Disincontri, dalla raccolta inedita di Julio Cortazar

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Dal 6 Settembre 2019 è in libreria Disincontri, la raccolta di racconti che Cortázar ha pubblicato nel 1982. Pubblicati per la prima volta da Sur in un volume a sé e nella nuova traduzione di Ilide Carmignani, sono chiavi per porte che non si aprono, puntuali come un contrattempo, familiari e spiazzanti come un déjà-vu. Che lo si legga da sempre o per la prima volta, l’incontro con Cortázar è sempre un «disincontro».

Cattedrale vi propone il racconto che dà il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

DISINCONTRI

Non avevo più alcuna ragione particolare per ricordarmi di tutte quelle cose, e anche se in certi periodi mi piaceva scrivere e c’erano amici che apprezzavano i miei versi e i miei racconti, a volte mi veniva da domandarmi se quei ricordi d’infanzia meritassero di essere scritti, se non nascessero da un’ingenua tendenza a credere che le cose erano state più vere quando le mettevo in parole per fissarle a modo mio, per averle lì come le cravatte nell’armadio o il corpo di Felisa la notte, qualcosa che non si sarebbe potuto rivivere ma che diveniva più presente come se nel semplice ricordo si aprisse una terza dimensione, una quasi sempre amara ma anelata contiguità. Non ho mai capito bene perché, ma tornavo e ritornavo su cose che altri avevano imparato a dimenticare per non trascinarsi nella vita con tutto quel tempo sulle spalle. Ero sicuro che fra i miei amici ce ne fossero pochi che ricordavano i loro compagni d’infanzia come io ricordavo Doro, anche se quando scrivevo di Doro non era quasi mai lui a muovermi a scrivere ma qualcos’altro, qualcosa in cui Doro era soltanto il pretesto per l’immagine di sua sorella maggiore, l’immagine di Sara a quell’epoca, quando io e Doro giocavamo nel cortile o disegnavamo nel salotto della casa di Doro. Eravamo stati così inseparabili ai tempi delle medie, dei dodici o tredici anni, che non ero capace di percepire separatamente me stesso che scrivevo di Doro, di accettarmi fuori dalla pagina a scrivere di Doro. Vederlo significava contemporaneamente vedermi come Aníbal con Doro, e non sarei riuscito a ricordarmi nulla di Doro se al tempo stesso non avessi sentito che anche Aníbal era lì in quel momento, che era stato Aníbal a tirare la pallonata che un pomeriggio d’estate aveva rotto un vetro della casa di Doro, lo spavento e la voglia di nascondersi o di negare, l’arrivo di Sara che li chiamava mascalzoni e li spediva a giocare nel prato all’angolo. E con questo ecco che arrivava anche Bánfield, è chiaro, perché tutto era successo laggiù, né Doro né Aníbal si sarebbero potuti immaginare in un paese che non fosse Bánfield dove le case e i prati erano allora più grandi del mondo intero. Bánfield, con le sue strade sterrate e la stazione del Ferrocarril Sud, coi suoi campi incolti che d’estate, all’ora della siesta, brulicavano di cavallette multicolori, un paese che di notte si acquattava come impaurito intorno ai pochi lampioni sugli angoli delle vie, con qualche fischio delle guardie a cavallo e l’alone vertiginoso degli insetti che svolazzavano intorno a ogni lampione. Le case di Doro e di Aníbal così poco distanti che la strada era per loro come un corridoio in più, qualcosa che li teneva uniti di giorno e di sera, nel prato quando giocavano a calcio all’ora della siesta o sotto la luce del lampione all’angolo quando guardavano i rospi disposti in cerchio per mangiarsi gli insetti ubriachi a forza di girare intorno alla luce gialla. E l’estate, sempre, l’estate delle vacanze, la libertà dei giochi, il tempo tutto per loro, per loro, senza orari né campanelle di entrata in classe, l’odore dell’estate nell’aria calda dei pomeriggi e delle sere, sulle facce sudate dopo aver vinto o perso o litigato o corso, dopo aver riso e a volte pianto ma sempre insieme, sempre liberi, padroni del loro mondo di aquiloni e palloni e angoli di strada e marciapiedi.

Di Sara gli restavano poche immagini, ma ognuna si stagliava come una vetrata nell’ora del sole più alto, con azzurri e rossi e verdi che fendevano lo spazio fino a fargli male, a volte Aníbal vedeva soprattutto i capelli biondi che le scendevano sulle spalle come una carezza che lui avrebbe voluto sentire sul viso, a volte la pelle bianchissima perché Sara non usciva quasi mai al sole, assorbita com’era dalle faccende di casa, la madre malata e Doro che tornava ogni pomeriggio coi vestiti sporchi, le ginocchia sbucciate, le scarpe piene di fango. Non aveva mai saputo l’età di Sara all’epoca, solamente che era già una signorina, la giovane madre di suo fratello che diventava più bambino quando lei gli parlava, quando gli passava la mano sulla testa e poi lo mandava a comprare qualcosa o chiedeva a tutti e due di non gridare così tanto nel cortile. Aníbal la salutava timido, dandole la mano, e Sara gliela stringeva gentilmente, quasi senza guardarlo ma accettandolo come l’altra metà di Doro che quasi quotidianamente veniva a casa a leggere o a giocare. Alle cinque li chiamava per dargli caffellatte e biscotti, sempre sul tavolinetto del cortile o nel salotto tetro; Aníbal aveva visto solo due o tre volte la madre di Doro, dolcemente dalla sua sedia a rotelle diceva il suo ciao bambini, state attenti alle macchine, anche se c’erano così poche macchine a Bánfield e loro sorridevano sicuri di poterle schivare per strada, della loro invulnerabilità di giocatori di calcio e corridori. Doro non parlava mai di sua madre, che stava quasi sempre a letto o ascoltava la radio in salotto, casa sua erano il cortile e Sara, a volte qualche zio in visita che domandava cos’è che avevano studiato a scuola e regalava cinquanta centesimi ciascuno. E per Aníbal era sempre estate, degli inverni quasi non aveva ricordo, la sua casa diventava una prigione grigia e nebbiosa dove contavano solo i libri, la famiglia intenta nelle proprie cose e le cose piazzate al proprio posto, le galline a cui doveva badare, le malattie con lunghe diete e tè e solo a volte Doro, perché a Doro non piaceva restare tanto in una casa dove non lo lasciavano giocare come nella sua.

Fu nel corso di una bronchite di quindici giorni che Aníbal cominciò a sentire la mancanza di Sara, quando Doro veniva a trovarlo gli domandava di lei e Doro rispondeva distratto che stava bene, l’unica cosa che gli interessava era se quella settimana avrebbero potuto giocare di nuovo in strada. Aníbal avrebbe voluto saperne di più su Sara ma non aveva il coraggio di domandare molto, a Doro sarebbe sembrato stupido che si preoccupasse di qualcuno che non giocava come loro, che era così lontano da tutto quello che facevano e pensavano loro. Quando poté tornare a casa di Doro, ancora un po’ debole, Sara gli diede la mano e gli domandò come stava, non doveva giocare a pallone per evitare di stancarsi, meglio che disegnassero o leggessero in salotto; il suo tono era serio, gli parlava come parlava sempre a Doro, affettuosa ma lontana, la sorella maggiore premurosa e quasi severa. Quella sera, prima di addormentarsi, Aníbal sentì che qualcosa gli saliva agli occhi, che il cuscino diventava Sara, sentì il bisogno di abbracciarla forte e di piangere con il viso stretto a Sara, ai capelli di Sara, il desiderio che lei fosse lì e gli desse le medicine e guardasse il termometro seduta ai piedi del letto. Quando la mattina dopo venne sua madre a frizionargli il petto con della roba che sapeva di alcol e mentolo, Aníbal chiuse gli occhi e fu la mano di Sara a sollevargli la camicia da notte, ad accarezzarlo lieve, a guarirlo.

Era di nuovo estate, il cortile della casa di Doro, le vacanze con romanzi e figurine, con la collezione di francobolli e la raccolta di calciatori che s’incollavano su un album. Quel pomeriggio parlavano di pantaloni lunghi, ormai non mancava più molto a metterseli, non si poteva mica andare alle superiori coi pantaloni corti. Sara li chiamò per il caffellatte e Aníbal ebbe l’impressione che avesse ascoltato i loro discorsi e che sulla sua bocca aleggiasse l’ombra di un sorriso, forse si divertiva a sentirli parlare di quelle cose e li prendeva anche un po’ in giro. Doro gli aveva detto che adesso aveva il fidanzato, un signore grande che veniva a trovarla il sabato ma che lui non aveva ancora visto. Aníbal se lo immaginava come uno che portava i cioccolatini a Sara e parlava con lei in salotto, come il fidanzato di sua cugina Lola, in pochi giorni era guarito dalla bronchite e ormai poteva giocare di nuovo nel prato con Doro e gli altri amici. Ma la sera tutto diventava triste e al tempo stesso così bello, da solo nella sua stanza prima di addormentarsi si diceva che Sara non era lì, che non sarebbe mai entrata a fargli visita né da sano né da malato, proprio nell’ora in cui lui la sentiva così vicina, la guardava a occhi chiusi senza che la voce di Doro o le grida degli altri ragazzi si mischiassero con questa presenza di Sara sola lì per lui, accanto a lui, e il pianto ricominciava come un desiderio di abbandono, di essere Doro nelle mani di Sara, di sentire i capelli di Sara che gli sfioravano la fronte e la sua voce che gli diceva buonanotte, che Sara gli rimboccasse le lenzuola prima di andar via. Trovò il coraggio di domandare come per caso a Doro chi si occupasse di lui quando era malato, perché Doro aveva preso un’infezione intestinale e aveva passato cinque giorni a letto. Glielo domandò come fosse normale che Doro gli dicesse che lo aveva curato sua madre, pur sapendo che non poteva essere così e quindi Sara, le medicine e il resto. Doro rispose che gli faceva tutto la sorella, cambiò argomento e si mise a parlare di cinema. Aníbal però voleva saperne di più, se Sara si era occupata di lui da quando era bambino, ed era chiaro che se n’era occupata lei perché sua madre era quasi invalida da otto anni e Sara badava a tutti e due. Ma allora era lei che ti faceva il bagno quando eri piccolo? Certo, perché mi domandi queste cretinate? Così, per saperlo e basta, dev’essere talmente strano avere una sorella grande che ti fa il bagno. Non c’è niente di strano, sai. E quando ti ammalavi da piccolo era lei che si occupava di te e ti faceva tutto? Sì, è chiaro. E tu non ti vergognavi che tua sorella ti vedesse e ti facesse tutto? No, perché avrei dovuto vergognarmi, ero piccolo allora. E adesso? Be’, adesso uguale, perché dovrei vergognarmi se sono malato. Perché, è chiaro. Nell’ora in cui chiudendo gli occhi immaginava Sara che entrava di notte nella sua stanza e si avvicinava al suo letto, c’era come un desiderio che lei gli domandasse come stava, gli mettesse la mano sulla fronte e poi tirasse giù le lenzuola per guardargli la ferita al polpaccio, gli cambiasse la fasciatura chiamandolo stupido per essersi tagliato con un vetro. La sentiva che gli alzava la camicia da notte e lo guardava nudo, tastandogli il ventre per vedere se era infiammato, coprendolo di nuovo perché si addormentasse. Abbracciato al cuscino si sentiva di colpo così solo, e quando apriva gli occhi nella stanza ormai vuota di Sara era come una marea d’angoscia e di gioia perché nessuno, nessuno poteva sapere del suo amore, nemmeno Sara, nessuno poteva capire quella pena e quel desiderio di morire per Sara, di salvarla da una tigre o da un incendio e di morire per lei, e che lei lo ringraziasse o lo baciasse piangendo. E quando allungava le mani in basso e cominciava ad accarezzarsi come Doro, come tutti i ragazzi, Sara non entrava in scena, c’era la figlia del droghiere o sua cugina Yolanda, certe cose non potevano succedere con Sara che la sera veniva a prendersi cura di lui come si prendeva cura di Doro, con lei non c’era altro che quella gioia di immaginarla mentre si chinava su di lui e lo accarezzava e l’amore era quello, anche se Aníbal ormai sapeva che cosa poteva essere l’amore e se lo immaginava con Yolanda, tutto quello che una volta o l’altra lui avrebbe fatto a Yolanda o alla ragazza del droghiere.

Il giorno del fossato fu quasi alla fine dell’estate, dopo aver giocato nel prato si separarono dalla banda e su un sentiero che conoscevano soltanto loro due e che chiamavano il sentiero di Sandokan si persero nella boscaglia spinosa dove una volta avevano trovato un cane impiccato a un albero ed erano scappati dalla paura. Graffiandosi le mani si fecero strada fino al punto più fitto, affondando la faccia nei rami dei salici piangenti finché furono sul bordo del fossato dalle acque torbide dove avevano sempre sperato di pescare saraghi ma non avevano mai preso nulla. Gli piaceva sedersi sul bordo a fumare le sigarette che Doro faceva con i cartocci del granoturco, parlando dei romanzi di Salgari e progettando viaggi e cose. Quel giorno però non ebbero fortuna, ad Aníbal si incastrò una scarpa in una radice e cadde in avanti, si aggrappò a Doro e scivolarono tutti e due giù nel fossato entrandoci fino alla vita, non c’era pericolo ma fu come se ci fosse, annasparono disperati finché afferrarono i rami penduli di un salice, strisciando e imprecando si arrampicarono di nuovo in cima, col fango che gli si era infilato da tutte le parti, che gli colava dentro le camicie e i pantaloni e puzzava di marcio, di topi morti. Tornarono indietro quasi senza parlare e si intrufolarono in casa di Doro dal fondo del giardino, sperando che non ci fosse nessuno in cortile per sciacquarsi di nascosto. Sara stava stendendo il bucato vicino al pollaio e li vide arrivare, Doro come impaurito, e Aníbal dietro, morto di vergogna, che voleva morire davvero, essere mille miglia lontano da Sara nel momento in cui lei li guardava stringendo le labbra, in un silenzio che li inchiodava, ridicoli e confusi, sotto il sole del cortile. «Ci mancava solo questa», si limitò a dire Sara, rivolgendosi a Doro ma anche ad Aníbal che balbettava le prime parole di una confessione, era colpa sua, gli si era incastrata una scarpa e allora, Doro non aveva nessuna colpa, è che era tutto così sdruccioloso. «Andate subito a lavarvi», disse Sara come se non lo avesse sentito. «Toglietevi le scarpe prima di entrare, e poi sciacquate i vestiti nella pila del pollaio».
In bagno si guardarono e Doro fu il primo a ridere ma era una risata poco convinta, si spogliarono e aprirono la doccia, sotto l’acqua poterono cominciare a ridere davvero, a litigare per la saponetta, a guardarsi da capo a piedi e a farsi il solletico. Un fiume di fango scorreva via verso lo scarico diluendosi poco a poco, la saponetta cominciava a fare schiuma, si divertivano così tanto che in un primo momento non si accorsero che la porta si era aperta e Sara stava a guardarli, che si avvicinava a Doro per togliergli di mano la saponetta e strofinargliela sulla schiena ancora infangata. Aníbal non sapeva cosa fare, in piedi immobile nella vasca da bagno si mise le mani sull’inguine, poi si voltò di colpo perché Sara non lo vedesse e fu ancora peggio, di tre quarti con l’acqua che gli scorreva sul viso, cambiando lato e di nuovo di spalle, finché Sara non gli diede la saponetta con un lavati meglio le orecchie, hai il fango da tutte le parti. Quella sera non riuscì a vedere Sara come le altre sere, anche se chiudeva forte le palpebre l’unica cosa che vedeva era Doro con lui nella vasca, Sara che si avvicinava per ispezionarli da capo a piedi e poi usciva dal bagno con i vestiti sporchi sulle braccia, diretta generosamente alla pila a lavare le loro cose gridando che si sfregassero bene con i teli finché non erano perfettamente asciutti, servendo il caffellatte senza dire nulla, né arrabbiata né gentile, sistemando l’asse da stiro sotto il glicine e asciugando pian piano i pantaloni e le camicie. Come mai non era riuscito a dirle nulla alla fine, quando li aveva mandati a vestirsi, nemmeno un semplice grazie, Sara, lei è proprio buona, grazie davvero, Sara. Nemmeno quello era riuscito a dirle e Doro uguale, erano andati a vestirsi in silenzio e poi la collezione di francobolli e le figurine degli aeroplani, senza che Sara ricomparisse più, sempre impegnata a badare alla madre la sera, a preparare la cena e a volte a canticchiare un tango fra il rumore dei piatti e delle pentole, assente come adesso sotto le sue palpebre che non erano più in grado di farla apparire, di farle sapere quanto l’amava, quanta voglia aveva di morire davvero dopo averla vista che li guardava mentre erano sotto la doccia.

Dovevano essere state le ultime vacanze prima di iniziare il Colegio Nacional, senza Doro perché Doro avrebbe fatto la Escuela Normal, ma tutti e due si erano ripromessi di continuare a vedersi ogni giorno anche se sarebbero andati in scuole diverse, che importava se tanto il pomeriggio avrebbero continuato a giocare come sempre, senza sapere che invece no, che un giorno di febbraio o di marzo avrebbero giocato per l’ultima volta nel cortile della casa di Doro perché la famiglia di Aníbal si trasferiva a Buenos Aires e si sarebbero visti solo nei fine settimana, pieni di una rabbia amara per un cambiamento che non volevano accettare, per una separazione che i grandi imponevano come tante altre cose, senza preoccuparsi di loro, senza consultarli. Di colpo tutto andava avanti veloce, cambiava come loro coi primi pantaloni lunghi, quando Doro gli disse che Sara si sarebbe sposata agli inizi di marzo, lo disse come una cosa senza importanza e Aníbal non fece alcun commento, passarono giorni prima che trovasse il coraggio di chiedere a Doro se Sara avrebbe vissuto con lui anche dopo sposata, ma sei scemo, figurati se restano qui, quello ha un sacco di grana e se la porta a Buenos Aires, ha un’altra casa a Tandil e io rimarrò con la mamma e con la zia Faustina che si occuperà di lei. Quell’ultimo sabato delle vacanze vide arrivare il fidanzato sulla sua auto, lo vide vestito di blu e ciccione, con gli occhiali, che scendeva dall’auto con un vassoietto di pasticcini e un mazzo di gigli. Intanto lo stavano chiamando da dentro casa perché cominciasse a imballare le sue cose, il trasloco era lunedì e non aveva ancora fatto nulla. Sarebbe voluto andare a casa di Doro senza nemmeno sapere perché, per starsene semplicemente là, ma sua madre lo obbligò a impacchettare i libri, il mappamondo, le collezioni di insetti. Gli avevano detto che avrebbe avuto una stanza grande tutta per sé con vista sulla strada, gli avevano detto che sarebbe potuto andare a scuola a piedi. Tutto era nuovo, tutto sarebbe iniziato in un altro modo, tutto girava lentamente, e ora Sara doveva essere seduta in salotto insieme al ciccione col vestito blu, a prendere il tè coi pasticcini che lui aveva portato, così lontana dal cortile, così lontana da Doro e da lui, senza mai più chiamarli per il caffellatte sotto il glicine.

Il primo fine settimana a Buenos Aires (era vero, aveva una stanza grande tutta per sé, il quartiere era pieno di negozi, c’era un cinema a due isolati), prese il treno e tornò a Bánfield per vedere Doro. Conobbe la zia Faustina, che non gli diede nulla quando ebbero finito di giocare nel cortile, uscirono a fare un giro e Aníbal ci mise un po’ a domandargli di Sara. Be’, si erano sposati in municipio e ormai erano nella casa di Tandil per la luna di miele, Sara sarebbe tornata ogni quindici giorni a trovare sua madre. E non ti manca? Sì, ma che vuoi farci. È vero, ormai è sposata. Doro si distraeva, cominciava a cambiare argomento e Aníbal non sapeva più come farlo parlare ancora di Sara, forse chiedendogli di raccontare il matrimonio e Doro che rideva, che ne so io, sarà stato come tutti gli altri, dopo il municipio se ne sono andati in albergo e poi c’è stata la prima notte di nozze, sono andati a letto e a quel punto lui. Aníbal ascoltava e intanto guardava i cancelli e i balconi, non voleva che Doro lo vedesse in viso e Doro se ne accorgeva, scommetto che non sai cosa succede la prima notte di nozze. Non rompere le palle, certo che lo so. Lo sai ma la prima volta è diverso, me l’ha raccontato Ramírez, a lui gliel’ha detto il fratello che è avvocato e si è sposato l’anno scorso, gli ha spiegato tutto. C’era una panchina vuota nella piazza, Doro aveva comprato le sigarette e continuava a raccontare e a fumare, Aníbal annuiva, mandava giù il fumo che cominciava a dargli la nausea, non aveva bisogno di chiudere gli occhi per vedere sullo sfondo del fogliame il corpo di Sara che non aveva mai immaginato come un corpo, vedere la prima notte di nozze attraverso le parole del fratello di Ramírez, attraverso la voce di Doro che continuava a raccontare. Quel giorno non ebbe il coraggio di chiedergli l’indirizzo di Sara a Buenos Aires, rimandò alla visita successiva perché in quel momento aveva paura di Doro, ma la visita successiva non arrivò mai, cominciò la scuola con i nuovi amici, Buenos Aires a poco a poco inghiottì Aníbal carico di libri di matematica e con tanti cinema in centro e lo stadio del River e le prime passeggiate serali insieme a Beto, che era un vero porteño. Anche a Doro probabilmente stava succedendo la stessa cosa a La Plata, ogni tanto Aníbal pensava di mandargli due righe perché Doro non aveva il telefono, poi arrivava Beto o bisognava fare una ricerca per compito, passarono i mesi, il primo anno, vacanze a Saladillo, di Sara non restava ormai che qualche immagine isolata, una ventata di Sara quando qualcosa in María o in Felisa gli ricordava per un attimo Sara. Un giorno del secondo anno la vide nitidamente uscendo da un sogno e gli fece male di un male amaro e bruciante, in fin dei conti non era stato così innamorato di lei, poi allora era un bambino e Sara non lo aveva mai considerato come adesso Felisa o la bionda della farmacia, non era mai andata a un ballo con lui come sua cugina Beba e Felisa per festeggiare la promozione al quarto anno, non si era mai lasciata accarezzare i capelli come María, andare a ballare a San Isidro e scomparire a mezzanotte fra gli alberi della riva, baciare Felisa sulla bocca fra proteste e risate, appoggiarla a un tronco e accarezzarle il seno, scendere fino a perdere la mano in quel calore sfuggente e dopo un altro ballo e tanto cinema trovare rifugio in fondo al giardino di Felisa e scivolare con lei a terra, sentire in bocca il suo sapore salato e lasciarsi cercare da una mano che lo guidava, ovviamente non le avrebbe detto che era la prima volta, che aveva avuto paura, ormai era al primo anno di ingegneria e non poteva dire così a Felisa e poi non ce ne fu più bisogno perché s’imparava tutto molto in fretta con Felisa e qualche volta con sua cugina Beba.

Non seppe più nulla di Doro e non gli importò, si era dimenticato anche di Beto che insegnava storia in qualche paese di provincia, i giochi non avevano riservato sorprese a nessuno, Aníbal accettava senza accettare, qualcosa che doveva essere la vita accettava al posto suo, una laurea, un’epatite grave, un viaggio in Brasile, un progetto importante in uno studio con due o tre soci. Stava salutando uno di loro sul portone prima di andare a bersi una birra dopo il lavoro quando vide arrivare Sara sul marciapiede opposto. Di colpo si ricordò che la notte prima aveva sognato Sara e che erano sempre nel cortile della casa di Doro anche se non succedeva nulla, anche se Sara stava solo lì a stendere i panni o a chiamarli per il caffellatte, e il sogno finiva così senza quasi essere iniziato. Forse perché non succedeva nulla, le immagini erano di una precisione tagliente sotto il sole dell’estate di Bánfield che nel sogno non era la stessa di Buenos Aires; forse anche per questo o in mancanza di qualcosa di meglio gli era tornata in mente Sara dopo tanti anni di oblio (ma non era stato oblio, si ripeté cupo nel corso della giornata), e adesso vederla arrivare per strada, lì vestita di bianco, identica ad allora coi capelli che le sfioravano le spalle a ogni passo in un gioco di luci dorate, agganciandosi alle immagini del sogno con una continuità che non lo stupiva, che aveva qualcosa di necessario e prevedibile, e poi attraversare la strada e sbarrarle il passo, dirle chi era e lei che lo guardava sorpresa, non lo riconosceva e di colpo sì, di colpo sorrideva e gli tendeva la mano, gliela stringeva davvero e continuava a sorridergli. «Incredibile», disse Sara. «Come facevo a riconoscerti dopo tanti anni». «Lei no, certo», disse lui. «Ma io, vede, l’ho riconosciuta subito». «È logico», disse logicamente Sara. «Non avevi ancora i pantaloni lunghi. Anche io sarò cambiata tanto, è che tu sei più fisionomista». Aníbal esitò un secondo prima di capire che era da idiota darle ancora del lei. «No, non sei cambiata, nemmeno la pettinatura. Sei la stessa». «Fisionomista ma un po’ miope», disse Sara con la sua vecchia voce in cui si mischiavano bontà e presa in giro. Il sole in faccia, non si poteva parlare in mezzo al traffico e alla gente. Sara disse che non aveva fretta e che le sarebbe piaciuto bere qualcosa in un caffè. Fumarono la prima sigaretta, quella delle domande generali e dei giri di parole, Doro faceva il maestro a Adrogué, la mamma era morta come un uccellino mentre leggeva il giornale, lui lavorava in uno studio associato con altri giovani ingegneri, le cose gli andavano bene anche se la crisi, certo. Alla seconda sigaretta Aníbal lasciò cadere la domanda che gli bruciava le labbra. «E tuo marito?» Sara esalò il fumo dal naso, lo guardò lentamente negli occhi. «Beve», disse. Non c’era né amarezza né pena, era una semplice informazione e poi di nuovo Sara a Bánfield prima di tutto questo, prima della lontananza e dell’oblio e del sogno della notte precedente, proprio come nel cortile della casa di Doro, con lei che accettava il secondo whisky, come sempre quasi senza parlare, lasciandolo proseguire, toccava a lui raccontare perché aveva tanto di più da raccontare, aveva avuto anni così pieni, lei era come se non avesse vissuto molto e non valeva la pena dire perché. Forse perché l’aveva appena detto con una sola parola. Impossibile sapere in che momento tutto smise di essere difficile, gioco di domande e risposte, Aníbal aveva allungato la mano sulla tovaglia e la mano di Sara non si era sottratta al suo peso, lei l’aveva lasciata lì mentre lui chinava la testa perché non poteva guardarla in faccia, mentre le parlava a fiotti del cortile, di Doro, le raccontava le sere nella sua stanza, il termometro, il pianto contro il cuscino. Glielo diceva con una voce piatta e monotona, mescolando insieme momenti ed episodi ma era tutto la stessa cosa, ero così innamorato di te, ero così innamorato e non te lo potevo dire, tu venivi la sera a prenderti cura di me, eri la mamma giovane che io non avevo, mi misuravi la febbre e mi accarezzavi perché mi addormentassi, ci davi il caffellatte nel cortile, ti ricordi, ci sgridavi quando facevamo delle sciocchezze, io avrei voluto che parlassi soltanto a me di tante cose ma tu mi guardavi così dall’alto, mi sorridevi così da lontano, c’era un vetro immenso fra noi e tu non potevi far nulla per romperlo, ecco perché la sera ti chiamavo e tu arrivavi per prenderti cura di me, per stare con me, per amarmi come io ti amavo, accarezzandomi la testa, facendomi quello che facevi a Doro, tutto quello che avevi sempre fatto a Doro, ma io non ero Doro e solo una volta, Sara, solo una volta e fu orribile e non lo dimenticherò mai perché avrei voluto morire e non potevo e non sapevo, è chiaro che non volevo morire ma era l’amore, voler morire perché tu mi avevi guardato tutto nudo come un bambino, eri entrata nel bagno e avevi guardato me che ti amavo, e mi avevi guardato come avevi sempre guardato Doro, tu che eri già fidanzata, tu che stavi per sposarti e io lì mentre mi davi la saponetta e mi ordinavi di lavarmi anche le orecchie, guardavi nudo il bambino che ero e non ti importava nulla di me, nemmeno mi vedevi perché vedevi soltanto un bambino e poi te ne andavi come se non mi avessi mai visto, come se io non fossi stato lì senza sapere dove mettermi mentre mi guardavi. «Mi ricordo benissimo», disse Sara. «Me lo ricordo bene quanto te, Aníbal».
«Sì, ma non è lo stesso». «Chissà se non è lo stesso. Tu non potevi rendertene conto allora, ma io avevo sentito che mi amavi in quel modo e che soffrivi, ecco perché dovevo trattarti uguale a Doro. Eri un bambino ma a volte mi dispiaceva così tanto che fossi un bambino, mi sembrava ingiusto, qualcosa del genere. Se tu avessi avuto cinque anni di più... Te lo dico perché ora posso e perché è giusto, quel pomeriggio entrai apposta nel bagno, non c’era nessun bisogno che venissi a vedere se vi stavate lavando, entrai perché era un modo per mettere fine alla faccenda, per guarirti dal tuo sogno, perché tu ti rendessi conto che non avresti mai potuto vedermi così mentre io avevo il diritto di guardarti da tutte le parti come si guarda un bambino. Per questo, Aníbal, perché guarissi una volta per tutte e smettessi di guardarmi come mi guardavi pensando che io non lo sapessi. E ora sì, un altro whisky, ora che siamo grandi tutti e due». Dall’imbrunire a notte fonda, lungo strade di parole che andavano e venivano, di mani che si incontravano un istante sulla tovaglia prima di una risata e altre sigarette, restava una corsa in taxi, un certo posto che conosceva lei oppure lui, una camera, tutto come fuso in una sola immagine istantanea che si riduceva a un candore di lenzuola e alla quasi immediata, furiosa convulsione dei corpi in un interminabile incontro, nelle pause interrotte e rifatte e violate e sempre meno credibili, e in ogni nuova implosione che li falciava e li sommergeva e li bruciava fino al sopore, fino all’ultima brace delle sigarette dell’alba. Quando spensi la lampada della scrivania e guardai il fondo del bicchiere vuoto, tutto era ancora una pura negazione delle nove di sera, della fatica alla fine di un’altra giornata di lavoro. Perché continuare a scrivere se le parole scivolavano ormai da un’ora su quella negazione, stese sulla carta per quel che erano, meri disegni privi di qualsiasi fondamento? Fino a un attimo prima correvano cavalcando la realtà, riempiendosi di sole e di estate, parole cortile di Bánfield, parole Doro e giochi e fossato, alveare rumoroso di una memoria fedele. Solo che giunto a un tempo che non era più Sara né Bánfield il rendiconto si era fatto quotidiano, presente utilitario senza ricordi né sogni, la vita nuda e cruda né più e né meno. Avevo voluto proseguire e far proseguire docili anche le parole fino ad arrivare al nostro oggi di ogni giorno, a una qualunque delle lente giornate nello studio di ingegneria, ma poi mi ero ricordato del sogno della notte precedente, di quel sogno di nuovo con Sara, del ritorno di Sara da così lontano e così indietro, e non avevo potuto restare in un presente in cui ancora una volta sarei uscito dallo studio la sera e sarei andato a bere una birra al bar all’angolo, le parole erano tornate a riempirsi di vita e benché mentissero, benché non ci fosse nulla di vero, avevo continuato a scriverle perché nominavano Sara, Sara che arrivava per strada, così bello proseguire anche se assurdo, scrivere che avevo attraversato la strada con parole che mi avrebbero portato a incontrare Sara e a farmi riconoscere, l’unico modo per poterla finalmente rivedere e dirle la verità, arrivare alla sua mano e baciarla, ascoltare la sua voce e vederle i capelli che le sfioravano le spalle, andarmene con lei verso una notte che le parole avrebbero riempito di lenzuola e di carezze, ma come proseguire adesso, come iniziare da questa sera una vita con Sara quando lì accanto si sentiva la voce di Felisa che entrava coi bambini e veniva a dirmi che la cena era pronta, che dovevamo metterci subito a tavola perché era tardi e i bambini volevano vedere Paperino in televisione alle dieci e venti.

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Ptosi, di Guadalupe Nettel

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È in libreria Petali, e altri racconti scomodi, di Guadalupe Nettel, tradotti da Federica Niola e pubblicati da La Nuova Frontiera.

Maniacali, eccentrici o semplicemente troppo umani, i protagonisti di questi racconti a volte sembrano opporsi alla loro alterità, altre volte si abbandonano al loro amaro desiderio, portando però sempre su di loro l’oscuro fascino dell’anomalia.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

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PTOSI

di Guadalupe Nettel

Il lavoro di mio padre, come tanti altri in questa città, è un impiego parassitario. Fotografo di professione, sarebbe morto di fame – e con lui tutta la famiglia – se non fosse stato per la generosa proposta del dottor Ruellan che, oltre a uno stipendio dignitoso, offrì alla sua ispirazione imprevedibile la possibilità di concentrarsi su un compito meccanico, senza grandi difficoltà. Il dottor Ruellan è il migliore chirurgo palpebrale di Parigi, opera all’Hôpital des Quinze-Vingts e ha una clientela inesauribile. Alcuni pazienti sono disposti persino ad aspettare un anno per un appuntamento piuttosto che rivolgersi a un medico meno rinomato. Prima di operare, il nostro benefattore impone ai suoi pazienti due serie di fotografie: la prima consiste in cinque scatti ravvicinati – a occhi chiusi e aperti – affinché rimanga una prova del loro stato prima dell’operazione. La seconda si realizza dopo l’intervento, quando la ferita è ormai cicatrizzata. Quindi, a prescindere da quanto siano soddisfatti del lavoro, vediamo i nostri clienti solo due volte nella vita. Tuttavia può capitare che il dottore commetta qualche errore – nessuno, neppure lui, è perfetto –: un occhio resta più chiuso dell’altro o, al contrario, troppo aperto. Allora la persona si ripresenta per farsi scattare una nuova serie di fotografie, che pagherà altri trecento euro, perché mio padre non è responsabile degli errori medici. Può sembrare strano, ma gli interventi alle palpebre sono molto frequenti e le motivazioni innumerevoli, a cominciare dalle conseguenze nefaste dell’età, dalla vanità delle persone che non sopportano i segni della vecchiaia sul volto; ma anche gli incidenti d’auto, che spesso sfigurano i passeggeri, le esplosioni, gli incendi e tutta una serie di altri imprevisti: la pelle della palpebra è insospettabilmente delicata.
Nel nostro negozio, vicino a place Gambetta, mio padre ha appeso alcune fotografie incorniciate, scattate durante la giovinezza: un ponte medievale, una zingara che stende il bucato vicino alla roulotte e una scultura esposta nei Giardini del Lussemburgo, che gli valse un premio giovanile a Rennes. Basta guardarle per capire che, in tempi molto lontani, aveva talento. Alle pareti ci sono anche opere più recenti: il volto di un bambino bellissimo, morto nella sala operatoria di Ruellan (un problema di anestesia), con il corpo splendente sul tavolo operatorio, bagnato da una luce chiarissima, quasi celestiale, che entra radente da una finestra.
Cominciai a lavorare nello studio all’età di quindici anni, quando decisi di lasciare la scuola. Mio padre aveva bisogno di un aiutante e mi inserì nella sua squadra. Così imparai il mestiere di fotografo medico specializzato in oftalmologia. Anche se in seguito, con il passare del tempo, mi dedicai ai lavori d’ufficio, come tenere la contabilità del negozio. Mi è capitato di rado, in città o in campagna, di andare alla ricerca di una scena che ispirasse il mio obiettivo volubile. Quando passeggio, in genere non ho la macchina fotografica, perché la dimentico o per paura di perderla. Devo confessare, tuttavia, che spesso, mentre cammino per la strada o nei corridoi di un edificio, avverto il desiderio improvviso di scattare una foto, non di paesaggi o di ponti come faceva un tempo mio padre, ma di palpebre insolite che di tanto in tanto individuo tra la folla. Trovo questa parte del corpo che ho visto sin dall’infanzia, e che non mi ha mai suscitato neppure un accenno d’insofferenza, affascinante. Esibita e celata in modo intermittente, ti costringe a stare all’erta per scoprire qualcosa che valga davvero la pena. Il fotografo deve evitare di abbassare le palpebre in contemporanea al soggetto dello studio e catturare l’attimo in cui l’occhio si chiude come un’ostrica giocherellona. Mi sono convinto che ci sia bisogno di un’intuizione speciale, come quella dei cacciatori di insetti, perché non credo vi sia molta differenza tra il battito d’ali e quello delle ciglia.

Mi annovero nell’esigua percentuale di persone appassionate del proprio lavoro e, in questo senso, mi considero fortunato. Ma la mia affermazione non deve trarre in inganno: il nostro mestiere presenta una serie di convenienti. In studio passano persone di ogni genere, il più delle volte in situazioni disperate. Le palpebre che arrivano qui sono quasi tutte orribili, e se non provocano disagio, fanno pena. Non è per nulla che i loro proprietari preferiscano operarsi. Una volta trascorsi i due mesi di convalescenza, quando i pazienti, ormai trasformati, tornano per la seconda serie di fotografie, tiriamo un respiro di sollievo. Di rado il miglioramento raggiunge il cento per cento, ma cambia completamente un volto, la sua espressione, il suo aspetto permanente. Gli occhi sembrano più equilibrati ma, se si osserva bene – soprattutto quando si sono visti migliaia di volti modificati dalla stessa mano – si scopre una cosa abominevole: in qualche modo, si assomigliano tutti. È come se il dottor Ruellan imprimesse un segno distintivo nei suoi pazienti, un marchio lieve ma inconfondibile.
Nonostante le soddisfazioni che dà, questa professione, come qualunque altra, finisce per rendere indifferenti. Ricordo di avere visto pochi casi veramente memorabili nel nostro laboratorio fotografico. Quando capita, mi avvicino a mio padre, mentre prepara la pellicola nel retrobottega, e gli chiedo all’orecchio di concedermi lo scatto dell’otturatore. Lui acconsente sempre, pur non capendo la ragione del mio improvviso interesse. Una di queste scoperte avvenne meno di un anno fa, a novembre. Durante l’inverno lo studio, situato al piano terra di una vecchia fabbrica, è umido in modo insopportabile ed è preferibile stare all’addiaccio piuttosto che rimanere in quella caverna gelida e buia per esigenze lavorative. Mio padre quel pomeriggio non c’era, e io, morto di freddo accanto alla porta, mi distraevo osservando l’indecisione della pioggia mentre maledicevo una cliente che era in ritardo di oltre un quarto d’ora. Quando finalmente la sagoma della cliente comparve dietro l’inferriata, mi sorprese che fosse così giovane, avrà avuto al massimo vent’anni. Un berretto nero, impermeabile, le copriva la testa e lasciava scivolare le gocce d’acqua sui lunghi capelli. La sua palpebra sinistra era di circa tre millimetri più chiusa rispetto alla destra. Entrambe avevano uno sguardo sognante, ma la sinistra mostrava una sensualità anomala, come se pesasse. Guardandola fui pervaso da una sensazione curiosa, dal piacevole senso d’inferiorità che provo di solito davanti alle donne troppo belle.
Con una lentezza esasperante, come se non si curasse affatto del ritardo, si avvicinò per domandare a quale piano fosse lo studio fotografico. Di sicuro mi aveva scambiato per il portiere.
«È qui» le dissi. «Si trova davanti alla porta del negozio.» Tirai il chiavistello e, con un’espressione esaltata che lei non colse, accesi tutti i riflettori, come quando un membro della famiglia reale entra in una sala da ballo. Non appena fu entrata, si tolse il cappello, la sua lunga chioma nera sembrava un prolungamento della pioggia. Come tutti i clienti, mi spiegò che aveva un appuntamento con il dottor Ruellan perché risolvesse il suo problema.
«Quale problema?» stavo per domandarle. «Lei non ha nessun problema.» Ma mi astenni. Era così giovane… non volevo turbarla e preferii un commento banale.
«Non sembra di Parigi. Da dove viene?»
«Dalla Piccardia» rispose lei, timidamente, evitando di incrociare il mio sguardo come fanno di solito i pazienti. Ma in quel momento, invece di rallegrarmi, il suo atteggiamento schivo mi gettò nello sconforto. Avrei dato qualsiasi cosa per restare a guardare tutto il pomeriggio quella palpebra pesante e insieme fragile, e avrei dato il doppio perché quegli occhi si posassero su di me.
«Le piace Parigi?» domandai, adottando un tono falsamente distratto.

«Sì, ma non posso trattenermi a lungo. In realtà sono venuta soltanto per l’operazione.»
«Parigi la conquisterà, ne stia pur certa. Quando meno se lo aspetta, verrà a vivere qui.»
La ragazza sorrise, chinando la testa. «Non credo. Vorrei tornare a Pontoise il prima possibile, non vorrei perdere l’anno.»
Il pensiero che quella donna vivesse in un’altra città bastò a deprimermi. Divenni di cattivo umore. In modo improvviso, forse un po’ brusco, interruppi la conversazione per andare a prendere la pellicola.
«Si sieda qui» le intimai al ritorno. In tutta la mia vita professionale non ero mai stato così poco gentile. La ragazza prese posto sullo sgabello e si tirò indietro i capelli, lasciando in mostra il volto.

