano verso l’ignoto per scandagliare, nell’inatteso dispiegamento di fantasie utopiche, una tensione alla liberazione del represso che illumina di possibilità nuove l’inganno sensibile.

 

La dimensione della collettività ne ‘Le conseguenze’ di Manuel Muñoz

di Debora Lambruschini

 

A noi lettori capitano delle particolari connessioni tra le storie che abitiamo o che ascoltiamo e quando non ricercate la loro eco si espande potente. Di recente ho riletto insieme al mio gruppo di lettura il capolavoro di Steinbeck, Furore, e da allora vado continuamente dicendo che è uno di quei libri che ti cambia un po’ la vita o, perlomeno, la percezione delle cose; un romanzo di una potenza inarrestabile, di estrema attualità. Un classico, per definizione, riletto proprio a ottobre mentre parallelamente scoprivo le storie di Manuel Muñoz, Le conseguenze, pubblicate in Italia da Black Coffee: due contesti storici e culturali differenti come lo sono anche le modalità narrative, ma entrambi caratterizzati da una simile urgenza e dalla riflessione sul tema del migrante, sulla realtà del lavoro nei campi, la discriminazione, l’incertezza, il sogno che si infrange. Steinbeck scriveva, negli anni Trenta, della grande ondata migratoria dagli stati centrali verso la California, delle famiglie di contadini cacciata dalla terra che lavoravano e che andavano verso Ovest a cercare fortuna trovando invece povertà, fame, disprezzo; Muñoz ritorna alla California dove la sua famiglia arrivata dal Messico si è costruita una vita e ambienta le proprie storie tra gli anni Ottanta e Novanta, dando voce alla comunità latinoamericana dei raccoglitori agricoli.
Immediatamente si sono spalancate diverse porte, connessioni da un libro all’altro ma anche parole ed esperienze ascoltate da chi, oggi, vive in California ed è entrato in contatto con nuove storie di immigrazione: Furore, quindi, ma anche il romanzo Paese infinito di Patricia Engel, e, non da ultimo, la raccolta di Freeman’s dedicata alla California tra le cui pagine avevo appunto scoperto Muñoz un paio di anni fa. Su Freeman’s era apparso il racconto Susto ed è grazie a una felice intuizione di Sara Reggiani, fondatrice di Black Coffee e traduttrice, che non solo Le conseguenze è oggi tradotto in italiano, ma è merito suo se la raccolta effettivamente esiste: da anni infatti Muñoz viveva una sorta di blocco e, dopo il successo delle due raccolte del 2003 e del 2007 che gli erano valse numerosi premi e riconoscimenti di pubblico e critica, si era rifugiato nell’insegnamento (all’università di Tucson, Arizona) e alla sporadica pubblicazione su rivista. Folgorata dal quel racconto, Reggiani si è subito messa in contatto con l’autore, spronandolo a scrivere una raccolta e garantendogli l’interesse per la pubblicazione in Italia. I racconti sono fluiti, la raccolta è prima uscita negli Stati Uniti (accolta anche in questo caso con notevole favore) e poco dopo è arrivata la traduzione italiana, a cura di Annalisa Nelson, naturalmente per Black Coffee. Approda nelle librerie a cavallo del National Hispanic Heritage Month, il mese lungo il quale negli Stati Uniti si celebra la rilevanza della cultura ispanica e il contributo alla storia del Paese: una serie di iniziative senza dubbio lodevoli e interessanti, ma che mettono anche in evidenza il vuoto rappresentativo avvertito dalla comunità latinoamericana. Perché nonostante la complessità e stratificazione della società statunitense, la sua letteratura è stata per molto tempo – e in certa misura ancora di recente – specchio e appannaggio perlopiù di una fetta specifica: lo scrittore maschio, bianco, eterosessuale, della middle class. Ancora negli anni Duemila quella che all’epoca era una libraia – e oggi una scrittrice molto apprezzata, anche in Italia – avvertiva il vuoto di rappresentazione per chi come lei veniva da una famiglia di origini latine, messicane e native nel caso specifico. Una comunità numericamente importante – mi dicono per esempio che infatti quasi ovunque negli Stati Uniti i menù dei ristoranti siano scritti sia in inglese che in spagnolo – sulla cui forza lavoro praticamente si fonda da sempre la nazione; ma che, appunto, è stata a lungo trascurata dall’indagine culturale, con poche voci che nel tempo si sono inserite nel panorama letterario nazionale. La scrittrice in questione era Kali Fajardo Anstine, autrice della bellissima raccolta Sabrina&Corina del 2021 con la quale tentava appunto di colmare quel vuoto, rappresentando nelle sue storie la sua stessa comunità latina e indigena.
Manuel Muñoz si colloca quindi in questo filone e le sue storie contribuiscono a riempire uno spazio, rispondere a quella mancanza di rappresentazione. I dodici racconti di Le conseguenze, come gli altri delle raccolte precedenti – per il momento non tradotte in italiano – tornano alla comunità nella quale è cresciuto, ambientate tra Fresno e zone limitrofe, in quella Central Valley di distese infinite di campi, piccoli centri urbani, sacrificio e incertezza; dove, tra gli anni Ottanta e Novanta, il senso di precarietà di quelle vite era acuito dall’Immigration Reform and Control Act, nato per contrastare l’immigrazione clandestina ma degenerato presto in espulsioni di massa, non così lontano da certe dinamiche di anni più recenti. Muñoz dà voce e corpo a una collettività, alla comunità di immigrati di prima o seconda generazione, quasi tutti provenienti dal Messico e che lavorano nei campi. Storie di uomini e donne tra vulnerabilità e resilienza, di vita quotidiana, di lavoro e legami famigliari complessi, segreti, possibilità, rimpianti e di una distanza che pare incolmabile tra loro e gli americani bianchi, una discriminazione fatta anche di dettagli solo all’apparenza minimi, che si rivelano sulla pagina senza fronzoli:

