Viaggio di una sconosciuta, di Livia De Stefani

Viene pubblicato oggi Viaggio di una sconosciuta di Livia De Stefani dall’editore Cliquot. In questo volume troverete una novella, una serie di racconti brevi e una raccolta poetica. Il tutto incastonato tra una prefazione, di Giulia Caminito, che presenta quest’autrice, ingiustamente dimenticata, con grande intensità, in un’acuta analisi ricca di spunti; e una postfazione di Maurizio Gregorini – il curatore della versione della raccolta poetica «Poesie in diesis» contenuta in questo libro – che rimette tutto insieme, tirando le somme di un discorso, di un percorso complesso e profondo all’interno dell’opera della De Stefani.

In mezzo a nomi quali quelli di Alberto Savinio, Anna Maria Ortese, Elsa Morante, Dacia Maraini, Goffredo Parise e altri, veniamo accompagnati alla riscoperta di questa scrittrice eccezionale attraverso le diverse forme della sua espressività letteraria. Il volume inizia con «Viaggio di una sconosciuta», un racconto lungo, dalla tecnica raffinatissima e moderna, che ricorda molto gli azzardi stilistici dell’Ortese; passiamo poi a una serie di testi brevi dall’efficacia pungente, che mettono insieme mostri, ossessioni, segreti e misteri; fino ad arrivare alle sue poesie, dove interiorità ed ècfrasi paesaggistica si mescolano come nella migliore tradizione di quegli anni. Ne viene fuori un’opera unica che ci trascina all’interno del mondo narrativo disperato e lirico di questa meravigliosa artista siciliana. Una donna, prima di tutto, cui è importante dare il merito e l’attenzione che le contingenze le hanno per troppo tempo sottratto ma, ancor di più, essenziale per noi, da leggere e rileggere, adesso, perché il suo sguardo, così originale e ossessionato, sa farci sobbalzare, perturbando le nostre percezioni; il suo modo di cercare i significati nascosti dietro gli specchi può farci intuire qualcosa di eccezionale e memorabile del tutto, dell’assoluto, del «giuoco del nostro infinito».

Proponiamo quindi l’appassionata e puntuale prefazione di Giulia Caminito e ringraziamo l’editore per questa pubblicazione così generosa e secondo noi: essenziale.

