Un'impronta vocale. Intervista a Susanna Basso su Alice Munro

di Rossella Milone

Per prima cosa comincerei da un punto: il tempo, visto che Munro utilizza in modo acrobatico il tempo dei suoi personaggi e delle loro vite all’interno del microcosmo del racconto. Quando hai capito di voler diventare una traduttrice? E quando hai tradotto Munro per la prima volta?

Ho capito di voler diventare una traduttrice leggendo Cesare Pavese e di Cesare Pavese. Avevo 17 anni. Non ho mai smesso di volerlo fare. E l'ho fatto.
Ho inaugurato il millennio traducendo la raccolta The Love of a Good Woman di Alice Munro.
Non ricordo come mai la casa editrice scelse di utilizzare per la versione italiana il titolo dell'ultimo racconto (Il sogno di mia madre) anziché del primo. Incominciava il millennio e aveva inizio la stagione più felice del mio lavoro. Tradurre ha significato per me amare le frasi di libri che, come lettrice, forse non avrei amato completamente. Nasce una relazione particolare traducendo, fatta di sentimenti linguistici che modificano la percezione dei testi. Funziona sempre, o ha funzionato sempre per me. Ma con Munro è stato diverso. Le 14 raccolte di racconti che ho tradotto per Einaudi e per il Meridiano Mondadori, sono state un'esperienza impagabile, la più coinvolgente che il mestiere mi abbia riservato. Diciamo che ho amato le frasi di Munro come lettrice, e poi le ho amate lentamente e devotamente come traduttrice. Molti racconti di Munro si mescolano nella mia memoria - pochi rimangono isolati, sotto forma di singola narrazione (Potrei citare Danza delle Ombre Felici; The Bear Came Over the Mountain; Buche Profonde; la trilogia composta da Fatalità, Fra Poco, Silenzi; Bambinate; Scherzi del Destino; La Stagione dei Tacchini; La Fortuna di Simon...  Qualche altro forse; possono sembrare tanti, ma non lo sono, considerando che nel complesso sono più di centocinquanta quelli su cui ho lavorato a intermittenza per un arco di circa dodici anni.)
Ma Alice Munro è entrata nelle vene della mia lingua, ha innervato il tessuto delle frasi che ho proposto traducendo le sue.

 

Hai citato alcuni dei racconti che sono sedimentati profondamente anche dentro di me, come La danza delle ombre felici e The Bear Came Over the Mountain, due racconti durissimi, ma, nello stesso tempo così pieni della densa umanità che Munro sa infondere nelle sue storie. Hai parlato di devozione, e forse hai colto il punto centrale sia di chi scrive, sia di chi traduce (quindi, della letteratura): riuscire a sgranarsi sulla pagina come individuo e, pur rimanendo solidi, essere devoti solo alle parole. Come funziona questa devozione quando si prendono in carica le parole degli altri, soprattutto quelle così precise di Munro? Quali sono le gioie, e quali i pericoli?

La devozione contiene dedizione grata, rispetto, e una generosa offerta di tempo. Prendere in carica le parole altrui, Rossella, vuol dire poco per volta riconoscerne il ritmo inconfondibile -, il timbro della voce che sentiamo leggendo Munro, ad esempio - perché è questo che soprattutto cerchiamo di salvare in traduzione. Ebbene, credo che il primo passo verso il rispetto di quella voce sia rassegnarsi felicemente all'idea che ne abbiamo una a nostra volta. Ogni traduttore (umano) ha un'impronta vocale. Ecco, devozione per me è esserci, risvegliare la consapevolezza dei limiti e delle qualità della lingua che mettiamo a disposizione delle parole altrui.

 

E dimmi, a proposito di ritmo e di timbro di voce - definizione che mi piace moltissimo - e di come un traduttore sia tenuto a riconoscerli e a salvarli nella traduzione: come definiresti e cosa hai scoperto del ritmo e del timbro specifico di Munro? 

Alice Munro consuma le storie come fossero scarpe. Ci cammina dentro, le porta lontano. A conclusione della sua ultima raccolta (Uscirne vivi) c'è una sezione che opportunamente si intitola FINALE. Comprende quattro pezzi: L'occhio; Notte; Voci e Uscirne vivi, appunto. Così li introduce Munro stessa: "I quattro pezzi finali di questo libro non sono proprio storie. Formano un capitolo a sé, autobiografico nel sentire sebbene non, talvolta, interamente nei fatti. Credo siano le prime e le ultime cose - e le più private- che ho da dire sulla mia vita". Se "La pace di Utrecht" è il suo primo racconto "necessario" intorno alla interminabile ricerca sul mistero della madre, Munro ha lavorato per più di mezzo secolo sulle cose che aveva da dire senza abbassare mai di un millimetro il livello della qualità narrativa. Le sue frasi sono irregolari per lunghezza e andamento sintattico: spolpano la grammatica e saccheggiano il lessico del quotidiano in modi ogni volta diversi. Senza geometrie, a volte brusche, a volte dolcissime, come la vita. Munro costruisce i ponteggi intorno all'edificio di ogni racconto e poi, a un giro di frase, sfila tutto e lascia il lettore, e il traduttore, davanti alla storia nuda. Nessuno lo fa come lei.