«Non so se lo sa» le dissi simulando compassione «ma i risultati non sono mai perfetti. Il suo occhio non sarà mai uguale all’altro. Il dottore glielo ha spiegato?» Lei assentì in silenzio.
«Ma mi ha anche detto che le due palpebre saranno alla stessa altezza. Per me è sufficiente.»
Ero pronto a mostrarle una serie di fotografie di operazioni non riuscite al fine di dissuaderla. Pensai di dirle che, in ogni caso, le sarebbe rimasto il marchio inconfondibile dei pazienti operati dal dottor Ruellan, una tribù di mutanti. Ma non ne ebbi il coraggio. Senza dire una parola le sistemai lo sfondo bianco dietro alla testa, puntandole il riflettore negli occhi. Invece dei soliti tre scatti, premetti il pulsante dell’otturatore quindici volte e avrei continuato fino all’imbrunire, se non fosse arrivato mio padre.
Quando udii il rumore del chiavistello, spensi i fari. La ragazza si alzò e si avvicinò al bancone per firmare un assegno sul quale lessi il suo nome, scritto con una grafia da scolaretta.
«Mi auguri buona fortuna» disse. «Ci vediamo tra due mesi.»
Non so come descrivere lo sconforto in cui sprofondai quel pomeriggio. Sviluppai immediatamente le foto; misi le più convenzionali in una busta con il timbro dell’ospedale e conservai quella che mi parve la più riuscita nel cassetto della mia scrivania: uno scatto frontale, sognante e osceno.
I miei sforzi per dimenticarla si rivelarono inutili. Per tre mesi aspettai con autentico terrore che tornasse per la seconda serie, volevo a tutti i costi non essere presente. Ogni lunedì davo un’occhiata all’agenda di mio padre per sapere quando assentarmi. Ma lei non venne.
Un pomeriggio, all’inizio dell’estate, mentre camminavo sul lungofiume in cerca di palpebre interessanti, la rividi. In quei giorni la Senna scorreva placida; le pietre ne riflettevano il colore verde scuro e il movimento oscillante. Anche lei stava guardando il fiume, e per poco non ci scontrammo. Con mia grande sorpresa, i suoi occhi erano uguali a prima. La salutai con cortesia, facendo di tutto per nascondere la mia gioia, ma dopo qualche minuto non riuscii a trattenermi: «Ha cambiato idea?» le domandai. «Ha deciso di non operarsi?»
«Il dottore ha avuto un contrattempo e l’intervento è stato rimandato alla fine dell’anno scolastico.» «Entro in ospedale domani. Non ho parenti in città, quindi rimarrò ricoverata per tre giorni.» «Come vanno i suoi studi?»
«La settimana scorsa ho fatto l’esame per entrare alla Sorbona» rispose sorridendo. «Vorrei trasferirmi a Parigi.» Sembrava contenta. Nel suo sguardo scorsi l’espressione speranzosa che hanno di solito i pazienti alla vigilia dell’intervento e che conferisce anche ai volti più deformi un’aura di candore.
La invitai a prendere un gelato sull’isola Saint-Louis. C’era un’orchestra jazz che suonava lì vicino, e benché dal lungofiume non si vedessero i musicisti, si udivano le note come se emergessero dall’acqua. La luce del sole tingeva le sue palpebre di arancione. Camminammo per diverse ore, un po’ in silenzio un po’ parlando di ciò che vedevamo durante la passeggiata; della città o del futuro che l’attendeva lì. Se avessi portato la macchina fotografica, adesso avrei una testimonianza, non solo della mia donna ideale ma anche del giorno più felice della mia vita.
All’imbrunire la accompagnai all’hotel in cui alloggiava, una topaia vicino a Bonne Nouvelle. Passammo la notte insieme in un letto decrepito, rischiando continuamente di finire a terra. Una volta nudi, i vent’anni che ci separavano divennero più evidenti. Le baciai più volte le palpebre e, quando mi stancai di farlo, le chiesi di non chiudere gli occhi per continuare a godermi quei tre millimetri supplementari di palpebra, quei tre millimetri di voluttuosità sconvolgente. Dal primo abbraccio fino al momento in cui, sfinito, spensi la luce da notte, avvertii il bisogno di convincerla. A quel punto, senza pudore o inibizioni di sorta, la pregai di non operarsi, di restare con me così com’era. Ma lei pensò che fosse una smanceria, una di quelle bugie esaltate che si dicono in circostanze del genere.
Quella notte dormimmo appena. Se lo avesse saputo il dottor Ruellan! Lui che alla vigilia delle operazioni impone il riposo più assoluto ai suoi pazienti. Arrivò al reparto preoperatorio con due occhiaie che la facevano sembrare più vecchia e anche più bella. Le promisi che sarei rimasto con lei fino all’ultimo e che in seguito, quando si fosse ripresa dall’anestesia, sarei andato immediatamente a trovarla. Ma non mi fu possibile: non appena l’infermiera entrò nella stanza per portarla in sala operatoria, io sgattaiolai verso l’ascensore.
Uscii dall’ospedale ridotto in pezzi, come chi si è confrontato con una sconfitta. Il giorno successivo pensai molto a lei. La immaginai mentre si svegliava da sola, in quella stanza ostile che odorava di disinfettante. Avrei voluto starle accanto e lo avrei fatto se in gioco non ci fosse stato così tanto: il mio ricordo, la mia immagine di quegli occhi che, se li avessi visti dopo, identici a quelli di tutti i pazienti del dottor Ruellan, sarebbero svaniti dalla mia memoria.
Qualche volta di pomeriggio, soprattutto nei periodi di magra, quando la clientela non dà soddisfazioni di sorta, metto la sua fotografia sulla scrivania e la guardo per qualche minuto. In quei momenti mi sento pervadere da una sensazione di soffocamento e da un odio smisurato nei confronti del nostro benefattore, come se il suo bisturi avesse in qualche modo mutilato anche me. Da allora non sono più uscito con la macchina fotografica, i lungofiume della Senna non promettono più sorprese arcane.

© Tratto da "Petali" di Guadalupe Nettel
Per gentile concessione de La Nuova Frontiera

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La Luna pazza, di Stanley Weinbaum

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È in libreria Viaggi sulla luna, l’antologia a cura di Fabrizio Farina e pubblicata da Racconti Edizioni, dedicata ai grandi narratori che hanno raccontato il rapporto tra gli esseri umani e la luna.

Molto prima che l’Apollo 11 toccasse il suolo lunare è stata l’arte, in tutte le sue forme, ad accomodare l’attrazione preparando fatalmente il terreno per l’allunaggio. Nei suoi sogni e desideri – spesso perdendo il senno come l’Orlando – l’uomo è stato sulla Luna infinite volte, eleggendo il «pianeta» prediletto a simbolo romantico dei migliori viaggi d’avventura.

Cattedrale vi propone l’estratto di uno dei racconti del volume, per gentile concessione dell’editore.

*


Stanley Weinbaum
La Luna pazza


«Idioti!» ululò Grant Calthorpe. «Scemi, imbecilli, cretini!» Si scervellò per trovare un termine più esplicativo ma non ci riuscì e scaricò la sua frustrazione con un violento calcio alla pila d’erbacce che stava lì per terra. Un po’ troppo violento, in effetti; si era dimenticato che su Io c’era un terzo della gravità terrestre, così il suo corpo seguì la direzione del calcio compiendo un arco di sei metri.
Appena atterrato i quattro lunatici si misero subito a sghignazzare. Quelle enormi teste idiote, identiche come nient’altro ai faccioni da pagliaccio sui palloncini per bambini, ciondolavano all’unisono su quei colli lunghi un metro e mezzo e spessi quanto il polso di Grant. «Fuori di qui!» tuonò, precipitandosi in piedi. «Andale, sciò, smammare! Niente cioccolata. Niente dolci. Niente di niente, finché non imparate che sono le foglie di ferva quelle che voglio, non la prima cosa che vi càpita sotto il naso. Via di qui!»
I lunatici – Lunae Jovis Magnicapites, o letteralmente Testoni della Luna di Giove – si fecero da parte, ridacchiando i loro lamenti. Sul fatto che anche loro considerassero Grant un idiota non c’erano molti dubbi, ed erano pressoché incapaci di comprendere le ragioni della sua arrabbiatura. Non c’erano dolci in arrivo però, questo gli era chiaro, così i loro tipici risolini avevano preso una sfumatura di delusione.
Una delusione così cocente, a dire il vero, che il capo dei quattro, dopo aver attorcigliato la sua ridicola faccia bluastra verso Grant per dedicargli il suo sorrisetto da demente, cacciò un’ultima risata selvaggia e andò a scagliarsi di testa contro uno dei luccicanti alberi di pietra-corteccia. I suoi compari andarono a raccoglierlo in tutta tranquillità e se la svignarono, trascinandosi dietro il testone come fosse una palla di piombo attaccata alla catena di un condannato.
Grant si passò la mano sulla fronte e si avviò stancamente verso la sua baracca di pietra-corteccia, quando un paio di occhi rossi e luccicanti richiamarono la sua attenzione. Uno strisciattolo – Mus Sapiens – stava sgambettando per tutti i suoi quindici centimetri oltre l’uscio, con sotto il minuscolo e secchissimo braccio qualcosa che assomigliava parecchio al suo termometro clinico. Grant prese allora a gridare alla creaturina, raccogliendo un sasso da terra e lanciandoglielo contro invano. All’estremità del corpo a spazzola lo strisciattolo rivolse subito la sua faccia da topo, eppure semiumana, verso di lui. Poi squittì il suo ciangottio, agitò in aria il suo pugnetto come un umano arrabbiato e svanì, la criniera di pelle come quella di un pipistrello a sventolargli nel vento. Assomigliava parecchio, a dire il vero, a un ratto nero con indosso un mantello.
Era stato uno sbaglio, lo sapeva, tirargli quel sasso. Adesso quei mostriciattoli non gli avrebbero dato pace, e con la loro minuscola stazza, assieme all’intelligenza pseudoumana, erano più pericolosi del peggior nemico.
Eppure né quel pensiero né il suicidio del lunatico lo preoccupavano particolarmente; aveva assistito a prove del genere troppo spesso e poi, a dirla tutta, la testa aveva cominciato a dolergli come se si fosse barricata per un altro assedio della febbre bianca.
Entrò nel rifugio, chiuse la porta e si rivolse al suo pergatto da compagnia. «Oliver!» si sgolò, «tu che mi capisci, ma perché non mi difendi dagli strisciattoli? Che ci stai a fare, sennò?»
Il pergatto si sollevò sulla sua possente e unica gamba posteriore, aggrappandosi tramite gli artigli alle ginocchia davanti. «Un fante di cuori sulla regina di picche» osservò placidamente. «Dieci lunatici non fanno mezzo scemo.» Grant inquadrò le due frasi senza pensarci: la prima era ovviamente un’eco del solitario della sera, mentre la seconda si riferiva al lavoro con i lunatici del giorno prima. A quel pensiero dedicò un grugnito, poi si strofinò la testa dolorante – era di nuovo febbre bianca, non c’erano dubbi. Ingoiò due compresse di ferverina e affondò sfinito sulla branda, chiedendosi quanto ci avrebbe messo quell’attacco di blancha a culminare in delirio.
Si diede del rincretinito per aver accettato quel lavoro su Io, la terza Luna abitabile di Giove. Quel piccolo mondo era un pianeta di folli, buono soltanto per la produzione di foglie di ferva, da cui i chimici terrestri estraevano tanti potenti alcaloidi quanti una volta ne estraevano dall’oppio. Tutto inutile ai fini della scienza, oltretutto; ma che differenza faceva dal suo punto di vista? E che differenza faceva quel magnifico salario, se poi gli toccava tornare sulla Terra farneticando come un maniaco, dopo un anno passato nelle regioni equatoriali di Io? Giurò amaramente a se stesso che, quando il mese successivo sarebbe arrivato l’aereo da Giunopoli a prendere il suo carico di ferva, lui sarebbe tornato alla città sul polo, anche se il contratto con la Neilan Drug era di un anno intero e non gli sarebbe spettata la paga. Del resto cosa vuoi che ci combini coi soldi un lunatico? L’intero pianetucolo era impazzito – lunatici, pergatti, strisciattoli e pure Grant Calthorpe – tutti matti. Come minimo! Chiunque si fosse avventurato al di fuori di ciascuna delle due città polari – Giunopoli a nord, Erapoli a sud – si era ammattito del tutto. In città si era al sicuro dalla febbre bianca, ma ogni punto della Luna al di sotto del ventesimo parallelo era peggio che nella giungla cambogiana della Terra.
Al solo pensiero del proprio pianeta Grant si raddolcì. Appena due anni prima era stato felice, un noto cacciatore, popolare e benestante. E nella vita non era mai stato nient’altro: prima di aver compiuto i vent’anni aveva già cacciato velaffilata e filivermi su Titano, triopi e unipedi su Venere. Prima della crisi dell’oro nel 2110, almeno, quando aveva perso tutto. E quindi be’, se proprio doveva lavorare, gli era sembrato logico sfruttare la sua esperienza interplanetaria come mezzo di sostentamento. Si era detto entusiasta, per la possibilità di associarsi con la Neilan Drug.
Su Io però non c’era mai stato. Non era posto per cacciatori quel selvaggio pezzo di roccia, con tutti quei lunatici idioti e quei perfidi, scaltri, piccoli strisciattoli. Niente che valesse la pena cacciare, su quella lunetta febbricitante immersa nel caldo di Giove, lì a soli quattrocentomila chilometri di distanza.
Se l’avesse visitata prima, si disse allora mestamente, il lavoro non l’avrebbe mai accettato; Io se l’era immaginata più come Titano, fredda ma pulita. Invece era calda come i deserti di Venere, prima di tutto a causa del suo stesso bagliore, e poi perché soggetta a mezza dozzina di luci soffuse diverse – giorno solare, giorno gioviano, giorno solare e gioviano insieme, luce riflessa da Europa, e solo occasionalmente vera e lugubre notte. E per la maggior parte queste luci si succedevano nel corso della rivoluzione di Io, in quarantadue ore – una sequenza impazzita di luci, una dietro l’altra. Li detestava quei giorni vorticosi, la giungla, quelle Colline dell’Idiozia che si dipanavano dietro alla sua baracca.
In quel momento era giorno solare e gioviano insieme, il peggiore di tutti, dato che il Sole in lontananza aggiungeva quel pizzico di calore in più a quello emanato da Giove. E giusto a completare il malessere di Grant ecco quell’attacco imminente di febbre bianca. All’ennesima fitta alle tempie si lasciò andare alle contumelie e mandò giù un’altra compressa di ferverina. Le sue scorte andavano diminuendo, aveva notato: doveva ricordarsi di chiederne un po’ quando avrebbero chiamato quelli dell’aereo – no, macché, doveva tornare con loro!
Oliver si strusciò sulla sua gamba. «Idioti, scemi, cretini, imbecilli» rimarcò il pergatto affettuosamente. «Ma devo andarci per forza a quel dannato ballo?»
«Eh?» fece Grant; non ricordava di aver detto niente che avesse a che fare con un ballo. Evidentemente, decise, doveva aver detto qualcosa durante l’ultimo delirio. Oliver scricchiolò come la porta di casa, poi ridacchiò che pareva un lunatico. «Andrà tutto benissimo» rassicurò Grant. «Papà ha giurato che sarebbe arrivato presto.» «Papà!?» gli fece eco l’umano. Suo padre era morto da quindici anni. «E questa da dove l’hai tirata fuori, Oliver?» «Chissà, sarà la febbre» osservò lui placidamente. «Sei un bravo gattino, ma vorrei che fossi più assennato quando parli. E vorrei che venisse papà.» Alla fine terminò la frase con un gorgoglio mozzato che forse era stato pensato come sospiro.
Grant si mise a guardarlo con gli occhi fuori dalle orbite. Non aveva mai detto niente di tutto ciò. Il pergatto doveva averlo sentito da qualcun altro – qualcun altro? Ma chi, se non c’erano umani nel giro di duecento chilometri? «Oliver!» muggì. «Dove l’hai sentito? Dove le hai sentite queste cose?»
Il pergatto si rannicchiò impaurito. «Papà è idioti, scemi, cretini, imbecilli» disse preso dall’ansia. «Il fante di cuore sul bravo gattino.»
«Vieni qui!» ruggì Grant. «Il papà di chi? Dove diavolo… vieni qui, fai il bravo!»
Grant si precipitò verso l’animaletto, ma dopo aver teso indietro la gamba Oliver partì a razzo verso la cappa della stufa. «Chissà, sarà la febbre!» sbuffò. «Niente cioccolata!» Come un fulmine a tre gambe entrò dentro la canna, poi si udì un rumore di artigli che grattavano il metallo e in un attimo era sgattaiolato fuori di nuovo. Grant si mise a seguirlo, la testa che gli faceva male per lo sforzo, e anche se la parte ancora sana di sé sapeva perfettamente che l’intero episodio era solo frutto del suo delirio non smise di arrancargli dietro.
Più andava avanti e più l’incubo era destinato a peggiorare. I lunatici continuavano a ciondolare i loro lunghi colli al di sopra dell’alta erba sanguinina, con i loro risolini idioti e le loro facce da imbecilli ad aggiungersi alla generale atmosfera di follia. Dal suolo spugnoso sbuffavano in aria vapori fetidi e carichi di febbre a ogni passo. Da qualche parte, alla sua destra, uno strisciattolo squittiva e farfugliava in lontananza; sapeva che in quella direzione c’era uno dei loro piccoli villaggi, perché una volta ci aveva dato un’occhiata, a quelle minuscole e squadrate casupole, perfettamente incastrate nella pietra come paesini medievali in miniatura, con tanto di torri e parapetti. Secondo alcuni quei mostriciattoli si facevano anche la guerra fra loro.
La testa gli continuava a turbinare e ronzare per il combinato effetto di ferverina e febbre. Era un attacco di blancha, poco ma sicuro, e si rese conto di essere un imbecille, un lunatico, ad aggirarsi così impunemente lontano dal rifugio. Doveva rimanere sdraiato sulla sua branda; la febbre non era così grave, ma su Io erano morti più d’uno durante la fase di delirio a causa delle proverbiali allucinazioni della Luna.
E ormai stava delirando. Ne ebbe la certezza non appena vide Oliver che guardava una ragazza attraente, con un impeccabile vestito da sera e in perfetto stile anni ’20 del ventiduesimo secolo. Era piuttosto ovvio che si trattasse di un’allucinazione, di ragazze non se ne vedeva l’ombra ai tropici di Io, e anche se ce ne fosse stata una, putacaso, di sicuro non avrebbe mai scelto una mise così formale. Visto com’era pallida in viso, di quel biancore che dava alla blancha il suo nome, anche lei doveva avere la febbre. Nei suoi occhi grigi non c’era il minimo segno di stupore quando Grant decise di tagliare per l’erba sanguinina verso di lei.
«Buon pomeriggio, sera o mattino» rimarcò Grant controllando imbarazzato la posizione di Giove, che stava sorgendo, e quella del Sole, che tramontava. «O magari solo buongiorno, Miss Lee Neilan.»
Lei gli restituì uno sguardo impensierito. «Mi permetta» disse, «sa che lei è la prima delle mie illusioni che non sono riuscita a riconoscere? Conosco tutti qua intorno, e lei è il primo che mi è estraneo. Ma è davvero un estraneo, mi chiedo? Be’, conosce il mio nome… in effetti dev’esserlo per forza, essendo frutto della mia fantasia.» «Non mi metterò a discutere su chi sia l’allucinazione di chi» suggerì Grant. «Facciamo così, il primo dei due che sparisce è l’illusione. Scommetto cinque dollari che sarà lei.»
«Come faccio a riscuotere?» chiese lei. «Non posso mica prendere soldi dal mio stesso sogno.»
«È un bel problema» si accigliò Grant. «Problema mio, naturalmente, non suo. Io sono sicuro che esisto.»
«E come fa a sapere il mio nome?» domandò lei.
«Ah!» fece lui. «Dalle mie intense letture di cronaca rosa sul bollettino che mi portano con l’aereo per le provviste. Anzi, adesso che ci penso ho affisso un suo ritaglio accanto alla mia branda. Questo probabilmente spiega perché la sto vedendo in questo istante. Mi farebbe piacere conoscerla dal vivo, un giorno di questi.»
tore, ero innamoratissima di te! Avevo il diario pieno di tue foto: Grant Calthorpe in parka pronto per la caccia ai filivermi su Titano, Grant Calthorpe accanto all’unipede gigante appena ucciso sulle Montagne dell’Eternità. Sei… sei davvero l’allucinazione più piacevole che abbia avuto fin qui. Il delirio sarebbe pure… divertente» e si passò le mani sulle ciglia una seconda volta, «se la testa non mi facesse così male!» Mannaggia… pensò Grant, magari fosse vera, questa cosa del diario. Immagino sia questo, quello che gli psicologi chiamano «appagamento dei desideri nei sogni». Una goccia tiepida di pioggia gli cadde sul collo. «Meglio andare a letto» disse poi ad alta voce. «La pioggia non aiuta con la febbre. Spero di rivederti al prossimo delirio.» «Grazie» disse Lee Neilan dignitosamente. «Altrettanto.»
Grant annuì con la testa, cosa che gli provocò un’altra fitta. «Qui, Oliver» disse al pergatto imbambolato. «Da bravo.»
«Ma quello non è Oliver» disse Lee. «Si chiama Polly. Mi ha tenuto compagnia per gli ultimi due giorni, così le ho dato un nome.»
«Non è una lei» mugugnò Grant. «Comunque è il mio pergatto, Oliver.
Non è vero Oliver?»
«Spero di rivederti» disse Oliver sonnecchiando.
«Si chiama Polly. Giusto Polly?»
«Scommetto cinque dollari» disse il pergatto. Poi si tirò su, si stiracchiò e partì a grandi falcate verso l’erba alta. «Chissà, sarà la febbre…» concluse sparendo.
«Proprio così» concordò Grant, e si voltò. «Arrivederci Miss – forse posso chiamarti Lee, visto che non sei reale. Arrivederci Lee.»
«Arrivederci Grant. Però non andare da quella parte, c’è un villaggio di strisciattoli al di là della coltre d’erba.» «Ma no, è dall’altra parte.»
«Da quella parte» insistette lei. «Li ho visti mentre lo costruivano. Tanto non possono farti niente, dico bene? Nemmeno uno strisciattolo può far male a un fantasma. Arrivederci Grant.» E stancamente chiuse gli occhi. Pioveva forte adesso. Grant si spinse attraverso l’erba sanguinina, mentre la linfa rossa gli si raddensava sugli stivali in gocce di rosso sangue. Doveva rientrare presto al rifugio, prima che la febbre bianca e il conseguente delirio lo portassero definitivamente fuori strada. Aveva bisogno di ferverina.
All’improvviso fu costretto a fermarsi. L’erba di fronte a sé era stata sradicata, e nella piccola radura si ergevano all’altezza di una spalla umana le torri e i parapetti del villaggio degli strisciattoli – uno nuovo, a giudicare da alcune case in costruzione e da alcuni esserini ancora indaffarati fra le pietre.
Subito si alzarono squittii e ciangottii di protesta. Grant indietreggiò, ma venne comunque inondato da una dozzina di minuscole frecce. Una lo aveva preso nello stivale ed era rimasta infilzata come uno stuzzicadenti ma nessuna, per sua fortuna, gli aveva penetrato la pelle, dato che erano sicuramente avvelenate. Provò ad accelerare il passo, ma nell’erba spessa e scarnificata intorno a lui era tutto un coro di squittii, fruscii e imprecazioni ciangottanti.
Fece il giro largo. I lunatici continuavano a tirar fuori la testa oltre la vegetazione e di tanto in tanto uno di loro sghignazzava contrito dal dolore per il morso o una pungolata di strisciattolo. Grant tagliò dritto verso quelle creature, nel tentativo di distrarre i piccoli mostriciattoli, quando un lunatico dalla faccia viola piegò il suo lungo collo sopra di lui, sghignazzando e indicando con il proprio dito scheletrico un fascio d’erbacce che teneva sottobraccio.
Grant lo ignorò e virò verso la baracca. Sembrava avercela fatta, così continuò ad arrancare ostinato, agognando la sua compressa di ferverina, quando improvvisamente qualcosa lo trattenne. Quindi si voltò, e cominciò piano piano a ripercorrere i suoi passi.
«Non può essere…» mugugnava fra sé, «mi ha detto la verità sul villaggio degli strisciattoli. Eppure non avevo idea che stesse lì. Come fa una mia allucinazione a dirmi cose che non so?»


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Su commissione, di Jaume Cabré

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Da Febbraio è in libreria Quando arriva la penombra, di Jaume Cabré, pubblicato da La Nuova Frontiera e tradotto da Stefania Ciminelli. Una raccolta di racconti che toccano nel profondo e che intavolano un dialogo costante tra di loro e con i grandi romanzi dello scrittore catalano. Grazie alla consueta maestria che l’ha reso uno degli scrittori più popolari d’Europa, Cabré scrive un libro avvincente, con un tocco di umorismo nero, atmosfere da thriller e sorprendenti incursioni nel fantastico, il tutto racchiuso in una struttura circolare e compatta. Raramente un libro popolato da personaggi che vivono ai margini, tutti più o meno colpevoli, è stato così pieno di vita.

Cabré, uno dei più grandi autori della letteratura catalana. — La Repubblica

Cabré dà sfoggio di grande perizia stilistica e compositiva. — La Lettura

Cattedrale pubblica uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.

Su commissione

Beh, dunque, perché io direi che i soldati uccidono d’ufficio. I più consapevoli sono i soldati di fanteria: possono vedere in faccia il nemico e sentire i pianti dei bambini. Quelli che lanciano le bombe non riescono neanche ad avvertire la puzza di bruciato che le loro azioni provocano. Ma tutti uccidono in modo impersonale. Quelli che mi assomigliano di più sono i cecchini: ogni sparo è un morto, praticamente, con tanto di dedica, personalizzato. Ma sempre con la sicurezza della distanza e con l’aiuto di un proiettile. Vedono la vittima, ma non hanno alcun bisogno di conoscerla. Io no. Io uccido da pari a pari: un lavoro di prossimità. Uccido persone con nome e cognome che prima ho guardato negli occhi. Il mio lavoro lo richiede. Non posso permettermi alcun errore, la mia reputazione ne risentirebbe di colpo: è un mestiere molto crudele questo, perché, non ci crederete, ma c’è una concorrenza durissima nel mio settore. Quindi, per non dovermi preoccupare, non mi posso mai permettere un errore. Mai. Sì, sì, la capisco; ma no: nessun rimorso. Il mio è un puro atto professionale. Senta, ho ucciso uomini, donne, bambini, cani, cavalli, anziani; di tutto, con prevalenza di uomini di mezza età. Non ho mai pensato che uccidere un cassiere chiacchierone fosse diverso dal neutralizzare un ragazzino di dodici anni la cui esistenza disturbava profondamente i piani del mio cliente.
Certo, nella vita c’è gente che dà fastidio; io risolvo il problema e basta. Perché li guardo negli occhi? È la mia garanzia. Ognuno ha il proprio stile: il mio si basa sull’assoluta certezza che è quello il mio obiettivo. Prima, nelle settimane che precedono l’atto, ne studio dettagliatamente la fisionomia, lo seguo nella sua vita normale e a volte ci scambio anche due parole. Certo: è quello il momento in cui lo guardo negli occhi. E mi sento come un ragno gigante. Ma che dice: la vittima non sa né di essere vittima né che io le ho già teso la trappola da cui non potrà mai scappare. Perché compassione? Quella persona disturba il mio cliente e basta. E chi paga avrà i suoi motivi, su cui io non ho niente da dire. Mi limito a far bene il mio lavoro. Beh, come dire… come tutti quelli che svolgono lavori simili, vivo bene, senza ristrettezze, ma forse un po’ troppo solo. Ho delle donne, ma a volte mi punge il desiderio di un caminetto acceso, di una mano che mi accarezzi la nuca, mentre lascio passare il pomeriggio senza altra pretesa se non quella di osservare le rughe impercettibili che ci appaiono sul viso. Sì, sono una persona molto sensibile: so che di vita ce n’è una sola, e per questo do tanta importanza ai dettagli nelle relazioni, per esempio. Poco tempo fa ho deciso di andare a vivere con una delle mie amiche. Sì, sì, convivenza coniugale, sì. È una gran signora, che non mi chiede dove vado quando dico che starò fuori un mese intero per lavoro. E poi, ha la passione dell’arte quasi quanto me. Oh, pensi che a casa ho le pareti piene di tele, soprattutto contemporanee. E adesso le dirò un segreto: in un angolo discreto ho La paysanne di Millet. Esatto: quella che è diventata famosa per… No, no: sono tranquillissimo. È una piccola fortuna che mi obbliga a tenere un sistema sofisticato di allarme a casa. Me lo posso permettere, comunque.
Due all’anno. In qualche annata eccezionale, tre interventi. No, no: è più che sufficiente. Di più, no, non potrei vivere: pensi che per ogni intervento ho bisogno di qualche settimana di studio teorico e poi di lavoro sul campo. E ancora, sessioni di prova e di ridefinizione. Poi l’azione e il ripiegamento, che non voglio fare in modo frettoloso. Il tutto richiede tre o quattro settimane. Perfezionista? Senza ombra di dubbio. Ma in questo mestiere o sei perfetto o ti beccano al primo incarico. No, non vivo sempre sulle spine; non ne varrebbe la pena. Sono tranquillo, prima di tutto con me stesso; poi con quelli che mi circondano e a cui voglio bene e infine con il mondo. E non ho paura di rappresaglie, perché il mio sistema di ripiegamento è così efficace che nessuno sa della mia esistenza. Voglio dire che nel caso di quell’affabile signora anziana di Delhi morta per un attacco di cuore, nessuno della sterminata e rumorosa famiglia sospetta remotamente che sia stata assassinata. Per non parlare di quel bambino la cui sola esistenza era una complicazione e che ha avuto la disgrazia di affogare un giorno in cui sulla spiaggia c’era la bandiera rossa. Ovvio: il servizio di sicurezza della famiglia si è beccato la strigliata del secolo perché il bambino, che era una peste, era sfuggito al loro controllo, nessuno sapeva dov’era. E intanto il ragazzino inghiottiva acqua con gli occhi sbarrati perché io lo tenevo sotto per le caviglie e non lo lasciavo riemergere. Ci misero due giorni a recuperare il cadavere, perché il mare mosso gioca brutti scherzi. Esatto! Per ogni singolo caso devo creare una situazione, devo inventare una specie di romanzo in cui la morte desiderata presenti dei parametri di accettazione che non lascino spazio a dubbi né a sospetti. Pensava forse che andassi in giro con un fucile di precisione e tutto il resto? Ma per l’amor del cielo, siamo nel ventunesimo secolo! Parlando sinceramente, la linea tra la vita e la morte è molto sottile. Io mi occupo di ritoccarla in certi casi e lo faccio in modo pulito. Il che non vuol dire, se siamo dei buoni professionisti, che le morti ritoccate siano innocue. Non siamo mica al macello, signore. Se la trama che ho creato richiede una morte raccapricciante, allora la morte sarà raccapricciante, e non ho problemi a dire che non tutto si può risolvere con opportuni attacchi di cuore. Senta, padre: sono convinto che il mio bagaglio culturale mi aiuta a fare un lavoro pulito, preciso e incontrovertibile. Il che non vuol dire che mi piaccia strafare: non oltrepasso i limiti e non gioco con la messa in scena. Gli assassini che lasciano guanti, carte da gioco e firme di altro genere li trovo teneramente patetici, sembrano usciti da un giallo di Agatha Christie, e l’unica cosa che vogliono, in fondo in fondo, è essere scoperti perché la gente li ammiri. La mia sfida consiste nel non esistere per nessuno. Non esisto neanche per i miei clienti. Come capirà, adesso non starò qui a rivelarle i metodi, così, al plurale, che seguo per mettermi in contatto con loro e loro con me. Ma le posso dire che non mi hanno mai visto in faccia e che non conoscono il mio nome né la mia voce; ignorano anche il numero del mio conto corrente. E la trappola che ho costruito, diversa per ogni intervento, la distruggo appena ho finito un lavoro. Perché qualcuno di questi clienti potrebbe trasformarsi in una minaccia per me nel caso in cui le cose per lui prendessero una brutta piega e volesse scaricare la responsabilità. Mi blindo su tutti i fronti, per questo posso dormire tranquillo. Mi scusi, ma io non parlo mai di vittime: parlo di obiettivi. Pietà, dice? Pietà? Sia chiaro che non ho nulla contro i miei obiettivi: anzi, gli sono riconoscente perché mi permettono di comprare quel Pollock su cui ho messo l’occhio da tempo. A parte questo, nei loro confronti non ho alcun tipo di obbligo, né morale né economico né sentimentale.
Beh, ho lavorato in tutti e cinque i continenti e sempre con queste premesse. Perché le racconto tutto questo? Sa padre? Arriva un momento in cui uno pensa di ritirarsi definitivamente, e allora, gli piaccia o no, ha voglia di aprirsi, di raccontare qualcosa di se stesso, di uscire dal guscio anche solo per un momento, prima di trasformarsi in un cittadino onesto che apre una galleria d’arte per intrattenersi nelle sue lunghe giornate. E tutto quello che le ho detto del caminetto acceso e del lasciar passare il tic-tac del tempo. Perché un confessore è sempre la garanzia più chiara dell’inviolabilità del segreto. Che vuole che le dica, no, non sono pentito. Ma santo cielo, come vuole che mi penta di quello che è l’orgoglio della mia vita? Oh, ma io non cerco l’assoluzione. Cerco solo delle orecchie che sappiano ascoltare. Lei è l’eccezione al mio modo di agire, se consideriamo le situazioni che ho creato finora. Non avevo mai parlato di me, ma dal momento che il lavoro che sto svolgendo è l’ultimo di una lunga e fruttuosa attività professionale, mi sono permesso questa frivolezza. No, non ho paura che lo vada a raccontare a nessuno perché credo fermamente nelle rigorose leggi del segreto confessionale. D’accordo, lei potrebbe anche commettere l’orribile peccato di raccontare i segreti di confessione, sì. Su questo ha ragione. Non sarebbe la prima volta, a quanto ne so. Non c’è bisogno di essere credenti per saperlo. Che vuole che le dica: sono una persona informata. Perché sono così tranquillo? Perché è proprio lei il mio ultimo obiettivo professionale, padre. Non voglio offenderla, ma spero che comprenda che non posso rivelarle il nome del cliente che mi ha commissionato l’incarico.
Le dico di no; non insista. Però una cosa gliela voglio dire: se lo sapesse, farebbe fatica a crederci. Possibilità? Non ci provi neanche a mettersi a correre, non ha via di scampo, padre. Lei è il mio punto finale. Addio, è stato un piacere.

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Granchi, di Paolo Colagrande

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Sedici racconti tra Italia e Cina, tradotti da Patrizia Liberati e Silvia Pozzi.
Gli insaziabili raccoglie i racconti di otto autori italiani e di otto autori cinesi intorno al doppio filo rosso rappresentato da eros e cibo: temi che riguardano in maniera viscerale e profonda due culture distanti geograficamente e storicamente, eppure piene di terreni fertili per un confronto, una conoscenza e un arricchimento reciproci ancora tutti da sondare e coltivare. Il libro, che esce in contemporanea in Italia e in Cina, è un gioco di specchi, di incastri, di visioni, di sguardi su due argomenti che sono agenti di scambio, strumenti di comunicazione e aggregazione, processi chimici regolati da rituali, modelli culturali, veicoli di senso, facilitatori interculturali - e vorrebbe avvicinare i lettori italiani alla Cina e i lettori cinesi all’Italia, smontando magari piú di un preconcetto e contribuendo ad accorciare le distanze grazie a quell’avventura senza patria che è la lettura.

Racconti di Milena Agus, Alessandro Bertante, Paolo Colagrande, Gabriele Di Fronzo, Giorgio Ghiotti, Ginevra Lamberti, Laura Pugno e Mirko Sabatino gli autori italiani.
A Yi, Ge Liang, Feng Tang, Lu Min, Shu Qiao, Wen Zhen, Zhang Chu e Zhang Yueran gli autori cinesi.

Cattedrale propone un’anticipazione del libro, che sarà in libreria dal 7 Febbraio 2019, con il racconto di Paolo Colagrande, per gentile concessione dell’’editore.

*

GRANCHI
di Paolo Colagrande

 

Esistono sincerità talmente confuse
che sono peggiori delle menzogne.

Albert Camus


Cosa succede nel temperamento delle persone che respirano – dice Liverio Lamonaca – non ci è mai stato spiegato con franchezza e trasparenza, perché dentro questi meccanismi c’è un calcolo traditore: non ce ne accorgiamo perché siamo un po’ pigri e un po’ stupidi, ci fidiamo dell’organismo, che ci è nemico, e della scienza, che è complice dell’organismo. Ogni respiro è un colpo di martello sulla pietra: e tutti noi, che una volta eravamo pietre rispettabili, adesso somigliamo a delle brutte statue, a delle colonne storte, o a delle lastre da cimitero.

Liverio Lamonaca abita a Bruglio di Brembio, dove l’aria è ricca di ammonio, cadmio, stibio e berillio che agiscono sull’area corticale del cervello provocando avarie nei sistemi di trasmissione e un intorbidamento del cosiddetto dominio analitico. Non mi sto inventando niente, a parte qualche parola strumentale: ci sono ricerche americane localizzate sia nell’area geografica, Bruglio di Brembio, sia nell’area del cervello che presiede al dominio analitico, l’emisfero sinistro, partendo da quello di Liverio Lamonaca.

L’emisfero sinistro è nato di recente. Prima c’era solo l’emisfero destro, che serviva a riconoscere la cosiddetta realtà e a distinguere, poniamo, un albero da un fosso; se l’albero era vicino al fosso e, per ipotesi, nel fosso c’era l’acqua, dove nuotava poniamo un pesce, l’emisfero sinistro registrava i fatti senza entrare nel merito di possibili attinenze. L’uomo è rimasto cosí per molto tempo, fra alberi, fossi, acqua, pesci e tutto un corredo involontario che lui intercettava in modo formalistico e scisso, con quel solo emisfero che ai tempi era tutto l’apparato cerebrale, quindi lo stiamo chiamando emisfero impropriamente, per comodità.
L’emisfero sinistro arriva dopo, con la cosiddetta istanza critica che pretende un cambiamento di visuale per capire per esempio se le ragioni dell’esistenza dell’albero e del pesce sono collegate alle proprietà dell’acqua tramite il fosso che la contiene: è il primo passo nel percorso della mente verso gli abissi spaziotemporali dell’unità e del molteplice. Ma ci son voluti milioni di anni per scoprirlo, perché la scienza non è un ente avulso ma è figlia di quella stessa stirpe di uomini che all’inizio vedeva l’albero, il fosso, l’acqua e il pesce senza progettualità; l’ominide poteva magari fare una stima grezza di continenza o stretta contiguità o bassa cronologia, nel senso che l’acqua, contenente il pesce e contenuta nel fosso la cui visuale era coperta dall’albero, diventava evidenza fisica solo quando l’ominide cadeva nel fosso, dove poteva bere o catturare il pesce oppure annegare, o tutte e tre le cose in successione.
Bisognava che l’emisfero sinistro non solo prendesse posto legittimo nel cervello ma fosse anche capace di sviluppare un pensiero prodromico alla sua stessa scoperta, se è chiaro il ragionamento e se non spaventa la parola prodromico.

 Gli scienziati americani prevedono che il territorio di Bruglio di Brembio, ipotizzando un radicamento di stirpi omogenee in una stabile identità etnica, sarà interessato a una compressione degli emisferi sinistri, preceduta da una fase di rilassamento dei tessuti neurocerebrali e di infiacchimento dei corpi callosi che potrebbe realizzarsi già nel secolo corrente facilitando la spinta espansionistica dell’emisfero destro fino a sgominare l’altro, non per ucciderlo ma per ridurlo in schiavitú o in confusione, entro il secolo prossimo.

Ma torniamo al respiro. La teoria di Liverio Lamonaca viene da lontano, possiamo situarla in un’epoca compresa fra la Wirtschaftswunder e la crisi petrolifera, quando chi abitava a Bruglio di Brembio oppure ci passava per caso poteva incontrare verso l’ora di pranzo vicino alla ferrovia uno scolaro di età fra gli otto e i dodici anni che tornava a casa col passo in cantilena e lo sguardo nei misteri eterni. A dir la verità, un po’ tutti a Bruglio di Brembio camminavano cosí, per l’interazione sinergica di ammonio, cadmio, stibio e berillio che corrompe le posture e offusca i sentimenti. Ma in quello scolaro si agitava qualcosa di piú pervasivo e verrebbe da dire anche escatologico: diciamo, in parole povere, che il suo passo e il suo sguardo descrivevano
la scabra pesantezza della morte. Lo scolaro era Liverio Lamonaca, potevo avanzare di dirlo ma bisogna rispettare i ritmi del climax. E camminava vicino alla ferrovia perché abitava lí, con suo padre e sua madre, anche questo era implicito ma non costa niente specificarlo. Riguardo alle ricerche, fatte molti anni dopo, la condizione di Liverio Lamonaca è riassunta in una frase: inibizione dell’enzima motivazionale.

