Farsene una ragione con i racconti di Lydia Davis

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di Fabrizia Gagliardi


Prendete un’esperienza e dissezionatela: eliminate la topografia di spazi e corpi, adombrate qualsiasi dettaglio anagrafico di tutti i protagonisti. Aspettate a eliminare le batture, smussatene i contorni letterali per suggerire una vacuità che colpirà nel profondo.
Scomporre, senza alcun fascino stilistico, la ricetta di un racconto ben congeniato dà l’impressione di poter innescare facilmente l’incantesimo che dal particolare conduce all’universale, che è poi la reazione sperata nel rapporto tra noi e le storie. Dalla prospettiva di chi scrive c’è solo un dettaglio ingombrante quanto una diga dall’equilibrio precario: la presenza dell’autore nella finzione, una traccia di realtà che con i suoi strascichi potrebbe invalidare il processo empatico della lettura.

Se in alcuni romanzi l’ascendente autoriale può servire a stimolare la morbosità del lettore, nei racconti tale incursione potrebbe scollegare immediatamente il mondo del lettore da quello dell’autore. Non è sempre così naturalmente: rimanendo nel mondo del racconto femminile abbiamo gli esempi di autrici come Amy Hempel, Lucia Berlin, Grace Paley che hanno attinto alle loro storie sottoponendole alla rivisitazione, affinata e controllata nello stile, fino a spuntarla nella guerra contro la voce interiore.

C’è un’altra autrice che è stata in grado di dissimulare la fantasmagoria dell’autore: Lydia Davis. Alla domanda “starà parlando di sé?” la scrittrice americana non indugia a rispondere di sì, aggiungendo però che «solo perché si usa materiale della vita dello scrittore, non penso che si possa dire che è la sua vita»: il cortocircuito tra finzione e realtà è subito svelato e sfata il mito di una scrittrice riservata, traduttrice tra gli altri di Prost, Flaubert, Blanchot, Simenon, che è stata sposata con Paul Auster e che ha alle spalle un romanzo, sette raccolte di racconti, raccolte di saggi su scrittura e critica letteraria.

In Italia i racconti della Davis sono arrivati gradualmente, prima con Pezzo a pezzo (Break It Down, 1986) pubblicato da Minimum fax nel 2004, poi recuperati da BUR Rizzoli con Inventario dei desideri  (che raccoglie Pezzo a Pezzo e Quasi senza ricordi, Almost No Memory del 1997) e Creature nel giardino (con Samuel Johnson è indignato, 2001, e Varieties of disturbance, 2007), tradotte da Adelaide Cioni.

Racconti di poche pagine, spesso anche di una riga, che ci accompagnano in un percorso del tutto inedito nello stile e in un tipo di componimento breve ancora mai incontrato. «Per me il racconto definisce una forma tradizionale, il tipo di storia scritta da Hemingway, da Katherine Mansfield o da Čechov. È più lungo, più sviluppato, con scene narrative e dialoghi», la stessa Lydia Davis ha ammesso che le sue sono solo storie (non “short stories”) o piccoli poemi, poche rientrano nella definizione canonica di racconto. Prima di farsi prendere dall’ansia della classificazione che la vede come esponente contemporanea della flash fiction, a cui sono stati assegnati epiteti creativi come “miniaturista”, vale la pena chiarire la grande varietà di modi e stili narrativi che s’incontrano nella sua lettura.

Probabilmente poi arrivi al punto in cui guardi quel dolore come se fosse lì, un metro avanti a te, dentro una scatola, una scatola aperta, in una vetrina in un qualche negozio. È duro e freddo, come una sbarra di metallo. Tu lo guardi lì dentro e dici: Va bene, lo prendo, lo compro. Ecco cos’è. Perché sai già tutto prima ancora di iniziare. Sai che il dolore fa parte del gioco. E dopo non puoi certo dire che il piacere è stato maggiore del dolore e che è per questo che lo rifaresti. Quello non c’entra niente. Non puoi quantificarlo, perché il dolore viene dopo e dura più a lungo. Perciò la domanda vera è: Perché quel dolore non ti fa dire: Non lo farò più? Quando il dolore è così forte che devi dirlo per forza, ma poi non lo dici.

Nel racconto che dà il titolo alla prima raccolta un uomo ricostruisce gli stadi del dolore, ripercorre i ricordi, analizza i sentimenti nella lucidità che sopraggiunge nel mezzo della sofferenza. In Quel che indossa una vecchia signora una donna avverte l’impazienza di invecchiare proiettandosi in una fantasia dai contorni malinconici; in Liminale – l’omino le inquietudini di una madre si materializzano ai limiti della follia. Tutte le personalità in cui ci proiettiamo inaugurano un soliloquio che preoccupa come un attacco endofasico. Lydia Davis non ama usare metafore o dilatare il tempo del racconto con sequenze descrittive e astratte, preferisce la successione di azioni e l’approssimazione delle emozioni tramite i labirinti mentali delle voci narranti. Il luogo comune di un tradimento, una delusione d’amore, la vita adulta che si avvia alla vecchiaia, sono un’epifania momentanea dedotta da un’unica frase che non occupa interamente l’attenzione del lettore. È come conoscere la causa scatenante di un male ma tergiversare ai margini. Se ancora siamo alla ricerca ossessiva della risposta alla domanda “è accaduto a lei?” dopo qualche racconto viene il sospetto che i protagonisti non cercano espiazione e non vogliono occuparsi della realtà pur avendone bisogno. Le loro vicende nascono da problemi opprimenti ma è proprio la narrazione ad allontanarli da una vera e propria risoluzione. E infatti i personaggi preferiscono risolvere enigmi mentali, giochi logici, perdono tempo dando attenzione alla semantica del pensiero e delle loro autofinzioni.