Andrea Cafarella

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di Giulia Caminito

Livia De Stefani è stata una grande scrittrice, a rileggerla oggi si rimane colpiti dalla sua modernità perfettamente adatta a chi ha cambiato secolo, dalla sua lingua, dalle ossessioni che riesce a raccontare, la maniera in cui tratta i temi più scabrosi, le più assurde fisime, i crucci, le cattive abitudini umane.
Di lei purtroppo la maggioranza delle lettrici e dei lettori sa molto poco, pur essendo stata animatrice del dibattito e della vita culturale romana degli anni Cinquanta e Sessanta, insieme a personalità come Savinio, Brancati, Maria Bellonci e Elsa Morante.
Anche per De Stefani è successo quello che è toccato in sorte a molte delle donne scrittrici di quegli anni, sono state poco valorizzate dalle pubblicazioni nel corso degli anni, nonostante la loro indubbia qualità di scrittura e se ne sono perse le tracce.
Molto amata dalle studiose e gli studiosi, Livia De Stefani è una personalità preziosa, una penna innovativa, che è importante riportare in libreria e riproporre alle nuove generazioni.
La scrittrice nasce poco prima dello scoppio della Grande guerra, nel 1913, in Sicilia, la sua è una famiglia agiata che possiede molte terre, e gli scritti di Livia saranno costellati da questo rapporto con il territorio, le tradizioni, le superstizioni siciliane.
Da La Vigna delle uve nere, suo primo romanzo, il più celebre, scritto a quarant’anni, quando già viveva a Roma da molto tempo insieme al marito Renato Signorini, fino a La ma a alle mie spalle, il suo ultimo, il diario della lotta contro la mafia che voleva appropriarsi delle sue eredità terriere, si può trovare qualcosa della Sicilia in quasi ogni sua pagina. Come una sottotraccia, la mentalità, la gente, i sapori e i colori di quelle terre rimangono e vengono raccontati ferocemente e senza sconti.
Ma De Stefani è anche una scrittrice eccellente di racconti, due esempi molto vividi sono quelli de Gli a atturati (1955) e la raccolta qui ripubblicata, cioè Via io di una sconosciuta (1963).
Nel primo, tre racconti sulle fissazioni che arrivano a diventare malattia, come fatture lanciate da una donna antica o da un uomo malvagio. Dalla pulizia della casa fino all’amore non corrisposto, ogni personaggio è il portatore di un malessere tipicamente borghese, quello della fisima e della pantomima, dell’introiezione di ogni dolore, che non vede oltre il proprio palmo e si fa stregare dalle proprie convinzioni malsane.
Nel secondo, questo filone, quello dei fantasmi psicologici e le manie di persecuzione, è ancora presente, ogni personaggio maschile o femminile ha in sé un segreto, un’oscurità, che viene messa in mostra. La scrittrice apre le porte delle case per far vedere cosa si nasconde nelle famiglie, nei matrimoni, nelle valigie, e negli armadi, oltre i muri e dentro ai tendoni del circo.
All’interno del racconto che dà il titolo alla raccolta, che è quello in realtà scritto più tardi rispetto agli altri, nel 1962, una donna si aggira affannata per Roma, il caldo torrido la stanca, porta con sé una valigia dal terribile contenuto e se ne deve liberare, ma non sa come e non sa quando, la città sembra non darle tregua, né sui mezzi pubblici, né nelle vie, c’è sempre qualcosa o qualcuno che disturba il suo girovagare, fino all’incontro con un uomo anziano vestito di marrone che arriva a importunarla, leggendo male uno scambio di sguardi tra loro.
Il vagabondare della donna è appunto il viaggio di una persona qualunque, per il lettore una sconosciuta, ma anche per sé stessa, nel turbinio di ricordi dolorosi e di un presente atroce che non sembra avere una via di fuga.
Roma è famelica, bollente e appiccicosa, frastornante, mette addosso alla protagonista ansia e confusione, la fa vagare senza meta, la rende passante costretta e non le dà tregua, è sensoriale e angusto il suo peregrinare.
Tutto il racconto si può leggere come la parabola di una violenza, quella sulle donne, incastrate nei loro ruoli di mogli o di amanti, prese in giro dalla società maschile, inseguite per le vie con false promesse di gentilezza e doppi fini sessuali e goliardie, imprigionate nel loro futuro di madri piene di rimpianti e scelleratezze. Una violenza che qui non è mai fisica, ma è mentale in primo luogo e questo rende il racconto attualissimo e da rileggere oggi con molta attenzione.
Altro pregio: la scrittura.
Articolata e sperimentale, piena di numerosi cambi di persona, dalla prima alla terza, anche nella stessa frase, vengono introdotti liberamente pensieri e flashback della protagonista, alcune parole e immagini tornano ossessivamente nel corso della narrazione spuntando anche quando non evocate direttamente, i dialoghi e i ricordi viaggiano sullo stesso piano narrativo del presente in cui si svolgono le azioni. Tempo e spazio sono fluidi e scorrono come attraverso vasi comunicanti, spostando di continuo la linearità della lettura. In questo modo modernissimo viene evocata la vita di una donna come se fosse un mosaico, tassello dopo tassello si compone l’immagine di quello che lei ha vissuto e perché.
Anche in questo caso: una lettura necessaria per ripensare allo stile contemporaneo e all’utilizzo della lingua nelle scrittrici del presente, l’eredità delle grandi del Novecento come è stata recepita, chi ne ha preso ispirazione. De Stefani ha una capacità di usare la lingua e le immagini che ogni nuovo autore o autrice dovrebbe sempre tenere presente.
La seconda parte della raccolta invece mette insieme una serie di racconti scritti alcuni anni prima tra il 1955 e il 1958, in questi troviamo una carrellata di personaggi incredibili come una donna ossessionata dagli averi del marito defunto che controlla maniacalmente armata di rivoltella, una sartina che si cruccia del suo amore immaginario ormai perduto, un uomo ricco che durante una seduta spiritica viene contattato da Giuseppe Verdi, e i viaggiatori di un inquieto giro in autobus tra nausee, spintoni e inciviltà.
Questi ritratti sono sì impietosi, ma mai appiattiti sulla crudezza e questo grazie all’uso molto acuto dell’ironia. Infatti il vocabolario alto, a volte pomposo, serve proprio a mettere a ridicolo e sottolineare la drammatica assurdità delle misere vicende dei protagonisti.
Tutto il libro permette di leggere i vari registri dell’autrice e di percepire come la sua sensibilità e il suo stile siano cambiati nel corso degli anni, anche se è rimasta sempre l’ottima capacità del ritmo e della centralità narrativa.
Questa raccolta, quindi, può essere un punto di partenza per conoscere meglio o conoscere per la prima volta un’autrice valida e piena di sorprese, che ha saputo raccontare mostruosità, menomazioni, cattiverie, sogni e tenerezze dell’Italia di quegli anni, ma anche, a ben leggere, del presente.

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