 

Irregolarità sintattica, grammatica spolpata, lessico quotidiano ardentemente lavorato: entrare così in intimità nella lingua di una scrittrice mi pare sia, in modo privilegiato, una sorta di cammino a ritroso, verso l'origine, la sorgente della sua necessità narrativa. In Munro hai notato una particolare ossessione? Un demone, o più di uno, che ti sembra possa muovere dalle viscere la sua intenzione affabulatoria?

Nel caso di Munro direi che la sua pratica narrativa procede parallela all'osservazione e all'analisi severa del discorso stesso. Ho avuto il privilegio di seguire quel percorso per tanti anni e tante raccolte, di ritrovare talvolta anche la stessa storia scritta e riscritta alla luce di nuove consapevolezze, smascherata dall'autrice nei suoi facili espedienti. Non ho avuto bisogno di fare alcuno sforzo: Munro è in contatto continuo con ciò che la muove a narrare e lo dichiara, che si tratti della sua ossessione per quella che definisce la "madre gotica", o della geologia dell'Ontario, del tema della scomparsa, o delle voci roche e dei mormorii del suo privato perturbante. Mi piacerebbe poterti dire che sono entrata in contatto con le sue sorgenti, ma se è accaduto è stato solo perché lei mi ha accompagnata dove intendeva portarmi.

 

Questo contatto attivo e vivo che muove Munro, come dici tu, che le permette di arrivare al cuore pulsante di ogni sua storia, mi pare sia la cifra essenziale che qualsiasi scrittore di narrativa debba possedere, e che sia cruciale nella riuscita di un testo. Forse questo aspetto è ancora più visibile nei racconti, forma in cui nessun autore può permettersi di indugiare ma che, anzi, viene chiamato a fare i conti con il proprio materiale narrativo in modo più denso e diretto - altrimenti il racconto non lievita. Pensi che Munro abbia una particolare affinità col racconto per questo? 

Per tutta la sua lunga vita professionale, vale a dire per oltre sessant'anni, editori, critici, recensori hanno cercato in vario modo di chiedere a Alice Munro di passare dal racconto al romanzo. Gli unici a non farlo credo siano stati i lettori, e questo mi dà gioia. Munro comunque non ha mai ceduto, anche quando ha sperimentato la scrittura intorno allo sviluppo di un unico personaggio con ‘La vita delle ragazze e delle donne’, l'ha fatto frammentando il presunto romanzo di Del Jordan in capitoli che isolano le vicende, rifiutando l'amalgama. Sotto la parvenza di un cedimento alle pressioni editoriali, Munro ci consegna una splendida frode. ‘La vita delle ragazze e delle donne’, con buona pace degli editori che si sono affannati a presentarlo come il tanto atteso "romanzo" di Alice Munro, non è di fatto più romanzo di qualunque altra sua raccolta di storie.
La motivazione espressa dall'accademia di Svezia nel conferirle il Premio Nobel la definisce "maestra del racconto" avvicinandone l'arte a quella di Čechov; con le sue centinaia di storie di misura generosa (dalle quindici fino alle oltre ottanta pagine) Munro ha creato un mondo immaginario che comunica l'essenza assoluta e profonda di luoghi reali (l'Ontario soprattutto, ma anche la piovosa Vancouver), di un tempo ( la seconda metà del ventesimo secolo) e di una galassia di donne, ragazze, bambine. Il racconto impegna a una scrittura senza digressioni; il sistema-racconto rinuncia alla dimensione tentacolare e sceglie semmai di trasformare ogni oggetto, o momento, o situazione nel centro di una rete che non ci sarà, e dovrà essere calcolata a partire da quel centro narrativo. Sfido chiunque, leggendo una storia di Munro, a provare nostalgia per quella rete.

 

Nella filiera e nel panorama editoriale in generale, il racconto ha sempre avuto una particolare forma di discriminazione sia da parte di alcuni editori sia dei lettori - ovviamente è un cane che si morde la coda, e l'Osservatorio Cattedrale è nato proprio per sviscerare questi problemi più in dettaglio e in maniera sistematica. Ultimamente si nota un interesse maggiore intorno alla forma breve: sono nate case editrici specifiche, collane, moltissime buone riviste online che pare possano ritornare a fare da crocevia per alcuni autori e alcune forme più screditate come, appunto, il racconto. Che idea ti sei fatta tu da questo punto di vista? Come pensi se la stia passando il racconto in Italia di questi tempi?

Non ho risposta alla tua ultima domanda, Rossella. Non so dire come stia funzionando il racconto nel panorama editoriale italiano di oggi. Non conosco i dati, perciò rischio di dire sciocchezze. So però che al momento sto ritraducendo per Einaudi la formidabile raccolta di racconti di Strout ‘Olive Kitteridge’; che, appena potrò, insieme alla collega Daniela Fargione mi dedicherò alla traduzione dei racconti di Julian Barnes, di cui ho già tradotto anni fa la raccolta ‘Cross Channel’; che l'anno scorso ho tradotto per la collana Gli Struzzi il meraviglioso racconto di Joseph Conrad ‘Amy Foster’. So che ogni volta che raccontiamo una storia o che ce la facciamo raccontare, e a qualsiasi età, non è un romanzo che abbiamo in mente, e nemmeno un poema, e nemmeno un dialogo teatrale, ma solo e sempre un racconto.