Cosa sia l’enzima motivazionale è una domanda ragionevole la cui risposta può ricavarsi dal contesto o per approssimazione: quindi manterrei la formula nella sua bellezza metrica senza altre spiegazioni. Diciamo che già in età infantile Liverio Lamonaca aveva il senso della catastrofe universale, una categoria sconosciuta all’ominide ma che nell’uomo moderno segna il discrimine fra la crescita somatica e l’assestamento del soggetto adulto in una onesta dimensione intellettuale. L’enzima motivazionale si esaurisce con la cosiddetta maturità avanzata che non coincide necessariamente con l’invecchiamento perché l’età è solo una componente, diciamo che si può anche morire in tarda vecchiaia con l’enzima attivo.
L’emisfero sinistro di Lamonaca, carente di enzima motivazionale fin dalla nascita, intercettava solo segni funesti e stimoli tragici verso derive rovinose. Per esempio, le ore passate a scuola, che allo scolaro medio con normale corredo di emisferi ed enzimi danno un generico malessere, a Liverio provocavano avvilimento e strazio, sfiducia nell’esistenza, fusi in una sintesi chimica che cresceva nell’organismo come la muffa e i parassiti. Gli insegnanti brugliesi non se ne accorgevano, o forse non davano peso al problema perché del resto anche loro erano esposti agli stessi agenti ambientali, magari con tempi di aggressione piú lenti per ragioni di età e di metabolismo consolidato (l’ingresso in atmosfera di ammonio, cadmio, stibio e berillio viene fatto risalire a un’epoca compresa fra la teiera di Russell e lo sviluppo dell’industria pesante).
La condizione di Liverio trovava diciamo un contrappeso nell’alimentazione, perché, come è stato spiegato, l’inibizione dell’enzima motivazionale provoca indebolimento di un ormone situato nel cromosoma 7 che chiameremo per comodità Ivan e che controlla l’appetito: il blocco di Ivan libera un enzima antagonista, quello della fame, che chiameremo per comodità Vladimir, la cui iperattività produce stimolazione dell’ipotalamo con frustrazione dei meccanismi della sazietà. Sono meccanismi sofisticati del meraviglioso corpo umano spiegati dai ricercatori per dire che per effetto dell’enzima Vladimir che spadroneggiava indisturbato, il corpo già ridondante di Liverio cresceva sproporzionatamente al fabbisogno.
Raggiunti i centoquaranta chili a diciotto anni, di fronte al declino di se stesso come proiezione del declino di un mondo in corsa verso la catastrofe universale, Liverio Lamonaca aveva elaborato la teoria del respiro inteso come azione ripetitiva cronica senza uno scopo se non quello di accompagnare l’uomo all’estinzione. La scienza – per sintetizzare il suo pensiero – ti fa credere che questo movimento sia vitale e benefico, invece è un processo biochimico obbligatorio: l’uomo è impotente davanti all’inevitabilità del respiro, e già da qui si svela l’impostura tirannica dell’organismo che poteva essere inventato senza questo dispositivo traditore che con una mano ti toglie i pezzi e con l’altra ti dà la lusinga dell’infinità come una specie di dono prometeico.
Una conferma della teoria si troverebbe nei testi dei poeti dove il respiro è quasi sempre collegato alla morte, quando ad esempio il poeta, per spiegare che un uomo muore, dice che esala l’ultimo respiro o l’estremo sospiro, o, piú esplicitamente, quel mortal sospiro che rende gli uomini siccome immobili. Il discorso vale anche per il respiro dei narratori liricamente orientati che è sempre collegato a derive cimiteriali o contesti ospedalieri terminali; per non parlare del respiro intriso di luttuoso pessimismo del cantautore poliedrico che dice: tu sei il respiro che mi toglie ancora il fiato. E siccome la poesia è evocazione simbolica delle forze madri del cosmo, il cerchio si chiude qui.

Il dono prometeico mi son permesso di aggiungerlo io, insieme alla lusinga dell’infinità e alla dispnea del cantautore. Ma il concetto di base è di Liverio Lamonaca, non ho toccato niente.

Va detto, per non cadere in equivoco, che non c’è nesso tra la condizione mentale del Lamonaca e il suo stato fisico, cioè non stiamo parlando di un temperamento depresso entrato nella spirale bulimica compulsiva che dilata e deturpa il corpo e fomenta il disprezzo per sé portando all’autoemarginazione che è poi l’anticamera di quella forma di misantropia strategica che serve a incolpare il prossimo, e in generale il mondo, di quel che si è. In Liverio tutto questo non c’era: né depressione né misantropia strategica, niente. Anzi, almeno fino a un certo punto Liverio aveva mantenuto un livello accettabile di socialità e un tasso di autostima diciamo nella norma, che forse non teneva abbastanza conto della sua notevole forza fisica, e questo è un particolare importante perché di solito l’obesità deprime la forza fisica, e la forza fisica innalza l’autostima. È dimostrato che a vent’anni Liverio riusciva a tener sollevata per sette secondi la Wartburg giardinetta a miscela di suo padre, tenendola dal paraurti davanti con conducente a bordo; e a tirare un sasso a trecentocinquanta metri centrando la finestra di camera sua; e a spezzare il dente di un ranghinatore con le nude mani, con scintille. Se fosse un altro effetto di scompensi enzimatici o fattori ambientali o di tutti e due non si sa. Si è solo affacciata l’ipotesi che ad alimentare questa forza contribuissero certi alimenti, come la vigonza rossa brembiana, le cui componenti, agendo all’interno di un metabolismo incongruo, scatenavano l’ormone della crescita che a sua volta incamerava parte del sovraccarico energetico da destinare alla rigenerazione delle cellule, quindi alla costruzione di muscoli e ossa, il resto, cioè la residua sovrabbondanza, si corrompeva nel grasso corporeo. Torneremo sulla vigonza rossa brembiana, non subito perché c’è carne al fuoco e il discorso va organizzato.

Quello che piú interessa è che Liverio Lamonaca a un certo punto della vita che coincide con la maturità conseguita al liceo di Bruglio di Brembio e, per meglio storicizzare, con l’atterraggio della sonda americana Viking Lander sul pianeta rosso, si era convinto della valenza mortifera del respiro, frutto di un complotto superiore di cui non si conoscono gli scopi, e aveva elaborato una strategia eversiva che consisteva nel respirare il meno possibile, nel senso di mantenere il ritmo aerobico alla soglia base ed evitare situazioni di stress o stati di affanno che lo accelerassero. Detto piú in sintesi, Liverio aveva scelto la quiete del corpo e dei sentimenti come sistema di sopravvivenza e come atto di sfida all’organismo traditore governato dal respiro che a ogni passaggio gli martellava via un pezzo. Questa decisione segna lo snodo articolare della vita di Liverio, se si può dire snodo articolare, perché limitare il respiro è una scelta estrema che comporta rinunce, privazioni, come per esempio il lavoro, o i rapporti sociali che vanno oltre i convenevoli meccanici, ma anche certi svaghi con ripercussioni emotive, tipo leggere il giornale, ascoltar la radio; perfino guardare la televisione, per via di una complessa interazione fra sistemi nervosi centrale e periferico che poteva avere contraccolpi sulla frequenza respiratoria. La scelta di Liverio, favorita dall’iscrizione all’università che consentiva per cosí dire la stasi della mente, escludeva anche le dimostrazioni di forza fisica, che a dir la verità lui faceva malvolentieri: erano gli altri a chiedergliele, a portargli poniamo un dente di ranghinatore da piegare a metà, un sasso da tirare su una finestra a trecentocinquanta metri, o a chiedergli di sollevare la Wartburg, facendo a gara per sedersi alla guida intanto che lui sollevava. Ci si divertiva cosí, a Bruglio di Brembio.

Anche nei rapporti sociali Liverio aveva fatto una selezione rigida, salvando alla fine solo Brennero Trenazzi, detto Patrimonio, cicloriparatore analogico ipoacusico.
Brennero Trenazzi era sposato con Agnese da cui aveva avuto quattro figlie, tutte piuttosto belle, ed era anche nonno perché l’ultima, Silvana, di sedici anni, aveva avuto anche lei un figlio da un signore di cui mancavano notizie precise. Liverio Lamonaca le avrebbe anche guardate volentieri, soprattutto l’Afra, la piú grande, ma il progetto di risparmio aerobico non permetteva certe distrazioni. D’altra parte era raro che le figlie di Brennero incrociassero Liverio, sia perché non incontrava i loro gusti, sia perché non entravano mai in bottega, dove Liverio passava tutti i pomeriggi seduto su una seggiola da barbiere a guardar Brennero riparar le biciclette e ascoltarlo mentre raccontava passi mitologici della sua vita con trame sempre diverse e senza colpi di scena che avrebbero disturbato gli equilibri respiratori dell’ascolto. In questi pomeriggi Liverio si alzava dalla seggiola solo due volte, per far entrare il cane di Brennero, Devid, quando grattava la porta fuori, e per farlo uscire, quando grattava la porta dentro; lo faceva non per spirito di servizio ma per evitare il disagio neurofisiologico del grattare di Devid, che poteva andare avanti dei quarti d’ora senza che Brennero lo sentisse, perché era ipoacusico. La seggiola da barbiere era stata messa vicino alla porta per ridurre al minimo lo sforzo.

Brennero Trenazzi, volendo spendere altre due parole, veniva chiamato Patrimonio perché patrimonio era la parola piú usata nei suoi discorsi. Per esempio il cane Devid era stato stimato un patrimonio da esperti forestieri che tutti i giorni gli offrivano un patrimonio di soldi per comprarlo ma lui rifiutava perché il patrimonio messo via per la vecchiaia era di tale entità da generare spontaneamente altri patrimoni, senza bisogno di incrementarlo. Anche il motocarro Ercole valeva un patrimonio perché prodotto in poche unità, e il padre del nipotino era un ingegnere che girava in America e in Russia a progettare fiumi, laghi, mari guadagnando patrimoni. Diciamo, per sintetizzare, che ogni cosa in natura che per qualsiasi motivo entrava nella sfera personale di Brennero diventava automaticamente un patrimonio: dal cacciavite multiplo al compressore, alla protesi auricolare, alla sedia da barbiere dove si sedeva Liverio Lamonaca, fino a certi amici e parenti che nessuno aveva mai visto ma che erano tutti titolari di patrimoni. Brennero era alto un metro e quaranta, aveva una faccia che sembrava scampata per miracolo a una disgrazia ed era, oltre che ipoacusico, strabico in posizione sulle dieci e venti ma col colorito brillante per via del bottiglione sempre a misura di mano.
L’Agnese non era del posto, faceva parte di una fornitura da dieci unità arrivate dall’Abruzzo Citeriore su un om ex-militare guidato da un impresario che importava le mogli destinate a uomini poco ottimisti sul fatto di trovarne col proprio bagaglio seduttivo; in un anno aveva fatto una ventina di giri e ne aveva riportate indietro pochissime. Passato l’anno non si era piú visto. All’Agnese era toccato Brennero.
Questa storia, che ho appena raccontato con beata leggerezza ma che a pensarci fa venire le ortiche alla schiena, Brennero non la raccontava. Diceva solo che l’Agnese valeva un patrimonio, ma non si riferiva al prezzo di compravendita. A vederli bene uno per volta, l’Agnese e Brennero, era poi difficile pensarli uniti, in senso spirituale e in senso piú tecnico, nel fermento del commercio procreativo. Il fatto che nessuna delle figlie somigliasse a Brennero, a parte i capelli rossi ma li aveva rossi anche l’Agnese, suscitava molte chiacchiere, quel tipo di chiacchiere dove però abita una componente moderata di invidia, dico moderata perché a Bruglio di Brembio era tutto di livello moderato. Quando giravano tutti insieme per il paese sul motocarro Ercole, la chiacchiera tornava sempre a strisciare: guarda là, dicevano, Patrimonio con le bambole e il bastardino, ma era solo moderata invidia perché quello che in realtà si vedeva a occhio nudo era una famiglia felice: Brennero al manubrio dell’Ercole con ferma padronanza, l’Agnese vicino a lui col nipotino in braccio, le quattro figlie nel cassone dietro.
Sono voluto entrare nell’intimità di Brennero Trenazzi per far capire quello che c’era intorno alla bottega di cicloriparazioni dove Liverio Lamonaca passava tutti i pomeriggi a sopravvivere nella quiete economica del corpo e dei sentimenti.

A livello di dinamica dei sistemi, la figura di Liverio Lamonaca in questa fase della vita si può descrivere come una fusione grezza di inerzia e gravità non sottoposta a perturbamenti: si svegliava la mattina alle dieci, faceva una colazione energetica, andava in bagno dove restava una cinquantina di minuti, ritornava in camera a vestirsi e poi ricoricarsi sul letto per guardare a distanza i libri dell’università in piedi su una mensola che gli aveva montato il babbo. A mezzogiorno si sedeva a tavola dove sua mamma gli serviva tre portate comode oltre a un contorno ricco di vigonza rossa, una micca di pane, un bicchiere di Santamedeo, il caffè con lo zucchero; poi chiudeva gli occhi per mezz’ora e quando li riapriva andava da Trenazzi, a dodici passi contati, dove rimaneva fin verso le sette; tornava a casa, cenava con tre portate comode piú vigonza rossa, pane, Santamedeo e caffè, andava in camera e dormiva il sonno del giusto. Ho saltato pochi passaggi di collegamento.
È andato avanti cosí per quattro o cinque anni, un periodo che possiamo definire felice ma piú che altro stabile e pacifico perché chi insegue una causa giusta è poi in pace con se stesso, e quindi col mondo. In questo stato di pace Liverio aveva messo a regime il senso di catastrofe universale concentrandosi sulla campagna contro l’impostura tirannica dell’organismo e lo strapotere dell’enzima Vladimir che comunque spadroneggiava dissoluto grazie all’inibizione dell’ormone Ivan.

Fino a quel determinato giorno che sul calendario si colloca in un medio autunno ancora fiorito, ma si tratta di coloriture inappropriate all’ecosistema di Bruglio di Brembio dove l’interazione sinergica di ammonio, cadmio, stibio e berillio determina una specie di afasia o disfasia stagionale che scompagina le rotazioni.
In questo specifico giorno di uno specifico anno meglio storicizzabile con la sconfitta del virus del vaiolo e il trionfo della Cecoslovacchia agli Europei, a un’ora che con approssimazione possiamo indicare fra le due e mezza e le tre di pomeriggio, con in gola ancora un riverbero gentile di vigonza rossa, Liverio Lamonaca entra nella bottega di Brennero Trenazzi.
Ma non trova lui. Trova l’Agnese.

La presenza dell’Agnese non avrebbe in sé niente di sospetto, a parte il fatto che non entrava mai nella bottega di cicloriparazioni e infatti in quegli anni Liverio l’aveva vista tre volte in tutto, a esagerare, e solo per passaggi fuggevoli. Quello che non si spiegava era l’assenza di Brennero che, tolte le domeniche e i festivi, per il resto viveva in bottega, dove l’Agnese gli portava la marmitta del pranzo e della cena col bottiglione di scorta. A casa ci tornava per dormire.

Nelle dinamiche della natura – apro questa parentesi funzionale ma la chiudo subito – c’è un movimento di contingenze libere che si sovrappongono e si scontrano, oppure si scansano, ed è poi su di loro che si misura la storia coi suoi fatti e i suoi complici e le sue creature imbarazzate semoventi, e la disperazione che costituisce il suo legante plastico insieme a una casualità mistificatrice che ogni volta ci dice: te l’avevo detto, come dire che è inutile piantar dei pali e montar dei programmi o anche far degli auguri a Natale e Pasqua o se li fai è per aspettarti o sperar qualcos’altro, secondo una legge naturale per cui quel che hai deciso tu non va bene, che è poi la parafrasi del pensiero di quel filosofo simpatico che diceva: è bene che ciò che gli uomini si augurano non avvenga. Non so piú da dove son partito ma mi sembra un bel modo di chiudere una parentesi.
Per dire che di questo aggregato di contingenze libere noi cogliamo spesso sintomi per cosí dire infinitesimi, istantanei, dove gli abbinamenti si confondono e si scambiano: i suoni si sentono col tatto, i sapori con l’udito e i colori con l’odorato. E infatti, nel caso che ci interessa, Liverio Lamonaca entrando nella bottega aveva avuto la sensazione di un punto di rottura a colpo d’occhio.

La Agnese era girata di spalle e chinata in avanti a cercare qualcosa in una scatola con pezzi di scarto tipo una boccola, la maniglia di un freno, il coperchio di un campanello, ma anche, poniamo, un filtro da caffettiera, un morsetto da bretella. In tutti i luoghi umani c’è una scatola cosí, piena di oggetti di risulta, che diventa una miniera dove non trovi quasi mai quello che cerchi ma qualcos’altro che condivide lo stesso principio sostanziale. Può anche capitare che trovi quello che ti interessa, ma è raro. L’Agnese stava cercando un cavatappi, cosa che si è potuta capire dopo qualche minuto di ricerca quando si è girata in direzione della porta con in mano un tirabuso a cremagliera, e passando davanti a Liverio gli ha detto: Oggi Brennero non c’è. Il fatto potrebbe finir qui, senza nessun interesse, a parte il reperimento del tirabuso.

Ma bisogna fare un passo indietro, al momento in cui Liverio, entrando nella bottega, ha avuto la sensazione a colpo d’occhio di un punto di rottura. Si tratta di sentori istantanei, come ho detto, ai confini del pensiero conscio, dove intravedi quello che ancora deve succedere e che succederà, ma che nella nostra misura del tempo non riuscirebbe a star dentro un’ora o un giorno.
Ad ogni modo, finito l’istante denso e magmatico, Liverio era rimasto a guardare l’Agnese girata di spalle con quel tipo di meraviglia che è difficile spiegare, come quando vedi qualcosa di diverso liberarsi dal panorama coatto di tutti i giorni, o come quando scansi la tenda e vedi nevicare e non ti ricordi piú che tempo faceva prima. E il respiro che fino a quel momento era docile e lento aveva cominciato ad accelerare senza rispetto per gli equilibri aerobici di Liverio Lamonaca che però non faceva niente per rimetterli in prudenza anzi, rimaneva lí fisso a far correre gli occhi su e giú fra la testa e le caviglie dell’Agnese con pause intermedie e una panoramica di contorno affollata di camionate di donne dall’Abruzzo Citeriore, amori clandestini, figlie non somiglianti ai padri eccetera, cose che di regola non gli interessavano ma che ora prendevano una loro quadratura, o forse è piú preciso dire che si mettevano in colonna come dei numeri. E quando l’Agnese gli era passata molto vicino anzi adiacente col tirabuso a cremagliera in mano e gli aveva detto: Oggi Brennero non c’è, con anche una specie di sorriso, Liverio aveva tirato la riga sotto la colonna e aveva deciso improvvisamente che si poteva aprire una parentesi. Perché la natura umana è oscura ed ermetica, e il cervello non tiene mai una rotta rigida.

I ricercatori americani dicono che queste virate repentine dipendono dai flussi del tono edonico e dalla cosiddetta codifica del piacere, dove entrano in gioco delle variabili situate nelle regioni della corteccia orbitofrontale, dove riemergono schemi affettivi atavici o astratti.
La corteccia orbitofrontale di Liverio, nell’itinerario visuale fra i capelli e le caviglie dell’Agnese con tutti i passaggi morbidi intermedi, aveva fatto impennare il tono edonico dando impulso al neurone che per tramite di certi neurotrasmettitori un po’ cinici gli aveva guidato la mano. Non bisogna però credere che sia stato un gesto involontario, è giusto precisarlo perché a star dietro a questo ragionamento sembra che tutto sia successo a sua insaputa. Il movimento della mano era volontario e deliberato, frutto di una stima che partiva dalla camionata dall’Abruzzo Citeriore, dal sospetto di infedeltà, dalla situazione contingente di intimità, fino all’assenza tattica di Brennero e al sorriso che garantiva l’esattezza del calcolo; e in questo processo di codifica, anche il tirabuso a cremagliera poteva rivendicare un ruolo o una simbologia.
E l’Agnese aveva risposto, tempestiva e precisa.
Aveva delle mani grandi e delle braccia fiorenti, l’Agnese, come le donne dell’Abruzzo Citeriore, e forse Brennero gliel’aveva anche detto, chissà, ma si vede che non era stato attento.

Nella memoria di Liverio le fasi a seguire restano confuse. Ricorda nitidamente la sua mano correre verso imprecisate zone palpabili ma non ricorda se poi la mano era arrivata a segno, e soprattutto non ricorda la badilata di ritorno dell’Agnese che in una plausibile ricostruzione cinematica avrebbe attinto la faccia di Liverio quasi simultaneamente al gesto intrepido, producendo sulla persona intera lo stesso moto parabolico della catapulta o del trabucco. Stiam parlando della persona intera di Liverio Lamonaca, mica di un ballerino, quindi la ricostruzione può sembrare esagerata. Ma sono leggi fisiche, non si sa cosa dire. La metafora del trabucco è mia.

Mettendo in ordine i pezzi della storia, è poi risultato che Brennero Trenazzi non era al lavoro per un improvviso imbarazzo di stomaco da granchi fluminari; che la ricerca del cavatappi nella cassetta era dettata dall’urgenza di stappare il pistone che serviva a medicamento dell’imbarazzo; che l’Agnese era passata effettivamente molto vicino a Liverio ma solo perché Liverio ingombrava la porta e lei doveva uscire; che nel passare vicino a Liverio per superarne l’ingombro non aveva fatto sorrisi, aveva solo chiesto permesso una volta poi un’altra volta; che alla terza volta Liverio invece di spostarsi aveva allungato la mano sulle imprecisate parti palpabili.

Ad ogni modo Liverio aveva riaperto gli occhi sul soffitto della bottega e sulle facce desolate dell’Agnese e dell’Afra chinate su di lui a fargli delle domande che lui non capiva, cioè capiva che erano domande ma non capiva il lessico e comunque non riusciva a parlare. Era stato poi sollevato e messo sulla seggiola da barbiere mentre l’Afra gli portava una bottiglia pare di Fernet che gli aveva fatto ritrovare la percezione del corpo insieme a un dolore caldo nella parte sinistra della faccia e a un subbuglio di formiche dentro la testa.

Dire che il fatto rappresenti un punto di rottura nella vita di Liverio, sarebbe esagerato, piú appropriato parlare di una svolta. Le svolte possono anche seguire un percorso progressivo, per fasi. Quindi, per dar la giusta curvatura al ragionamento, possiamo dire che l’episodio rappresenta l’iniziazione sessuale di Liverio Lamonaca e al tempo stesso la prima fase di quello che i ricercatori chiamano deviamento dall’irreversibilità. Cosa voglia dire deviamento dall’irreversibilità è un’altra domanda la cui risposta si può desumere dal contesto o per approssimazione, quindi è meglio lasciarla dov’è. Di questa fase delicata salterei l’inizio, con tutti i passaggi per cosí dire fattuali e fenomenici, per dire che Lamonaca, ferma restando l’opposizione intransigente allo strapotere tirannico e impostore dell’organismo, aveva cominciato a riflettere sul senso delle rinunce, soprattutto di quella specifica rinuncia che attiene alla sfera erotica, in senso lato e semplificando, dove la badilata dell’Agnese apriva a suo modo una visuale. Son pensieri che implicano un’introspezione invasiva e diciamo chirurgica, un’incursione negli abissi dell’io che, detto fra noi, è una manovra pericolosissima perché espone al rischio di entrare nel vortice pornografico della conoscenza di se stesso, cioè la cosa piú irresponsabile che possa fare una persona a modo. Le statistiche dicono che questo se stesso, che qualcuno vuol conoscere a tutti i costi, novanta volte su cento è un depravato, un malfattore che non merita amicizia né confidenze, meglio non conoscerlo, tenere le distanze da lui o tutt’al piú limitarsi a un rapporto formale, di pura cortesia. Insomma Liverio Lamonaca era entrato in questa specie di finto santuario dell’introspezione col rischio di far dei brutti incontri. Se poi negli abissi dell’io l’ha incontrato, se stesso, peggio per lui, non gliel’aveva mica ordinato il dottore di entrarci.
In linea di massima mi sentirei però di dire che non l’aveva incontrato, e mi viene anche da pensare che a Bruglio di Brembio è difficile che qualcuno lo incontri, e anche che si infili in certi abissi.

Ma chiunque abbia incontrato nel viaggio introspettivo, alla fine Lamonaca era arrivato a due conclusioni: la prima, che il demone che aveva guidato la mano verso le parti palpabili dell’Agnese non era giusto che sparisse cosí: bisognava parlargli, in contesto appropriato e con modalità diverse, magari senza l’Agnese; la seconda, che la ribellione contro le imposture dell’organismo tiranno era moralmente irrinunciabile e politicamente necessaria, ma era ora di prendersi una pausa. Unendo i due punti credo che si arrivi al deviamento dall’irreversibilità che dicevano i ricercatori.
Cominciando dal secondo, già a partire dal dopodomani rispetto al fatto (l’indomani era stato dedicato all’incursione introspettiva), Liverio sembrava aver cambiato le panoramiche. Era entrato puntuale nella bottega con la solita lentezza corporea ma con la faccia che comunicava concetti positivi e programmatici, come rendersi utile o ingrandire gli orizzonti; altro che aprire la porta al cane Devid. Interagire, interfacciare.
Brennero se n’era accorto subito, come di un odore cattivo che entra da fuori. Non che non gli piacesse parlare, anzi; diciamo che non gli piaceva parlare con qualcuno, non capiva il senso dello scambio, e di ascolto non era pratico. Che poi qualcuno volesse rendersi utile era un pericolo serio, non per sospetto di incompetenza, che comunque nel caso di Liverio ci stava, ma perché in bottega poteva lavorare solo Brennero: gli altri potevano entrare, guardare, sedersi, ascoltare se avevano voglia, mettersi a camminare: a lui non dava fastidio. Potevano frugare nella scatola degli scarti ed esaminare i pezzi, e questo magari gli faceva piacere perché ogni pezzo era un frammento mitologico. Ma rendersi utile era un’idea sfacciata, come pretendere di andare in chiesa per dir la messa.

Sul primo punto invece, quello relativo al comparto erotico, Liverio si era accorto che gli mancavano le basi, come per esempio trovare un’interlocutrice, chiamiamola cosí, e inventare qualcosa che incontrasse il suo interesse. Ma l’unico argomento su cui era forte, a parte il ciclo mitologico di Brennero Trenazzi, era la vigonza rossa brembiana, già nominata, di cui conosceva pregi e misteri, il gusto, la metafisica. Poteva spiegare tempi e metodi di semina e coltivazione, tecniche di avulsione, fitopatie e parassiti, concentrazione di sodio, potassio e azoto. La conoscenza veniva da generazioni di coltivatori nella stirpe, letture, sperimentazioni empiriche. Era un tema un po’ tecnico, di nicchia, ma del resto quando ci si appassiona a un argomento la conoscenza supera la competenza ed entra nella dimensione dell’eros; la passione guida la curiosità, come nelle scienze e nelle dinamiche sessuali. Ci si può affezionare poniamo ai coleotteri o alle statue funerarie cinesi o a generi piú spericolati come il cybersex o la critica letteraria. Quale sia il motore, chissà. Liverio era affezionato alla vigonza rossa. E aveva pensato di cominciare da lí.
Ma nell’universo di Bruglio di Brembio non c’era il gusto della conversazione sui temi alti: la metafisica, Dio, la genetica molecolare, la vigonza, niente. C’era una moderata quantità di possibili interlocutrici ma sul tema della vigonza il dialogo non decollava o non produceva le vibrazioni giuste. Del resto, l’isolamento nella bottega di Brennero aveva reso Liverio avulso dal contesto sociale e impreparato sui temi di tendenza, che erano distanti dalla vigonza rossa, e non c’era nessuno che lo aiutasse.
In questa condizione desolata si era fatto largo un nuovo senso di catastrofe, piú vivo e sanguinario perché non piú sublimato dalla lotta. Per un certo periodo la figura adulta di Liverio Lamonaca aveva ricominciato a camminare nei pressi della stazione con la scabra pesantezza della morte, ma chi passava di lí non lo vedeva neanche.

I ricercatori sostengono che l’ipotesi suicida non è sempre collegata alla disperazione, può esserci dietro l’urgenza di un’indagine estrema, di una ricerca oltre i calcoli e le causali, dove lo sperimentatore è tutt’uno con l’esperimento. Non si può escludere che nel cervello di Liverio Lamonaca si fosse fatta strada un’ideazione suicidaria e che in questa ideazione si muovesse proprio l’urgenza di capire i misteri dell’exitus e le sue dinamiche. O forse non c’era nessuna ideazione e stiam parlando alla rinfusa. Ma una cosa è sicura: nella pesantezza del suo camminare c’era qualcosa di piú del normale senso di catastrofe, qualcosa che attingeva alla memoria recente ed è facile capire dov’era il fuoco di questa memoria.
È un attimo raggiungere l’angolo di fragilità, dove il filo di ferro si spezza. A volte ci si passa senza accorgersene. Ma a volte è proprio lí, a un millimetro, che arriva la parola salvifica; e infatti a Liverio Lamonaca la parola è arrivata un millimetro prima.

Un particolare importante che non si è detto è che Brennero Trenazzi sapeva tutto. Nello stretto arco di tempo fra lo svenire e il rinvenire di Liverio, l’Agnese era riuscita a correre a casa, aprire il pistone col tirabuso a cremagliera, raccontare il fatto a Brennero e rientrare in bottega insieme all’Afra. Brennero aveva provato una sincera pena, senza gelosia né malanimo. Si era preoccupato di non averlo visto il giorno dopo in bottega, ma anche di piú quando l’aveva visto entrare il giorno dopo ancora con la faccia felice tipica di chi sta per ammazzarsi. E ci aveva pensato su a lungo.
Passato qualche giorno, nel silenzio della bottega cadenzato dal respiro di Devid, Brennero ha posato gli attrezzi, si è girato verso la seggiola da barbiere, ha guardato Liverio con un occhio in faccia e l’altro nelle verze, e gli ha detto la parola salvifica. Che era poi una frase:

 Il segreto è nei granchi.

Quando si dice granchi si intende granchi fluminari, e su questo non si discute: gli altri granchi, quelli di mare, sono fasulli, impostori. A Bruglio di Brembio i granchi vivono nei fossi all’ombra degli alberi, da almeno un milione di anni. Son carne ricca e prelibata, forse un po’ passata di tendenza: nessuno ne mangiava piú, a parte Brennero Trenazzi, fino all’evo nuovo, che comincia proprio da lí.
La stagione dei granchi coincide con la mezza stagione d’autunno, soprattutto nel microclima di Bruglio di Brembio, malgrado la sfasatura dei cambi e delle rotazioni. E in quel periodo Brennero si era sempre nutrito di granchi: di notte li pescava, di giorno li mangiava. Tutte e quattro le figlie erano state concepite nella stagione dei granchi e, facendo per bene i calcoli, anche il nipotino. Diciamo quindi che la stagione dei granchi era la stagione fertile di Brennero Trenazzi. Passata la stagione, gli stimoli si inabissavano in un letargo che valeva sia per Brennero sia per l’Agnese, i cui bioritmi erano fusi osmoticamente fin dal giorno della discesa dalla camionata. Si trattava di un letargo per cosí dire compensativo, perché nel periodo fertile veniva fatta la spunta su tutti i santi del lunario, o anche due o tre spunte ogni santo, e volendo tenere la contabilità di queste cose veniva fuori un numero importante, che mette la cosiddetta pietra tombale sulle chiacchiere della comunità.
Brennero non parlava mai di queste cose: ne ha parlato solo quella volta, ma senza riferimenti espliciti, per rispetto dell’Agnese. Ha nominato piú che altro i granchi, e sui granchi Brennero non tralignava, se si può usare il verbo tralignare.

Tu non fare niente, gli aveva detto Brennero: lascia fare. Il granchio è generoso.

Il granchio fluminario, per dare un’investitura scientifica al discorso, è dotato di un corpo esoscheletrico inospitale, pieno di chele e di piedi, poco adatto alla promiscuità e quindi, in teoria, all’accoppiamento. Ma la natura ha una visione pratica dei fenomeni viventi: dove non arriva il corpo in sé arrivano l’ingegno e la pazienza che, come dicono i filosofi, è ciò di cui il piacere è ricompensa, e in questa filosofia i granchi riescono a copulare come tutti gli altri, anzi meglio.
Se ci riesce il granchio ci riesci anche tu, gli aveva detto ancora Brennero. Come dire, cambiando visuale, che il granchio era un’allegoria di Liverio.

I ricercatori americani sostengono che un’alimentazione a base di granchi fluminari consente l’assorbimento di quella sostanza detta feromone ma che qui chiameremo Dimitri, per comodità. Dimitri è la molecola che una volta intercettata olfattivamente crea l’interesse sessuale reciproco fra creature omogenee, senza bisogno di espedienti e forzature intellettualistiche che da secoli deprimono gli uomini per colpa di un rapporto irrisolto fra emisferi, enzimi, ormoni eccetera. Quello che diceva Brennero è, quindi, quello che da sempre dice la natura mentre sparge la molecola Dimitri: non fare niente, lascia fare.
Liverio gli ha dato retta e adesso siam qui a parlarne facendo un bel salto di anni.

C’era una bella fetta di paese, al funerale di Brennero Trenazzi: curiosi, indifferenti, pettegoli. E, al di sopra dell’incolmabile estensione dell’etere dove dimorano gli dei, c’era anche lui, a godersi lo spettacolo e a raccontarlo a un patrimonio di anime, per i secoli dei secoli.
Quello stesso giorno, ma è stato solo un caso, sono arrivati gli americani e sono ancora lí adesso. Hanno macchine portentose fantastiche, motori mobili e motori immobili, cannocchiali psicodinamici che guardano dentro gli uomini che respirano: vedono gli umori, le malinconie, i colori e le ingegnerie degli emisferi. Hanno corpi volanti di acciaio magnesio e tungsteno che aspirano e sputano l’aria delle stagioni. Hanno strumenti striscianti pornografi che spiano la flora spenta e la fauna pigra, e anche le biografie, come quella di Liverio Lamonaca. Il granchio fluminario, servito in tavola su letto di vigonza rossa brembiana, ora è conosciuto in tutto il mondo, grazie a loro: ne parlano gli esperti di tutti i rami.

Ci ripensa spesso, Liverio, alle parole salvifiche di Brennero. Ci ha pensato con le lacrime agli occhi il giorno del matrimonio in municipio, e poi quando son nati i figli, uno a uno, cinque di numero in cinque anni, tutti rossi e nessuno che gli somiglia.

Oggi, in apertura di stagione, Liverio firma come tutti gli anni una tregua con l’organismo e col respiro, è solo tregua perché la guerra è sempre aperta e non finirà mai.
Tutte le mattine saluta l’Afra e i bambini, esce, cammina nei ritmi della soglia minima, apre la bottega. Ma prima di cominciare il lavoro si gira e guarda ancora in strada il vivaio di uomini e donne di tutte le età. Lo fa tutti i giorni. Ha smesso di cercare le ragioni del tradimento che striscia dentro i loro corpi:

li guarda e basta, oggi piú martellati di ieri, tante pietre martellate ogni giorno, chi assomiglia a una brutta statua, chi a una colonna storta, chi a una pietra da cimitero. Poi entra e chiude la porta.

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Grace Paley, un racconto

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Edizioni Sur propone i quarantacinque racconti che rappresentano l’intera opera narrativa di Grace Paley: un corpus a prima vista esiguo ma di enorme rilevanza, che la consegna alla storia della letteratura come una maestra della short story americana del Novecento. Il libro sarà in libreria il 22 Novembre 2018. La traduzione è di Isabella Zani.

Cattedrale propone uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.


VIVERE
Enormi cambiamenti all’ultimo minuto (1974)

Due settimane prima di Natale Ellen mi chiamò e mi disse: «Faith, sto morendo». Quella settimana stavo morendo anch’io. Dopo averle parlato mi sentii peggio. Lasciai soli i bambini e corsi giù all’angolo per bermi una cosa al volo tra creature vive. Ma Julie’s e tutti gli altri bar erano pieni di uomini e donne che buttavano giù un whisky caldo e se ne andavano in fretta a far l’amore. La gente ha bisogno di farsi forza prima degli atti della vita. Allora mi feci un rosso californiano qualunque a casa e pensai – perché no – che ovunque ti giri c’è qualcuno che grida datemi la libertà o io vi darò la morte. Ci sono vicini pieni di buonsenso, proprietari di cose, timorati di chiesa, che si mettono le mani sulle orecchie al fischio di una sirena per impedire che le ripercussioni gli danneggino gli organi interni. Bisogna essere strabici per amare, e ciechi per mettersi a guardare fuori dalla finestra la propria via fredda come il ghiaccio. Io stavo morendo davvero. Sanguinavo. Il dottore aveva detto: «Non puoi sanguinare per sempre. O finisci il sangue o smetti. Nessuno sanguina per sempre». E invece sembrava che io avrei sanguinato per sempre. Quando Ellen mi chiamò per dirmi che stava morendo, le dissi limpidamente: «Ti prego! Anch’io sto morendo, Ellen». Allora lei disse: «Oh, Faithy, non lo sapevo». E proseguì: «Faith, come facciamo? Coi bambini. Chi ci baderà? Ho troppa paura a pensarci». Avevo paura anch’io, ma volevo solo che i bambini stessero fuori dal bagno. Non mi preoccupavo per loro. Mi preoccupavo per me. Erano chiassosi. Tornavano a casa da scuola troppo presto. Facevano un macello assurdo. «Mi restano un paio di mesi al massimo», riprese Ellen. «Dice il dottore che non ha mai visto nessuno con così poca voglia di vivere. Pensa che non ho voglia di vivere. Invece io ce l’ho, Faithy, ce l’ho. È solo che ho paura». Io riuscivo a stento a togliermi dalla testa quel sangue. La fretta con cui voleva andarsene da me mi drenava il rosso da sotto le palpebre e la scottatura dalle guance. Mi saliva tutto dai piedi gelati per trovare l’uscita più rapida. «La vita non è poi ’sto granché, Ellen», dissi. «Abbiamo avuto solo giornate da schifo e uomini da schifo e niente soldi e sempre al verde e scarafaggi e niente da fare la domenica se non portare i bambini a Central Park e remare su quel laghetto lurido. Che c’è di tanto bello, Ellen? Dov’è ’sta gran perdita? Vivi un altro paio d’anni. Vedrai i bambini e tutto questo schifo di posto, tutti i buchi in questo groviera di mondo inceneriti dall’onda di calore delle bombe atomiche...»
«Voglio vedere tutto», disse Ellen. Io sentii un grosso grumo che faceva la sua vertiginosa uscita. «Non posso parlare», dissi. «Sto svenendo». Verso la stagione dell’agrifoglio cominciai ad asciugarmi. Mia sorella si prese i bambini per un po’ così io potevo stare a casa tranquilla a fabbricare emoglobina, globuli rossi eccetera senza interruzioni. A Capodanno ero in forma così smagliante che per poco non mi faccio rimettere incinta. I miei maschietti tornarono a casa. Erano alti e bellissimi. Tre settimane dopo Natale Ellen morì. Al suo funerale, in quella bella chiesetta sulla Bowery, suo figlio si prese un minuto di pausa dal pianto per dirmi: «Non preoccuparti, Faith, la mamma si è accertata di tutto. Mi ha sistemato dal posto di lavoro. È venuto quel signore a dirmelo». «Ah. Ma non è meglio che ti adotto comunque?», domandai, chiedendomi, se lui avesse detto sì, dove avrei trovato i soldi, la stanza, altri dieci minuti di buonanotti. Era un po’ più grandicello dei miei figli. Presto avrebbe avuto bisogno di una buona enciclopedia e di un piccolo chimico. «Ascolta, Billy, dimmi la verità: che faccio, ti adotto?» Lui smise del tutto di piangere. «Ma dai, grazie. Comunque no. Ho uno zio a Springfield. Vado da lui. Andrà tutto bene. È in campagna. Ci sono anche dei cugini». «Bene», dissi io, sollevata. «Ti voglio tanto bene, Billy. Sei meraviglioso. Ellen è senz’altro fierissima di te». Lui fece un passo indietro e disse: «Non è più niente di nessuno, Faith». Poi se ne andò a Springfield. Non credo che lo rivedrò mai. Spesso però avrei voglia di parlare con Ellen, insieme alla quale, tutto sommato, in questi anni privati e spaventosi ho fatto un milione di cose. Abbiamo portato i bambini su ogni stramaledetto sasso di Central Park. La domenica di Pasqua appiccicavamo colombe bianche su manifesti azzurri e pregavamo sull’Ottava Strada per la pace. Poi eravamo stanche e urlavamo coi bambini. Erano ancora piccoli. Per ridere ci siamo spillate le loro tutine da sci alle gonne e in un furore di schiavitù abbiamo marciato ogni sabato per settimane sui ponti che collegano Manhattan al resto del mondo. Abbiamo condiviso appartamenti, lavori e stalloni spocchiosi. E poi, due settimane prima dell’ultimo Natale, stavamo morendo.


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Frankie, dracula e il lupo mannaro, di William Meikle

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Dal 21 Settembre è in libreria Lavoro sporco, Mucho Mojo Club pubblicato da Casa Sirio. Otto maestri della crime fiction spalancano le porte della loro scrittura e celebrano il Mojo che si affaccia in ognuno di noi. 

Cattedrale vi propone il racconto di Willie Meikle per la traduzione di Martino Ferrario.