X sta con Y, ma vive coi soldi di Z. Y a sua volta mantiene W, che vive col figlio avuto da V. V vorrebbe trasferirsi a Chicago ma suo figlio vive a New York con W. W non può trasferirsi perché ha una relazione con U, il cui figlio pure vive a New York, anche se con la madre, T. T prende soldi da U, W prende soldi da Y per se stessa e da V per il loro figlio, e X prende soldi da Z. X e Y non hanno figli insieme. V vede il figlio di rado ma provvede a lui. U vive col figlio di W ma non provvede a lui.
(da Problema contenuto in Inventario dei desideri)

Non dare nomi a luoghi e personaggi, stravolgere gli elementi classici di un racconto (climax, dialoghi, scene descrittive) sono espedienti per avere «tanto contenuto emotivo senza approcciarlo direttamente, lasciandolo nella storia ma concentrando l’attenzione su altro». L’ossessione per la voce interiore («In questi giorni cerco di dirmi che quello che sento non ha tutto questa importanza» da Quello che sento) e per l’impossibilità di non poter essere altro da sé esasperano l’egoismo, fino a creare un paradosso: lo fanno passare in secondo piano. Ecco perché di Lydia Davis si apprezza anche l’abilità di alternare tono solenne a tragica ironia (Idea per un breve documentario: «I rappresentanti di diverse ditte alimentari cercano di aprire le confezioni dei loro rispettivi prodotti»); l’umorismo, l’ingenuità della scoperta della fragilità, l’abilità di mascherarsi come istinto di sopravvivenza o come indizio di autodistruzione («Se io non fossi me e mi ascoltassi per caso dal piano di sotto, da vicina di casa, mentre parlo con lui, mi direi quanto sono felice di non essere lei, di non suonare come suona lei, con una voce come la sua voce e un’opinione come la sua opinione»  dall’incipit di Dal piano di sotto).

Uno stile così rigoroso e definito lascia poco spazio a un vero e proprio cambiamento nelle raccolte successive – quelle degli anni 2000 – ma registra un nuovo approccio all’esperienza del materiale di partenza: «Quando ero giovane non avrei mai preso e plasmato materiale altrui, fino a cambiarlo per una mia storia, ora lo faccio […] Perché ti stanchi di cercare di capire emozioni e relazioni dopo un po’. Il mondo è così pieno di tante altre cose». Se prima i dettagli omessi facevano intuire un vuoto incolmabile, l’impasse di un’azione, l’impazienza o un guizzo giovanile appassito, ora le inquietudini vengono affrontate con tragica consapevolezza. Il dubbio per la ridefinizione del sé affiora a tratti ma sfuma verso il tipo di pace interiore di chi è sceso a patti con i propri demoni. L’esempio che più di tutti lo chiarisce è il racconto Tradimento contenuto in Creature nel giardino. Un’unica pagina passa in rassegna l’ipotesi, la catarsi e la risposta senza che la protagonista pretenda di passare all’azione:

Nelle sue fantasie su altri uomini, via via che invecchiava, uomini diversi dal marito, non sognava più l’intimità sessuale, come faceva prima, forse per vendetta, quando era arrabbiata, forse per solitudine, quando era arrabbiato lui, ma sognava solo l’affetto e un profondo senso di comprensione, tenersi per mano e guardarsi negli occhi, spesso in un luogo pubblico come un caffè. Non sapeva se questo cambiamento derivasse dal suo rispetto per il marito, perché lo rispettava davvero, oppure da semplice stanchezza, a fine giornata, oppure dal senso realistico di quali attività poteva o non poteva aspettarsi da se stessa, persino in una fantasia, ora che aveva una certa età. E quando era particolarmente stanca persino l’affetto e la comprensione profonda erano troppo, e allora sognava solo il genere di compagnia più delicato, per esempio essere nella stessa stanza insieme, seduti in poltrona.

Anche Amy Hempel ha parlato del racconto di esperienze personali con un procedimento simile al funzionamento della memoria, in cui la geografia americana gioca un ruolo fondamentale nel nomadismo delle emozioni. I suoi personaggi non si isolano dalla realtà, cercano piuttosto una verità nella narrazione, così come i protagonisti dei racconti di Lucia Berlin, tra autofiction e dirty realism, rispondono a logiche personali dettate da estrazione sociale, traumi e vita vissuta, senza falsi pudori o particolari sofismi. È con Lydia Davis che completiamo lo spettro narrativo che dalla scrittura essenziale, ricca d’humor, e impegnata politicamente di Grace Paley, passa alla Berlin e alla Hempel fino a un’introspezione psicologica essenziale, verso una lingua più spietata ed enigmatica, che lascia più domande che risposte.

Sembra impossibile riassumere in maniera esaustiva il carattere profondo della scrittura della Davis: il momento in cui si raggiunge la stessa linea d’onda della storia crediamo di racchiudere in una mano il mondo di un personaggio che inizia e termina nel tempo della lettura. La realtà è che i pochi indizi del racconto aprono altrettante porte verso risvolti ignoti, le uniche risposte sicure sono quelle che ricaviamo dal nostro credo. Con la disposizione d’animo di rivivere le memorie del passato da una prospettiva più lucida, determinata dagli eventi di vita, potremmo rileggere le raccolte anche a distanza di anni e illuminarle di nuovi significati ignorati in precedenza. Questa è la portata della presenza di Lydia Davis autrice: nascosta tra di noi e in ognuno di noi, pronta a ricordarci che se anche è accaduto poi ce ne faremo una ragione.

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