 

[…] il suo viso si accigliò come facevano quelli dei bianchi che Delfina aveva incontrato in Texas, quelli che sembravano sempre sorpresi di sentirla parlare in inglese.
 (“Può farlo chiunque”, p. 31)

 

Ma sono anche storie diverse e al racconto della realtà contadina, il dramma delle espulsioni, l’attesa, la clandestinità, si intreccia anche il discorso su rapporti e identità complesse, di un microcosmo stretto tra casa e lavoro, desiderio di fuga, possibilità e sogni infranti. Dodici storie attraversate tanto dalla ruvidità quanto dalla tenerezza, che è nello sguardo benevolo del suo autore ma anche in certi brevi lampi di gentilezza e umanità dei personaggi. Come Griselda di La ragazza più felice di tutti gli Stati Uniti, in viaggio per recuperare il suo uomo al ritorno dall’ennesima espulsione, coriacea e di poche parole, ma che si prende cura di una ragazza sconosciuta alla prima esperienza con quel viaggio.
In apparenza la soluzione per Griselda e l’uomo sarebbe a portata di mano, il matrimonio potrebbe mettere fine alla precarietà delle loro vite:

 

Io ho la cittadinanza. Sono anni che gli dico che il matrimonio ci risolverebbe un sacco di problemi. Quando mi chiede cosa dobbiamo fare, gli dico che dobbiamo andare in municipio per prendere la licenza, ed è a quel punto che ha paura. Come tanta altra gente ha paura del governo.