Frankie, dracula e il lupo mannaro
di Willie Meikle



- Cos’è, uno scherzo? - disse il barista del Mucho Mojo. Lasciai fosse Drac a parlare. Avevamo già deciso di restare il più possibile nel personaggio, e poi la maschera di lattice che avevo addosso rendeva parecchio difficile articolare qualsiasi discorso. - Le assicuro, mio caro signore - disse Drac nell’atroce tentativo di scimmiottare l’accento europeo - che questa non è una sterile burla. Siamo l’intrattenimento di questa serata e siamo qui per portarvi il terrore. Poi spalancò il mantello e mise in mostra i canini. - Te’o’e - urlò Frankie, e batté i piedi a terra. Mi unii al gruppo con un ululato. Tre clienti si accodarono al mio urlo, e il nostro spettacolo – il nostro primo spettacolo – fu così pronto a cominciare. Prepararci richiese molto più tempo del previsto. Quelle manone pelose di gomma mi crearono parecchi problemi a infilare i jack negli attacchi e in più Frankie, che era rimasto nel personaggio, stava facendo tutto con una lentezza estenuante. Così, quando fummo pronti a cominciare, il pubblico si era già parecchio innervosito. Le bacchette, strette nei guanti, mi sembravano un corpo estraneo, e non appena cominciammo The Monster Mash mi resi conto che sarebbe stata una lunga notte. Io ero fuori ritmo, il basso di Frankie era troppo alto e Drac continuava a cantare con quel ridicolo accento pensando fosse divertente, solo che non rideva nessuno. Se a queste cose aggiungete che non avevamo provato abbastanza e che, per sfondare, ci affidavamo principalmente al talento di Drac nel suonare la chitarra, potete ben capire che gli elementi per il disastro c’erano tutti. Gli schiamazzi iniziarono durante Bad Moon Rising. Non potevo davvero biasimarli, mi sarei messo a fischiare pure io se fossi stato costretto ad ascoltarci. Mentre concludevamo la canzone, ognuno coi suoi tempi, il barista fece cenno di averne avuto abbastanza e staccò la corrente. Poi si lasciò dietro il bancone e ci si avvicinò. - Guardate, ragazzi, vedo che avete talento… ma così non va. Tornate tra un paio di mesi, quando avrete lavorato per bene sulle canzoni. Vi tengo una data attorno a Capodanno, va bene? Era stato più generoso di quanto avremmo potuto sperare e, fosse stato per me, avrei accettato la proposta e me la sarei data a gambe prima che la serata diventasse un’umiliazione. Ma Drac non era della stessa idea.
- Un’altra canzone - disse. - Solo una. Lascio perdere l’accento, e faremo tutti le cose per bene. Se riusciamo a finirla, poi sta a lei scegliere se staccarci la corrente o lasciarci andare avanti. Solo un’altra. Per favore. Con mia grande sorpresa, il barista accettò. - Va bene, ma prendetevi dieci minuti di pausa, dategli il tempo di calmarsi. Se vi rimetto sul palco adesso, a qualcuno potrebbe venire in mente di infilzarvi con un paletto. Cercammo di non dare nell’occhio e uscimmo dalla porta sul retro non appena il barista annunciò un giro di consumazioni scontate. Probabilmente non aveva un gran orecchio per il talento, ma sapeva benissimo come far felici i suoi clienti. Drac era un fascio di nervi, non l’avevo mai visto così agitato. - Bene - disse. - Qual è il nostro pezzo forte? Con cosa li possiamo stendere? - Non avete un pezzo forte - disse una voce dal buio che c’era dietro i fusti vuoti. - Ma io posso prestarvene parecchi, dipende dal prezzo. Satana uscì dalle tenebre. Il suo costume era migliore dei nostri; non si vedeva una cucitura, e la sua voce era roca al punto giusto. Rimase nel personaggio per tutto il tempo. - Di che parli? - disse Drac. Il tipo venne più vicino e io mi allontanai impercettibilmente. Puzzava di uova marce e di qualcosa di persino peggiore, come un cane morto lasciato al sole per troppo tempo. Il nuovo arrivato alzò una mano mostrando i fili di fumo che gli nascevano dalle dita. - Tutto quello che chiedo è che rimaniate nei vostri personaggi - disse. - E che pensiate a me mentre state suonando. Vedrete che vi basterà avermi in mente per diventare una cosa sola. Fidatevi, l’ho già fatto tante altre volte. Funzionerà. - Dobbiamo solo restare nel personaggio? Satana sorrise. - Chiedo troppo? Drac guardò me e Frankie. Rispondemmo alzando le spalle, non sapevamo davvero cos’altro fare. Da parte mia, l’unica cosa che volevo era mettere fine a quella serata il più presto possibile. Drac decise di stare al gioco. Allungò la mano. Satana si sputò un grumo di muco bollente sul palmo prima di stringergliela. - Adesso abbiamo un accordo. Detto ciò sparì nel buio dietro ai fusti di birra, veloce come era arrivato. - Questa sì che è strana - disse Drac. - Stasera i matti sono tutti in giro. Torniamo a noi però, qual è la canzone che ci serve per far funzionare sta cosa? Ci accordammo per qualcosa che avrebbe coinvolto il pubblico. Quando tornammo dentro non furono granché felici di vederci, e le proteste iniziarono non appena salimmo sul palco. Ci furono pure un po’ di fischi. Tutto cambiò non appena Drac attaccò l’intro di Werewolves of London con l’ampli settato a mille. Frankie entrò al momento giusto con un giro di basso che fece tremare il pavimento, le bacchette divennero un’estensione delle mie mani. Pensai a Satana, e tirai fuori un ritmo che fece oscillare le lampade sopra di noi. Quando ululai durante il ritornello, l’intero bar ululò con me e io sentii un brivido salire su per la spina dorsale. Non mi ero mai sentito così. Portai a termine la canzone con un altro ululato, un ululato che si fece strada dalla bocca dello stomaco per riecheggiare in lungo e in largo per tutto il bar e chiudere la bocca ai presenti. Drac spezzò il silenzio avvicinandosi al microfono e sussurrando in una perfetta imitazione di Bela Lugosi: - I figli della notte. Che musica dolce producono. L’applauso, quando arrivò, fu assordante. Il barista ci mostrò i pollici alti. Gli sconti andavano avanti, e con loro noi, che lanciammo Bad to the Bone. Frankie fece esplodere il bar marciando su e giù per il locale, il basso a tempo coi piedi ed entrambi a ritmo con la canzone. Drac si prese il suo momento di gloria con una versione oscena di Bad Things. Riuscì persino a far strillare un po’ di ragazze con quella pronuncia strascicata. Per quanto riguarda me, ebbi l’occasione di ululare ancora su Hey There, Little Red Riding Hood, che avevamo provato solo una volta ma che ci uscì come se fossimo nati per suonarla. Per tutto il tempo ebbi in mente lui: l’uomo in rosso, Satana, che sorrideva mentre si sputava sul palmo della mano e la stringeva per suggellare il patto.
Adesso era con noi tutto il pubblico, che cantava e ringhiava, che batteva le mani o teneva il tempo coi piedi, e l’intero locale stava per partire di testa. Drac lo condusse in una cover di The Time Warp, e in molti iniziarono a ballare sui tavoli e rovesciare la birra a terra, ma al barista sembrò non importare. Rallentammo il giusto per Red Right Hand, e anche se il mio rullante avesse suonato come un set di campane tubolari per tutta la canzone non mi sarei lamentato, non con il livello di adulazione del pubblico che ci arrivava alle orecchie. Tornammo a volumi da spaccare i timpani con The Devil Went Down to Georgia, con la chitarra di Drac che sostituiva alla grande il violino impazzito del pezzo originale. Verso la fine del suo feroce assolo, alzai lo sguardo e intravidi l’uomo in rosso in piedi dietro al bancone, un sorriso che partiva da un orecchio e arrivava vicino a quell’altro, ma, quando guardai di nuovo, non c’era più. Chiudemmo la serata con una versione di Beat the Devil’s Tattoo cui aggiunsi un po’ di ululati. Nessuno sembrò dispiacersi e anzi, quando arrivammo all’apice del pezzo, il bar intero stava ululando alla luna. Scendemmo dal palco per essere trattati come eroi conquistatori. L’eccitazione durò fin dopo l’orario di chiusura, e solo quando iniziammo a mettere via i nostri strumenti i clienti accennarono ad andarsene. - Bel lavoro, ragazzi - disse il barista. - Organizzeremo un’altra serata molto prima di Capodanno.
Ormai eravamo rimasti solo in sei nel locale; noi tre, il barista e due delle cameriere, entrambe parecchio colpite da Drac, che si stava crogiolando nelle loro attenzioni. - Potete togliervi i costumi adesso che la gente se n’è andata - disse il barista. - Vi starete sciogliendo lì dentro. - Scio’ndo - disse Frankie a voce troppo alta. - Se vi va, potete fare un salto a casa nostra - disse una delle cameriere. - Abbiamo un paio di bottiglie di Australia Red e… - Io non bevo… vino - rispose Drac serissimo. Provai a ridere, ma l’unica cosa che riuscii a emettere fu un abbaio che mi bagnò di saliva le labbra. Alzai una mano per pulirmi la bocca e la sentii umida, un po’ appiccicosa. Sensazione di saliva sui peli delle nocche. Non c’erano più né gomma né guanti, solo pelo e carne e artigli affilati come rasoi. Mi toccai la bocca e sentii delle zanne altrettanto aguzze. - Dobbiamo solo restare nel personaggio - disse Drac, e saltò addosso alla barista più vicina, spingendola contro il bancone per metterle in mostra il collo. I suoi canini trapassarono la pelle con facilità. Il sangue schizzò e io ululai, a testa alta, inspirandone l'odore esaltante e volendone ancora. Il barista cercò di prendere qualcosa sotto al bancone, non sapremo mai se una mazza da baseball o una pistola. Frankie lo afferrò, lo sollevò in aria e, con un ruggito che fece oscillare le lampade, lo scagliò dall’altra parte del locale, vicino al palco, dove atterrò sotto forma di mucchio di ossa rotte. - Merda - disse la cameriera rimasta, e scattò verso la porta. - Mer’ra - esplose Frankie, e si mise a correrle dietro, le gambe rigide, sfondando il telaio della porta mentre ci passava in mezzo e seguendo le urla nel parcheggio. Drac mi sorrise, il sangue che ancora gocciolava dai canini. - Si sta alzando una luna cattiva. Andiamo a darle un’occhiata? Ululai. Poi mi unii alla caccia.



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L’inquietante motivo della visita del reverendo, di G.K. Chesterton

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Dal 31 Maggio è in libreria per Lindau Il club dei mestieri stravaganti, di G.K Chesterton, tradotto da Federico Zaniboni; la prima raccolta dell'autore datata 1905, e accompagnata dalle illustrazioni dello stesso Chesterton. 
Vi proponiamo uno dei racconti contenuti nel testo.

 

L’inquietante motivo della visita del reverendo

La rivolta della materia contro l’uomo (a cui credo ferma- mente) si è ridotta, ormai, a una condizione singolare. Infatti, sono le piccole cose, piuttosto che le grandi, a muovere guerra contro di noi e, per dirla tutta, in molti  casi a sconfiggerci. Le ossa dell’ultimo mammut si sono decomposte tantissimo tempo fa, come un maestoso relitto; le tempeste non divorano più le nostre navi, le montagne dal cuore di fuoco non scatenano più l’inferno sopra le nostre città. Eppure, siamo coinvolti in una dura, eterna guerra con le piccole cose; principalmente contro i microbi e i bottoni dei colletti. Mentre ero immerso nelle suddette riflessioni, stavo proprio lottando (senza esclusione di colpi) con un bottone che non riuscivo a inserire nell’asola del colletto, quando a un tratto udii bussare alla porta.
Dapprima pensai che fosse Basil Grant, venuto a prendermi per uscire. Quella sera, infatti, io e lui eravamo stati invitati a una cena (per la quale, appunto, io mi stavo preparando) e forse gli era venuta l’idea di passare prima da me, anche se avevamo deciso di andare ognuno per conto suo. Si trattava di un ritrovo tra pochi intimi a casa di una sua vecchia conoscenza, una signora impegnata in politica, una donna perbene e anticonformista. Aveva invitato entrambi per farci conoscere il capitano Fraser che, a quanto pareva, si era fatto un nome ed era un’autorità in materia di scimpanzé. Poiché Basil era un vecchio amico della signora e io, personalmente, non l’avevo mai incontrata, pensai che (con la sua consueta sagacia in fatto di rapporti sociali) lui avesse deciso di accompagnarmi per rompere il ghiaccio. Come tutte le mie teorie, anche questa era fondata; ma la pratica era diversa: non era Basil alla porta.
Una mano mi porse un biglietto intestato «Rev. Ellis Shorter»; sotto, con grafia frettolosa che non riusciva a nascondere una poco allettante solennità aristocratica, era scritto: «Le chiedo la cortesia di accordarmi qualche minuto del suo tempo per discutere di una questione della massima urgenza».
Alla fine ero riuscito a sottomettere il bottone, proclamando così la supremazia dell’immagine di Dio sopra tutta la materia (una verità sempre preziosa) e, infilandomi in tutta fretta panciotto e cappotto, scesi in salotto. Al mio arrivo si alzò, dimenandosi come una foca; non saprei descriverlo diversamente. Faceva sventolare la mantellina scozzese che teneva sul braccio e un paio di patetici guanti neri; tutto il suo abbigliamento sbatteva di qua e di là; anzi, potrei dire, senza esagerare, che mentre si alzava in piedi sbatté perfino le palpebre al vedermi. Era un anziano reverendo, quasi senza sopracciglia, con capelli e favoriti bianchi, dall’aria goffa e trasandata. Disse: «Le porgo le mie scuse. Mi dispiace molto, mi dispiace enormemente. Sono venuto… posso solo dire, a mia difesa… che sono venuto… per una questione importante. La prego di perdonarmi».
Gli dissi che lo perdonavo senza problemi e aspettai.
«Quello che ho da dire» disse lui con voce rotta, «è così terribile, così terribile… Io ho sempre vissuto una vita tranquilla».
Fremevo per andarmene, perché dubitavo già di riuscire ad arrivare in tempo per cena. Ma in quell’uomo anziano c’era una tale sincera amarezza che mi sembrava rivelare una vita ben più intensa e tragica della mia.
Così dissi con gentilezza: «La prego, vada avanti».
E nondimeno l’anziano signore, ormai avanti con gli anni, notò la mia intima impazienza e parve ancora più confuso.
«Sono davvero desolato – disse umilmente. – Non sarei mai venuto da lei se… non me l’avesse consigliato un suo amico, il maggiore Brown».
«Il maggiore Brown!» ribattei, con un certo interesse.
«Esatto» disse il reverendo Shorter, sbatacchiando febbrilmente la mantellina scozzese. «Mi ha detto che lei l’ha aiutato in un momento di grande difficoltà… e il mio caso, signore, è questione di vita o di morte!».
Balzai in piedi, alquanto perplesso. «Ci vorrà molto, Mr Shorter? Perché dovrei andarmene subito, ho un invito per cena».
Si alzò anche lui, tremando dalla testa ai piedi; eppure, anche in quello stato di paralisi mentale, si alzò con tutta la dignità propria della sua età e del suo ruolo.
«Io non ho nessun diritto, Mr Swinburne… non ho proprio nessun diritto – disse. – Se lei deve uscire per cena vada pure ovviamente… ne ha ben donde. Ma quando tornerà… qualcuno sarà morto».
E poi si risedette, tremando come gelatina.
In quei minuti, la futilità della cena che mi attendeva finì presto per eclissarsi nella mia mente. Non mi interessava più andare a trovare una vedova impegnata in politica e un capitano che collezionava scimmie; volevo ascoltare ciò che quel caro, vecchio prete aveva da raccontarmi in merito a un pericolo imminente.
«Gradirebbe un sigaro?» chiesi.
«No, grazie» disse, con un imbarazzo indescrivibile, come se non fumare sigari fosse un peccato imperdonabile.
«Forse un bicchiere di vino?».
«No, grazie, grazie; adesso no» ripeté con quella sorta di ansia isterica con cui le persone che non bevono mai cercano di lasciare intendere che, se solo fosse un altro giorno, passerebbero volentieri tutta la serata a bere punch al rum. «Adesso no, grazie».
«Non c’è nient’altro che le posso offrire?» chiesi, provando una stretta al cuore per quel poveretto così umile e beneducato. «Una tazza di tè?».
Vidi che era molto combattuto, avevo vinto io. Quando arrivò la tazza di tè, la bevve come un dipsomane si avventa sul brandy. Poi si lasciò ricadere e disse: «Ho passato momenti terribili, Mr Swinburne. Non sono abituato a simili strapazzi. In qualità di vicario di Chuntsey, nell’Essex – e pronunciò queste parole con l’indescrivibile disinvoltura della vanità – non ho mai creduto potesse succedermi niente di simile».
«Di cosa sta parlando?» chiesi.
Si raddrizzò di colpo, in un sussulto d’orgoglio.
«In qualità di vicario di Chuntsey, nell’Essex – disse – nessuno mi aveva mai costretto a vestirmi da vecchietta e a prendere parte a un crimine così conciato. Mai. La mia esperienza sarà anche limitata, forse insufficiente, ma non mi era mai accaduto prima».
«Non sapevo – dissi – che questo rientrasse tra i compiti di un pastore. Ma non me ne intendo di cose ecclesiastiche. Mi scusi, forse non ho ben capito cosa ha detto… Travestito da cosa?».
«Da vecchietta» rispose solennemente il reverendo «da anziana signora».
Dentro di me pensai che trasformare quell’uomo in vecchietta non richiedesse poi tanta fatica, ma poiché la cosa appariva ben più tragica che comica, chiesi rispettosamente:
«Posso chiederle com’è successo?».
«Comincerò dall’inizio – disse Mr Shorter – e racconterò la mia storia con la massima precisione possibile. Stamattina, alle undici e diciassette minuti, sono uscito dalla canonica perché avevo qualche appuntamento e qualche visita da fare in paese. La mia prima visita è stata a Mr Jervis, il tesoriere della nostra Lega di Divertimenti Cristiani, con il quale dovevo discutere a proposito di una richiesta di Mr Parker, il giardiniere, sulla manutenzione del nostro campo da tennis. Poi sono andato da Mrs Arnett, una donna molto devota che purtroppo si trova costretta permanentemente a letto. È autrice di diversi libretti sulla fede e di una raccolta di poesie intitolata, se la memoria non mi inganna, Eglantine».
Il reverendo disse tutto questo con grande cautela, o per meglio dire – senza temere di cadere in contraddizione – con cautela impaziente. Penso che nella sua testa avesse qualche vago ricordo delle storie dei detective, che richiedono sempre la massima precisione nei dettagli.
«Poi mi sono recato da Mr Carr» proseguì con la stessa irritante coscienziosità, «si badi, non Mr James Carr, bensì Mr Robert Carr, che assiste temporaneamente il nostro organista, e dopo essermi consultato con lui (a proposito di un ragazzino del coro accusato, non so se a torto o ragione, di aver fatto dei buchi nelle canne dell’organo), alla fine ho fatto una scappata a una riunione delle Dame di Carità a casa di Miss Brett. Le riunioni si tengono solitamente in canonica, ma poiché mia moglie è indisposta, Miss Brett, da poco trasferitasi in paese e molto attiva nelle iniziative della chiesa, si è offerta gentilmente di ospitarle. L’associazione delle Dame di Carità è di regola gestita interamente da mia moglie, e tranne Miss Brett, che come ho detto è molto attiva, conosco a malapena le altre signore. Ma avevo promesso di passare da loro, e così ho fatto.
«Quando sono arrivato, insieme a Miss Brett c’erano soltanto quattro signorine, tutte intente a cucire. Naturalmente, è molto difficile per chiunque ricordare e riferire una conversazione nei dettagli, anche per chi è spinto dalle circostanze a fare un’esposizione chiara ed esaustiva dei fatti, e soprattutto una conversazione che – sebbene ispirata dal grande zelo con cui le donne stavano lavorando – sul momento non colpisce particolarmente l’ascoltatore; infatti si parlava principalmente di calze. Tuttavia, ricordo distintamente che una delle signori- ne (una donna esile con uno scialle di lana, che pareva avere freddo e che sono quasi sicuro mi sia stata presentata come Miss Jane) ha detto che il tempo era molto variabile. Poi Miss Brett mi ha offerto una tazza di tè, che ho accettato, pur non ricordandomi con quali parole. Miss Brett è una signora robusta e tracagnotta, coi capelli bianchi. L’unica altra persona del gruppo che ha attirato la mia attenzione era una tale Miss Mowbray, una piccola e distinta signora dai modi aristocratici, i capelli argentei, il colorito roseo e la voce squillante. Era la più carismatica del gruppo, e le sue opinioni sui grembiuli, benché espresse con naturale deferenza nei miei confronti, erano decise e moderne. Non posso negare che in confronto a lei – pur essendo tutte e cinque vestite semplicemente di nero – le altre sembravano, come direste voi, gente di mondo, un po’ sciatte.
«Dopo circa dieci minuti di conversazione, mi sono alzato per congedarmi, e mentre me ne stavo andando ho udito qualcosa che… non riesco a descrivere… qualcosa che sembrava… davvero, non trovo le parole per descriverlo».
«Che cosa ha sentito?» chiesi con una certa impazienza.
«Ho sentito» disse il reverendo solennemente, «ho sentito Miss Mowbray (la signora coi capelli argentei) dire a Miss James (quella dallo scialle di lana) le seguenti, incredibili parole. Me le sono impresse subito nella memoria, e appena le circostanze me l’hanno permesso le ho annotate su un pezzo di carta. Dovrei averlo qui con me».
Si mise a frugare nella tasca interna del cappotto, tirando fuori taccuini, circolari e programmi di concerti del villaggio.
«Ho sentito Miss Mowbray dire a Miss James le seguenti parole: “Ora tocca a te, Bill”».
Dopo aver fatto la sua dichiarazione, mi fissò negli occhi per qualche secondo, con aria grave e risoluta, come fosse pienamente consapevole della situazione, senza alcun turbamento. Poi riprese a parlare, voltando la testa calva ancora di più verso il camino.
«Mi è parsa subito una cosa notevole, non riuscivo a capire. In primo luogo, mi sembrava davvero straordinario che un’anziana signorina si rivolgesse a un’altra anziana signorina chiamandola “Bill”. Come ho detto, forse la mia esperienza è limitata; forse nei circoli riservati alle zitelle ci sono usanze più strambe di quanto pensassi. Eppure mi sembrava strano, e potrei giurare – ma la prego di non fraintendere le mie parole – che in quel momento ero sicuro che quella frase, “Ora tocca a te, Bill”, non fosse stata affatto pronunciata col tono aristocratico che, come ho già detto, era caratteristico del modo di parlare di Miss Mowbray. Infatti, le parole “Ora tocca a te, Bill” sarebbero apparse inopportune, se pronunciate con quel tono.
«Quella frase, quindi, mi aveva molto colpito. Ma la mia sorpresa è stata ancora maggiore quando, guardandomi attorno sconcertato, col cappello e l’ombrello in mano, ho visto l’esile signora con lo scialle appoggiata alla porta da cui sarei dovuto uscire. Stava continuando a cucire, così ho immaginato che quella  posizione  eretta contro  la porta fosse solo  una
stravaganza da zitelle, e che la signorina avesse dimenticato la mia intenzione di andarmene.
«Le ho detto, in tono gioviale: “Mi dispiace molto disturbarla, Miss James, ma devo proprio andare. Devo… ” e lì mi sono interrotto, perché ciò che lei mi ha detto in risposta, seppur stranamente breve e pronunciato con noncuranza, era tale da rendere, credo, la mia interruzione più che scusabile. Ho annotato anche queste parole. Non avevo la più pallida idea di cosa significassero, così mi sono limitato a trascriverle. Mi ha detto…»
Mr Shorter sbirciò il foglietto.
«Mi ha detto: “Chiudi il becco, ciccione”, aggiungendo qualcosa che suonava come “fregato” o forse “beccato”. È stata l’ultima goccia, o ero impazzito io o era impazzito l’universo intero. La mia stimata amica e aiutante, Miss Brett, appoggiata alla mensola del caminetto, ha detto: “Ficca questo vecchio ciccione in un sacco, Sam, e legalo bene prima di spifferare tutto. Un giorno o l’altro sarete voi a farvi beccare, a forza di combinare ‘ste mascherate”.
«La testa mi girava. Forse, come avevo immaginato un attimo prima, queste signore nubili facevano davvero parte  di una pericolosa cricca segreta? Mi sono tornati alla mente vaghi ricordi della mia formazione classica (all’epoca ero un vero studioso, adesso, ahimè, sono un po’ arrugginito), la storia misteriosa della Bona Dea, quell’oscura loggia femminile. Ho pensato perfino ai sabba delle streghe… stordito e confuso com’ero, stavo addirittura cercando di ricordarmi un verso sulle ninfe di Diana, quando Miss Mowbray mi prese alle spalle. Appena ho sentito il suo braccio su di me, mi sono accorto subito che non era il braccio di una donna.
«Miss Brett – o colui che chiamavo Miss Brett – adesso era davanti a me con una grossa rivoltella in mano e un ghigno impressionante dipinto sul volto. Miss James era sempre ap- poggiata contro la porta, ma aveva cambiato completamente atteggiamento, adottandone uno così poco femminile da lasciare di stucco. Batteva i tacchi sul pavimento, teneva le mani in tasca e la cuffia di lato. Era un uomo. Voglio dire, era una don… cioè, invece di essere una donna era… insomma, era un uomo».
Mr Shorter si agitò terribilmente, dimenandosi tutto mentre si sforzava di mettere ordine in quella confusione di generi, nonché di tenere a posto la sua mantellina scozzese. Riprese a parlare in tono ancora più concitato: «Quanto a Miss Mowbray, lei… lui mi stringeva come in una morsa… il suo braccio attorno al suo collo… ehm, il mio collo… non potevo gridare. Miss Brett – anzi Mr Brett o Mr qualcosa, ma non certo Miss Brett – teneva la pistola puntata contro di me. Le altre due signorine… ehm, gli altri due signori stavano armeggiando con un sacco in fondo alla stanza. Ormai era tutto chiaro: erano criminali travestiti da donna, erano lì per rapirmi! Ra- pire il vicario di Chuntsey, nell’Essex. Ma per quale motivo? Per fare i sovversivi?
«A un certo punto il bruto appoggiato contro la porta ha urlato: “Datti una mossa, Harry. Spiega al vecchio come funziona il gioco e tagliamo la corda”. “Maledizione!” ha esclamato Miss Brett – voglio dire l’uomo con la rivoltella – “per- ché dobbiamo spiegargli il gioco?”.
«“Stammi a sentire” ha detto l’uomo sulla porta, che chiamavano Bill. “Un uomo che sa quello che fa è dieci volte meglio di uno che non lo sa, anche se è un vecchio parroco scemo”.
«“Bill ha ragione” ha detto con voce roca l’uomo che mi teneva stretto (e che era stato Miss Mowbray). “Tira fuori la foto, Harry”.
«L’uomo con la rivoltella è andato verso le altre due donne – voglio dire uomini – che stavano rovistando in una valigia. Ha chiesto qualcosa e loro gliel’hanno dato, poi è tornato verso di me e me l’ha fatto vedere. Rispetto alla sorpresa che ho provato in quel momento, tutte le sorprese precedenti di questa orribile giornata sono svanite di colpo.
«Era un mio ritratto. Il fatto che una simile fotografia fosse nelle mani di furfanti come quelli poteva sì sorprendere, ma non più di tanto. Quello che ho provato in quel momento non era semplice sorpresa. La somiglianza era estremamente credibile, ottenute grazie a tutti gli accessori dei moderni studi fotografici. Nella foto appoggiavo la testa al palmo della mano e dietro di me c’era un fondale boschivo dipinto. Palesemente non si trattava di un’istantanea, anzi era chiaro che io avessi posato. Ma la verità è che io non ho mai posato per una foto simile. È una fotografia che non ho mai fatto.
«Continuavo a fissarla. Mi sembrava alquanto ritoccata, e inoltre era incorniciata sotto vetro, e non si riusciva a distinguere bene i particolari. Ma non c’erano dubbi, quelli erano la mia faccia, i miei occhi, il mio naso, la mia bocca, la mia testa nel palmo della mano, ero io in posa nello studio di un fotografo. Ma io non ho mai posato per nessun fotografo.
«“Visto che bel miracolo?” ha detto l’uomo con la rivoltella, nel suo tono spiritoso così inopportuno. “Caro pastore, preparati a incontrare il Creatore”. E così dicendo estrasse la fotografia dalla cornice. Una volta tolto il vetro, ho visto che una parte dell’immagine era stata dipinta col bianco di zinco, per la precisione un paio di favoriti bianchi e il collarino da prete. Sotto c’era il ritratto di una vecchia signora con un semplice abito nero, che teneva la testa appoggiata alla mano, sullo sfondo boschivo. Io e l’anziana signora ci assomigliavamo come due gocce d’acqua. Era bastato aggiungere i favoriti e il collarino per farla diventare come me, tale e quale.
«“Divertente, vero?” ha detto l’uomo chiamato Harry, men- tre rimetteva a posto il vetro. “Una somiglianza davvero notevole, reverendo. Sta bene alla signora, sta bene a te. E devo dire che sta bene anche a noi, perché ci farà guadagnare un bel gruzzolo. Conosci il colonnello Hawker, no? Quello che è venuto a vivere da queste parti”. Io ho annuito.
«“Bene”, ha detto l’uomo chiamato Harry, indicando la foto, “quella è sua madre. Chi è che gli cambiava il pannolino? Proprio lei”, e puntava col dito quella figura che mi assomigliava perfettamente.
«“Di’ al vecchio che cosa deve fare e finiscila”, ha sbottato Bill dall’altro lato della stanza. “Tranquillo, reverendo Shorter, non ti faremo del male. Anzi, magari ti daremo anche qualco- sina per il disturbo, se vuoi. Quanto ai vestiti della vecchietta, non ti preoccupare, ti staranno benissimo”.
«“Proprio non ci sai fare con le spiegazioni, Bill” ha detto l’uomo alle mie spalle. “Mr Shorter, stia a sentire. Stasera dobbiamo andare da questo tizio, il colonnello Hawker. Forse quando ci vede ci abbraccerà tutti e ci offrirà il migliore champagne. O forse no. Forse sarà morto stecchito quando noi ce ne andremo. O forse no. Ma dobbiamo andare da lui a tutti i costi. Ora, come saprà anche lei, è un tipo che si barrica in casa e non apre mai la porta a nessuno; forse lei non sa perché, ma noi sì. L’unica che può entrare da lui è sua madre. E, dannazione, è una coincidenza davvero incredibile” disse, accentando l’ultima sillaba, “proprio una fortuna sfacciata che lei sia sua madre!”.
«“Quando ho visto quella foto” ha detto Bill, scuotendo la testa con l’aria di rimuginare qualcosa “quando l’ho vista ho detto subito: ‘Il vecchio Shorter’. Proprio così, ho detto: ‘Il vec- chio Shorter!’”.
«“Che cosa intendete fare, pazzi farabutti? – ansimavo. – Che cosa dovrei fare io?”.
«“È presto detto, sua vecchiezza”, ha detto l’uomo con la rivoltella, con aria da buontempone, “si deve mettere quei vestiti” e ha indicato una cuffia da donna e un mucchietto di abiti femminili buttati in un angolo.
«Non mi dilungherò, Mr Swinburne, sui dettagli di ciò che è seguito. Non avevo scelta. Non potevo lottare contro cinque uomini, per non parlare della rivoltella. Nel giro di cinque minuti, signore, il vicario di Chuntsey è stato travestito da vecchietta… o da madre di qualcun altro, se preferisce… ed è stato trascinato fuori da quella casa per commettere un crimine.
«Era già tardo pomeriggio, e la notte invernale stava scendendo rapida. Lungo una strada buia, nel vento che fischiava, ci siamo avviati verso la dimora solitaria del colonnello Hawker; eravamo forse il corteo più strampalato che abbia mai percorso quella o qualsiasi altra strada. A un qualunque osservatore esterno saremmo sembrate sei rispettabili e modeste vecchiette, coi nostri abiti scuri e le cuffie un po’ antiquate; in realtà eravamo cinque criminali incalliti e un povero reverendo.
«La farò breve. In testa avevo un turbinio di pensieri, mentre camminavo cercando un modo per scappare. Mettersi a gridare, dato che eravamo così lontani dalle case, sarebbe stato un atto suicida, perché quelle canaglie avrebbero potuto accoltellarmi o imbavagliarmi e gettarmi in un fosso. D’altra parte, tentare di fermare un estraneo e spiegargli la situazione era altrettanto impossibile, vista la follia della situazione stessa. E poi, ben prima che io fossi riuscito a convincere un postino o carrettiere di passaggio con la mia assurda storia, i miei compagni se la sarebbero certamente svignata, con ogni probabilità tirandosi dietro anche me, come una loro amica che aveva la sventura di essere pazza o di aver bevuto un bicchierino di troppo. Alla fine, però, ho avuto l’ispirazione; anche se era un pensiero terribile. Eravamo dunque a questo punto? Il vicario di Chuntsey doveva fingersi pazzo o ubriaco? Ebbene sì, era l’unica possibilità.
«Continuavo a camminare insieme agli altri lungo la strada deserta, cercando, per quanto potevo, di imitare e tenere il loro passo, rapido eppure simile a quello delle vecchiette, quando in lontananza ho visto un lampione e un poliziotto che vi stazionava sotto. Ormai avevo deciso. Ci avvicinavamo svelti e silenziosi. Ma non appena abbiamo raggiunto il poliziotto, io mi sono lanciato contro la cancellata urlando: “Urrà! Urrà! Viva la Bretagna! Tagliati i capelli! Oplà! Bum!”. Era una situazione a dir poco inedita per un uomo come me.
«L’agente ha puntato  subito  la sua lanterna verso di me,  o meglio verso l’arruffata e allegra vecchietta che fingevo di essere. “Ma insomma, nonnina!”, ha esordito, burbero.
«“Non aprire bocca o ti rovino” mi sibilava all’orecchio la voce roca di Sam. “Vedi di piantarla o ti faccio a fettine”. Era spaventoso sentire quelle parole provenire da vecchie e distinte zitelle, tutte imbacuccate.
«Ma io continuavo a gridare e a strepitare, ormai non potevo più tirarmi indietro. Cantavo a squarciagola certi volgari ritornelli che, mio malgrado, avevo sentito intonare dai giovani ai concerti del villaggio; barcollavo avanti e indietro come un birillo.
«“Se non riuscite a far stare zitta la vostra amica, signorine” ha detto il poliziotto “dovrò portarla via io. È ubriaca e molesta più che a sufficienza”.
«Allora ho raddoppiato i miei sforzi. Non ero certo preparato ad affrontare una cosa simile, ma penso di aver superato me stesso. Parole che non conoscevo o che non avevo mai sentito uscivano a valanga dalla mia bocca e io non facevo niente per frenarle.
«“Dopo facciamo i conti” mi sussurrava Bill “e vedrai che urlerai ancora più forte; strillerai ancora di più quando ti bruceremo i piedi”.
«Terrorizzato com’ero, cantavo a squarciagola allegri stornelli. Neanche nei peggiori incubi può esistere qualcosa di così orribile e raccapricciante come le facce di quei cinque uomini che spuntavano da sotto le cuffie; autentici demoni nei panni di amabili vecchiette di campagna. Non penso che all’inferno possa esistere qualcosa di più sconvolgente.
«Per un istante tremendo pensai che le affannose premure dei miei compagni e la rispettabilità dei nostri abiti avrebbero convinto il poliziotto a lasciarci passare. Ma l’agente esitava, per quanto possa esitare un agente di polizia. Io continuavo a barcollare, e a un tratto sono finito con la testa contro il suo petto, gridando – se non ricordo male: “Oh accidenti a te, Bill”. E in quel momento mi sono ricordato di essere il vicario di Chuntsey, nell’Essex.
«Quel gesto disperato è stato la mia salvezza. Il poliziotto mi teneva stretto per la collottola. “Tu adesso vieni con me”, ha detto, ma Bill si è fatto avanti con la sua perfetta imitazione della vocina da zitella.
«“Oh, sia gentile, agente, non si disturbi per la nostra po- vera amica. Adesso la portiamo a casa. Forse a volte beve un bicchierino di troppo, è vero, ma è una signora perbene… solo un po’ eccentrica”.
«“Ma mi ha colpito allo stomaco” ha detto l’agente. “È una delle sue stravaganze” ha replicato Sam, candidamente.
«“La prego, lasci che la portiamo a casa” ripeteva Bill, immedesimatosi di nuovo nel ruolo di Miss James.
«“Ha bisogno di qualcuno che la aiuti”. “Sicuro. – fa il poliziotto. – Me ne occuperò io”.
«“No, no” ha esclamato Bill ansioso, “ha bisogno delle sue amiche. Le serve una particolare medicina che abbiamo noi”.
«“È vero” si è affrettata a ribadire Miss Mowbray, “nessun’altra medicina le fa effetto, signor agente. Ha un disturbo raro”.
«“Io sto benissimo. Oppalè, oppalà!” ha replicato, con sua eterna vergogna, il vicario di Chuntsey.
«“Care signore, statemi a sentire” ha detto il poliziotto in tono severo. “Non mi piacciono le stravaganze della vostra amica, non mi piacciono le sue canzoni e nemmeno che mi si colpisca allo stomaco. E adesso che ci penso, non mi piacciono neanche le vostre facce, ne ho vista di gente conciata come voi che poi ne ha combinate di tutti i colori. Chi siete?”.
«“Non abbiamo con noi i biglietti da visita” ha replicato Miss Mowbray con incredibile sussiego. “E non vedo nemmeno perché dovremmo farci insultare da un piedipiatti qualsiasi che si diverte a essere sgarbato con le signore, quando invece sarebbe pagato per proteggerle. Se vuole approfittare della debolezza della nostra povera amica, legalmente ha il diritto di portarla via. Ma se crede di avere il diritto di offenderci, mi lasci dire che ha sbagliato persone”.
«La precisione e la dignità di questo discorso hanno spiazzato il poliziotto. Approfittando dell’occasione, i miei persecutori hanno rivolto verso di me i loro volti allucinati e poi si sono dileguati nelle tenebre. Quando l’agente, insospettito, ha puntato la lanterna verso di loro, ho capito in un attimo dai loro sguardi che l’unica cosa da fare ormai era darsela a gambe.
«In quel momento mi sono lentamente afflosciato sul marciapiede, cercando di riflettere. Finché quei farabutti erano con me non avevo osato abbandonare il ruolo dell’ubriacona, perché se avessi cominciato a parlare in maniera assennata e a spiegare tutta la faccenda, l’agente avrebbe potuto credere semplicemente che mi fossi ripreso e mi avrebbe affidato alle cure dei miei amici. Ora invece, volendo, avrei potuto rivelargli la verità.
«Devo confessare, però, che non lo feci. Le vie del signore sono infinite, e può capitare che un reverendo della Chiesa d’Inghilterra, lungo le strade tortuose del suo dovere, debba far finta di essere una vecchietta ubriaca; ma simili circostanze sono sufficientemente rare da apparire a molti, suppongo, del tutto improbabili. Si immagini se fosse girata voce che io fingevo di essere ubriaco, e si immagini se la gente non avesse creduto che era tutta una finzione! 
«Così barcollando, con l’agente che mi teneva ben stretto e quasi mi sollevava da terra, mi sono trascinato in silenzio per un centinaio di iarde. Evidentemente, l’agente pensava che io fossi troppo assonnato e confuso per provare a scappare, e ha cominciato a mollare un po’ la presa. Abbiamo svoltato una, due, tre, quattro volte, e lui continuava a trascinarmi con sé, lento, claudicante e refrattario com’ero. Alla quarta svolta, di colpo mi sono liberato dalla sua mano e sono sfrecciato via di corsa come un cavallo imbizzarrito. Lui non se l’aspettava, era di corporatura pesante ed era buio pesto. Io correvo, correvo a più non posso, e dopo cinque minuti mi sono reso conto di averlo seminato. Mezz’ora dopo mi trovavo in mezzo ai campi, sotto le sacre stelle lucenti; mi sono strappato via quel maledetto scialle e la cuffia e li ho sepolti sotto terra».

L’anziano reverendo aveva terminato la sua storia e appoggiò la testa allo schienale della poltrona. Tanto il contenuto quanto il suo modo di raccontare mi avevano, a poco a poco, colpito favorevolmente. Sì, era un vecchietto goffo e pedante, ma prima di tutto era un uomo di campagna e una persona perbene, che aveva dimostrato coraggio e anche una certa agilità nel momento della disperazione. Aveva raccontato la sua storia indulgendo in tante piccole e inutili formalità, ma anche con realismo assai convincente.
«E adesso?» accennai.
«Adesso…» disse Mr Shorter sporgendosi di nuovo in avanti, con una specie di servile energia, «adesso, Mr Swinburne, che ne sarà di quel pover’uomo, Mr Hawker? Non so che cosa intendessero fare quegli uomini, né se facessero sul serio. Ma di sicuro quell’uomo è in pericolo. Io non posso andare alla polizia, per ragioni che lei comprenderà. E, tra l’altro, non mi crederanno mai. Cosa dobbiamo fare, secondo lei?».
Estrassi l’orologio dal taschino. Era già mezzanotte e mezza.
«Il mio amico Basil Grant – dissi – è la persona migliore a cui rivolgersi. Dovevamo andare insieme a una cena stasera; ma a quest’ora dovrebbe essere già tornato. Ha qualcosa in contrario a prendere una carrozza?».
«Nient’affatto» replicò il pastore, alzandosi con decisione e raccogliendo l’assurda mantellina scozzese.
Qualche scossone di vettura ed eccoci ai piedi di quelle lugubri pile di appartamenti popolari in cui abitava Basil Grant; una ripida scala di legno ci portò all’ingresso della sua soffitta. Appena messo piede sulle assi sconnesse dell’inter- no, il bagliore dello sparato di Basil e la lucentezza del suo cappotto di pelliccia abbandonata su una panca mi saltarono subito agli occhi. Stava bevendo un bicchiere di vino prima di andare a letto. Avevo ragione, era appena tornato dalla cena.
Ascoltò la storia del reverendo Ellis Shorter con la mode- stia e il rispetto che non aveva mai mancato di mostrare nei confronti di un altro essere umano. Terminato il racconto, disse semplicemente: «Lei conosce, per caso, un certo capitano Fraser?».
Rimasi completamente spiazzato di fronte a questa frase, che faceva inspiegabilmente riferimento all’illustre collezionista di scimpanzé col quale avrei dovuto cenare quella sera stessa, e lanciai a Grant un’occhiata severa. Così facendo, non potei guardare la reazione di Mr Shorter. Lo sentii solo rispondere di no, con tono alquanto infastidito.
Basil, invece, sembrava trovare interessante la risposta e il contegno del pastore, tanto che continuò a tenere i suoi grandi occhi azzurri fissi su di lui, sempre più sgranati per lo stupore.
«È davvero sicuro, Mr Shorter – ripeté – di non conoscere il capitano Fraser?».
«Certo» rispose il vicario, e io rimasi perplesso al vederlo di nuovo così intimidito, per non dire demoralizzato, com’era giunto a casa mia ore prima.
Basil scattò in piedi.
«Ma allora mi sembra chiaro – disse – che lei è ancora in alto mare, Mr Shorter. La prima cosa da fare è andare tutti insieme dal capitano Fraser».
«E… quando?» balbettò il pastore.
«Adesso» rispose Basil, afferrando il cappotto di pelliccia. L’anziano reverendo balzò in piedi tutto tremante.
«Non credo proprio che sia necessario» disse.
Basil lasciò il cappotto, lo lanciò nuovamente sulla panca e si mise le mani in tasca. 
«Oh» disse con una certa enfasi. «Oh, lei non crede che sia necessario… in tal caso…» e aggiunse con grande chiarezza e decisione: «In tal caso, Mr Ellis Shorter, tutto quello che posso dire è che vorrei vederla senza i favoriti».
All’udire queste parole anch’io balzai in piedi, temendo che fosse giunto il momento del collasso finale. Per quanto fosse meravigliosa e avvincente la vita a stretto contatto con una mente come quella di Basil, avevo sempre avuto il sentore che fosse sempre sull’orlo della follia. La sua vita era sempre accompagnata da quella visione capace di penetrare l’essenza delle cose e, alla fin fine, di far perdere la ragione agli uomini. E io presagivo lo scoppio di questa sua pazzia come si presagisce la morte di un amico malato di cuore. Può accadere dovunque, in un campo, in una carrozza, di fronte a un tramonto, o fumando una sigaretta. Era accaduto ora. Proprio al momento di esprimere un giudizio che poteva salvare un’altra creatura, Basil Grant era definitivamente impazzito.
«I favoriti!», esclamò, facendosi avanti con occhi fiammeggianti. «Mi dia i suoi favoriti. E anche la calvizie».
L’anziano reverendo, naturalmente, indietreggiò di qualche passo. Io mi frapposi tra i due.
«Si sieda, Basil – lo implorai –, si sente un po’ frastornato.
Finisca di bere il suo vino».
«Favoriti!» ripeté con tono sempre più severo «favoriti!».
E così dicendo fece uno scatto verso l’anziano signore,  che tentò di sfuggire verso la porta ma venne fermato. Ed ecco che, prima che potessi rendermene conto, nella stanza silenziosa si scatenò un pandemonio. Le sedie volavano e si schiantavano sul pavimento, i tavoli venivano ribaltati con fragore di tuono, i paraventi furono distrutti, le stoviglie fatte a pezzi, e in tutto ciò Basil Grant continuava a correre dietro al reverendo Shorter, mugghiando.
In quel momento iniziai a percepire qualcosa di nuovo, che aggiunse un ultimo tocco balordo al mio sbigottimento: il reverendo Ellis Shorter, da Chuntsey, nell’Essex, non si stava affatto comportando come in precedenza, o come, considerata la sua età e la sua posizione, mi sarei aspettato che si comportasse. La sua agilità nel saltare, nello schivare i colpi e nel lottare sarebbe stata notevole in un ragazzo di diciassette anni; in quel barcollante vecchio pastore aveva qualcosa di farsesco o di favoloso. Inoltre, non sembrava così allibito come pensavo. Nei suoi occhi c’era quasi un lampo di divertimento, così come in quelli di Basil. Anzi, bisogna dire la verità, per quanto incomprensibile: stavano entrambi ridendo.
Alla fine, Shorter fu messo all’angolo.
«Andiamo, Mr Grant – ansimava –, lei non mi può fare niente. È tutto perfettamente legale. E non fa del male a nessuno. È solo una messinscena, un’opera della nostra complessa società».
«Io non la biasimo, vecchio mio» disse Basil con voce tranquilla. «Ma voglio i suoi favoriti. E la sua calvizie. Sono del capitano Fraser?».
«Che diavolo significa tutto questo?!» esclamai, quasi urlando. «In che razza di incubo siamo finiti? Perché mai la calvizie di Mr Shorter dovrebbe essere del capitano Fraser? Com’è pos- sibile? Che diavolo c’entra il capitano Fraser con questa storia? Qual è il problema? Ha cenato con lui, Basil».
«No – disse Grant – non è così».
«Non è andato alla cena da Mrs Thornton?» chiesi, sgranando gli occhi.
«Be’» rispose Basil con un lento e strano sorriso «il fatto è che sono stato trattenuto da un ospite. Si trova, in camera mia, in realtà».
«In camera tua?» ripetei; ma ormai la mia immaginazione aveva raggiunto il punto in cui, se avesse detto nella carbonaia o nella tasca del panciotto, sarebbe stato lo stesso.
Grant si diresse verso la porta della camera, la spalancò ed entrò. Poco dopo ne uscì di nuovo, insieme all’ultimo dei prodigi in carne e ossa di quell’assurda serata: con un’aria come se volesse scusarsi, spingeva davanti a sé, tenendolo per la collottola, un vecchio reverendo zoppicante, calvo, coi favoriti bianchi e una mantellina scozzese.
«Sedetevi, signori» disse Grant, battendo le mani con vigore. «Sedetevi tutti e prendete un bicchiere di vino. Come ha detto lei, questa cosa non fa del male a nessuno, e se solo il capitano Fraser mi avesse accennato qualcosa, forse gli avrei impedito di buttare via una discreta somma. Non che vi sarebbe dispiaciuto, dico bene?».
I due pastori gemelli, intenti a sorseggiare il loro Borgogna con la stessa smorfia compiaciuta, scoppiarono a ridere, e uno di loro, come se niente fosse, si staccò i favoriti dal viso per posarli sul tavolo.
«Basil – dissi – se mi vuole bene mi salvi, che cosa significa tutto questo?».
Lui rise di nuovo.
«È solo l’ultima trovata da aggiungere alla sua collezione di mestieri stravaganti, Cherubino. Questi due signori, alla cui salute ho ora il piacere di brindare, sono due “trattenitori di professione”».
«E che diavolo vuol dire?» chiesi.
«È davvero molto semplice, Mr Swinburne» cominciò colui che era stato il reverendo Ellis Shorter di Chuntsey, nell’Essex; e fu per me uno shock indescrivibile sentire come da quella figura solenne e ormai familiare non giungesse più la voce altrettanto solenne e familiare, ma il tono vivace e un po’ brusco di un giovane uomo di città. «Davvero, non è niente di speciale. Noi siamo pagati dai nostri clienti per trattenere in conversazione, con un innocuo pretesto qualsiasi, le persone che vogliono tenere fuori dai piedi per qualche ora. E il capitano Fraser…» e qui esitò, sorridendo.
Anche Basil sorrise. Poi intervenne: «Il fatto è che il capitano Fraser, che è uno dei miei migliori amici, ci voleva entrambi fuori dai piedi. Parte stasera per l’Africa Orientale, e la signora con cui dovevamo cenare è… ehm, colei che si potrebbe definire “l’amore della sua vita”. Voleva passare quel paio d’ore solo con lei, e così ha assoldato questi due reverendi per trattenerci a casa, in modo da avere campo libero».
«E ovviamente» disse l’ex Mr Shorter con tono di scusa nei miei confronti «dovendo trattenere un gentiluomo dall’andare a cena da una signora, dovevo inventarmi qualcosa di misterioso e intrigante, qualcosa di serio, che non fosse per nulla banale».
«Oh – dissi – se è così la assolvo dal peccato di banalità».
«Grazie, signore» disse l’uomo rispettosamente «le sarò sempre grato per ogni raccomandazione».
Intanto l’altro si levò svogliatamente la sua calvizie artificiale, rivelando una capigliatura rossastra, e attaccò a parlare con aria sognante, forse ispirato dal Borgogna di Basil.
«È incredibile quanto siamo richiesti, signori. Il nostro ufficio è pieno di lavoro dal mattino alla sera. Non ho dubbi che ci abbiate già incontrati in precedenza. Badate bene, quando uno scapolo si dilunga con voi raccontando noiose storie di caccia mentre state fremendo per conoscere una certa persona, state certi che viene dal nostro ufficio. Quando si presenta da voi una signora pia e attacca a parlare della parrocchia, proprio mentre dovete andare dai Robinson, potete stare altrettanto certi che c’è il nostro zampino. Oppure quello dei Robinson».
«Solo una cosa non mi è chiara – dissi. – Come mai siete tutti e due reverendi?».
Un’ombra passò sulla fronte dell’improvvisato vicario di Chuntsey, nell’Essex.
«Forse c’è stato un errore – disse – ma non è colpa nostra. È stata la munificenza del capitano Fraser. Ha preteso che usassimo tutti i nostri mezzi e le nostre doti, pagando la tariffa più alta, per trattenere voi due, gentili signori. Ora, la tariffa più alta della nostra agenzia è quella riservata a chi impersona reverendi e vicari, essendo i personaggi più rispettabili e più impegnativi. Ci pagano cinque ghinee a visita. La buona sorte ci aiutato a portare a termine il nostro lavoro, con grande soddisfazione dell’agenzia; e d’ora in poi saremo vicari per sempre. Prima siamo stati colonnelli per due anni, che è il secondo ruolo meglio pagato: costa quattro ghinee».

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Rugiada d'oro, di Tommaso Landolfi

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Dal 28 Maggio è in libreria, la raccolta di Tommaso Landolfi A caso, edito da Adelphi. Per gentile concessione dell'editore, vi proponiamo l'incipit di uno dei racconti contenuti nel libro.


Rugiada d'oro

« Il Profeta della Nuova Religione procedeva, seguito da una piccola turba di discepoli, lungo le rive d’un fiume... ».
« Perché lungo le rive d’un fiume?».
« Per tre motivi: perché dall’acqua viene la vita, perché in quel fiume Egli era stato battezzato, e insine perché è costume dei profeti procedere lungo le rive d’un fiume ».
« Almeno il primo motivo val poco, e in certo senso inficia gli altri: Egli avrebbe potuto altrettanto bene procedere lungo le rive d’un lago o del mare ».
« E infatti ben presto lo fece, ossia il fiume cesse... ».
« “Cesse”? ».
« Cesse: diavolo, o piuttosto mio Dio, lo sapete pure che parlando di certe cose una certa aulicità di linguaggio è di prammatica. Insomma il fiume cedette il luogo a un lago (del resto e per l’appunto chiamato volgarmente mare), del quale era emissario ».
« Uhm. Ma: “luogo” e “lago”, che cacofonia ».
« Oh, be’!... Dalle Sue labbra uscivano alte parole... ».
« Come, alte? non più di altre, se uscivano dalle sue labbra, cioè allo stesso livello ».
« E di “alte” e “altre” che pensare?».
« Va bene, proseguite ».
« Alte parole, ed alate ».
« “Alte, altre, alate”: che guazzabuglio. Tutte le parole, poi, volano; ovvero intendete precisamente che le sue non avevano peso?».
« Al contrario, erano pesantissime e sommamente significanti! ».
« Allora risolvete un po’ voi la contraddizione ».
« E voi siete un malnato spirito positivo. Alate, nel senso che si libravano tra terra e cielo. Eppoi se m’interrompete sempre, addio racconto ».
« Già, già; andate avanti come vi piace ».
« Uscivano alte ed alate parole, ripeto. Egli si diceva figlio di Dio... ».
« Ed era? ».
« Fate per corbellare?... E prometteva agli uomini un’era di pace e di libertà, una nuova franchigia, un nuovo ordine d’innocenza ».
« E mantenne poi la promessa? ».
«Questo non c’entra. Prometteva, dico, e procedeva intanto lungo le rive... ».
« Animo, su codesto procedere siamo già d’accordo ».
« Procedeva; e i discepoli avidamente suggevano... ».
« Le sue alate parole, naturalmente ».
« Naturalmente; e si accalcavano alle falde del Suo camice... ».
 

@2018 Adelphi Edizioni spa Milano
 

 

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Il ballo, di Pablo Simonetti

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«La prima volta che ho letto un suo racconto l’ho fatto per curiosità, e non ho potuto abbandonarlo fino alla fine. La tensione ti cattura in dall’inizio. Era da tempo che non leggevo racconti così ben narrati da uno scrittore cileno.» 

Roberto Bolaño


Il primo Marzo Lindau porta in libreria la raccolta Vite vulnerabili finora inedita in Italia dello scrittore Pablo Simonetti, uno degli scrittori cileni più autorevoli contemporanei. La traduzione è a cura di Francesco Verde.

Cattedrale ve ne da un'anteprima con uno dei racconti contenuti nella raccolta.

 

Il ballo


Era la vigilia di Capodanno. Io e Mariana eravamo stati invitati da alcuni amici a una festa nella loro casa al mare. Salutavamo Miguel, il nostro anfitrione, quando mi giunse alle orecchie una voce effeminata: «Miguelito, porto il pollo in tavola?». La voce sembrava mixata al sintetizzatore. Miguel non mostrò alcun fastidio per l’interruzione, né per il vezzeggiativo e lo sgradevole timbro di voce. Si fece di lato, e dietro la sua figura di pretore romano comparve un ometto alto quanto me, un metro e settanta o giù di lì, ma della metà del mio peso. Indossava una maglietta bianca, dalle cui maniche spuntavano due lunghe braccia rachitiche, e aveva un grembiule stretto in vita. «Cucho… Questi sono i nostri amici Esteban e Mariana». La voce professorale del padrone di casa contrastava tanto con quella del presunto domestico, che risultò non meno fastidiosa. L’informalità di quel loro scambio di battute mi mise a disagio, anche un po’ in imbarazzo, sebbene non ne capissi il perché. Mariana salutò con un cenno del capo. Io rimasi immobile. «Ciaooo…» salutò l’uomo in tono mellifluo, con lo sguardo rivolto al pavimento di cotto incerato ed entrambe le mani poggiate sul fianco destro. Aveva la pelle del viso molto avvizzita, a causa, suppongo, del sole e dell’aria salmastra; profonde rughe segnavano il contorno dei suoi occhi, neri come voragini. Il naso, affilato e aquilino, sembrava sul punto di gocciolare; la testa, calva e abbronzata, era costellata di lentiggini. «Allora, Miguel? Porto il pollo o no?» protestò l’ometto, torcendosi tutto come un bimbo capriccioso. La domanda suonò alquanto autoritaria, e posta con un tono di voce che mi parve eccessivamente alto per la circostanza: quasi gridando. Fu per questo, forse, che notai l’apparecchio acustico al suo orecchio sinistro. Senza rispondergli, Miguel si fece più vicino a noi e sussurrò: «Lavora per la mia famiglia da più di trent’anni». Da un gruppo di invitati uscì Inés, la padrona di casa. Onorava il suo innato buongusto con un sari viola e una coroncina di lustrini. Aveva gli splendidi capelli neri raccolti in una coda. Ci accolse con un sorriso smagliante e, prendendoci a braccetto, ci accompagnò in terrazza. La casa, illuminata da candelabri dal disegno orientale, profumava d’incenso; dal pergolato della terrazza pendevano strisce di stoffa rossa. Dopo averci lasciati con i nostri drink fra le mani, Inés chiamò il domestico con un gesto aggraziato. L’ometto la seguì tra la gente, camminando a passi corti e affrettati, come un fedele servitore cinese. All’esterno, il mormorio del mare fra gli scogli, ai piedi della casa, sovrastava il vocio degli invitati. Ci si fece incontro Tomasito, Tomás Urmeneta, nostro amico e membro di spicco della comunità balneare. Un corpulento, barbuto viveur. «Come vi sembra Cucho?» ci chiese a bruciapelo, con uno sguardo pieno di malizia. Senza attendere risposta, continuò: «È davvero un personaggio: nato a Puerto Saavedra e scampato al maremoto. Per uno come lui, finire a fare il custode di una casa vicina al mare è quasi uno scherzo del destino, non trovate?». Passammo a parlare d’altro, non ricordo di cosa. La mia mente rimaneva concentrata sulla strana figura del custode. Fu servita la cena, preparata proprio da Cucho, così mi dissero. Era un pollo tandoori, accompagnato con riso e frutta. Non ho una particolare predilezione per i piatti esotici, ma devo ammettere che quello era buonissimo. Il domestico girava in silenzio per la casa, pronto a soddisfare ogni necessità degli invitati, con insistenza quasi aggressiva. Non c’era piatto o bicchiere rimasto vuoto che sfuggisse al suo zelo. Constatarne l’abilità non mi rendeva meno incomprensibile, però, il fatto che un simile personaggio potesse lavorare in casa dei nostri amici. Più tardi, mentre fumavamo una sigaretta, Tomasito mi disse: «Visto come cucina lo stronzetto? È un fenomeno». Parlava con accento argentino: gli piaceva presentarsi come un uomo di mondo. «E sapessi la vita che fa. A volte me ne parla al telefono». Fece una pausa, tirò una boccata di fumo e si guardò intorno, per accertarsi che nessuno stesse ascoltando. A voce bassa, stavolta senza accento, aggiunse: «C’è un tipo che gli piace, ma quello lo tratta male. Non sai come ci soffre. Quando s’incontrano in paese, nemmeno lo saluta. Tira dritto, si ubriaca e poi se ne torna a casa. Il poverino è innamorato, ma il tipo non ne vuole sapere». Tomasito adorava raccontare storielle scabrose, ma quella mi turbò più di qualsiasi altra avessi mai ascoltata da lui. «Potresti scriverci su un articolo» commentò in tono ironico, quasi di sfida. «Sì, forse potrei» dissi. Sembrava compiaciuto del mio turbamento. Per un po’ non riuscii a pensare ad altro che al custode. Lo immaginai in un giorno d’inverno, chiuso nel suo capanno maleodorante, con i cani che avevo visto gironzolare intorno alla nostra auto, all’arrivo; seduto accanto alla finestra, aspettando con ansia e timore la visita del tipo. Provai a scacciare l’immagine dalla mia testa, senza riuscirci. Una musica si diffuse in tutta la casa, con ritmi prima orientaleggianti, poi decisamente più occidentali. La reazione dei presenti non si lasciò attendere. Subito, una ventina di invitati presero a ballare in terrazza. Era quasi mezzanotte. Io e Mariana scambiavamo cenni d’intesa con Miguel e Inés, che ballavano accanto a noi. Ebbi la sensazione di far parte di un gruppo di formiche eccitate attorno a una goccia di miele. Un’occhiata maliziosa di Tomasito, sommata a un certo tramestio alle mie spalle, mi fece capire che stava accadendo qualcosa di strano. Mi voltai e mi trovai davanti il custode. Ballava ancheggiando, a non più di un metro di distanza. Teneva lo sguardo basso, ma capii che il motivo di quel dimenarsi ero io. Mi girai verso Mariana e vidi sul suo volto un sorriso congelato, quasi una smorfia. Con gli occhi, cercai subito Miguel. Il mio sconcerto era palese e in qualche modo chiedevo aiuto. Miguel mi lanciò uno sguardo solidale. «Quando beve, gli viene da ballare» mi disse, divertito. «Non preoccuparti, è inoffensivo». Pensai che quello doveva essere lo stesso tono di voce che usava per tranquillizzare i suoi pazienti. «Evidentemente gli piaci» azzardò Inés, ridendo e facendo ondeggiare il suo sari. «Balla un po’ con lui. Lo renderai felice». «Sarà meglio che balli con me, invece» intervenne Mariana, afferrandomi per i fianchi. Continuai a ballare con lei, sebbene non riuscissi a non tener conto della presenza del domestico. Mariana fingeva di non accorgersene. Tutti i miei sensi erano concentrati su quanto avveniva un metro dietro di me. Il ballo del domestico aveva evidentemente catturato l’interesse degli invitati; e anch’io, di riflesso, avevo stuzzicato la loro curiosità. All’inizio pensai di protestare per la spiacevole situazione, ma la disinvolta cordialità dei padroni di casa mi frenò. Non riuscivo a spiegarmi perché Miguel non ordinasse al domestico di smettere di ballare e di tornarsene in cucina. In quel momento, una mano mi sfiorò la schiena. Mi girai di scatto, deciso ad affrontare il mio molestatore. Ebbi l’impulso irrefrenabile di colpirlo. Tuttavia, qualcosa nei suoi movimenti mi fece supporre che mi avesse toccato senza volerlo, o così volli credere. Accanto a me, Miguel osservava la scena, ridendo di gusto e applaudendo alle piroette del domestico. Incrociai lo sguardo del custode: innocente, timido, ansioso, ma con una luce di speranza ravvivata dall’alcol. Il suo modo di muoversi e di gesticolare aveva qualcosa di infantile, come quello di un bambino che invita un altro bambino a partecipare a un gioco che ha appena inventato. D’improvviso non seppi più se ciò che sentivo era rabbia o compassione. Me ne stavo lì, quasi immobile, ma nel segreto del mio cuore ballavo con lui. Ricordo di avere contato a voce alta gli ultimi dieci secondi dell’anno vecchio. Abbracciai Mariana e poi Cucho. Dovevo essermi emozionato, poiché mi ci volle un momento per riprendere fiato e dirgli, accostando le labbra al suo apparecchio acustico: «Buon anno, Cucho».

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Victorio Ferri racconta una storia, di Sergio Pitol

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Il 22 Febbraio 2018 gran vía porterà in libreria, tradotto da Stefania Marinoni La pantera e altri racconti, del messicano Sergio Pitol, uno dei grandi classici viventi e maestro indiscusso della letteratura latinoamericana.
Pubblichiamo uno dei racconti della raccolta, con un piccolo estratto dalla prefazione di Enrique Vila-Matas.

 

Dalla prefazione

Hai messo in moto la follia
di Enrique Vila-Matas

 

9 agosto

«Mi dica, come definirebbe lo stile del Pitol scrittore di racconti?» mi ha chiesto Raquel Garzón il giorno in cui mi ha telefonato a casa. Ho risposto con un’altra domanda: «Ha letto Notturno di Bukhara, uno dei racconti più belli e perfetti che siano mai stati scritti?» Le ho spiegato che, terminata la lettura di Notturno di Bukhara, sono rimasto per un bel po’ a chiedermi se fossi arrivato alla fine e questo mi ha spinto a rileggere il racconto più volte finché ho capito che quell’insieme di frammenti o dettagli di cui è composto aveva paradossalmente trasformato il racconto in una storia chiusa, completamente sigillata se non per un mistero che ho capito di non poter mai risolvere.
«Ci sono racconti in cui Pitol sembra raccontare tutto» mi ha fatto notare Raquel Garzón. «Racconta tutto e lascia un mistero da risolvere, che è un altro modo di raccontare tutto. Lo stile di Pitol consiste nel rifuggire da quelle persone orribili che sono piene di certezze. Il suo stile consiste nel distorcere ciò che vede. Il suo stile consiste nel viaggiare, perdere Paesi e in essi smarrire sempre una o due paia di occhiali, perderli tutti. Lo sa che Sergio perde sempre gli occhiali? Forse per questo Juan Villoro ha scritto che la narrazione di Pitol non vuole chiarire ma distorcere ciò che vede».
«Capisco, credo di capire. O chissà, forse non capisco niente».
«Magari non c’è niente da capire, solo questo motto che sembra accompagnare sempre il maestro: ‘Perdere gli occhiali e perdere i Paesi, perdere tutto. Non avere niente ed essere sempre uno straniero’».  «Cosa intende con distorcere?» ha domandato Raquel Garzón prima di riattaccare.
«Telefoni a Juan Villoro» ho risposto per rendere tutto ancora più ingarbugliato. Juan Villoro? Quando ha riattaccato ho pensato, o meglio mi sono ricordato, che Pitol lascia sempre i personaggi a briglia sciolta, liberi di crearsi un proprio mistero. Ho avuto la sensazione di essermi appena preso quella libertà.

 

Victorio Ferri racconta una storia

So che mi chiamo Victorio. So che mi credono pazzo (convinzione la cui insensatezza a volte mi fa infuriare, altre semplicemente mi diverte). So che sono diverso dagli altri, ma anche mio padre, mia sorella, mio cugino José e persino Jesusa sono diversi, e nessuno pensa che siano pazzi: cose peggiori si dicono di loro. So che non assomigliamo per nulla al resto della gente e che nemmeno tra noi esiste la minima somiglianza. Ho sentito dire che mio padre è il demonio e anche se finora non sono mai riuscito a scorgere un segno che lo identifichi come tale, la mia convinzione che sia chi davvero è risulta ormai inscalfibile. Sebbene in qualche occasione mi riempia di orgoglio, in genere non mi piace né mi intimorisce far parte della progenie del maligno. Quando un contadino si azzarda a parlare della mia famiglia, dice che casa nostra è l’inferno. Prima di sentire questa affermazione immaginavo che la dimora dei diavoli fosse diversa (pensavo, ovviamente, alle classiche fiamme), ma ho cambiato idea e ho dato credito a quelle parole quando dopo un arduo e doloroso meditare mi sono reso conto che nessuna casa di mia conoscenza è simile alla nostra. In quelle non abita il male, in questa sì. La perversità di mio padre è così vasta da sfiancarmi; vedo il piacere nei suoi occhi quando ordina la segregazione di qualche contadino nelle stanze in fondo alla casa. Mentre li fa picchiare e osserva il sangue sgorgare da quelle schiene lacerate mostra i denti in un’espressione di gioia. È l’unico nella fattoria che sa ridere così, ma io sto imparando. La mia risata sta diventando così tremenda che le donne nel sentirla si fanno il segno della croce. Quando la soddisfazione ci invade, mostriamo i denti ed emettiamo una sorta di nitrito compiaciuto. Nessun contadino, nemmeno in preda ai fumi dell’alcol, si azzarda a ridere come noi. La gioia, se ancora ricordano cosa sia, crea sui loro volti una smorfia che non osa trasformarsi in sorriso. La paura ha invaso le nostre proprietà. Mio padre ha proseguito il lavoro di suo padre e, quando a sua volta lui non ci sarà più, sarò io il signore della tenuta, e diventerò il diavolo: sarò la Frusta, il Fuoco e il Castigo. Obbligherò mio cugino José ad accettare il corrispondente della sua parte in denaro e, dato che preferisce la vita urbana, potrà andarsene in quella Città del Messico di cui tanto parla, che Dio solo sa se esiste o se la inventa per farci invidia; io rimarrò con le terre, le proprietà e gli uomini, con il fiume in cui mio padre ha affogato suo fratello Jacobo, e, per mia disgrazia, con questo cielo che ci sovrasta ogni giorno, con il suo colore cangiante, con nuvole che esistono solo un istante per poi trasformarsi in altre, che a loro volta saranno altre ancora. Cerco di alzare lo sguardo il meno possibile perché mi terrorizza sapere che le cose non sono sempre identiche, che mi sfuggono vertiginosamente davanti agli occhi. In compenso Carolina, per infastidirmi, nonostante il rispetto che mi deve in quanto fratello maggiore, passa lunghi momenti a contemplare il cielo e di sera, a cena, racconta, accompagnata da uno sguardo stupido che non raggiunge mai l’estasi, che al tramonto le nuvole avevano un color oro su sfondo lilla, o che al crepuscolo il colore dell’acqua soccombeva a quello del fuoco, o altre idiozie simili. Se c’è qualcuno davvero posseduto dalla demenza in casa nostra, quella è lei. Mio padre, compiacente, finge un’eccessiva attenzione e la invita a continuare, come se le stupidaggini che ascolta potessero avere minimamente senso per lui! Con me a cena non parla mai, ma sarei sciocco a offendermi visto che d’altra parte solo a me concede di godere della sua intimità ogni mattina, all’alba, quando io torno a casa e lui, con in mano una tazza di caffè che beve frettolosamente, si prepara a lanciarsi nei campi per ubriacarsi di sole e abbruttirsi con i lavori più duri. Perché il diavolo (sebbene non me ne spieghi il motivo) è assillato dalla necessità di dimenticare i propri crimini. Sono sicuro che se affogassi Caterina nel fiume non proverei il minimo rimorso. Forse un giorno, quando potrò liberarmi di queste lenzuola sporche che nessuno, da quando mi sono ammalato, è venuto a cambiare, lo farò. Allora potrò sentirmi nella pelle di mio padre, capire cosa si prova anche se, disgraziatamente, incomprensibilmente, tra noi ci sarà sempre una differenza: lui amava suo fratello più della palma che ha piantato davanti al portico e della cavalla alsaziana e della puledrina che questa ha partorito, mentre per me Carolina è solo un peso morto e una presenza nauseabonda. In questi giorni la malattia mi ha portato a squarciare più di un velo fino a oggi intatto. Nonostante dorma da sempre in questa stanza, posso dire che solo ora essa mi svela i suoi segreti. Non avevo mai notato, per esempio, che sono dieci le travi che corrono sul soffitto, né che sulla parete di fronte alla quale giaccio ci sono due grandi macchie di umidità, o che, e questa scoperta mi è intollerabile, sotto il pesante comò di mogano si annida una gran progenie di topi. Il desiderio di acchiapparli e sentire sulle labbra il battito della loro agonia mi attanaglia. Ma tale piacere mi è per il momento precluso. Non si creda che la molteplicità di queste scoperte fatte giorno dopo giorno mi consenta di sopportare la malattia, nient’affatto! La nostalgia, sempre più forte, delle scorribande notturne è costante. A volte mi chiedo se qualcuno mi stia sostituendo, se qualcuno di cui ignoro il nome usurpi le mie funzioni. Tale repentina inquietudine svanisce sul nascere, mi rallegra pensare che nessun altro nella fattoria potrebbe soddisfare i requisiti che un compito tanto delicato e laborioso richiede. Solo io che sono conosciuto dai cani, dai cavalli, dagli animali domestici posso avvicinarmi alle baracche e ascoltare ciò che mormora la servitù senza suscitare il latrato, il canto o il nitrito con cui quegli animali denuncerebbero chiunque altro. Il mio primo servizio lo feci senza rendermene conto. Scoprii che dietro la casa di Lupe c’era la tana di un topo. Steso a terra, assorto nella contemplazione del buco, trascorsi varie ore in attesa che l’animaletto apparisse. Mi toccò vedere, mio malgrado, il sole scendere un’altra volta e al suo sparire fui vinto da un profondo torpore contro il quale ogni resistenza fu vana. Quando mi svegliai, era calata la notte. Dentro la baracca si udiva il tenue mormorio di voci svelte e furtive. Appoggiai l’orecchio contro una fessura e fu allora che per la prima volta mi resi conto delle dicerie che circolavano sulla mia famiglia. Quando riportai la conversazione, il mio servizio fu premiato. Ebbi l’impressione che mio padre si sentisse lusingato nello scoprire che io, contro ogni aspettativa, potevo rivelarmi utile. Ne fui felice perché da quel momento acquisii una superiorità innegabile su Carolina. Sono passati già tre anni da quando mio padre ordinò il castigo di Lupe per maldicenze. Il tempo mi sta rendendo un uomo e, grazie al mio lavoro, ho accumulato capacità che sebbene innate non cessano di sembrarmi prodigiose: ho imparato a vedere nella notte più fitta, il mio udito è diventato fine come quello di una nutria, cammino così silenziosamente, così, potremmo dire, alatamente da far invidia a uno scoiattolo, posso stendermi sui tetti delle capanne e rimanerci per molto tempo finché non ascolto le frasi che più tardi la mia bocca ripeterà. Ho imparato a fiutare ciò di cui parleranno. Posso dire, con superbia, che le mie notti raramente si rivelano inutili perché dai loro sguardi, dal modo in cui la bocca si contrae, da un certo fremito dei muscoli, dall’odore emanato dai loro corpi, riconosco coloro che, spinti da un’ultima vergogna o da un residuo di dignità, di rancore, di sconforto, la notte si abbandoneranno a confidenze, confessioni, mormorii. In questi tre anni sono riuscito a non farmi mai scoprire, lasciando attribuire a poteri satanici la capacità di mio padre di conoscere le loro parole e punirle nel modo dovuto. Nella loro ingenuità credono che sia una delle facoltà del demonio. Io me la rido. La mia convinzione che lui sia il diavolo ha ragioni ben più profonde. Talvolta, solo per divertimento, spio la baracca di Jesusa. Ho potuto contemplare il suo corpicino sodo che s’intreccia alla vecchiaia di mio padre. L’impudicizia delle loro contorsioni mi frastorna. Mi dico, nel mio profondo intimo, che la tenerezza di Jesusa dovrebbe essere rivolta a me, che sono suo coetaneo, e non al maligno, che da tempo ha passato i settanta. Il dottore è venuto più volte. Mi esamina con presuntuosa preoccupazione. Si rivolge a mio padre e con voce grave e misericordiosa sentenzia che non c’è speranza, che non vale la pena di tentare una cura e che bisogna solo aspettare con pazienza l’arrivo della morte. In quei momenti osservo il verde negli occhi di mio padre diventare più chiaro. Uno sguardo di esultanza (di scherno) compare in essi e a quel punto non riesco a trattenere una fragorosa risata che fa impallidire il medico di incomprensione e paura. Quando infine se ne va, anche il sinistro scoppia a ridere, mi dà una pacca sulla spalla e sogghigniamo insieme fino alle lacrime. Si sa che tra le molte sventure che possono colpire un uomo, le peggiori provengono dalla solitudine. Sento che questa cerca di abbattermi, distruggermi, insinuarsi nei miei pensieri. Fino a un mese fa ero completamente felice. Le mattine le dedicavo al sonno, di pomeriggio scorrazzavo nei campi, andavo al fiume o mi sdraiavo bocconi sull’erba, aspettando il passare delle ore. Di notte ascoltavo. Pensare mi era doloroso ed evitavo di farlo. Ora frequente sono preda di incertezze e ciò mi terrorizza. E questo sebbene sappia che non morirò, che il medico sbaglia, che nel Refugio c’è sempre bisogno di un uomo, perché quando il padre muore il figlio deve prendere il comando: è sempre stato così e le cose non possono andare in modo diverso (per questo io e mio padre, quando si afferma il contrario, scoppiamo a ridere). Ma quando solo, triste, al termine di un lungo giorno comincio a pensare, i dubbi mi attanagliano. Ho constatato che niente accade fatalmente in un unico modo. Nella ripetizione dei fatti più banali si producono varianti, eccezioni, sfumature. Perché, dunque, la tenuta non potrebbe rimanere senza il figlio che sostituisce il padrone? Un’inquietudine maggiore si è impressa nella mia mente negli ultimi giorni, l’idea che forse mio padre creda che morirò e che la sua risata non sia, come supposto, di scherno verso il dottore bensì di esultanza al pensiero della mia scomparsa, di gioia per potersi finalmente liberare della mia voce e della mia presenza. È possibile che chi mi odia lo abbia convinto che io sia pazzo… Nella cappella che i Ferri possiedono nella chiesa parrocchiale di San Rafael c’è una piccola lapide dove si legge: Victorio Ferri morto bambino il padre e la sorella lo ricordano con affetto.

Città del Messico, 1957

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Il martire, un racconto di Katherine Anne Porter

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Bompiani riunisce l'opera degli scritti brevi di Katherine Anne Porter, vincitrice nel 1966 del National Book Award e Premio Pulitzer, con il libro Lo specchio incrinato.
Pubblichiamo uno dei racconti della raccolta per gentile concessione dell'editore.

 

Il martire
tradotto da Giovanna Granato

Rubén, il più illustre pittore messicano, era pazzo d’amore per la sua modella Isabel che, da parte sua, aveva un legame romantico con un artista rivale il cui nome poco importa. Isabel chiamava Rubén il suo piccolo “Churro”, che è una specie di dolcetto, oltre a essere un nome molto diffuso tra i cagnolini messicani. Rubén lo trovava un nome delizioso e diceva a chi andava a trovarlo in studio: “E adesso mi chiama ‘Churro’! Ah! Ah!” Quando rideva gli ballava il panciotto perché stava ingrassando. Allora Isabel, che era alta e magra, con le dita lunghe e affusolate, ficcava le mani dentro un mazzo di fiori che Rubén le aveva regalato e spargeva tutti i petali, oppure urlava: “Sì, come no!” in tono di scherno, e gli sporcava di pittura la punta del naso. L’avevano anche vista tirargli i capelli e le orecchie senza pietà. Quando le persone per bene che si recavano in pellegrinaggio percorrevano la stradina di acciottolato, attraversavano il patio facendo attenzione alle pozzanghere e arrancavano su per le scale traballanti per dare uno sguardo a quel personaggio così grande eppure così alla mano, lei gridava: “Ecco che arrivano le belle pecorelle!” E si godeva il loro sguardo meravigliato di fronte a tanta audacia. Si annoiava spesso, perché certe volte passava tutto il santo giorno in piedi a farsi e disfarsi le trecce mentre Rubén la ritraeva, e dimenticavano di mangiare fino alle ore beate; ma non sapeva dove altro andare finché il suo amante, il rivale di Rubén, non avesse venduto un quadro, perché a detta di tutti Rubén avrebbe sparato a vista all’uomo che avesse tentato di rubargli Isabel. Perciò Isabel restava, e Rubén le fece ben diciotto disegni per il suo murale, e Isabel ogni tanto cucinava per lui, litigava con lui e tirava fuori la lunga lingua rossa davanti ai visitatori che non le andavano a genio. Rubén l’adorava. Stava giusto cominciando il diciannovesimo disegno di Isabel quando il suo rivale vendette un quadro enorme a un riccone a cui l’arredatore aveva suggerito di appendere un pannello verde e arancio su una certa parete della nuova casa. Per una felice coincidenza, il suddetto quadro era guarda caso proprio verde e arancio. Il riccone lo pagò una fortuna ma, spiegò, ne fu ben contento perché tappezzare quello spazio gli sarebbe costato sei volte tanto. Fu contento anche il rivale, anche se si astenne dallo spiegare il perché. Il giorno dopo lui e Isabel andarono in Costa Rica, e per quanto ci riguarda la loro storia finisce qui. Rubén lesse il biglietto d’addio:

Povero il mio vecchio Churro! Peccato che la tua vita è così noiosa e io non riesco più a viverla. Me ne vado con uno che non mi permetterà mai di cucinare per lui e che invece farà un murale dove io comparirò cinquanta volte anziché soltanto venti. Avrò anche le ciabattine rosse e una vita allegra per la gioia del mio cuore.

La tua vecchia amica, Isabel

Quando Rubén lesse quelle parole si sentì come uno che annega. Gli mancò il respiro e agitò a lungo le braccia. Poi scolò una grossa bottiglia di tequila, senza limone né sale a stemperarla, si stese in terra con la testa dentro una tavolozza di colori appena mischiati e sbottò in un pianto dirotto. Ne uscì completamente cambiato. Apriva la bocca solo per parlare di Isabel, del suo viso angelico, dei suoi modi simpatici e dei suoi scherzetti: “Mi prendeva a calci negli stinchi coprendomi di lividi,” diceva in tono affettuoso, e gli occhi si riempivano di lacrime. Sbocconcellava di continuo dolcetti croccanti attinti da una busta vicino al cavalletto. “Capito?” diceva, sollevandone uno prima di prenderne a sazietà, “mi chiamava ‘Churro’ come questo!” Gli amici furono tutti contenti di veder sparire Isabel e dissero fra loro che era stato fortunato a perdere quella diavolessa pelle e ossa. Decisero di aiutarlo a dimenticare. Ma non c’era verso di distrarlo. “Un’altra così non esiste,” diceva, scuotendo caparbiamente la testa. “Andandosene si è portata via la mia vita. Non ho nemmeno l’animo di vendicarmi.” Poi aggiungeva: “Ve lo dico io, quel povero angioletto della mia Isabel è un’assassina perché mi ha spezzato il cuore.” Ogni tanto si aggirava nervosamente per lo studio, calciando con le pantofole di feltro l’accozzaglia di disegni impilati a raccogliere polvere, oppure macinava per qualche minuto i colori, dicendo con voce afflitta: “Prima tutto questo me lo faceva lei. Quant’era buona!” Ma poi tornava sempre alla finestra, a mangiare dolci, frutta e torte di mandorle. Quando gli amici lo portavano fuori a cena, lui se ne stava in silenzio a mangiare piatti enormi di qualsiasi cosa, innaffiandoli con il vino dolce. Poi attaccava a piangere, e parlava di Isabel. Gli amici concordarono che stava rimbecillendo. Isabel era andata via da quasi sei mesi e Rubén si rifiutava anche solo di toccare la sua diciannovesima figura, figuriamoci poi di cominciare la ventesima, e il murale non andava a parare da nessuna parte. “Sta’ a sentire, mio caro amico,” disse Ramón, che faceva caricature e teste di belle ragazze per le riviste, “perfino io, che non sono un grande artista, so che le donne sono capaci di rovinare il lavoro di un uomo. Ti dirò, quando Trinidad mi ha lasciato, per una settimana sono stato uno straccio. Niente aveva sapore, non distinguevo un colore dall’altro, ero letteralmente insensibile. Quella sgualdrinella svergognata per poco non mi rovinava. Ma tu, amigo, tirati su, e finisci il tuo meraviglioso murale per il mondo, per il futuro, e ricordati di Isabel solo quando ringrazi Dio che se n’è andata.” Rubén scuoteva la testa spiattellato sul divano a sgranocchiare mandorle dolci, e piagnucolava. “Questo dolore al cuore mi ucciderà. Non esiste un’altra come lei.” I colletti cominciarono tutt’a un tratto a non volerne più sapere di allacciarsi sotto il mento. Allargò la cintura di tre buchi e spiegò: “Sto immobile. Non riesco più a muovermi. La mia energia si è trasformata in dolore.” Gli strati di grasso gli si accumulavano insidiosamente addosso, si gonfiò tanto da non riuscire più a riconoscersi. Ramón, mostrando la sua nuova caricatura di Rubén agli amici, dichiarò: “Giuro che avrei potuto disegnarlo col compasso. I bottoni della camicia gli scoppiano. È veramente in pericolo.” Ma Rubén se ne stava solo soletto a mangiare imbronciato e a piangere su Isabel dopo la terza bottiglia di vino dolce della serata. Gli amici ne discussero a lungo, giungendo alla conclusione che ormai c’erano davvero poche speranze; era tempo che qualcuno gli dicesse la vera causa del suo male. Ma tutti volevano delegare il compito agli altri. E si scoprì che non uno nel gruppo né, forse, in tutto il Messico, era così indelicato da assumersi quel compito. Decisero di appioppare la responsabilità a un medico universitario. La mente di una persona siffatta avrebbe unito una sensibilità sufficientemente raffinata al massimo grado di conoscenze tecniche. Era quella la cosa diplomatica, giudiziosa e sofistica da fare. La fecero. Il medico trovò Rubén seduto davanti al cavalletto, di fronte alla diciannovesima figura incompleta di Isabel. Piangeva e, tra un singhiozzo e l’altro, ingollava formaggio morbido di Toluca con il mango speziato a cucchiaiate. Debordava dallo sgabello da pittore, come un cumulo di impasto per il pane. Al medico raccontò per prima cosa di Isabel. “Le giuro sul mio onore, amico mio, che nemmeno io ho saputo catturare sulla tela la linea della bellezza della sua coscia e dell’incavo del piede. Per non dire che era un angelo di bontà.” Poi disse che quel dolore al cuore l’avrebbe portato alla tomba. Il medico rimase profondamente turbato. Lo consolò a lungo senza trovare il coraggio di prescrivere cure materiali a uno di così squisita sensibilità. “Ho soltanto rimedi grossolani e volgari,” e con gesto aggraziato parve offrirglieli tra il pollice e l’indice, “ma sono l’unico contributo che il mondo della carne sia in grado di offrire per guarire lo spirito ferito.” Li sciorinò uno a uno. Si distribuirono in una fila ordinata ma poco convincente: dieta, aria fresca, lunghe passeggiate, frequente ginnastica pesante, preferibilmente alla sbarra, docce ghiacciate, quasi niente vino. Rubén parve non sentirlo. Il suo mormorio continuo e immemore fluiva caldo tra le frasi solennemente arrotondate del medico. “I dolori sono quasi insopportabili la notte, quando sono solo a letto a fissare il cielo deserto dalla mia stretta finestra, e penso: ‘Presto la mia tomba sarà più stretta di quella finestra, e più buia di quel firmamento,’ e mi si stringe il cuore. Ah, Isabelita, mia carnefice!” Il medico uscì rispettosamente in punta di piedi lasciandolo lì a mangiare formaggio e fissare con gli occhi pieni di lacrime la diciannovesima figura di Isabel. Gli amici cominciarono ad averne le tasche piene e lo lasciarono sempre più da solo. Per varie settimane nessuno lo vide a parte il proprietario di un piccolo bar che si chiamava Le scimmiette, dove Rubén portava sempre a cena Isabel e dove adesso andava a mangiare da solo. Lì una sera di punto in bianco Rubén si strinse il cuore con violenza, si alzò dalla sedia e rovesciò il piatto di tamales con salsa al pepe che stava mangiando. Il proprietario corse da lui. Rubén disse qualcosa in un frettoloso sussurro, fece un gesto molto d’effetto portandosi un braccio sopra la testa e, per dirla nel modo più gentile possibile, morì. Il giorno dopo gli amici accorsero a trovare il proprietario, che fornì una versione fortemente istrionica dell’increscioso episodio. Ramón stava giusto raccogliendo il materiale per una biografia intima del pittore più eminente del suo paese, da illustrare con un gran numero delle caricature disegnate di suo pugno. La dedica ce l’aveva già: “Al suo amico e maestro, genio ispirato e incomparabile dell’arte sul continente americano.” “Ma che cosa le ha detto,” insistette Ramón, “alla fine di quel meraviglioso momento? È della massima importanza. Sono le ultime parole di un grande artista, dovrebbero essere molto eloquenti. Le ripeta con precisione, mio caro amico! Aggiungeranno splendore alla sua biografia, anzi, alla storia dell’arte tutta, se sono eloquenti.” Il proprietario annuì con l’aria di chi ha mangiato la foglia. “Lo so, lo so. Be’, forse non mi crederete se vi dico che le sue ultime parole sono state un messaggio veramente sublime a voi, suoi buoni e fedeli amici, e al mondo. Ha detto, signori miei: ‘Di’ loro che sono un martire dell’amore. Perisco per una causa degna del mio sacrificio. Muoio perché mi si è spezzato il cuore!’ e poi ha detto: ‘Isabelita, mia carnefice!’ Tutto qui, signori miei,” concluse il proprietario con semplicità e reverenza. Chinò il capo. Chinarono tutti il capo.  “Davvero magnifico,” disse Ramón, dopo un congruo intervallo di silenzio addolorato. “La ringrazio. È un epitaffio superbo. Le sono molto grato.” “Aveva anche una vera adorazione per i miei tamales con salsa al pepe,” aggiunse il proprietario in tono modesto. “Sono stati l’ultimo piacere che si è concesso.” “Saranno opportunamente menzionati, non tema, mio buon amico,” disse Ramón piangendo, la voce che si sgretolava sinceramente commossa, “e anche il nome del suo bar. Diventerà un tempio per gli artisti quando si verrà a sapere. Si fidi, provvederò io a serbare per il futuro ogni minimo dettaglio della vita e del carattere di questo grande genio. Ogni episodio ha un suo interesse sacro, un interesse prezioso e singolare. Sì, davvero, menzionerò i tamales.”