(“La ragazza più felice di tutti gli Stati Uniti”, p. 49)

 

La paura, un sentimento che tutti i personaggi di queste storie, in forme diverse, conoscono bene. Ed è, prima di tutto, la paura derivante dalla loro condizione di migranti, la diffidenza, la mancata integrazione, la concreta possibilità di perdere tutto quel poco che hanno se la migra decide di espellerli, se un altro attraversamento del confine la prossima volta non sarà possibile.
Non c’è nei racconti di Muñoz una feroce critica sociale, né sono attraversati dall’intento di denuncia: eppure, in qualche modo, anche queste storie sono un atto politico. Lo sono nella misura in cui raccontano quelle vite ai margini, un quotidiano che a molti di noi è dato il privilegio di non conoscere e che ci spalanca le porte su una realtà che è la stessa nostra ma della quale non ci accorgiamo pienamente. C’è, fortissimo, il desiderio di raccontare una collettività in cui la finzione si intreccia alle storie ascoltate, senza mai scadere nel pietismo ma presentandole nella loro cruda quotidiana verità. E se, a differenza di Furore, manca quella carica potentissima di critica sociale e denuncia alle politiche messe in atto, Le conseguenze è rappresentazione di un microcosmo di cui intuiamo ancora oggi essere cambiate di poco le dinamiche, i timori, le divergenze tra ciò che si immaginava e ciò che è la realtà.

 

«Pensi che mi avrebbero creduto? Pensi che la gente ti creda solo perché dici qualcosa? Pensi che basti dire che hai i documenti? Queste» disse con le mani tese in avanti come un’offerta.  

«Queste sono i miei documenti».

 (“Il lavoro nei campi”, p. 172)

 

È un passaggio particolarmente intenso, che ben sintetizza sentimenti complessi come la paura, la precarietà, la fatica, le possibilità. Quest’uomo, in un centro di riabilitazione dopo un brutto ictus, che mostra le mani al figlio nato sul suolo americano e lo mette di fronte alla realtà, quest’uomo, un padre anziano che è stato tutta la vita a lavorare nei campi dei bianchi e che ogni giorno ha sentito di non avere voce, di non avere diritto di farla sentire, di non essere abbastanza legittimato. Ecco, quando dicevo che Le conseguenze non è un testo di denuncia eppure in qualche modo lo è lo stesso, perché la letteratura, un certo tipo almeno, è sempre un atto politico.
I racconti di Muñoz prendono vita in quella comunità e ne raccontano non solo il lavoro e le incertezze derivanti dalla condizione di immigrati, ma anche le mille altre sfumature dell’individuo: le distanze di certi legami famigliari, le relazioni, l’omosessualità, la rinuncia, i segreti, la fuga come idea potenziale o irrequietezza costante e tragica.

 

Non aveva mai fatto niente di più che limitarsi a sognare distrattamente di andarsene via da Fresno. Ma aveva troppa paura per farlo.

(“Le conseguenze”, p. 115)

 

Sono racconti, inoltre, perfettamente autonomi e autoconclusivi, ma che dialogano anche tra loro in modo particolare: uno short story cycle, per i frequenti piccoli rimandi interni dall’uno all’altro, ma soprattutto una storia collettiva, un coro di voci ed esperienze che compone un quadro più complesso.
C’è sempre un numero limitato di chiavi di lettura con cui scegliamo di addentrarci in una narrazione, che si lega inevitabilmente alla sensibilità del lettore, talvolta all’esperienza personale, a un certo grado di empatia. E non è così necessario a mio avviso riconoscersi in quello che leggiamo, anzi, è proprio nello scostamento tra ciò che viviamo e ciò che una storia ci mostra dell’altro e del mondo che la letteratura compie il suo miracolo: ma è quanto mai urgente calarsi nei panni dell’altro, mettere in discussione le nostre convinzioni e togliere il filtro della realtà che conosciamo per iniziare a comprendere la complessità del mondo e la stratificazione delle nostre società. Una sorta di allenamento per il nostro sguardo, magari per la nostra empatia; forse allora proprio i racconti, con il loro particolare respiro, possono abituarci a osservare le cose da un’angolatura differente, a leggere gli spazi bianchi, a colmare i vuoti della narrazione.  Ad amplificare l’eco di tutte quelle voci che ancora aspettano di essere udite.  