© 2018 Giunti Editore S.p.A.

 

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Segatura, di Chris Offutt

In libreria la raccolta Nelle terre di nessuno di Chris Offutt, pubblicata da Minimum Fax. Uno tra gli esordi più fulminanti degli ultimi decenni, che aggiunge alla grande tradizione del racconto americano un nuovo, potente capitolo. La traduzione è di Roberto Serrai.
Cattedrale pubblica il primo racconto della raccolta, ringraziando l'editore per la gentile concessione. 

 

Segatura

Sulla collina nessuno ha finito le superiori. Da queste parti ti giudicano da come ti comporti, non da quanto ti credono intelligente. Io non vado a caccia, non vado a pesca e nemmeno lavoro. I vicini dicono che penso troppo. Dicono che sono come mio padre, e Mamma ha paura che abbiano ragione. Quand’ero piccolo avevamo un cane da procione che si era incartato con una puzzola e poi era stato così sfacciato da infilarsi sotto la veranda. Stava lì al buio, uggiolava e non voleva uscire. Papà gli sparò. Questo non lo fece puzzare di meno, ma Papà si sentì meglio. Disse a Mamma che se non sapeva distinguere un procione da una puzzola meritava di essere ucciso. «Però l’hai lasciato sotto la veranda», disse Mamma. «Lo so», disse Papà. «Anch’io gli volevo bene a Tater. Non ce la faccio mica a sotterrarlo». Guardò me e mio fratello. «Non pensarci nemmeno a mandare i ragazzi sotto la veranda», esclamò Mamma. «Il cane è tuo e lo tiri fuori tu».
Sparì dietro la casa, turandosi il naso. Papà ci guardò di nuovo. «Voi sentite qualcosa?» Avevo le lacrime agli occhi, ma feci di no con la testa. «Io li odio gli animali morti», disse Warren. «Anche le mogli te le raccomando», disse Papà, e mi passò il fucile. «Prendi, Junior. Mettilo a posto e portami la canna col mulinello». Corsi in casa a prenderla. Quando tornai fuori Papà si era messo in ginocchio e puntava la torcia sotto la veranda. In fondo, in un angolo, c’era il vecchio Tater, morto stecchito. «Tocca lanciare alla cieca», disse Papà. «Magari mi diverto pure». Allargò le gambe, fece scattare il polso, mandò la lenza sotto la veranda e la recuperò. Aveva agganciato un vecchio straccio. Lanciò di nuovo e stavolta agganciò Tater, ma quando recuperò era rimasto solo un ciuffo di peli. Al terzo lancio gli si impigliò la lenza. Diede un bello strattone e la spezzò. La canna partì come una frusta e prese Warren in faccia. Quando lo sentì gridare Mamma arrivò di corsa. «E ora che hai fatto?», disse. «Ho spezzato la lenza», disse Papà. «Reggeva fino a quattro chili. E c’era pure un bel piombo». «Perché non fai un buco nel pavimento, come quando peschi sul ghiaccio?» «Non trovo più la sega». «E meno male, perché sennò l’avresti fatto davvero!» Prese Warren, salì i gradini di legno grigio e lo trascinò in casa. Papà si ruppe la canna da pesca sul ginocchio. «Era meglio che non li facevo, i figli», disse, e gettò i pezzi della canna nel campo. Una ghiandaia si alzò in volo strillando. Papà mi prese per le spalle e si chinò a guardarmi in faccia.
«Io volevo fare il veterinario e curare i cavalli», disse. «La sai una cosa, però?» Scossi la testa. Lui strinse più forte. «Dopo le elementari ho smesso di andare a scuola perché non avevo niente da mettermi. Come tutti i miei parenti. Tutti fino all’ultimo». Mi lasciò andare e guardai la sua schiena curva che spariva tra gli alberi. Le grandi foglie dei pioppi gli si chiusero dietro con un fruscio. Qualche anno dopo Papà diede via il fucile e cominciò ad andare in chiesa. Regalò a Warren un cucciolo che cadde dalla veranda e si ruppe una zampa. Papà pianse tutto il giorno. Mi faceva paura, Mamma però disse che se piangeva era segno che la testa aveva ricominciato a funzionargli, e che dovevo essere orgoglioso. La domenica, in chiesa, Papà salì in piedi sulla panca durante la messa. Pensai che il Signore l’avesse toccato e che si sarebbe messo a parlare in un’altra lingua. Il pastore interruppe il suo sermone. Papà si guardò intorno e giurò su Dio che avrebbe guarito la zampa rotta del cucciolo o sarebbe morto nel tentativo. Mamma lo fece rimettere a sedere e gli disse di chiudere la bocca. Mi fece di nuovo paura. Dopo la messa Papà portò il cucciolo sul crinale, vicino a un albero di noce, e cercò tutto il giorno di sistemargli la zampa. Ce l’aveva ancora con Dio, quando Mamma ci mandò a letto. Il mattino dopo lo trovò lei. Si era sfilato la cinta e si era impiccato. Per terra, ai suoi piedi, c’era il cucciolo con tutte e quattro le zampe rotte. Era ancora vivo.

Io e Warren smettemmo di andare a scuola. Lui trovò un lavoro e cominciò a mettere da parte i soldi. Io andavo nel bosco a raccogliere funghi, ginseng e radici d’ogni genere. M’infilavo dappertutto, roba che nemmeno un coniglio. Lo scorso autunno Warren ha portato una roulotte in una valletta e ci è andato a vivere. Ha detto che se c’era una cosa che sapevo fare era occuparmi di Mamma. Due volte alla settimana andavo all’ufficio postale di Clay Creek, ai piedi della collina. Avevamo solo quello e la chiesa, l’uno accanto all’altra, tra il torrente e la strada. Quasi tutti li bazzicavano entrambi, io e Mamma ce li eravamo divisi. A me arrivava più posta, lei andava in chiesa anche per me, e per tutto il resto della contea. Ero abbonato a un sacco di riviste e leggevo tutto due volte, anche la posta dei lettori e i consigli per le casalinghe. A un certo punto non sono più arrivate perché non pagavo mai. A volte andavo all’ufficio presto e mi mettevo a guardare le fotografie dei delinquenti ricercati dal governo. Ce n’erano sessanta spillate insieme come il calendario di un negozio di mangimi, ed erano tutte facce di gente qualsiasi. Sotto c’era scritto l’elenco dei reati commessi dal tizio, se aveva delle cicatrici e se era bianco o nero. Mi sembrava strano mettere la fotografia di un uomo e poi scrivere di che colore aveva la pelle. Da queste parti ce l’abbiamo quasi tutti marrone. Io non avrei problemi a parlare con qualcuno che ce l’ha di un altro colore, ma quelli non vengono mai da queste parti. Qua non ci viene mai nessuno, casomai se ne vanno via. Un pomeriggio vidi un cartello all’ufficio postale su una cosa che si chiama ged. Chiunque poteva fare questo test in un centro in città gestito da volontari, e mi venne da pensare a quello che diceva Papà sullo smettere di andare a scuola. Lui aveva letto solo la King James e almeno un centinaio di carte geografiche. Le collezionava come tanta gente prende i cani: grandi e piccole, quelle che gli piacevano e quelle che teneva tanto per tenerle. Lo guardavo studiarle, seduto su un ceppo, anche col buio pesto. Voleva sapere dov’era il paese di Nod e quali erano i suoi abitanti. Il pastore gli aveva detto che era andato distrutto nel diluvio universale. Papà non era convinto. «Se è un posto, da qualche parte sarà», diceva sempre. Il ged mi tenne sulle spine per tre giorni, trascorsi passeggiando nel bosco. Stavo quasi per mettere un piede su un serpente corridore che prendeva il sole su un sasso. Ci guardammo per un po’, lui che tirava fuori la sua piccola lingua biforcuta, e io che non riuscivo a pensare ad altro che al test. Quasi tutti quando vedono un serpente scappano senza nemmeno chiedersi se è velenoso o anche solo se è vivo. Col ged era la stessa cosa. Se non lo passavo non succedeva niente, se lo passavo tutti sulla collina avrebbero saputo che non ero come credevano loro. Magari avrebbero cambiato idea anche su Papà. La mattina dopo feci l’autostop fino a Rocksalt e mi fermai sul marciapiede. La gente mi guardava dalle macchine. Avevo la mano sulla maniglia e grondavo di sudore. Aprii la porta. L’aria era fresca e le pareti bianche. Dietro una scrivania di metallo c’era una signora che si dipingeva le unghie di rosa. Mi guardò, poi tornò a concentrarsi sulle unghie. «Il barbiere è qui accanto», disse. «Non devo tagliarmi i capelli, signora. Magari ne ho bisogno, ma non è che sono venuto in città per questo». «Non è che», disse, come se volesse prendermi in giro. Parlava in fretta e si mangiava le parole. Chissà cosa l’aveva portata sulle colline. Eravamo messi proprio male, se la gente di città veniva a cercare lavoro qui. «Voglio fare il ged», dissi. «Chi ti ha mandato?»
«Nessuno». Mi guardò a lungo con gli occhi sgranati. Agitava la mano come per scacciare le mosche e quando lo smalto fu asciutto aprì un cassetto e mi diede un libro. Era grande come una rivista, con la copertina di plastica nera. «Torna quando sei pronto», disse. «Sono qui per aiutare quelli come te». Ci vollero cinque ore per tornare a casa e il caldo non lo sentii per niente. Quando arrivai, qualcuno mi aveva visto giù in città e lo aveva detto a un vicino, che lo aveva detto a Mamma all’incontro di preghiera. Da noi funziona così. Fai uno sternuto, e prima che torni a casa lo sanno tutti. «Dicono che ti dai un sacco di arie e vuoi farci passare da ignoranti», disse. «Visto che ci sei, potresti pure leggere la Bibbia». «Già fatto. Due volte». «Almeno non ho cresciuto un miscredente». Dopo cena mi buttai sugli esercizi. La lettura andava alla grande, ma la matematica era un disastro. Cioè, uno prende un casino di numeri e dice che è uguale a qualcos’altro. Magari è per questo che a certi gli piace la matematica, ma un mucchio di legna non è uguale a un albero. E la segatura? Dove la mettiamo la segatura? Tutti questi calcoli e poi niente che dimostri che hai lavorato, niente che devi pulire, niente da vedere. Una fila di numeri è come una cacca di gufo su un sentiero. Si capisce che è passato un uccello, ma non da che parte andava. Warren arrivò sul prato col pick-up a trazione integrale e suonò il clacson. Prima lavorava in città, poi hanno aperto uno stabilimento a Lexington. Ora tra andare e tornare si fa tre ore di macchina al giorno. Ha la parabola, il microonde e il videoregistratore.
Sentii i suoi stivali sulla veranda e la porta che sbatteva. Entrò nella nostra vecchia stanza. «E insomma, Junior? Tutto da solo. Avevi paura a dirlo?» Scossi la testa. Dopo la morte di Papà Warren aveva cercato in tutti modi di farsi accettare dagli altri. Io l’esatto contrario. «Ho sentito che hai beccato il virus dell’intelligenza», disse. «E fai quel test in città, quello della scuola». «Ci sto pensando». «Dovresti lasciar perdere e provare a lavorare. Allora potrai metterti stivali di coccodrillo come questi». Tirò su la gamba dei pantaloni. «Dove li hai presi?», dissi. «A Lex. C’è un centro commerciale grosso come due pascoli uno di seguito all’altro. Li ho visti in vetrina e li ho comprati. E ho pure pagato in contanti». «Ti hanno fregato, Warren. Sono quasi dieci anni che non fanno più niente coi coccodrilli. Il governo li protegge». «E tu come le sai, tutte queste cose?» «L’ho letto su una rivista». Warren mise il broncio. Lui dà retta solo alla tv. Quelli della pubblicità per lui sono persone vere. Sapevo che si stava arrabbiando perché aveva le vene del collo grosse come lombrichi. «Ora con questi stivali ti ci prendo a calci nel culo». «Restano comunque taroccati». «Ma almeno sono nuovi». Il calcio lo diede ai miei scarponi, che avevo comprato per posta sul catalogo Sears and Roebuck. «Per Dio, hai sempre questi cazzo di scarponi dal catalogo di Natale». «Warren!», strillò Mamma dalla cucina. Lei non si fa scrupoli con le parole, ma nominare il nome di Dio invano è troppo pure per lei. Papà glielo faceva apposta, per ripicca.
«Lo sai che significa ged?», disse Warren. «Grezzo E Deficiente». Uscì sbattendo i piedi, accese il motore, ingranò la marcia e diede gas. Si lasciò dietro una nuvola di polvere che sembrava fumo. Guardai la luna che saliva sopra Redbird Ridge. La notte arrivò strisciando nella conca. Uscii e andai a sedermi sul ceppo di Papà, quello delle carte geografiche. Tanto tempo fa avevo paura del buio, poi Papà mi disse che la notte era la stessa cosa del giorno, solo che l’aria aveva un colore diverso.

Dopo una settimana avevo fatto tutti gli esercizi due volte ed ero pronto a impegnarmi sul serio. Sulla collina lo sapevano tutti. Il pastore garantì a mia madre un bel posto in paradiso per questa croce che doveva portare sulla terra. Disse che ero troppo testardo per cavarne qualcosa di buono. Ci pensavo mentre ero nel bosco e decisi che forse non era poi così male. Non sono uno che coglie i fiori di campo e li porta in casa, dove muoiono quasi subito. E non taglierei mai un albero che fa ombra d’estate per bruciarlo in inverno. Col ged era la prima volta che mi intestardivo a fare qualcosa, invece che a non farla. Ecco in cosa eravamo diversi, io e Papà. Anche lui era testardo, ma solo quando la sua opinione non contava niente. La mattina scesi dalla collina ed ero già a metà strada per la città quando trovai un passaggio fino in centro. La signora fu sorpresa di vedermi. Scrisse il mio nome su un modulo e mi chiese quindici dollari per il test. Io non dissi niente. «Lo sai che ci vogliono quindici dollari?», domandò. «Non ce li ho». «Un lavoro ce l’hai?»
«No». «Vivi con la tua famiglia?» «Con Mamma». «E lei lavora?» «No». «Lo prendete il sussidio?» «No, signora». «E come tirate avanti tu e tua madre?» «In silenzio, più che altro». Strinse le labbra e scosse la testa. Parlava lentamente e a voce alta, come se fossi sordo. «Dove li trovate i soldi, tu e tua madre?» «Non ne abbiamo un gran bisogno». «E per mangiare?» «Abbiamo l’orto». La signora posò la matita e si sporse per guardare qualcosa. Sul muro alle sue spalle c’era il ritratto del governatore, con la cravatta. Guardai dalla finestra il negozio di ferramenta sul marciapiede di fronte. Papà era morto che doveva ancora finire di pagare la nuova catena per la motosega. Dopo il funerale ci arrivò il conto e Mamma, per pagare il debito, vendette una trapunta che aveva fatto la sua prozia. Mi misi d’impegno, ma non mi venne in mente granché. Non avevo niente da vendere. Warren me li avrebbe anche dati, i quindici dollari, ma non sarei mai riuscito a chiederglieli. Mi voltai e feci per andarmene. «Junior», disse la signora. «Puoi comunque fare il test». «Non ho bisogno del suo aiuto». «È gratis, quando si è poveri». «Ve li devo», dissi. «Pagherò prima che cominci a nevicare».
Mi accompagnò per una porta in una stanzetta senza finestre. Mi infilai in un banco di scuola e lei mi diede quattro matite gialle e i fogli del test. Quando ebbi finito mi disse di tornare dopo un mese, per vedere se l’avevo passato. Mi disse, a voce bassa, che potevo fare il test tutte le volte che serviva. Feci cenno di sì, e uscii dalla città per tornare a casa. Non pensavo né sentivo niente. Camminare però mi faceva bene.

Ogni sera Mamma diceva di essere preoccupata, che per superbia disprezzavo le mie origini. Warren non mi parlava più. Andavo in giro per le colline, pensavo alle cose che avevo imparato sul bosco. So riconoscere un uccello dal nido e un albero dalla corteccia. L’odore di cetriolo vuol dire che vicino c’è un serpente mocassino. Le more più dolci sono quelle più vicine a terra e i migliori pali per i recinti si fanno con la robinia. Trovavo divertente che avessi dovuto fare un test per scoprire che ero povero. Forse è perché lo sapeva, che Papà alla fine aveva mollato. Quando morì, Mamma bruciò tutte le sue carte geografiche, ma io tenni quella del Kentucky. Il posto dove abitiamo noi non c’è. Rimasi nel bosco tre settimane di fila. Quando alla fine andai all’ufficio postale, la posta non era ancora arrivata. Era il primo del mese e un sacco di gente aspettava il sussidio. I più anziani erano seduti dentro, per ripararsi dal sole, e tutti noialtri eravamo all’ombra dei salici lungo il torrente. Un ragazzo, uno dei Monroe, diede una gomitata al fratello e mi indicò. «Guarda il Dottore», disse, «che si prende una pausa dai libri». «Ehi Dottore, vuoi diventare ricco e intelligente?» «Sicuro», disse il fratello. «Aprirà un bordello e lo manderà avanti con una mano sola».
Risero tutti, anche un paio di vecchie con due crocchie grosse come pigne. Decisi di lasciar perdere la posta e tornare a casa. Poi quel ragazzino mi fece incazzare. «Il mio cucciolo sta male, Dottore. Lei è bravo com’era suo padre?» Per come funziona qui da noi, picchiare qualcuno a volte non basta. A volte si sta buoni un anno, prima di sparare a un cane per vendicarsi del padrone, ma così, davanti a tutti, non potevo andarmene e basta. Andai al loro pick-up e con un calcio spaccai un fanale. Il più piccolo dei Monroe arrivò di corsa ma lo feci inciampare e rotolò nella polvere. L’altro mi saltò sulla schiena e mi prese un orecchio tra i denti. Mi stringeva con le gambe e non riuscivo a levarmelo di dosso. Continuava a colpirmi sul lato della testa. Caddi all’indietro sul cofano del pick-up e allora mi lasciò andare. Due vecchi trattenevano l’altro ragazzo. Attraversai il torrente e salii sulla collina ripida fino a casa, sputando sangue per tutto il tragitto. Mamma non disse una parola, quando seppe il motivo della rissa. La sera dopo arrivò Warren. «Li ho presi uno al torrente e l’altro in cima a Bobcat Holler», disse. «Non diranno più certe cose». «Gliele hai suonate?» «Beh, diciamo che se ne sono accorti». Warren aveva preso un paio di cazzotti sulla mascella, e le vene del collo gli si erano gonfiate di nuovo. Non lo buttavi a terra nemmeno con una traversina. «Lo fai lo stesso il ged?», disse. «Venerdì escono i risultati». «Mi voglio comprare una tv a batterie». «Per far che?»
«Per sedermi e guardarla». «Anch’io, Warren. Anch’io». Si toccò un bubbone sotto allo zigomo. Abbassò le spalle. «Farei sempre a botte per te, Junior. E anche per Papà. Ma non ho mai capito che cosa avete in testa, nessuno dei due». Uscì, e aprì lo sportello del pick-up coi pollici. Si era ferito alle nocche di entrambe le mani, e se piegava le dita gli si staccavano le croste. Una già perdeva un po’ di sangue. Accese il motore in seconda, per non dover cambiare, e si allontanò guidando col palmo. Lo guardai finché la polvere della strada non tornò a posarsi.

Il venerdì andai in città seguendo la cresta, sopra al torrente. Rocksalt si trova in un’ampia vallata tra le colline. Non l’avevo mai vista dall’alto e sembrava davvero piccola, niente di cui aver paura. Scesi giù, attraversai il torrente e arrivai sul marciapiede. Rimasi a lungo davanti al centro dove avevo fatto il test. Potevo andarmene, e non sapere mai se lo avevo passato o no. Entrambe le cose mi facevano paura. Aprii la porta e misi la testa dentro. «Congratulazioni», disse la signora. Mi diede un certificato dello Stato che diceva che avevo il diploma delle superiori. Il mio nome era scritto con l’inchiostro nero. Sotto c’erano un sigillo dorato e la firma del governatore. «Ho i moduli per cercare lavoro», disse. «Non ti prometto niente, ma adesso hai tutto quello che serve. Se vuoi andartene da qui, il prossimo passo è trovare un lavoro». «Mi basta questo certificato». «Non lo vuoi un lavoro?» «No, signora».
Sospirò e guardò per terra, stropicciandosi gli occhi. Si appoggiò allo stipite della porta. «A volte non so che ci sto a fare qui», disse. «Non lo sa nessuno», risposi. «Qui quasi tutti aspettano di morire e basta». «Non è divertente, Junior». «No, ma la cosa divertente è che tutti si alzano comunque con le galline». «A me piace dormire fino a tardi», disse lei. Sorrideva ancora quando mi chiusi la porta alle spalle. Non potevo arrivare più vicino di così a finire la scuola, e non era una brutta sensazione. Prima di uscire dalla città mi voltai a guardare la fila di edifici a due piani. Papà diceva sempre che un uomo intelligente la città la lascia perdere, ma adesso so che si sbagliava. Ci possono andare tutti, ogni volta che vogliono. La città è solo un gruppo di persone che vivono insieme nell’unico punto dove c’è abbastanza spazio tra le colline. Lasciai la strada e attraversai l’erba alta fino alla sponda del torrente. Era un buon modo per trovare bottiglie vuote, e dovevo ancora restituire quindici dollari. 

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Premio Settembrini a Furio Bordon: un racconto

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Furio Bordon ha vinto il 54° Premio Settembrini con Stanze di Famiglia, Garzanti.

Cattedrale pubblica un estratto di uno dei racconti, per gentile concessione dell'editore.

«Un’opera di acre bellezza, alla quale in nessun modo è possibile rimanere insensibili.»
«El País»

«Nessun sentimentalismo, ma solo la verità del quotidiano.»
«Le Monde»

«Un intelligentissimo connubio tra ironia ed emozione.»
«Le Soir»

«Ci sono cose laceranti e c’è il coraggio della delicatezza.»
«la Repubblica»

«Memorabile. Di una sincerità terribile e commovente.»
«El Mundo»

Stanza della madre
è demente, non sa quel che dice

Non scriverò bene. Non limerò le frasi né mi dilungherò in descrizioni. Ci sono queste voci da inseguire. Loro non si fermano per mettersi in posa, non rallentano. Esigono che le registri in fretta e corrono avanti. E dunque cominciamo subito. Ci sei tu, naturalmente. Età? Settanta, anno più anno meno. Il tuo aspetto? Grasso, magro, non importa. Ciò che conta è che sembri un bambino avvizzito. Sei accanto al letto di una vecchia signora, hai sollevato il lenzuolo e le osservi il ventre. Lei è tua madre, ma la chiameremo «la vecchia signora», o più semplicemente «la vecchia», perché c’è un’altra donna qui dentro, che ti sta guardando, e anche lei è tua madre. E così la chiameremo. Ha quarant’anni, è bella ed elegante. Accanto a lei c’è un uomo, ha la sua stessa età ed è anche lui elegante nel suo trench inglese appoggiato con negligenza sulle spalle. È tuo padre. È morto tanti anni fa, di infarto. Questo per il momento basta. Andiamo avanti. «Ti sei bagnata un’altra volta!» dici alla vecchia signora.
«Io…?» Si è bagnata, ma non se n’è accorta.
«E chi se no? Io?»
«Ti sei bagnato?» L’idea sembra divertirla.
«Non io. Tu! Tu ti sei bagnata.»
«Sei sicuro?»
«Sì.»
«Hai provato a toccare?»
«Non mi va di toccare.» «Non ho il pannolone?»
«Certo che ce l’hai. Te lo ha cambiato Luisa dieci minuti fa.»
«Me lo può cambiare di nuovo.»
«È andata via. Torna domattina.»
«Perché è andata via?»
«Va via sempre a quest’ora. Torna la mattina e ti cambia il pannolone della notte. Ma tu adesso lo hai già bagnato.»
 «Perché, è già notte?»
«Tra un poco sì.»
«Non si può cambiare lo stesso?»
«E chi te lo cambia?»
«Luisa.»
«Luisa è andata via.»
«Perché?»
«Perché aveva finito il suo turno.»
«Allora può cambiarmelo lei.»
«No, perché non c’è.»
«Quando torna?»
«Domattina.»
«E non può cambiarmelo adesso?»
«No.»
«Perché no?»
«Perché non è qui.»
«E allora chi me lo cambia?»
«Fino a domattina, nessuno.»
La vecchia signora riflette per qualche istante. «Tu no…?»
«No. Io no.»
«Perché tu no?»
È la voce di tua madre. Ti volti a guardarla. «Chi me li cambiava i pannolini quando ero piccolo?» le domandi.
«Questo cosa c’entra?»
«Me li cambiavi tu?»
«Te li cambiavo io», dice tuo padre. «Quando io non c’ero, lo faceva tua madre.»
«Perché non lo facevi tu?» le domandi ancora.
«Tuo padre era più bravo. Lui è sempre stato bravo in queste cose. Ha sempre avuto una gran manualità.» «Bisogna avere un talento particolare per cambiare un pannolino?»
«A lei non piaceva farlo», interviene tuo padre. «A me invece non dava alcun fastidio. Anzi, mi facevi ridere con quelle gambette per aria. E poi, quando ti sentivi asciutto, mi regalavi un bel sorriso.»
«A me non ha mai sorriso», gli dice tua madre. «Con me non faceva che strillare.»
«È per questo che non ti piaceva farlo?» le domandi.
«Anche per questo.»
«E cos’altro?»
«Eri piuttosto maleodorante.»
«Come tutti i bambini, immagino.»
«Non lo so. Non ho mai fatto la prova con altri bambini. Mi bastavi tu.»
«Soffriva di intestino», dice tuo padre. «Non era colpa sua.»
«Vedi che buon papà. Sempre pronto a difenderti. Comunque eri davvero un puzzone.» Indichi il letto con la vecchia signora.
«E tu là, adesso, pensi di profumare?»
«Temo di no.» «E allora?»
«E allora ognuno si comporta come gli pare. Se non ti va, non farlo.»
«Chi mi cambia il pannolone?» È di nuovo la vecchia signora. Guardando fisso tua madre: «Nessuno».
«E io come faccio?»
«Aspetti domattina.»
«Tuo padre me lo avrebbe cambiato.»
«Sì, lui sì.»
«Era meglio se morivi tu.»
«È andata così, che ci vuoi fare.»
«No, era meglio se morivo io.»
«Be’, siamo vivi tutti e due e dobbiamo sopportarci.»
«Sono tutta bagnata.»
«Fra un po’ ti asciughi.»
«Mi verrà il raffreddore.»
«Non c’è pericolo. Fa caldo.»
«Sei cattivo.»
Ti rivolgi a tuo padre: «Sono cattivo?».
«No.»
A tua madre: «Sono cattivo?».
«No, sei solo un po’ meschino.»
«Ho freddo», si lamenta la vecchia signora.
«Non puoi avere freddo. Fa caldo.»
«Povera me.»
«Poveri tutti!»
«Pensi di stare peggio di lei?» ti domanda tua madre.
«Si muove appena, è quasi cieca, deve chiedere aiuto per ogni piccolo gesto. Ha il cervello infestato di allucinazioni che la riempiono d’angoscia. E quando è lucida, i rari momenti in cui è lucida, capisce che la realtà è più dura delle sue allucinazioni. Stai peggio di lei?»
Rimani in silenzio. «Posso chiederti una cosa?» È la voce della vecchia signora. Incerta, quasi timida. «Dimmi.»
«Pensi che morirò presto?»
La guardi smarrito.
«Non mi rispondi?»
«È una domanda che potremmo farci tutti. E per nessuno esiste la risposta.»
«Non ho capito. Vuol dire che morirò presto?»
«Raccontale una bugia!» dice tua madre. «È questo che ti chiede.»
«Puoi vivere ancora molti anni.»
«Ma sono malata…»
«Sei solo molto anziana.»
«È vero. Dio mio, come sono vecchia! Quanti anni ho? Novanta?»
«Novantatré.»
«Novantatré…! Sei sicuro?»
«Sì.»
«Sono tanti.»
«Sì.»
«Però mi piacerebbe vivere ancora un poco.»
Ti giri di scatto verso tua madre. «Per fare cosa? Per passare un’intera giornata a piegare in quattro un fazzoletto? O a contare le tue bottiglie di acqua di violetta?»
«È sempre vivere», ti risponde.

2016, Garzanti S.r.l., Milano
Tutti i diritti riservati.

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Racconti al tramonto, di Bram Stoker

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Il primo Novembre 2017 è in libreria Racconti al tramonto, i racconti di Bram Stoker pubblicati da Elliot, con le bellissime illustrazioni di Francesca Rossetti. 
Pubblichiamo un racconto del testo con alcune delle illustrazioni, per gentile concessione dell'editore.

 

Il Paese del tramonto

Lontano, molto lontano, c’è un Paese bellissimo che nessun occhio umano ha mai visto durante le ore di veglia. Giace ai piedi del Tramonto, là dove l’orizzonte lontano delinea il giorno, e dove le nuvole, risplendenti di luce e colore, regalano una promessa della gloria e della bellezza che lo cingono.
Qualche volta ci è concesso di poterlo vedere in sogno.
Ogni tanto gli Angeli arrivano, dolcemente, e con le loro grandi ali bianche sventolano i visi sofferenti e posano le loro mani fresche sugli occhi addormentati. Così lo spirito del dormiente si libra in aria. Balza al di sopra della penombra e della foschia della fase notturna. Veleggia lontano attraverso le nubi di porpora. Si affretta tra la vastità della luce e dell’aria. Attraverso il blu profondo del cielo esso vola e, spargendosi sopra l’orizzonte infinito, riposa infine sulla bella terra del Paese del Tramonto.
In qualche modo questo Paese è come il nostro. Ci sono uomini e donne, re e regine, ricchi e poveri e poi case, alberi, campi, uccelli e fiori. C’è il giorno e anche la notte;  il caldo e il freddo, e la malattia e la salute. I cuori degli uomini e delle donne, e dei ragazzi e ragazze, battono come da noi. Ci sono gli stessi dispiaceri e le stesse gioie. Le stesse speranze e le stesse paure.
Se un bambino di quel Paese stesse accanto a un bambino di qui non vedreste alcuna differenza tra loro, a parte i vestiti. Parlano la nostra stessa lingua. Non sanno di essere diversi da noi e noi non sappiamo di essere diversi da loro. Quando nei loro sogni vengono da noi, non sappiamo che sono stranieri. E quando, nei nostri sogni, noi andiamo nel loro Paese, ci sentiamo a casa nostra. Forse la causa di questo sta nel fatto che la casa delle persone buone è nel loro cuore e dovunque esse siano sono in pace.
Il Paese del Tramonto è stato per molti anni una terra meravigliosa e piacevole. Tutto era splendido e dolce e piacevole. Finché non arrivò il peccato e le cose restarono prive della loro perfetta bellezza  Oggi è di nuovo una terra fantastica e gradevole.
Poiché lì il sole è forte, ai lati delle strade sono stati piantati grandi alberi che allargano dovunque i loro grossi rami.
Così i viandanti trovano riparo durante il loro passaggio. Le pietre miliari sono sostituite da fontane di dolce acqua fresca, così limpida e trasparente che una volta arrivato il pellegrino siede sulla pietra intagliata che si trova lì accanto e tira un sospiro di sollievo, perché sente che lì può riposare.
Quando qui è il tramonto, lì è mezzogiorno. Le nuvole si riuniscono e proteggono la Terra dal grande calore. Poi per un po’ ogni cosa si addormenta.
Quest’ora così dolce e piena di pace è chiamata il Tempo del Riposo.
Quando arriva gli uccelli interrompono il loro canto e si posano sotto agli ampi cornicioni delle case o sui rami degli alberi. I pesci non guizzano più nell’acqua e si fermano accanto ai sassi, con le pinne e le code così immobili che sembrano morti. Le pecore e le mucche si sdraiano sotto gli alberi. Gli uomini e le donne salgono sulle amache appese tra gli alberi o si riposano sotto le verande delle loro case. Finché il sole non è più così accecante e le nuvole si dissolvono e ogni essere vivente si sveglia.
Le uniche creature che non cadono addormentate durante il Tempo del Riposo sono i cani. Giacciono buoni buoni, addormentati solo a metà, con un occhio aperto e un orecchio all’insù, restando sempre all’erta. Se poi uno straniero dovesse arrivare nell’ora del Riposo, i cani si alzano sulle zampe e lo guardano, con dolcezza e senza abbaiare, per timore di disturbare gli altri. Loro capiscono se il nuovo arrivato è innocuo e, in questo caso, si sdraiano nuovamente così come lo straniero che attenderà la fine del Tempo del Riposo.
Ma se i cani pensano che lo straniero possa essere pericoloso, allora iniziano ad abbaiare con forza e a ringhiare.
Le mucche cominciano a muggire e le pecore a belare, gli uccelli a cinguettare e a intonare le loro note più alte, ma senza alcuna traccia di melodia. E anche i pesci cominciano a saltare e a spruzzare l’acqua. Gli uomini si svegliano, saltano giù dalle loro amache e afferrano le loro armi. Allora è un brutto momento per l’intruso. Viene condotto immediatamente  davanti alla Corte e processato, e se viene dichiarato colpevole, lo si mette in prigione o bandito dal Paese.
Poi gli uomini tornano alle loro amache, e tutti gli esseri viventi si ritirano di nuovo finché il Tempo del Riposo non finisce.
La stessa cosa accade di notte, se arriva un estraneo per fare del male. Di notte sono svegli soltanto i cani, oltre ai malati e le loro infermiere.
Si può andar via del Paese del Tramonto solo da una direzione. Quelli che vanno là nei sogni, o che arrivano in sogno nel nostro mondo, vanno e vengono senza sapere come. Ma se un abitante cerca di andarsene, può farlo da un’unica strada. Se tenta per qualsiasi altra via va sempre avanti, gira senza rendersene conto, finché non arriva all’unico punto da cui si può partire.
Questo luogo si chiama Il Portale e ci sono gli Angeli a sorvegliarlo.
Proprio nel centro del Paese si trova il palazzo del Re, dal quale si diramano le strade in ogni direzione. Dalla cima della torre, che si erge altissima al centro del palazzo, il Re può guardare lungo tutte le vie, che sono tutte piuttosto dritte.
Sembra che diventino sempre più strette via via che si allontanano, finché alla fine non scompaiono del tutto.
Intorno alla reggia sono riunite le case dei nobili, la cui vicinanza è stabilita a seconda del rango del suo proprietario. Aldilà ci sono poi quelle dei meno nobili e poi quelle di tutti gli altri, che diventano sempre più piccole man mano che si allontanano.

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Ogni casa, grande o piccola, è al centro di un giardino che ha una fontana e un ruscello, grandi alberi e aiuole con bellissimi fiori.
Lontano da lì, andando verso il Portale, la campagna si fa sempre più selvaggia. Ci sono foreste intricate e alte montagne piene di grotte profonde, oscure come la notte. Qui hanno la loro tana gli animali selvaggi e tutte le creature più crudeli.
Poi ci sono paludi, acquitrini, sabbie mobili e una giungla fitta fitta. Tutto è così selvaggio che la strada scompare completamente.
Nessun uomo sa cosa si nasconda oltre questi luoghi. Qualcuno afferma che lì vivano i Giganti ancora esistenti e che vi crescano tutte le piante più velenose. Si dice anche che un vento stregato trasporti i semi delle cose malvagie e li sparga per tutta la terra. Altri dicono che lo stesso vento maligno propaghi da lì malattie ed epidemie. Pare che anche la Carestia viva
lì tra le paludi e che si propaghi quando gli uomini divengono cattivi, talmente cattivi che gli Spiriti di guardia al Paese piangono così amaramente che non riescono a vederla passare.
Si sussurra che la Morte abbia il suo regno nelle Solitudini, oltre le paludi, e viva in un castelli con orribile da guardare che nessuno è riuscito a vederlo e a sopravvivere per raccontarlo. Si dice anche che tutte le cose malvage che vivono nelle paludi siano i disobbedienti Figli della Morte che hanno abbandonato la casa e non riescono più a trovare la strada per tornarvi.
Ma nessuno sa dove sia il castello del Re della Morte. Tutti gli uomini e le donne, i ragazzi e le ragazze, persino i bambini più piccoli dovrebbero essere pronti a non avere paura di fronteggiare il suo volto, una volta costretti ad entrare nel Castello e a guardare il lugubre Re.
Per molto tempo il re della Morte e i suoi Figli rimasero fuori dal Portale, e all’interno tutto era gioia.
Poi tutto cambiò. I cuori degli uomini divennero freddi e duri per via dell’orgoglio e dalla prosperità, e non diedero più ascolto agli insegnamenti imparati in passato. Quando ci furono solo freddezza, indifferenza e disprezzo, gli Angeli di guardia videro negli orrori di cui erano privi le punizioni e le lezioni che potevano far bene.
Le buone lezioni arrivarono – come spesso succede con le cose positive – dopo il dolore e le tribolazioni, e furono di grande insegnamento. La storia del loro arrivo è una lezione per chiunque sia saggio.
Due Angeli erano sempre di guardia al Portale. Erano così grandi, così vigili e risoluti nel loro compito, che si usava un nome solo per entrambi. Uno o entrambi potevano essere interpellati con lo stesso nome se si voleva parlare con loro. Sia l’uno che l’altro sapevano tutto ciò che si poteva sapere su un argomento. Non era così strano, perché entrambi conoscevano tutto. Il loro nome era Fid-Def.
Fid-Def stavano di guardia al Portale. Accanto a loro c’era un Angelo-bambino, più chiaro della luce del sole.
Il profilo del suo bellissimo corpo era così armonioso che sembrava fondersi nell’aria; appariva come una luce di vita sacra.
Non restava mai fermo come gli altri Angeli, ma si librava su e giù e in ogni direzione. Talvolta era solo una macchiolina, poi all’improvviso, senza che si notasse alcun cambiamento, diveniva più grande dei grandi Spiriti guardiani che erano sempre uguali.
Fid-Def amavano l’Angelo-bambino, e le volte in cui egli si sollevava, essi aprivano le grandi ali bianche sulle quali talvolta si posava. Le sue stupende, soffici ali oscillavano gentilmente sui loro volti quando si voltavano per parlare.
Ma l’Angelo-bambino non andava mai oltre la soglia. Guardava le terre selvagge lontane, ma non metteva mai fuori dal Portale nemmeno la punta di un’ala.
Faceva domande a Fid-Def, voleva sapere cosa c’era là fuori, e in cosa era diverso da quel che c’era dentro.
Le domande e le risposte degli Angeli non erano come le nostre domande e le nostre risposte, perché non c’era bisogno di parlare. Nel momento in cui si voleva sapere qualcosa, la domanda veniva fatta e la risposta data.
Ma se la domanda fosse stata posta dall’Angelo-bambino e la risposta fosse giunta da Fid-Def, e se noi conoscessimo la non-lingua che gli Angeli stavano non-parlando, questo è ciò che avremmo sentito:
Fid-Def parlava con Fid-Def.
«Non è bello Chiaro?»
«È bellissimo. Sarà una nuova potenza nella Terra».
Ecco allora Chiaro, che stava con un piede sulle piume di un’ala di Fid-Def, disse:
«Ditemi Fid-Def, cosa sono quegli esseri dal terribile aspetto oltre il Portale?»
Fid-Def risposero: «Sono i Figli di Re Morte. Il più terribile, quello avvolto nel buio, è Skooro, uno spirito maligno».
«Come sono brutti!»
«Davvero orribili, caro e questi Figli della Morte vorrebbero passare attraverso il Portale ed entrare nella Terra».
Sentendo queste terribili notizie, Chiaro si alzò in aria, e divenne così grande che l’intera Terra del Tramonto si illuminò. Poi, divenne subito via via sempre più piccolo, finché divenne solo una macchiolina, come il raggio colorato che si vede in una stanza buia quando il sole entra da una fessura. Chiese agli Angeli del Portale: «Ditemi, Fid-Def, perché i Figli della Morte vogliono entrare?»
«Perché, caro bambino, sono cattivi, e vogliono corrompere i cuori degli abitanti della Terra».
«Ma, ditemi Fid-Def, sono in grado di entrare? Sicuramente se il Grande Padre dice “No!” essi devono restare fuori dalla Terra».