L’apoteosi del visibile, la verità del sogno in Federigo Tozzi

di Alice Pisu

Edizioni degli animali riporta alla luce un testo ormai introvabile di Federigo Tozzi, Fonti. La prima sezione dal titolo omonimo si rifà alla lezione dei Taccuini di Barbablu del 1983, esito del confronto con le otto cartelle del dattiloscritto originale. Le altre tre sezioni sono tratte da Cose e persone (Vallecchi, 1981), con abbozzi e notazioni. Tra le ragioni della riflessione sulle fonti il progetto mai realizzato dal titolo Cose. Gli scritti brevi apparsi originariamente su La ruota (25 agosto 1916) e sul Messaggero della domenica (21 giugno 1919) solcano gli anni della redazione di Bestie, prose liriche tra le più originali nell’ispirarsi al frammentismo e nel lasciare intravedere, al contempo, una traccia condivisa per il ricorso continuo a creature animali con un preciso valore simbolico.
Riscoprire oggi opere meno conosciute di uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento, noto in particolare per Con gli occhi chiusi, Il podere e Tre croci, permette ai lettori di rintracciare le ragioni della scrittura negli esperimenti narrativi, nella disposizione all’alterazione fisica nell’osservazione del suo tempo, nel senso di profonda alienazione e rimozione della realtà.
La forma breve esalta la peculiare capacità dello scrittore senese di muoversi tra tensione naturalistica e frammentismo come misura del racconto di sé e per esplorare un personale universo finzionale. Le influenze fondamentali in Tozzi – Dostoevskij, Pirandello, Verga e D’Annunzio, in particolare – inducono a un superamento degli ideali estetici del naturalismo e dell’aderenza a un punto di vista strettamente oggettivo, in favore di immagini sul disordine dell’individuo, visioni perturbanti sul noto.
In Fonti l’autore si pone alla ricerca di quel che c’è nella sua anima.


“Le cose si amano soltanto quando si ricongiungono con le loro immagini sognate; ma, ormai, non ci credo più, e non le sento più mie”.

 

 Scandaglia reperti del passato tra oggetti domestici svicolati da un senso di appartenenza personale che attestano un tempo irraggiungibile a conferma delle poche certezze insite nei sogni.
“Ma niente è più vero dei miei sogni: né meno la mia anima che li vede e li sente”.
Il paesaggio naturale delle fonti di Siena e le insistenze sulla vita contadina sono turbati da elementi minimi che inquinano quell’apparente quiete, anticipano l’incombere del dramma, il presagio della fine. Il contesto selvatico e i riferimenti al mondo rurale non sono confinati a mero sfondo, ma contribuiscono alla narrazione del rapporto con l’io, connotano l’impressionismo lirico tozziano. La dimensione silvestre amplifica lo studio di un malessere radicato che si traduce sul piano formale in una prosa resa per schegge, frammenti, visioni fulminanti, deformazioni del reale che allentano il confine tra interiorità e esteriorità.

Se lo sapesse quest’erba che io mi sono fermato alla fonte, per uccidermi! Ma l’erba ha sentito soltanto le mie scarpe, quand’io mi ci son fermato, pieno di dolore: forse a ripassare, come un mazzo di carte bisunte, i miei sogni simili ad un’erba fresca cresciuta in vece sul margine degli anni; che mi parevano più corti dei minuti e del mio respiro”.

 

A caratterizzare le prose la capacità dell’autore di tradurre stati d’animo nell’attenzione estrema riservata a cenni, gesti e percezioni sensoriali, esplicitata in particolare ne La fonte colma: “Quando si crede di descrivere uno stato d’animo, noi siamo piuttosto in sua balìa. Se una sola delle nostre parole riuscisse a entrare dentro uno dei nostri stati d’animo, la parola vi si annegherebbe per non tornare mai più fuori. Si ha sempre la sensazione di rasentare una specie di caverna immensurabile, dentro la quale è vietato entrare. Chi non sente dentro di sé questa specie di infinito che ci respinge tutte le volte che non ci contentiamo di vederlo soltanto a una certa distanza?”
I turbamenti narrati riguardano anche la sfera affettiva come mostrano le pagine dedicate all’ambiguità del rapporto tra innamorati resa nei desideri sopiti, nelle fantasie, nel dissidio interiore tra attrazione e repulsione.

 

“Non avevamo voglia di parlare; anche noi incerti come l’aria, con improvvisi sentimenti che ciascuno di noi trovava piacere a tener per sé; sognando di baciarci, senza in vece baciarci da vero; sognando le nostre mani, senza né meno sfiorarle pure che le tenessimo quasi insieme sul muricciolo; sognando di amarci senza amarci da vero; sentendoci buoni, ma stando cattivi e melanconici; con certi sprazzi di fecondità che parevano d’un tempo ormai trapassato; con certe conversazioni che gonfiavano la nostra anima; ma zitti, evitando perfino di parlarci; per non smettere di vederci con il nostro pensiero; attenti nelle nostre risposte che ci facevamo l’uno per conto dell’altro; ma con il desiderio di lasciarci[…]”.

 

Ad assumere piena centralità nell’indagine narrativa è la percezione emotiva del soggetto che si rapporta al mondo che abita, resa attraverso oggetti-simbolo che misurano le incertezze, la crisi interiore, l’estraneità al presente, con una prosa dagli accenti espressionistici che traccia tormenti e nodi irrisolti, come emerge in particolare nella minuziosità descrittiva riservata alle zolle, ai “lombrici”, nelle pagine dedicate alle fonti senza voce.
“Era come se quell’acqua avesse attraversato la mia anima, con il suo silenzio, ogni sera”.
Il continuo rimando agli elementi, e all’acqua in particolare, traccia un’evoluzione sensibile, radicata nell’ascolto del codice naturale, che rischiara la peculiare visione del tempo tozziana. 
“Cadute giù le ultime foglie con quella pesantezza che avrebbe avuta tutto l’albero, c’era da domandarsi che avrebbe fatto la fonte, vicino al tronco, aspettando le gemme nuove”.
La riflessione sulla caducità si lega a personali consapevolezze tardive sul limite di una collocazione dell’individuo nello spazio e nel tempo.
“La mia giovinezza io l’ho sentita quasi all’improvviso. Essa era in me da tanti anni, ma credevo di essere restato sempre lo stesso”.
Anche nell’ultima sezione la riflessione sul tempo torna con forza a connettersi al tema del cambiamento e della trasfigurazione.

 

“Ci sono, dentro di me, sgorbi infantili; come pensieri immutabili, che restano insoddisfatti per sempre. Forse, li ritroverò sempre più profondi; e non avrò più il coraggio di avvicinarmici. Sentiamo quel che ha da dirmi, poi, la mia adolescenza quando guardo la cima dei miei castagni
 che il vento fa tremare come allora!”.

 

Tozzi condivide con i suoi contemporanei Svevo e Pirandello il racconto dell’inquietudine esistenziale e storica del suo tempo, con accenti dolorosi che richiamano il difficile rapporto con il tema della perdita che, a partire dalla vicenda personale, risuona nelle frequenti fantasie di morte.
Fonti consegna una riflessione sull’esistenza nei toni assoluti assegnati a visioni che paiono configurare l’inesorabile attraverso elementi che rompono l’armonia composta sulla pagina, per prefigurare nel disordine una strenua necessità di conoscenza. 
“C’era una fonte dove avrei voluto morire, perché non ero contento di me stesso; e mi pareva così di trovare soddisfazione per la mia anima. Ma, uccidendomi, m’illudevo di avere anche dopo coscienza di me stesso”.