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Ci fu una pausa, poi arrivò la risposta degli Angeli del Portale:
«Il Grande Padre è più saggio di quanto persino gli Angeli possano concepire. Egli rivolta sui malvagi i loro stessi progetti, e cattura il cacciatore nella sua stessa trappola. Quando i Figli della Morte entreranno – dato che stanno per riuscirci – faranno un gran bene alla Terra, che vorrebbero invece distruggere. Perché, ahimè!, i cuori della gente sono corrotti. Hanno dimenticato gli insegnamenti che gli sono stati impartiti. Non sanno quanto dovrebbero essere grati per la loro felice sorte, perché non conoscono la sofferenza. Che abbiano un po’ di dolore, di pena e di tristezza, così che possano rendersi conto dei loro errori».
Mentre parlavano, gli Angeli piangevano di tristezza per i misfatti del popolo e per il dolore che avrebbero dovuto sopportare.
L’Angelo-bambino rispose intimorito: «Allora anche l’essere peggiore sta per entrare nella Terra. Aiuto!Aiuto!»
«Caro bambino» dissero gli Spiriti guardiani, mentre l’Angelo-bambino gli si arrampicava in grembo «su di te ricade un grande compito. I Figli della Morte stanno per entrare. A te è stata affidata la sorveglianza di Skooro, un essere tremendo. Dovunque vada, tu devi essere lì perché non accada niente di grave, a meno che non sia voluto e permesso».
L’Angelo-bambino, intimorito dall’enormità della missione, comprese che l’incarico doveva essere fatto nel modo migliore possibile.
Fid- Def proseguirono:
«Devi sapere, caro Bambino, che senza l’oscurità non c’è paura dell’invisibile; ma neanche l’oscurità della notte può spaventare se c’è luce nell’anima. Per chi è buono e puro non c’è timore né del male terreno, né delle forze invisibili. Confidiamo in te per proteggere i puri e i sinceri. Skooro li immergerà nelle sue tenebre, ma a te è concesso di penetrare nei loro cuori e di rendere invisibile e inefficace il buio del Figlio della Morte con la tua luce gloriosa. Ma dovrai restare lontano dai malfattori, dai cattivi, dagli ingrati, dagli spietati, dagli impuri e dagli insinceri; così, quando ti cercheranno per essere confortati – come spesso avviene - non ti troveranno. Vedranno solo l’oscurità che la tua luce lontana renderà ancor più nera, perché l’ombra sarà proprio nelle loro anime.
«Ma, oh, bambino, nostro Padre è incredibilmente buono. Egli ordina che, in caso qualcuno di questi scellerati si pentisse, tu dovrai volare immediatamente da loro e confortarli, aiutarli, rallegrarli, allontanandone l’ombra. Se dovessero invece fingere di pentirsi, con l’intenzione di essere ancora malvagi non appena fosse passato il pericolo, o se dovessero agire solo per paura, allora dovrai nascondere la tua luce, così che il buio possa divenire ancor più scuro su di loro. E ora, caro, dovrai diventare invisibile. Si avvicina il momento in cui sarà permesso al Figlio della Morte di entrare nella Terra. Cercherà di intrufolarsi, e noi glielo lasceremo fare, perché dobbiamo procedere senza essere visti e scoperti, per portare a termine il nostro compito».
Allora l’Angelo-bambino si dissolse lentamente, così che nessun occhio, nemmeno quelli di Fid-Def, potesse vederlo e gli Angeli guardiani ripresero il loro posto di sempre accanto al Portale.
Venne il Tempo del Riposo e tutto divenne tranquillo nella Terra.
Quando i Figli della Morte, dalle paludi lontane, videro che non si muoveva nulla, tranne gli Angeli di guardia come sempre, decisero di tentare un nuovo assalto per entrare nella Terra.
Perciò decisero di assumere diverse sembianze. Ognuno prese una forma diversa, ma tutti insieme avanzarono verso il Portale. Così i Figli della Morte riuscirono a raggiungere l’ingresso della Terra.
Arrivarono sulle ali di un uccello in volo; su una nuvola che scivolava lentamente nel cielo; nei serpenti che strisciavano sulla terra… nei vermi, nei topi e nelle talpe che si muovono sotto terra; grazie ai pesci che nuotavano e agli insetti che volavano. Giunsero via terra, via acqua e dall’aria.
Così, senza permessi od ostacoli e per molte strade, i Figli della Morte entrarono nel Paese del Tramonto e da quel momento tutto cambiò in quella bella Terra. I Figli della Morte non si fecero riconoscere subito. Uno ad uno gli spiriti più sfrontati, dilagando per tutta la Terra con passo marziale, riempirono tutti i cuori di terrore.
Eppure fu proprio ciascuno di loro a lasciare un benefico insegnamento nei cuori degli abitanti della Terra.

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Le mele, di German Sadulaev

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Dal Marzo 2017 è in libreria la raccolta Falce senza martello, racconti post-sovietici che raccoglie alcune delle voci più interessanti di autori russi degli ultimi anni. Il libro, pubblicato da Stilo Editrice, è curato e tradotto da Giulia Marcucci. Pubblichiamo il racconto LE MELE, di German Sadulaev, per gentile concessione dell'editore.

 

LE MELE
di German Sadulaev

La storia del peccato originale la conosciamo dalle labbra di Eva. La raccontò così: arrivò strisciante il Serpente, convinse a mangiare il frutto. Sempre, ma soprattutto se a testimoniare è una donna, occorre ascoltare l’altra parte. Ma chi era in questo caso l’altra parte? Adamo? No. Lui ed Eva sono complici. L’altra parte è l’infamato Serpente. Bisognava ascoltarlo il Serpente. Forse avremmo saputo che non era coinvolto, oppure che non c’è stato nessun Serpente.
Eva stessa era il serpente.
Non ci si vede chiaro nell’intreccio biblico del peccato originale. Perché era vietato mangiare i frutti dall’albero della conoscenza? Perché il Signore non permise di distinguere il bene dal male? Che c’è di male? Se il male è stato creato alle stesse condizioni del bene, dovrà pur esserci qualche differenza. So che i teologi dispongono di migliaia e migliaia di trattati astrusi sul senso e i significati simbolici del peccato originale di Adamo ed Eva, ma io non ho alcun desiderio di comprendere simboli indecifrabili e spiegazioni sconclusionate.
La gente semplice, non i teologi, per reticenza crede che il frutto proibito sia una metafora del sesso. Eva aveva istigato Adamo ad avere con lei un rapporto sessuale. E ogni cosa in questa storia si fa ancora più incomprensibile.
Non serve a niente la spiegazione del peccato. Non vi è né capo, né coda. Scheggia di un vecchio mito su di un qualche antico tabù di una qualche antica tribù. Forse nella prima redazione del peccato originale Adamo ed Eva erano fratello e sorella, e infransero il divieto d’incesto. Non avevano scampo, in fin dei conti solo così poterono popolare di uomini la terra. Ma il Padre severo li castigò, votandoli alla fatica e alla sofferenza. Non c’è giustizia in questo, ma una logica sì che c’è.
In India si è conservata una storia speculare. Il dio della morte, che si chiamava Yama, aveva una sorella gemella, Yamî. Lei cercava di sedurre il fratello. Dopo l’atto sessuale, avrebbero potuto raggiungere l’immortalità e la perfezione. Ma Yama preferì morire e iniziare il cammino nell’aldilà. Fu ricompensato per probità e divenne il signore del regno dei morti.
Talvolta penso: che cosa sarebbe cambiato se Yama avesse ceduto alla tentazione? O se Adamo si fosse trattenuto?
A suo tempo io seppi resistere alla tentazione. Non ho rimpianti. Non c’è alcun senso nell’avere rimpianti. Ci sono state in seguito, più tardi, molte donne con cui ho peccato. E ancor più quelle con cui il peccato l’ho evitato. Ma né dell’uno né dell’altro caso io oggi, ora, mi lamento. Perché tanto ormai fa lo stesso. Non cambia più niente. Cosa resterà? La memoria? Non ha senso. Ed è anche un testimone inaffidabile. I volti e le storie ecco che già si confondono, e io non sono sempre convinto di riconoscerli. In quell’occasione però, a quanto pare, seppi tener duro.

Nel maggio del 1987, a quindici anni, stavo finendo la nona classe nella gialla e polverosa Kizljar. La cittadina si trova sul fiume Terek, sulla sabbia, su un terreno argilloso ed esposto ai venti. All’epoca popolavano Kizljar i cosacchi del Terek, i cumucchi, gli armeni e pochissimi montanari. Adesso è il contrario. Da quando la città si è vestita di asfalto e pietra, c’è meno polvere. E il Terek si è insabbiato. E i venti, stanchi, si sono zittiti.
Di solito passavo le vacanze estive a casa. Si poteva fare il bagno nel fiume, andarci a pesca. Attorno a Kizljar c’erano giardini e vigneti per le scorrerie. Avevo una banda di amici, briganti infaticabili, con i quali di certo non ci si annoiava. Non chiedevo di mandarmi nei campi per pionieri, non mi interessava nemmeno quello di Artek. Papà e mamma usufruivano dei luoghi di villeggiatura sovietici, una volta mi portarono con loro, ma io al mare mi annoiavo e non vedevo l’ora di tornare a casa. Non mi costrinsero più. Andavamo spesso a far visita al parentado cosacco nelle stanicy vicine: Šelkovskaja, Aleksandrijskaja, Červlennaja. I nostri genitori avevano ovunque parenti, kunaki, nonni, nonne, zii, zie, fratelli e sorelle. In cinquecento anni, sulle terre del Terek, le tribù dei primi cosacchi avevano affondato le radici nella sabbia della steppa, avviluppando la terra e intrecciandosi come ife fungine. Stavo bene nei villaggi. Lì ogni cosa era esattamente come a casa: il fiume, le graminacee, il vento e il sole bianco nella calda steppa. Ovunque c’erano giardini e vigneti, e anche briganti, coetanei e compagni di gioco. Durante l’infanzia era tutto facile e leggero. Ma d’improvviso l’infanzia finì. E allora, durante quell’ultima primavera, me ne accorsi di colpo. Anche se non successe niente. Lo stesso sole, e il Terek, e maggio con le sue ciliegie mature. Ma i divertimenti di sempre non attiravano più. Non avevano né luce né felicità. La banda si disperse fra altri interessi, interessi da grandi: qualcuno aggiustava il motore della barca, chi la motocicletta, la sera non si bighellonava più nei giardini, ma nei locali dove si ballava, e anche il modo d’azzuffarsi era cambiato: con cattiveria, ma anche con accortezza, per non uccidere o ferire nessuno. Le mani erano diventate pesanti, ma nessuno desiderava ricevere il biglietto per ‘il cammino verso la vita’ passando prima da un riformatorio.
In quel periodo torbido, gli ospiti che venivano a trovarci erano rari. La sorella di mio padre, zia Liza, da tanto tempo si era sposata con un ceceno e si era trasferita al suo villaggio. Da allora viveva là con il marito e i figli. Dalle nostre parti capitavano, a dir tanto, una volta ogni due anni. Non si era creato il legame. Sebbene il ceceno fosse tranquillo, istruito, e insegnasse matematica a scuola. Parlava il russo in modo semplice ma corretto, come parlano in televisione, e non come da noi nei nostri villaggi o a Kizljar, con ghirigori cosacchi. E anche le sue usanze erano normali, umane. Poteva bere il vino e a tavola stava seduto con tutti, mangiava di tutto, non faceva lo schifiltoso. D’intralcio era stata la vecchia generazione, i nonni e le nonne da entrambe le parti. Nutrivano gli uni contro gli altri vecchi rancori etnici. Mio padre era un uomo moderno, internazionalista, e si sentiva in imbarazzo con sua sorella per questi deboli legami familiari.
Ma arrivò per i vecchi il momento di farsi da parte. Molti furono sepolti, mentre altri divennero infermi e non autosufficienti. Adesso erano gli adulti, quelli come mio padre, a decidere come organizzare la vita. Il babbo voleva giustificarsi con zia Liza per i lunghi anni di rapporti tesi e accoglieva gli ospiti come poteva, con sfarzo e calore. Si mettevano i tavoli nel cortile, dalle cantine si tiravano fuori le damigiane, si friggeva e si cuoceva nella cucina estiva. E come ultima vittima sacrificale, in qualità di tenero agnello, alla zia fui offerto io: portati via Maksim per l’estate!
Povera la mia mamma: poco mancò che non cadesse con la brocca d’acqua bollente sul selciato del cortile, dove la famiglia stava banchettando. E la notte, la sentii, piangeva e si lamentava che mio padre, senza cuore, mandava il suo unico figlio nella selvaggia e malvagia Cecenia, e chissà quali pericoli attendevano ora il tenero ragazzo. Papà non era più così convinto e si giustificava dicendo che gli storici registravano questa usanza presso i cosacchi, di affidare alle popolazioni montanare i propri giovani, per farli crescere da uomini, e perché facessero amicizia con la gente del posto. La mamma si lamentava sempre più forte e ripeteva: come un amanat! Dai tuo figlio come un amanat!
A quel punto papà si arrabbiò e iniziò a offendere la mamma. Le rammentò che presto il potere sovietico avrebbe compiuto settant’anni, e lei invece, la ritardata, continuava a parlare di amanati. Disse che mi avrebbe fatto bene vivere tra i ceceni. E che, in fin dei conti, Liza era la mia vera zia e suo marito, Chamzat, era una persona meravigliosa, per bene. La mamma, tuttavia, riuscì a contrattare ottenendo un’attenuazione della condanna: papà acconsentì a mandarmi non per tutta l’estate, ma solo per un mese. E solamente nel caso in cui non avessi avuto da obiettare.
Io ero afflitto perché la mia infanzia di colpo s’era assottigliata ed era volata via, a sproposito, proprio alla vigilia dell’estate! Proprio quando è il momento giusto per dimenticarsi della scuola troppo adulta e tuffarsi in un divertimento senza fine. E invece ora raggiungevi la riva del lago spensierato e non vedevi che sabbia asciutta. E tutti i compagni occupati. Cosa c’era da fare, bighellonare per l’estate come un estraneo? No. Se dev’esser la Cecenia, la Cecenia sia. Non mi misi a fare obiezioni.
A metà giugno la mamma mi preparò una grande borsa e mi accompagnò all’autobus. Cercava di non piangere, per non attirarsi disgrazie, e più volte mi fece il segno della croce bisbigliando una preghiera.
Forse è merito suo, della preghiera materna, se mi sono salvato dal peccato.
Nel villaggio, vicino alla fermata dell’autobus, mi aspettava lo zio Chamzat a bordo di una Volga bianca di lusso. I dettagli della mia visita erano stati concordati in anticipo per telefono. Il viaggio era durato in tutto un paio d’ore, ma l’autobus mi aveva condotto in un altro mondo. Il villaggio ceceno non assomigliava affatto alle nostre stanicy cosacche. Le case erano costruite in modo diverso, le strade erano diverse, diversi i giardini e gli orti, la terra era cupa e pesante, e intorno non c’era la steppa bensì alte vallate. Lo sguardo abbracciava all’orizzonte nere colline oltre le quali, ricoperte di neve perenne e ghiaccio, erano le scintillanti bianche montagne.
La Volga si avvicinò al cortile e zio Chamzat suonò il clacson. Corse fuori una ragazzina e si mise ad aprire il pesante cancello di ferro dipinto di verde. Per me era tutto una novità. Nelle stanicy perfino le famiglie benestanti mettevano attorno al cortile tutt’al più recinti di vimini, qui invece erano alti, ad altezza d’uomo e anche più, e obbligatoriamente con cancelli di ferro. A casa di zio Chamzat mi stavano aspettando. Zia Liza uscì in veranda e mi abbracciò, e anche le sue due figlie mi vennero incontro per abbracciarmi. La zia mi abbracciava normalmente, alla russa, e mi baciò in fronte, le sorelle invece, in modo strano, mi stavano di lato e mi cingevano alla vita sfiorandomi con il fianco e la spalla, come se fossimo pronti per iniziare a ballare proprio in quell’istante. Dopo il viaggio mi lavai, pranzammo insieme e la zia mi portò nella casetta per gli ospiti che mi avevano destinato.
Sistemai le mie cose e andai a fare una passeggiata per il cortile e il giardino.
Zio Chamzat era benestante. Il suo terreno si estendeva per non meno di duemila metri quadrati. Una metà era occupata dal cortile con la casa e le costruzioni d’uso domestico, l’altra dal giardino e dall’orto.
La casa era grande, di mattoni bianchi, con una casetta indipendente e la cucina estiva.
Come venni a sapere in seguito, la ricchezza della famiglia di Chamzat si fondava sull’edilizia e sul commercio. Lo stipendio di un insegnante all’epoca sovietica era dignitoso, tuttavia non sufficiente per costruire magioni e andare in giro in macchina. In estate, durante il periodo delle vacanze scolastiche, Chamzat insieme ai suoi parenti andava a lavorare in Kazakistan per un paio di mesi. Costruivano stalle per i grandi allevamenti con il metodo dell’appalto a squadra e guadagnavano bene. Zia Liza non lavorava da nessuna parte, però era nel commercio, ovvero faceva contrabbando di articoli di scarsa reperibilità. A volte partiva per Mosca o Baku dove aveva conoscenze nel settore, trasportava stivali italiani, jeans americani e via dicendo, e li rivendeva a sovrapprezzo recandosi su invito nelle case di clienti ricchi e fidati, tra i quali vi erano direttori di sovchos, di industrie e negozi, revisori, procuratori, shabbashniki e tutto il resto della borghesia locale.
Nella famiglia c’erano quattro figli. Il più grande quell’estate era via per il lavoro stagionale. Il secondo stava facendo il servizio militare. Restavano le due figlie. La più grande aveva finito la scuola, ma sarebbe andata all’università solo l’anno successivo, e avevano deciso che, nell’attesa, avrebbe aiutato la madre a casa. La più piccola aveva finito la settima classe. Si chiamava Toita, che vuol dire ‘basta’. Quando videro che arrivavano le femmine, zio Chamzat e zia Liza smisero di mettere al mondo figli. La più grande la chiamavano alla cecena Aset. Ma la madre, come del resto anche il padre, nella quotidianità familiare non ufficiale chiamavano le figlie con i nomi russi: Tanja e Nastja. Nastja.
Il solo nome induce in travolgente tentazione.

Mi è capitato di recente, a luglio, di percorrere un lungo tragitto da Valdaj a Mosca, costeggiando vasti campi scottati dal sole. I campi erano in parte seminati, in parte ricoperti d’erba infestante. Il paesaggio bucolico, piatto, mi infuse sonnolenza, e mi appisolai. Mi risvegliò un forte odore che penetrava attraverso i filtri dell’aria condizionata.
O meglio, non mi risvegliò subito, bensì inizialmente partecipava a un fluttuante dormiveglia, era la base di una storia che aveva cominciato ad appiccicarsi all’interno delle palpebre come i disegni di un cartone animato. Era la prima volta che sognavo gli odori, per questo iniziai a dubitare e mi svegliai. Succede sempre così: il dubbio nella solidità, affidabilità e real tà del sogno, nella legittimità della sua coscienza, conduce al risveglio. Un giorno potremo risvegliarci da tutti i tipi d’illusione terrena, non senza aver prima messo in dubbio che ogni cosa qui, inclusi noi stessi, esiste per davvero.
Risvegliatomi, chiesi al conducente di fare una sosta e l’auto si accostò al ciglio sassoso della strada.
Scesi dalla macchina, attraversai il fossato stretto e, passando lungo un sentiero appena visibile, mi inoltrai nel campo coperto d’erbacce. Chiusi gli occhi e inspirai. Allora un denso impasto di sapori pungenti d’erbe cotte mi pervase dalla punta dei piedi alla testa. E ricordai quel profumo di peccato.
Il campo deserto dietro gli orti dello zio Chamzat e dei vicini non era incluso nella rotazione delle colture e nel suo centro era disposta un’opera progettata per la difesa dei civili: un rifugio in cemento costruito nell’anno delle Olimpiadi di Mosca e immediatamente abbandonato. Intorno erano cresciute invalicabili malerbe. Solitamente uniformi, quelle attorno al rifugio erano invece variopinte, come ad affrontarsi in una grande battaglia di popoli, a volteggiare per il campo in una danza marziale, passando all’offensiva e sbaragliandosi a vicenda, senza tuttavia mai conquistare, respingere e cancellare la composizione eterogenea. Considerevole in questo equilibrio era il ruolo dell’uomo che si batteva ora dalla parte d’una potenza verde ora dell’altra, falciando gli avversari o per nutrire il bestiame con l’erba migliore, o per segnare un limite al rigoglio delle giungle velenose nel luogo abbandonato.
Noi eravamo là, l’odore dolce dell’erba ci dilatava le pupille e le narici, l’oppio si piegava verso terra, l’ambrosia appiccicosa solleticava la pelle bagnata dal sudore, mentre le estremità affilate dei cappellini dei prati con le loro punte ci spingevano a voltarci sul morbido letto della gramigna. Lungo lo steccato biancheggiava come un velo steso a terra senza cura l’achillea, e la rovente canapa faceva fluire dentro di noi raggi verdi di sogno diurno inebriante, e l’ortica per non farci addormentare e non farci cogliere in flagrante si arrampicava lungo la nuda gamba; il nostro respiro lo soffocavano api, vespe, grandi bombi, e qualche altro animale alato che si nutriva sui fiori della forbicina, dell’ibisco e dell’erba di Santa Barbara. Il fedele cardo stava dritto come una parete robusta, e il giusquiamo nero teneva d’occhio il mondo circostante affinché, in caso d’allarme, le campanelline del camenerio ci dessero segnale.
E doleva in fondo alla pancia, e si arrestava il respiro, e una tachicardia furiosa al petto, mentre nella testa, o che fosse musica celeste o dolce lamento del demonio: eccolo, il tuo peccato, sognato e tanto atteso, tendi la tua mano, avvicina le tue reni e svela ciò che il Padre geloso ti ha celato.
So che poi dovrei raccontare qualcosa dei seni bianchi sudati con i capezzoli marroni, del valloncello tra le scapole tremanti, dell’aroma dei capelli mescolato ai profumi del giusquiamo e dell’oppio, della scossa elettrica al fianco casualmente avvicinatosi, e poi di come turbinano gli elicotteri e un vento caldo trascina via la coscienza della propria identità dal confine esteriore del corpo in una buia profondità pulsante, e nemmeno è chiaro di chi sia, se mia o sua, la profondità. E qualcosa sullo stelo del diaspro, sebbene mi torni sempre in mente il granturco maturo.
Ma sapienti sat, basta così con gli odori, non ne parlerò più. In parte perché non mi pongo l’obiettivo di rendere il peccato attraente. Anche senza di me ne è piena tutta l’arte umana. E l’intelletto se la cava bene da solo, oh, che fiori del male vi crescono! Incredibilmente belli! Tutto il peccato, prima del peccato, dopo, e durante il peccato si compie con la mente e nella mente, invece all’inferno si trascina l’anima legata dalle corde della perdizione. Adesso vi sarete già immaginati tutto quello che è stato e non è stato con Nastja. Ma fino a un certo punto.
Anche perché io stesso non sono sicuro di tutto. In fin dei conti stiamo parlando del peccato, del peccato mortale, per di più della violazione di tutti i tabù e divieti, e ogni trovata, languida fantasia di una mente malata, può essere interpretata come ammissione sincera e presa come base per ogni accusa ventura, o come luogo dove collocare la mia povera anima nella condizione d’esistenza che si confà al peccatore e corruttore: per esempio, nel corpo del verme. Narrando della virtù, possiamo parlarne senza scendere nei dettagli, affinché il nostro ragionamento non appaia come vanteria. Bisogna aggiungere che basta un buon proposito per essere ampiamente ricompensati, e i dettagli di un buon proposito non sono così importanti. Però nella descrizione del peccato occorre essere precisi.
Una volta, da piccolo, mi ruppi un braccio saltando senza il permesso degli adulti dal tetto della baracca. Per presentare l’accaduto come un incidente del quale non ero affatto colpevole, mi inventai una storia su come ero caduto inciampando sulla soglia, la molla era saltata e la porta aveva completato il fattaccio. Ogni volta, già ingessato e rispondendo alle persone che mi chiedevano come mi fossi fatto male, esponevo questa storia che pian piano si arricchiva e portavo a una perfezione sempre più convincente.

Finii io stesso per credere alla mia versione. E a lungo ricordai solo quella. Di recente, oramai già adulto, inaspettatamente ho ricordato la verità sull’incidente, che prima avevo rimosso dalla coscienza.
Penso che forse tra me e Nastja ci sia stato qualcosa. Alcuni giorni del torrido mese nel villaggio ceceno si aprono come voragini d’una oscurità scintillante. Non ricordo niente da tempo, ma ho la vaga sensazione che sia successo qualcosa d’importante. Dimenticato a forza, per costrizione. Per l’impossibilità, l’incompatibilità fra la memoria e il desiderio di conservare la personalità nel comfort morale e nell’integrità psichica. Ci sono anche indirette conferme, per esempio nel carattere dei nostri successivi rapporti. Nella reticenza che mette soggezione. E nei frammenti di alcune sensazioni-memorie assolutamente fisiologiche che alle volte vengono a galla dal fondo limaccioso della mia memoria redatta. Comunque è possibile anche il contrario. Mi viene in mente un aneddoto accaduto allo scrittore rumeno Mircea Eliade. Mircea, allora era ancora un giovane studente, ricevette una borsa di studio dal ragià e si recò in India per studiare le dottrine dello yoga e del tantra.
All’inizio svolse le sue ricerche nell’università di Calcutta, ma presto si avvicinò al famoso insegnante di sanscrito e maestro yoga di nome Surendranath Dasgupta, e divenne il suo allievo personale. Dasgupta propose a Mircea di stabilirsi a casa sua. E Mircea si stabilì a casa del guru. Alcuni mesi più tardi fu cacciato via dalla casa, dall’università e dalla città con disonore. Dasgupta aveva una figlia, Maitreyj, una ragazza di sedici anni con la quale lo studente rumeno aveva stretto una relazione biasimevole.
Rientrato in Europa, Mircea divenne scrittore, insegnante, conoscitore dell’Oriente e interprete delle pratiche mistiche nel campo dell’antropologia comparata. Tra le altre cose scrisse il romanzo autobiografico Maitreyj. Incontro bengalese, sull’amore vietato tra lui e una ragazza indiana. Quarant’anni dopo Maitreyj stessa pubblicò un libro dal titolo Na hanyatè. Ciò che non muore mai, su quello che veramente c’era stato fra lei e lo studente rumeno. Il libro in India divenne un bestseller, anche oggi è possibile trovarlo in tutte le grandi librerie.
Tralascio che Maitreyj sia stata a modo suo parziale e che, nel tentativo di proteggere il proprio nome e l’onore della famiglia, tratti il passato come quando si diluisce con l’acqua la spremuta troppo agra. Ma bisogna sempre dare ascolto all’altra parte. In questa storia l’altra parte è Maitreyj, che ha taciuto per quarant’anni mentre Mircea dilettava l’Europa con fandonie sulle sue avventure romantiche. Non sappiamo chi dei due fosse il serpente, e se in tutta questa storia ci sia stato o no un serpente. Ma ecco il quadro che deduciamo da un confronto: Mircea Eliade, noto specialista di cultura e filosofia indiane, conoscitore dello yoga e del tantra, interprete di pratiche mistiche e rituali, rumeno erudito e poliglotta, in realtà non aveva capito niente dell’India. Non aveva capito chi fosse un guru, cosa rappresentassero la famiglia e la casa per un individuo, e come una persona educata si comporta nella propria abitazione. Non aveva capito come e che cosa insegnano i Veda. Non uno dei mantra Upaniṣad aveva illuminato il suo cupo e rude cuore rumeno, popolato da scarafaggi e cimici. Mentre il cuore caloroso e morbido della ragazza indiana era rimasto per lo studioso totalmente Terra Incognita.
Mircea suppone che Dasgupta lo avesse invitato a vivere nella sua casa al fine di stringere amicizia con un occidentale istruito e avere in futuro la possibilità di trasferirsi in Europa. A Mircea era sembrato anche che Dasgupta incalzasse i due ragazzi ad avvicinarsi, con il piano di fare del futuro genero un suo seguace. Et cetera.
Cosa puoi dire in questi casi? Con tutto il rispetto per la memoria di un pensatore per davvero originale e interessante, in questa storia egli appare ai nostri occhi nelle ridicole sembianze dell’idiota narciso. Un misero rumeno, studente, che viveva facendo l’elemosina al ragià. Un europeo istruito, un buon partito, certamente no.
Non aveva capito niente, proprio niente.
Surendranath Dasgupta invitò lo studente a vivere a casa sua perché aveva visto il suo zelo nello studio del sanscrito e dello yoga. Voleva fare dell’uomo bianco un suo vero e proprio allievo. Secondo i Veda l’allievo vive nella casa del guru e lo serve. La famiglia del guru diviene la sua famiglia. Maitreyj divenne sorella di Mircea. Fare con lei il cascamorto? Lo stesso risultato l’avrebbe ottenuto andando a letto con la moglie del guru: il karma nero è uno dei peccati più gravi, paragonabile per le terribili conseguenze all’uccisione del bramino e all’offesa della divinità. Mircea rovinò tutto, profanò i rapporti sacri fra il maestro e l’allievo. Il guru lo cacciò via quando capì che nemmeno lo studio dei Veda e del sanscrito avrebbe potuto fare di un rumeno primitivo un eletto. Sono come bestie, questi occidentali. Ovunque non vedono che sesso. E perfino nella casa del guru sono capaci di compiere il peccato più sporco, come ratti di fogna che si accoppiano striduli sull’altare di un vecchio tempio. Non vedono Dio in nessun dove, in compenso trovano ovunque la possibilità di solleticarsi i genitali da ratto. Oh, esseri infelici, traviati!
Non sappiamo se per davvero Maitreyj avesse provocato in Mircea la sensualità o se tutto questo sia stato il delirio dell’immaginazione malata di un rumeno ripudiato. Il passaggio di Eliade sul fatto che lei di notte andasse da lui, Maitreyj con sdegno lo ha dipinto come una menzogna. Può darsi che lui abbia interpretato erroneamente i suoi slanci familiari, da sorella. O l’interesse, proprio delle giovani ragazze, per tutto quello che vi sia di nuovo, insolito. Più probabile è che la ragazza fosse realmente innamorata. E avesse conservato per tutta la vita quest’amore impossibile.
Ma assolutamente impensabile è che lei si fosse offerta al coito come una Lolita indiana. Può darsi che avesse visto nei suoi sogni il sari rosso, la cerimonia nuziale addobbata d’oro e di fuoco, e che, avendo capito che mai sarebbe stato possibile, avesse riposto il tutto nei sogni. Perché non era né rumena, né inglese, non era polacca o francese. Non apparteneva nemmeno a una delle specie di animali raffinati. Era la figlia di un guru illuminato, la promessa sposa di una famiglia di bramini, la sua dote era la consapevolezza dell’Assoluto.
Non si può dire che la storia di Mircea e Maitreyj sia la copia del mio caso. Ma io non voglio cadere nella stessa trappola dell’erronea interpretazione in cui finì il letterato rumeno. Dal punto di vista del canovaccio esteriore degli eventi ecco cosa successe: per circa un mese, da metà giugno a metà luglio del 1987, fui ospite a casa di zia Liza e della sua famiglia. Dormivo in una stanza a parte, nella casetta per gli ospiti. Da solo. Di giorno aiutavo nelle faccende domestiche: lavoravo in giardino, nell’orto, mi prendevo cura del bestiame di casa. A volte frequentavo i giovani ceceni del posto, ragazzi che mi sembravano normali, non diversi dai nostri cosacchi. Un paio di volte capitò che mi azzuffai, senza cattiveria, cose da ragazzetti, per un regolamento di conti. Poi feci amicizia con quelli che poco prima erano stati gli sparring-partner, insieme andavamo a fare il bagno al torrente. Tutto come d’abitudine, come fanno i ragazzini che stanno cominciando a diventare grandi. A volte stavo seduto in cortile e leggevo. A volte facevo una camminata. L’esile Tanja mi stuzzicava, per scherzo poteva tirarmi le prugne oppure, dopo essersi avvicinata quatta quatta, rovesciarmi giù per il collo una brocca d’acqua fredda.
Nastja, la più grande, era lontana dalle birichinate infantili. Nastja leggeva con me, mi si sedeva vicino e apriva il suo libro. Parlavamo spesso, di libri e di ogni cosa. Capitava che passeggiassimo insieme. E insieme ogni giorno finivamo qualche lavoretto in cortile, andavamo a tagliare con la falce l’erba o a raccogliere le mele cadute nel giardino del sovchoz per gli animali di casa.
Mele cadute. Suona quasi come anime cadute.
Con questo terminano gli avvenimenti e iniziano le interpretazioni. Di tanto in tanto ci ritrovavamo soli. In due, troppo vicini. Sfiorandoci con i corpi seminudi. Mescolando il nostro sudore. Una volta di notte facemmo insieme la doccia in giardino, aiutandoci a vicenda con le mani insaponate. Era notte, eravamo allegri e spaventati.
La presenza degli adulti e degli estranei, anche se non facevamo niente di strano, ci disturbava sempre, se questo può voler dire qualcosa. Se ci sia stato qualcos’altro, non so.
Quello che successe tra noi, perfino se non fosse niente di serio, ricorda il romanticismo nobiliare russo del passato. Il flirt sottile, e talvolta nemmeno così tanto, fra cugini era molto diffuso. In virtù della relativa severità dei costumi e della mentalità chiusa delle famiglie nobili, erano pochi i ragazzi e le ragazze che potevano trascorrere il loro tempo e frequentare da vicino i coetanei di sesso opposto senza il biasimo degli educatori. A meno che non si trattasse di cugini e cugine che venivano considerati come familiari. Le prime acerbe passioni i giovani nobili le provavano sempre per cugini e cugine. E gli adulti si rapportavano con pazienza alle infatuazioni incestuose dei figli. Si ricordavano di quando avevano la loro età. E riconoscevano in questi legami un insegnamento innocuo e inoffensivo della scienza dell’amore e delle relazioni romantiche rivolto ai giovani.
Una situazione simile quanto a severità di costumi si osservava in Cecenia, però dubito che mia zia e suo marito fossero pronti a dar prova di pazienza nobiliare. Una relazione tra cugino e cugina sia qui, in zone montuose, che da noi, sul Terek, era considerata un tabù assoluto. Se qualcuno avesse potuto dubitare della purezza del mio rapporto con Nastja, sarebbe stato meglio per noi non imbatterci in quella persona. E non ci imbattemmo in una situazione simile. Così pare. A meno che non sia successo qualcosa di così vergognoso che la mia memoria ne blocchi il ricordo, e le nostre famiglie avessero deciso di interrompere le indagini, archiviare il caso e non affrontare mai l’ignominiosa faccenda. A casa nostra di rado ricordavamo Nastja, per motivi che si chiariranno in seguito.
Certe volte io e Nastja parlavamo di quando saremmo scappati via, insieme, da qualche parte, lontano lontano, là dove nessuno avrebbe potuto sapere che eravamo cugini. Sarebbe stato semplice nasconderlo, avevamo cognomi diversi! Non svelavamo perché avremmo dovuto nascondere la nostra parentela. Non parlavamo di come avremmo vissuto insieme, o del fatto che ci saremmo sposati. Sembrava sottinteso. Ma discutevamo apertamente della nostra fuga come se non dovesse essere che un gioco. Era romantico ed enigmatico nascondere la verità su noi stessi, come se fossimo agenti segreti. Saremmo stati bene là dove non ci conosceva nessuno.
Mi piacerebbe capire come tutto ebbe inizio. Tuttavia non ricordo alcun evento in particolare né alcuna svolta. Tra me e Nastja subito si protese un filo, sembrava che un ragno fosse balzato dalla sua alla mia testa, spiegando una ragnatela collosa, sottile, invisibile. Comunque, in principio tra noi ci furono le mele.
Dopo aver preso il secchio, ci incamminammo per gli orti verso il meleto vicino alla sede del sovchoz. Le mele erano ovunque, ma noi chissà perché ci inoltrammo in un luogo selvaggio, dove non v’era anima viva. Ivan Bunin, viali oscuri, mele antonovka: eravamo figli della letteratura russa e ci sentivamo sempre un po’ eroi della sua melanconica narrativa. Nastja era davanti, io la seguivo. Parlavamo, parlavamo. Di Bunin e di ogni cosa al mondo. Sapete come succede. Poi ci stancammo e ci sedemmo. Stavamo zitti, ad ascoltare come qua e là cadevano con tonfi sordi le mele mature. Ricordammo Newton. Decidemmo di restare seduti e attendere finché una mela non fosse caduta sulla testa di uno dei due. Scommettemmo: chi per primo avesse ricevuto la mela, sarebbe stato Isacco. E si sarebbe chiamato Isacco tutto il giorno fino a sera, e avrebbe reagito solo a quel nome. Ridevamo. Finalmente cadde una mela, ma non sulla testa, bensì dritta tra le mani di Nastja. La mela era rossa e bella. Nastja la strofinò con il lembo dell’abito e la morse. E me la allungò. Io la presi e portai la mela alle labbra, dalla parte dove l’aveva morsa. Per quanto mi sforzassi del contrario, non potevo non pensare che avevano sfiorato la tenera polpa i bianchi denti di Nastja, le sue labbra rosa (oh, magari conoscere il loro gusto e il loro tatto!), e perfino la sua arcana lingua scarlatta. Staccati delicatamente i denti dalla mela, la restituii a Nastja. Mi parve che avesse letto i miei pensieri, e che anche lei pensasse la stessa cosa, nei miei confronti. Portò la mela alla bocca e lentamente fece passare la lingua lungo i segni lasciati dalla mia bocca, come ad analizzare il mio sapore e ogni informazione che mi riguardasse. Poi ci prendemmo per mano e ci stendemmo. Guardavamo il cielo che faceva capolino con lembi celesti attraverso le chiome degli alberi, vedevamo i frutti riempirsi di succo, le foglie verdi nutrirsi dei raggi del sole, l’acqua piovana conservata dalla terra previdente scorrere dalle radici ai rami. In quegli istanti comprendevamo il mondo intero, la lingua degli uccelli, il fruscio del serpente nelle tane, e il tragitto del verme, e il rombo rilassato di un trattore lontano. In sostanza, la stessa musica. E il bene e il male.

I filosofi e i teologi ritengono che il peccato sia un abuso del libero arbitrio. Che il libero arbitrio debba esserci, altrimenti non ci sarebbe né peccato, né responsabilità. Questa tesi si trova in contraddizione indissolubile con le affermazioni sull’onnipotenza e onniscienza di Dio. Ma gli studiosi sono d’accordo nel sacrificare l’assolutezza dell’Assoluto, per conservare l’idea di libertà.
In realtà non esiste libertà alcuna. E l’arcana verità è che non c’è libero arbitrio, ma il peccato sì.
Nessuno è libero, nessuno sceglie il bene o il male, le tenebre o la luce. Al contrario, le tenebre e la luce scelgono loro le anime. E quell’anima che le tenebre scelgono per sé, nelle tenebre permarrà. Mentre quella scelta dalla luce, alla luce si volgerà. Solo l’eletto da Dio, potrà conoscere Dio. Di questo è scritto nei segreti delle Upaniṣad.
E di questo ne è a conoscenza anche Stephen King, il re dell’horror. La terrificante forza delle sue storie risiede nell’aver mostrato l’altra faccia del protestantesimo. I W.A.S.P. capivano che l’eletto da Dio sarebbe stato felice e ricco, e che nell’aldilà sarebbe finito in paradiso. E non c’entrano la devozione, l’ascesi o le preghiere. Così ha deciso il Signore, e il Signore non sbaglia. Questo li rendeva più tranquilli. Il libro ha rivelato che è vero anche il teorema contrario: chi è stato scelto dal diavolo non può salvarsi. E non c’entrano i peccati o i crimini. Semplicemente succede così, che uno lo sceglierà Dio e l’altro l’adocchierà il diavolo.
Qualcuno dirà: ma allora da dove saltano fuori i peccati? Come posso difendermi ed essere condannato per questo? Se mi ha scelto il male, se è stato lui a scegliermi, dov’è la mia colpa, perché sono colpevole?
E noi domanderemo: e chi altrimenti?
Chi è colpevole del fatto che il male abbia scelto proprio te? Chi altro può essere colpevole se non te medesimo? Il male? Il male non può essere più o meno colpevole, esso è già così, male. Solo tu sei colpevole di tutto.
Consapevole di questo, puoi cambiare qualcosa?
No.
Nel poema induista Rāmāyaṇa si racconta di come il principe Rāma vivesse in una foresta col fratello Lakṣmaṇa e con la moglie Sītā. Il demone Rāvaņa rapì Sītā e la condusse sull’isola di Laņkā. Rāma radunò un esercito di scimmie magiche, attraversò l’oceano, sbaragliò le truppe di Rāvaņa, uccise il demone e liberò Sītā.
Rāvaņa era una persona istruita. Conosceva il sanscrito e leggeva il Rāmāyaṇa in originale, molto tempo prima che gli eventi lì descritti si manifestassero. Sapeva come sarebbe andata a finire. Una volta si recò da lui il fratello minore e gli disse: o, signore, Rāma è Dio, è Viṣṇu in persona. Opporglisi è insensato. Restituiamogli Sītā e chiediamogli perdono. Viṣṇu è benevolo. Se non lo facciamo, periremo. Perirà tutto il nostro esercito. Le nostre spose saranno vedove e i figli orfani. Non conviene ostacolare Rāma. Non abbiamo la minima possibilità.
Rāvaņa rispose: lo so. Periremo tutti. Nessuno può confrontarsi quanto a forza e valore con Rāma. Ma io sono il demone. E non un demone qualsiasi, bensì Rāvaņa, il più grande fra i demoni! Tale è la mia natura. Io devo lanciare una sfida al potere di Dio. Combatterò convinto della mia vittoria, e perirò. Così è scritto qui, nel copione. Tale è il Rāmāyaṇa. E nessuno, né tu, né io, e nemmeno Rāma potrà cambiare neppure una riga.

Suppongo che tra di noi non sia successo niente. Ci fu la tentazione, forse da parte di Nastja, forse del Serpente, ma io non cedetti. Fantasticavo sull’intimità, nel senso pieno e proibito del termine. Ma non la ritenevo una cosa per me raggiungibile. Sebbene mi straziasse la sua relativa vicinanza, la sua disponibilità, forse immaginata e chissà se autentica, la sua cordialità, il suo desiderio. Pensavo che dovessimo scappare via e sposarci. Tutto doveva essere santificato e consacrato, così pensavo.
Il fatto è che avevo progettato una carriera inaudita: diventare santo, un anacoreta, un capo religioso, un riformatore e un salvatore d’anime. Quale confessione mi convenisse gratificare con la mia partecipazione era ancora fonte di dubbio. Sceglievo, porco cane. Non erano progetti astrusi. Alcuni anni dopo si realizzarono. Mi rasai a zero e mi ritirai in un monastero. Mi attendeva un crudele disincanto. Avevo abbandonato il peccato, ma era il peccato a non abbandonare me. Per di più fu solo allora che capii cosa fosse.
Qui, nel mondo, non conosciamo il peccato. Il peccato è la nostra unica sfera d’abitazione, come gli escrementi per il verme. Il verme non sa cosa siano perché non conosce nient’altro. Per riconoscerlo, vedere il peccato, occorre anche per poco tirare fuori il capo dal fetore putrefatto. E poi di nuovo sprofondare nella fossa ricoperta di impurità! Tale è il nostro destino. I capelli mi sono ricresciuti e mi sono sposato. L’ho fatto con mia moglie, nel matrimonio consacrato in tutti i modi possibili. Non è stato un peccato. Ma che porcheria, Dio Santo!
Sarebbe stato meglio se fosse accaduto allora, tra le mele.
Ricordo bene come ci congedammo. Ma è difficile da raccontare. Dio mio, non stavo affatto andando lontano! Una distanza ridicola: quattro cambi col treno elettrico. Due ore sull’autobus sbuffante, in tutto! Ci potevamo telefonare senza fare il prefisso. La posta. E progetti, ancora progetti per l’estate seguente quando noi due, insieme, ce ne saremmo andati via. Per prima cosa occorreva entrare all’università, nella stessa città, lontano-lontano dalle montagne e dal Terek. E poi, poi, poi…
Ci scrivevamo lettere per davvero. Lettere segrete. Le spedivamo non ai nostri indirizzi, bensì all’ufficio postale, in fermoposta. Le prendevamo di persona e le leggevamo in disparte, di nascosto dagli estranei. E dopo averle lette le distruggevamo immediatamente. Quello era il nostro accordo, quello il gioco.
Nelle lettere continuavamo a fare progetti.
Probabilmente il lettore avrà capito da un pezzo che tra noi niente si è avverato.
E non so nemmeno cosa ci sia stato tra noi.
Se Nastja fosse viva, glielo chiederei. Oggi, trent’anni dopo, sarebbe semplice e senza pericoli. Si potrebbe avvolgere la storia nello scherzo o abbigliarla di nostalgia. Saprei tutto, se Nastja fosse viva. Peccato sia morta.
E la guerra non c’entra. Successe molto tempo prima.

Zio Chamzat e zia Liza, non per niente, avevano rimandato l’ingresso di Nastja all’università. Pensavano che non ci fosse bisogno di alcuna università. La cosa migliore era l’ingresso nella vita coniugale. E una speculazione con prospettiva di crescita era la garanzia per le basi materiali della famiglia. Nell’inverno del 1988 Nastja compiva diciotto anni. In un lampo fu proposta e data in sposa.
Il matrimonio era stato combinato, i giovani non si conoscevano, in compenso però i genitori legarono bene sul terreno del business. In primavera furono festeggiate nozze chiassose. Lo sposo e la sposa erano rimasti in stanze diverse di case diverse, mentre i genitori e gli amici facevano baldoria: bevevano, ballavano e sparavano in aria col fucile.
Infrangendo le leggi della clandestinità, telefonai a Nastja e le dissi che sarei arrivato e l’avrei rapita.
Lei rispose: non farlo. Ti scrivo io.
Nastja per davvero mi inviò una lettera, l’ultima. Mi comunicava che i nostri piani non sarebbero stati revocati. Che io dovevo finire la scuola per poi accedere all’università, come avevamo deciso. E che poi sarebbe arrivata anche lei, Nastja. Per quanto riguardava il marito, beh, era un marito. Non c’era niente di serio: avevano fatto tutto i loro genitori, s’erano agghindati a festa, oltre a qualche stupido rituale d’una volta, ed ecco fatto: un marito. Stupidaggini. Io e te Maksim siamo più intimi di qualsiasi marito e moglie. Io sono tua sorella. Ma questo sarà il nostro segreto.
Al posto della luna di miele o comunque di un viaggio per festeggiare il matrimonio, marito e moglie furono mandati a Baku per una nuova partita di merce. A bordo di una Žiguli, al cui volante sedeva lo sposo novello della mia Nastja. Arrivarono a destinazione tranquillamente, fecero due passi per la città, caricarono la merce. Ma sulla via del ritorno chi guidava perse il controllo e la macchina finì in un precipizio. La Žiguli rimbalzò lungamente da un masso all’altro, ribaltandosi finché non si fermò sul fondo di una gola. Nell’incidente stradale morirono due persone.
Il corpo di Nastja fu trasportato al villaggio. Ma io non andai al funerale. Ce l’avrei fatta se la funzione fosse stata russa, cristiana. Ma là, al villaggio ceceno, le cose andavano diversamente, alla maniera musulmana, in modo veloce e incomprensibile. Non vidi Nastja, non andai da lei a salutarla. Ma non vuol dire nulla. Venne lei da me.
Quello stesso 1988 terminai le superiori e iniziai l’università, in una grande città, come avevamo sognato io e Nastja. Mio padre era fiero di me e non mi mandò alla casa dello studente, bensì mi diede i soldi perché potessi prendere in affitto una camera singola in un appartamento. Mi ambientai bene, apprezzando il valore della comodità e dell’isolamento utile ai miei studi.
Una volta, passata la mezzanotte mi svegliai con la sensazione che ci fosse qualcuno. Aprii gli occhi e vidi Nastja. Era seduta sulla sedia vicino al mio letto e mi guardava con occhi velati da una pellicola biancastra. Il suo corpo era mutilato e putrefatto, ma era lei. Avrebbe potuto dirmi: ciao, Maksim. Fratello mio. Sono io, tua sorella, Nastja. Sono venuta, come avevo promesso. Ti ricordi vero, che ti avevo scritto: i nostri progetti valgono ancora. Neppure la morte ci separerà! Ti ricordi? Avevo anche disegnato di lato un cranio, attraverso il quale sarebbe germogliata una rosa. Invece non mi disse niente. Taceva. E anch’io tacevo. Stavo disteso e tacevo. Mentre i miei capelli perdevano il pigmento castano chiaro, trasformandosi in biondo cenere.
Taceva e io non so perché fosse venuta. Se perché l’avevo sedotta e rovinata. O se, al contrario, perché non le avevo risposto, non mi ero comportato come desiderava. E non l’avevo salvata da una morte crudele. In fondo, se allora fosse accaduto qualcosa, lei non si sarebbe sposata: la verginità era una condizione necessaria, altrimenti la famiglia della sposa sarebbe stata disonorata. Stirpe selvaggia. L’avrebbero mandata in città, all’università, non ci sarebbe stata altra alternativa. Forse non sarebbe rimasta con me, ma si sarebbe innamorata d’un altro. E io lo stesso, avrei amato altre donne. E questa nostra storia, come tra nobili, cugino e cugina, la prima esperienza: capita. La cosa importante è che non sarebbe morta.
O forse no.
Fa lo stesso. Non si può tornare indietro.
Il mattino lei scomparve e io trascinai le mie cose all’ostello e mi sistemai in una camera con quattro persone. Non vidi più Nastja, ma non la dimenticavo. Non c’era ragazza che mi interessasse. A dire il vero ero terrorizzato, avevo paura che non sarebbe piaciuto a Nastja e che sarebbe tornata di nuovo. Non la vedevo ma avevo di continuo la sensazione che fosse da qualche parte vicino. A volte appariva un’ombra. Oppure trovavo sul pavimento della stanza dove ero appena entrato il brandello di un abito finito in polvere. O di un cranio bianco. Una volta vidi sul tavolo un vecchio osso rinsecchito, e svenni. Mi rianimarono e mi spiegarono che era un osso di pollo e per evitare che svenissi di nuovo lo avevano gettato via. Io non mangiavo carne.
Tre anni dopo mi feci monaco. Ci vollero altri tre anni per ottenere il perdono da una colpa che non conoscevo e non ricordavo. E un giorno capii che lei se n’era andata. Smisi d’avere paura. Però fui investito da tutto il mio peccato non consumato. Dapprima cercai di arginare la corrente con la diga di un matrimonio legale, poi tutte le barriere furono lavate via e mi lasciai andare lungo il corso del torbido fiume del vizio. Risultò che non ero affatto un santo, ma il peccatore più naturale e un demone. La natura.
Ne sono successe di tutti i colori. Poi è passato. In fin dei conti tutto scorre.
Nei miei luoghi è iniziata ed è finita dapprima una guerra, poi una seconda. Zia Liza e tutta la famiglia si sono trasferiti nella regione di Voronež, dove aveva ingranato il figlio più grande. Tutti i nostri pian piano se ne sono andati da Kizljar in posti diversi, e anche i miei genitori hanno scelto la grande Russia. Hanno smesso di scriversi. Tutti ora hanno il cellulare, che bisogno c’è di scriversi lettere? Ma comunque non telefona nessuno lo stesso.
Una volta venne da noi Tanja. Era in città per sbrigare delle faccende. Tanja era diventata molto simile a Nastja, le assomigliava così tanto che per me fu terribile. Mi lasciò il suo numero di telefono, ma io ovviamente non le ho mai telefonato.
Ho abbastanza anni adesso ed è giunto il momento di pensare di nuovo a Dio. Non per diventare un grande santo e salvare il mondo, ma almeno per capire come salvare me stesso. E se sia possibile o no. Che cosa mi resta in mano?
Cosa sarebbe successo se avessi peccato con Nastja? Tanto comunque ho peccato lo stesso; l’ipocrisia non mi è stata d’aiuto, ciò significa che avrei dovuto seguire dritto la natura e fare la mia parte. È così o no? Cosa ne sarebbe stato se Adamo non avesse ceduto alla seduzione? O se Yamî avesse potuto corrompere il proprio fratello? Cosa sarebbe stato se Rāvaņa si fosse rifiutato di combattere con Rāma? Sarebbe stato Rāma contento di Rāvaņa o no? O, alzando le spalle, avrebbe detto: beh, vivi pure, piccolo demone codardo. Hai rovinato un poema così bello!
Talvolta ho la sensazione che siamo venuti a questo mondo per interpretare un ruolo, senza aggiungere niente di nuovo. Tutte le improvvisazioni sono pensate in anticipo. Non bisogna cambiare niente. Occorre recitare. E se ti è capitato il ruolo del peccatore, il ruolo del demone, di Rāvaņa: interpretalo con convinzione e abnegazione. Affinché Rāma rimanga soddisfatto di te. Guadagnati gli applausi! Allora, forse, dopo averti ucciso, Rāma ti salverà. In fin dei conti, siamo venuti al mondo per questo, per recitare.

La mucca che si mungeva da sola, di M.M.Bergman

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Megan Mayhew Bergman vive in una fattoria nel Vermont con la famiglia e tanti animali. I suoi lavori sono apparsi su The New York Times, McSweeney's, Ploughshares, Oxford American e Best American Short Stories. Paradisi minori , pubblicato da NN editore e tradotto da Gioia Guerzoni, è la sua prima raccolta di racconti.
Pubblichiamo uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell'editore.

 

Prima mi fece vedere il rene. 
Questo è il polo craniale, disse Wood, indicando l’estremità a forma di C dell’organo. 
Tocca a me, dissi. 
Spostò la sonda dell’ecografo passando la punta arrotondata sulla mia pancia tesa.
Penso di averla pulita dopo il rottweiler, disse Wood guardando la sonda con la coda dell’occhio.
Eravamo nella clinica veterinaria dopo l’orario di chiusura, Wood ancora in camice bianco e stetoscopio al collo. Ero seduta sul tavolo d’acciaio, il metallo freddo contro il retro delle ginocchia. Wood si era perso i miei ultimi appuntamenti dal ginecologo e voleva vedere il feto con i suoi occhi. 
Non farla cadere, disse passandomi la sonda mentre abbassava le luci dell’ambulatorio e scaldava il gel. Quest’affare costa ventimila dollari. 
Mi ero sentita sola durante le ultime visite, ma Wood aveva degli obblighi nei confronti dei suoi pazienti: cani con una zampa rotta, gatti con insufficienza epatica, mucche con la mastite. In sala d’aspetto c’erano donne in lacrime con in braccio shih tzu artritici, furetti con un occhio solo, husky con l’ernia del disco, terrier con allergie gravi al detergente per moquette. Mi ero convinta che avessero molto più bisogno di lui. 
Premette la sonda sulla mia pancia.
Qui c’è il sacco gestazionale, disse. E questo chiarore, questo è il cuore.
Restammo in silenzio, a guardare il nostro bambino appena iniziato che cresceva sullo schermo. Due labrador sterilizzati da poco guaivano nelle gabbie, fuori. 

Ogni settimana Wood aveva un paziente che mi impediva di vedere, sapendo che non sarei riuscita a resistere e sarei entrata in ambulatorio in ogni caso, con il cuore a pezzi. La scorsa settimana era stato un lemure dalla corona dorata con un tumore, l’ultimo della sua specie in cattività. Nonostante i dolori che di sicuro lo tormentavano, era molto delicato con la sua padrona, e alzava il braccio ossuto in modo che lei potesse accarezzargli il fianco. Quel contatto sembrava confortarlo. 
Questa settimana toccava a Cerulean, una femmina di rottweiler con tre zampe. 
Può spezzarti il cuore, disse Wood.
Fammela vedere, replicai. 
Non è un bello spettacolo. Si è mutilata da sola. Là sotto. Alzò le sopracciglia. 
Cerulean era arrivata quella mattina. Wood era un ecografista e i proprietari di Cerulean avevano sperato che riuscisse a trovare un tumore o dei calcoli ai reni – qualcosa che potesse spiegare perché si faceva del male da sola.
Speri sempre che non sia comportamentale, disse Wood. È più difficile curare la mente che il corpo. 
Ma non aveva trovato niente. L’ecografia era a posto.
Nessuna mineralizzazione, nessuna massa, disse Wood, deluso. 
Cerulean era seduta a terra, con la schiena appoggiata alla parete in cemento. Il manto nero splendeva sotto le luci al neon. Aveva le orecchie piccole. Non riuscivo a guardarla negli occhi. Aveva sparpagliato gli asciugamani sul pavimento. Mi venne da piangere mentre fissavo i cuscinetti gonfi e consumati delle tre zampe. 

Al terzo mese di gravidanza sembravo solo grassa. Come se avessi mangiato quattro panini invece che uno, dissi a mia madre. Potevo tenere la pancia con una mano, mettere l’avambraccio sotto la piccola protuberanza che secondo il manuale avrebbe dovuto essere grande come un pompelmo. Non riuscivo a pronunciare la parola ventre
Wood tornò a casa in camice bianco, puzzava di formaldeide e ghiandole anali. Cosa c’è per cena? chiese senza ascoltare la risposta. Invece infilò la testa nel frigo.
Com’è andato il tuo appuntamento? chiese, togliendosi il camice e sfilandosi la scarpa sinistra con il tallone della destra. 
Ho fatto chili con carne ai tre fagioli, dissi, allontanando il gatto dalla cucina. 
Pulii dal vetro le impronte di zampe imburrate.
Wood si aprì una birra. 
Oggi mi hanno palpato, dissi. Come fai tu con le mucche, quando senti se hanno dei noduli nella pancia. 
Capisco se una donna è incinta solo toccandole il bordo dell’utero, si era vantato il mio ginecologo. Dio santo, tocco almeno mille pance ogni anno.
Sullo schermo, il feto si era capovolto, poi si era stiracchiato, un saluto al sole senza sole. 
Non riuscivo a smettere di pensare, dissi a Wood, che la sporgenza della sua coda vestigiale assomigliava molto all’estremità di un cocker spaniel.
Scodinzolatori perenni, disse. Urinatori remissivi.
Adorabili. Ti scaldano il grembo, dissi.  
Il giorno dopo mia nipote scoppiò a piangere non appena vide l’ecografia appiccicata sulla dispensa in cucina. 
Anch’io ho paura, dissi.
E non stavo scherzando.
L’immagine in bianco e nero mostrava il cranio e le vertebre. Le orbite sembravano i crateri della Luna.
In un certo senso, non bastava. Non mi diceva quello che volevo sapere del mio bambino, quello che avevo bisogno di sapere per dormire la notte. Nessuna fotografia poteva dirmi, Andrà tutto liscio
Più tardi, quella sera, Wood mi massaggiò la schiena, e ricucì con il filo da sutura le spalline del vestito che il mio seno straripante aveva lacerato. Sentivo il suo respiro sulla scapola, l’ago che cuciva il cotone come fosse pelle. Quella sera vennero alcuni amici per cena, carichi di regali, libri per bambini e pupazzetti. Misi in tavola un piatto di crudité ma mi accorsi troppo tardi che alcuni peli di cane erano finiti tra le cime dei broccoli. 
Wood parlò dei convegni a cui sarebbe andato, dell’articolo che aveva scritto insieme a un collega sull’uso degli ultrasuoni per monitorare lo sperma nell’apparato riproduttivo del giaguaro femmina. Era difficile star dietro a un discorso sullo sperma di giaguaro congelato.
In cattività, la madre giaguaro può divorare i propri cuccioli, disse. 
Arrossii davanti alla sua mancanza di fiducia nelle madri. Era come se Wood vedesse un animale nel cuore di ogni donna. Il lato primitivo.
Ecco, Wood, dissi. Apri questo pacchetto da parte di tua zia. Non è solo figlio mio, sai. 
Wood infilò il dito sotto la carta da pacchi. 
I tiralatte sono orrendamente simili alle macchine per mungere le mucche, disse mio marito, mostrandomi l’aggeggio. Si mise le ventose sul petto.
Ben presto diventerai la mucca che si munge da sola, mi disse. 
I nostri amici scoppiarono a ridere.

Una settimana dopo, Cerulean fu riportata alla clinica per un controllo. 
Sa di pizza al salame piccante, disse Wood al telefono. Non capisco.
Non sopportavo il pensiero di lei sul pavimento gelido di cemento, le sbarre della gabbia che le impedivano di vedere, le umiliazioni della sua misteriosa malattia. 
Posso portarti il pranzo? chiesi. 
Andai in clinica con un sacchetto di panini e uno di giocattoli morbidi per cani. 
Cos’è questa roba? chiese Wood con in mano un porcospino decapitato.
Gliene metto uno vicino, dissi. 
Wood si mise una mano sugli occhi e mi lasciò sola con Cerulean.
Ciao, le dissi. 
Mi guardò con la coda dell’occhio, timida e traumatizzata. Mi sedetti a terra, le gambe raccolte sotto il corpo. Avrei voluto massaggiarle le zampe con una pomata, accarezzarle la schiena. 
Ecco, dissi, passandole tra le sbarre il riccio senza testa e poi il gatto di stoffa. 
Voglio fare da madre a tutto il mondo, pensai. Ho così tanto amore dentro.
E poi, Non sono in grado di fare la madre. Sono una donna egoista.
Dopo, Certo che posso farlo. Milioni di donne sono state madri. 
Infine, Mi sento molto sola. Non so di cosa sono capace.
Al mio feto crebbero le braccia, e il suo sacco vitellino sembrava un fumetto. 
Queste, disse il ginecologo indicando una caramella Polo sullo schermo, sono le cellule sessuali dei suoi nipoti. 
Gli dica che mi dispiace per tutta l’erba che ho fumato al college, dissi. E per quella volta che... be’, ce ne sono state tante. 
Mi chiesi se mi sarei trasformata in una madre mitica, se all’improvviso i miei pancake sarebbero diventati leggendari, i miei vestiti perfetti, i miei massaggi sulla schiena magici.

Quando dissi a Wood che ero incinta, si era tolto la felpa e stava mettendo sul tavolo il cacatua a cui doveva somministrare un farmaco. 
Penso che mi abbia cagato nel cappuccio, disse. 
Wood aveva le guance arrossate. Gli toccai la spalla. Era sabato e lo stavo aiutando con le prime visite. Mi piacevano quelle mattinate in cui la clinica era silenziosa e c’eravamo solo noi due a dare da mangiare agli schnauzer e ai furetti sorseggiando caffè e commentando le notizie del giornale. 
Sono felice, chiarì qualche minuto dopo, abbracciandomi e baciandomi sulla testa.
Volevo essere interessante per lui quanto un tumore sulla parete della vescica, quanto il suo lavoro in laboratorio. Volevo essere analizzata, visitata dalle sue mani, discussa, diagnosticata. Volevo tenerlo alzato fino a tardi, volevo che corresse da me al mattino presto.

A Cerulean è piaciuto il gatto di stoffa, disse Wood mentre andavamo al corso preparto.
Poi mi ricordò che doveva andare via presto per il retriever Chesapeake Bay. Infezione alla cistifellea, disse.
L’istruttrice indossava leggings di felpa e una canottiera viola. 
Alcune donne, disse con le mani a coppa come se reggesse una palla, durante il parto raggiungono l’orgasmo.
Mi sa che dovrò cavarle il terzo occhio, sussurrai a Wood.

Wood non capiva le mie paure – aborto, autismo, parto prematuro. 
Spero che venga fuori come una capra, gli dissi. Forte, con gli zoccoli, pronta a mettersi subito in piedi. 
In primavera aiutavamo sempre la scuola veterinaria a far nascere i piccoli. Le capre da carne gonfie di gemelli, le pecore immobili con i loro agnellini immobili, vacillanti e leggeri sulla terra battuta. Alzavamo i più gracili fino alle mammelle della madre, toglievamo i più piccoli dai cumuli di paglia quando li vedevamo deboli, li allattavamo con il biberon se c’erano speranze.
Andrà tutto benone, mi disse, dandomi un buffetto sulla pancia. Razza robusta. 
Ma sapevo come sarebbe andata. Sarei andata in congedo di maternità e lui sarebbe tornato a casa tardi per cena. Mi sarebbe uscito il latte sentendo il gatto miagolare alla luna dalla finestra sulle scale. Mi sarei svegliata con le lenzuola appiccicose. Avrei amato e brontolato con uguale intensità. 
Mi dispiace essermi persa la rivoluzione asessuale, dissi. Afidi, api, squali martello in cattività. Loro sanno di essere soli. Non si aspettano di essere capiti.
Quello che l’ape del Capo guadagna nel martirio, lo perde in potenziale genetico, disse Wood. 
Autonomia, accennai.
Pensa al lemure della settimana scorsa, disse Wood. Era l’ultimo della sua specie. Aveva bisogno degli altri.
Avevo pensato a scene da presepio. Cammelli chini sulla mangiatoia come il mio gatto che faceva il nido nella culla. Giuseppe che fingeva di avere le mani legate, di non essere responsabile. 

L’istruttrice del corso preparto fece girare una ciotola di frutti di bosco. 
Wood alzò una mano in segno di protesta. 
Posso anche non guardare, disse. So come funziona. 
Nelle ultime settimane di gravidanza, cominciò a spiegare l’istruttrice, la cervice diventa morbida come un frutto maturo. 
Queste donne non ne sanno un granché, bisbigliò Wood. Mi piacerebbe portarle a fare una gita didattica. Mi piacerebbe accompagnarle in una fattoria durante la stagione del parto.
Ma è diverso, dissi. Il tuo bambino non sarà un ruminante.
Ricordatevi, disse l’istruttrice. Potrebbero volerci giorni prima che vi innamoriate del vostro bambino.

Il sabato successivo la gabbia di Cerulean era vuota. Al gatto di stoffa, in un angolo, mancava un occhio. 
Non voglio sapere come va a finire, dissi a Wood.
Più tardi, mentre il sole si alzava, Wood mi fece mettere sul fianco e scaldò il gel conduttore. Il tavolo era freddo.
Premette la sonda sulla mia pancia, tesa come una tela. Lì in ambulatorio le sue dita erano abili, rassicuranti, gli occhi concentrati sul bambino sotto la mia pelle. Percepivo la sua aspettativa, mi avvolgeva come l’amore.
Gli ultrasuoni sono perfetti per visualizzare il cuore, disse Wood. È un organo pieno di fluido. 

A parecchi stati di distanza, una donna aveva dato alla luce otto gemelli, come cuccioli. Forse un’altra aveva inarcato la schiena in estasi mentre una testa di trentacinque centimetri di diametro le spuntava dalla cervice. Una femmina di lemure in via d’estinzione si mordeva il ventre vuoto dentro alla gabbia dell’ospedale di uno zoo. Io guardavo un cuore piccolo ma veloce battere tra le costole sfocate di nostra figlia. Spero che non ti si spezzi mai, dissi, anche se sapevo che si sarebbe spezzato eccome, mille volte. 
Wood tracciò sullo schermo il profilo degli organi di nostra figlia con il dito. 
Raccontami ancora della riproduzione del giaguaro, dissi. 
La gestazione dura poco più di novanta giorni. Se allo stato brado le vengono sottratti i cuccioli la madre li cerca per ore, ruggendo di continuo.
Lo farei anch’io, dissi. Te lo giuro.

 

 

© 2012 by Megan Mayhew Bergman
Published by arrangement with The Italian Literary Agency.

© 2017 Enne Enne Editore, Milano  

Orsetto, di Mary Miller

Dopo il successo del suo romanzo di esordio, 'Last Days of California', Mary Miller torna con una raccolta di racconti che la riconferma come una delle voci più crude e taglienti della sua generazione di scrittori americani.
Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo 'Orsetto' contenuto nella raccolta Happy Hour, edito da Black Coffee edizioni.

 

Laura guarda suo figlio salire sullo scivolo: tre dossi ed è in terra. Ci sono voluti venti minuti per convincerlo e adesso non vuole saperne di fermarsi. Sarà la tredicesima volta che ci sale. Lei se ne sta lì, in piedi con le mani sui fianchi. Ha perso tutto il peso che aveva messo su durante la gravidanza e ora è fiera del suo corpo, che è tornato lo stesso di prima tranne per qualche smagliatura e una vagina che non sembra più apprezzare come una volta il vigore di suo marito. Lui viene e lei finisce col vibratore rosa. A volte lo usa comunque, anche se è già soddisfatta, e si fa baciare il collo, le orecchie, ovunque tranne che in bocca.
Controlla il cellulare. Sono le sei passate e suo marito a quest’ora dovrebbe essere rincasato. Non le va di tornare, ma non le va nemmeno di guardare Kevin (stesso nome del padre) scivolare all’infinito. Immagina di essere da sola su un’isola. Le piacerebbe. Ma sa già che dopo un po’ tutta quella solitudine le verrebbe a noia.
«Dai!» grida suo figlio e rifà il giro. «Dai dai dai!» È la sua nuova parola preferita.
Vorrebbe avere un’amica accanto, ma ultimamente sembrano tutte scomparse o hanno troppo da fare, o forse è lei a essersi accorta solo adesso di preferire di gran lunga le loro vite alla sua, perciò fa fatica a starci insieme.
Al sedicesimo giro la gioia del figlio la contagia e lo prende in braccio ridendo. Sembra più pesante di qualche ora fa.
«Ma che ti do da mangiare?» dice.
«Hot dog» risponde lui, anche se succede raramente.
Un uccello dalle ali bianche si infila in un albero e lei glielo indica. Si è abbassata la temperatura, arriva l’autunno, la sua stagione preferita. All’improvviso Kevin inizia a scalciare e urlare per farsi mettere giù e per un attimo lei si sente stordita, disorientata, le sembra di non sapere più come ha fatto a finire in quel posto, in quella vita.
«Ancora!» dice Kevin. Rimpiange di averlo chiamato così. Non ha neanche diminutivi decenti. Per lo più lo chiama Orsetto perché i suoi libri preferiti hanno tutti degli orsi come protagonisti. Il mese scorso l’avevano portato a Yellowstone e un orso nero aveva attraversato la strada correndo come un cane. Non era tanto grande e minaccioso, per quanto potesse pesare intorno ai duecento chili, a detta di suo marito. Yellowstone, tutto sommato, era stato una delusione. La maggior parte del tempo erano rimasti in macchina, a girare in cerchio, lentamente - seguendo prima il sentiero meridionale poi quello settentrionale - e spesso il traffico si bloccava perché la gente scendeva a fotografare un alce o un bisonte, e per due volte Kevin aveva dovuto fare pipì in una bottiglia, con Laura che gli sorreggeva il minuscolo pene non circonciso. In un’altra occasione avevano raggiunto il bagno appena in tempo prima che succedesse l’irreparabile. L’Old Faithful non era niente di speciale, anche se per vederlo avevano dovuto attendere un’ora insieme a una banda di motociclisti e dei turisti giapponesi che cercavano la visuale migliore, e così quando è arrivato il loro turno, pur piacendogli, non gli era piaciuto.
Kevin scattava fotografie a raffica, non a loro - tranne quando Laura lo chiedeva espressamente - ma al Grand Canyon di Yellowstone e allo Yellowstone Lake, la Hayden Valley, la Grand Prismatic Spring, e le migliori le postava su Instagram (hashtag nofilter, hashtag vacanzainfamiglia, hashtag Yellowstone, hashtag estate). Ma Laura si era impegnata a non fare capricci perché in fin dei conti aveva organizzato tutto lui.
La stanza d’albergo era molto carina.
«Fai l’ultima scivolata» dice al figlio «e poi andiamo a mangiarci un hot dog, dato che ti piacciono tanto».
«No» fa lui. «Altre quindici sedicimila».
«Una sola» ribadisce mentre il figlio sale la scaletta. Ripensa all’orso, a come correva. Il marito non era stato abbastanza veloce e quindi niente fotografia.
Si tocca la pancia come se si fosse ricordata all’improvviso di essere incinta, per quanto sia impossibile dimenticare una cosa così. È sempre lì, come un leggero cerchio alla testa o un principio di mal di gola. Oltre a suo marito non l’ha ancora detto a nessuno, e l’ha detto a lui solo perché doveva dirlo a qualcuno. Si aspettava che fosse contento o deluso, ma lui non ha avuto reazioni. Ah, ha detto, ok. È una bella cosa, no? E più tardi quella sera le ha comunicato che probabilmente avrebbero dovuto mandare i figli alla scuola pubblica.

La persona accanto, di Marco Rossari

The Florentine Leterary Review (The FLR) è la rivista che propone racconti e poesie di autori contemporanei italiani, in italiano e in inglese.
Vi invitiamo a conoscere la rivista, attraverso l'approfondimento a cura di Alfredo Zucchi.
Pubblichiamo il racconto di Marco Rossari, contenuto nel numero 2 della rivista The FLR.


Giuliana entrò in sala.
Il cinema era vuoto.
Non era così insolito al primo spettacolo pomeridiano, eppure difficilmente capitava che non ci fosse proprio nessuno.

Mancavano un paio di minuti, perciò avrebbe potuto prendere un posto qualsiasi e infischiarsene del numero sul biglietto. Scelse un posto centrale, l’ideale intersezione tra due linee, giusto in mezzo alla sala.
Il posto X.
Si accomodò, pregustando la proiezione. C’era un bel tepore. Tutto era tranquillo. Aveva sistemato il cappotto sul posto accanto a sinistra e stringeva la borsa in grembo. Non per paura che la rubassero, era più un gesto istintivo di difesa. La rassicurava.
Era lì, con la sua borsa stretta al ventre, quando notò un movimento con la coda dell’occhio. Si girò di scatto. Le tende si erano scostate e un uomo con un cappotto nero era entrato in sala.
Le luci si attenuarono.
L’uomo aveva più o meno la sua stessa età. Sessanta, forse settant’anni. Alto, composto, borghese. Solo. Nella penombra l’uomo percorse il corridoio con passo deciso. Quando arrivò all’altezza della fila dove si era seduta Giuliana, sempre con passo marziale, entrò. Oltre al cappotto, aveva un cappello nero. L’uomo andò dritto fino a lei e si accomodò proprio lì accanto, alla destra di Giuliana. Lei non fece in tempo a guardarlo bene che le luci si spensero del tutto.
Tutto il cinema era vuoto.
L’uomo si era seduto lì.
Accanto a lei.
Nel buio.
Aveva già visto un film con qualcuno accanto. Però mai in una sala vuota. L’uomo aveva appoggiato il cappello sulla poltrona alla sua destra, ma era rimasto con il cappotto addosso. Dopo aver sbuffato, era piombato in un silenzio rotto da un respiro affannoso.
Giuliana non provò nemmeno a voltarsi per scrutarne il viso.
Il film ebbe inizio.
Fin dai titoli di testa, Giuliana fece una terribile fatica a concentrarsi sui fotogrammi. Sentiva quell’uomo respirare. Dapprincipio sommessamente, poi un poco più roco. Il respiro di un uomo. Era l’unica a percepirlo, l’unica a cogliere lo strofinio delle sue mani, l’unica a percepire il vago aroma dell’acqua di Colonia che doveva essersi spruzzato sulle guance quella mattina dopo essersi rasato.
 


L’uomo esisteva nelle sue manifestazioni – corporee, acustiche, odorifere – solo per lei, in quella sala vuota.
Chiedeva la sua attenzione? Esigeva la sua percezione?
Calma.
Si concentrò sul film. Era una storia lenta, si dipanava con terribile meticolosità, carrellate estenuanti…
O era lei che non riusciva a tenere viva l’attenzione?
Lo sentiva respirare.
Era lì.
Tutto un cinema vuoto e si era seduto accanto a lei.
Si accorse che l’uomo stava sbottonando il cappotto. Un bottone dopo l’altro, lentamente.
Era un malintenzionato?
Giuliana strinse la borsetta a sé. L’uomo voleva strapparla? Frugarci dentro? Rubarle qualche banconota e gettarla a terra con cattiveria, prima di allontanarsi, intimandole di non avvertire la polizia e di non seguirlo? La stava guardando? Voleva rubarle la fede al dito? Il diamante che da tanti anni impreziosiva la sua mano e la sua quiete coniugale?
No, no.
Non la fissava.
Ma respirava, lo sentiva.
Il film proseguiva, inesorabilmente lento. Invece che procedere in avanti, sembrava quasi andare a ritroso. O forse avanzava in modo circolare. Era un film morto. O era lei che in stato di intontimento cominciava ad alimentare fantasie assurde? La massa corporea di quell’uomo –respirava, respirava – la turbava così tanto? Davvero non riusciva più a seguire i personaggi sullo schermo? Doveva andarsene? Doveva mettersi a gridare? Doveva chiedergli di smetterla? Ma smettere cosa?
Non riusciva a concentrarsi.
Strinse la borsa. Si aggrappò alla visione.
Niente.
Non riusciva a seguire il film.
L’uomo aveva sbottonato il cappotto, ma non se l’era sfilato. Non aveva caldo? Brava, ci mancava solo che gli chiedesse: “Non ha caldo?”. Eppure lei soffocava. Una vaga nausea, un senso di spaesamento. L’attenzione che correva dallo schermo al respiro dell’uomo, dal vuoto di quella figura accanto alla trama immobile. Era un incantesimo. Una stregoneria.
Provò a guardare il resto della sala senza muovere la testa, solo gli occhi. Niente, nessun altro, non c’era anima viva. Forse alle spalle, ma non trovava il coraggio di girarsi.
E quello aveva un cappotto nero.
Era la Morte? Ora si sarebbe girato e le avrebbe sussurrato all’orecchio: “Sono venuto per te”. E poi avrebbe sorriso. Un po’ rassicurante, un po’ beffardo. La Morte ti trovava in una sala vuota non per portarti via, ma perché l’inferno era quella sala vuota. Te ne stavi lì a sentire respirare la morte. Tutto qua. E il film purtroppo non era granché.
O era un assassino?
Ora avrebbe estratto un coltello affilato da sotto il cappotto e con gesto sbrigativo le avrebbe tagliato la gola da un orecchio all’altro. Una colata di sangue denso, cupo, violaceo le avrebbe macchiato il maglione, mentre la testa si rovesciava all’indietro. O forse avrebbe preferito il metodo lento dello strangolamento. Non aveva controllato le mani: aveva forse dei guanti di pelle? La sagoma nel cinema si divincola ma non c’è nessuno ad assistere. Esistevano ancora i proiezionisti? Era tutto automatizzato? Avrebbero sentito le sue grida soffocate?
Perché si era seduto lì?
Provò a ragionare. Forse gli piace vedere il film al centro della sala. A tutti piace assistere da posizione centrale. E quando capita di avere un cinema tutto per sé, come un ricco con la saletta privata?
Ma proprio accanto a lei?
Oppure era un balordo. Non puzzava, però. Dignitoso. No, non era un vagabondo. Forse era un signore eccentrico. Girava per i cinema, cercando di instillare una sottile inquietudine nella persona accanto. Era il suo passatempo preferito, nel corso di una vecchiaia che trascorreva nel tedio del lusso. Sai cosa faccio di pomeriggio? Non ci crederai mai.
Doveva essere così.
Ma no.
Calma.
Respira.
Era una vecchia signora, in un cinema del centro, a una proiezione come un’altra. Non bisognava farsi venire il batticuore. Lì fuori c’era una maschera, c’era la cassiera. Nella piccola libreria adiacente c’era una ragazza dall’aria gentile che probabilmente studiava Lettere o Filosofia. C’era il mondo: il frastuono delle auto, la musica dei venditori ambulanti per strada. E allora perché tutto si riduceva al fiato sommesso che sentiva a pochi centimetri? Le spalle, così vicine; le gambe, così vicine; l’aria condivisa, da loro due soli, in quella maledetta sala.
Doveva essere pazza.
Poi la domanda, inevitabile, verso la quale tutto convergeva.
Era un molestatore?
Non ne aveva mai trovati. Adesso Giuliana era una signora stagionata. Forse non era più così avvenente… Ma l’avvenenza, si diceva, non aveva poi tanta parte in una molestia di quel tipo. E poi, aggiungevano, non esisteva più quel tipo di molestatore. Al pomeriggio di norma trovava gruppetti di studenti, diverse signore canute che la guardavano con aria complice, qualche intellettuale precario rincantucciato in un angolo a prendere appunti su un taccuino.
E invece questa volta?
Soli.
Era un molestatore?
Avrebbe abbassato la cerniera nel buio e avrebbe tirato fuori il sesso? Era questo che voleva fare? Masturbarsi accanto a una signora nel buio di un cinema? Voleva farsi vedere eiaculare? Spaventarla, atterrirla? Voleva estrarre il sesso – enorme, spaventoso, lucido – e metterlo in mano a Giuliana, alla vittima Giuliana, alla povera Giuliana, a una signora indifesa? Bisbigliarle qualcosa? Qualcosa come: “Guardalo”? O qualcosa come: “Ti piace, lo so, guardalo bene”? Voleva prenderle una mano, la sua mano avvizzita, la sua mano gelida di vecchia signora, la sua mano abbandonata e ora quasi tremebonda, lì sopra la sua borsetta, lì alla sua mercé, la sua mano con il diamante! Voleva prenderle una mano e mettersela sul sesso, farle sentire la forza del sangue, dopo tutti quegli anni? Voleva dirle quella parola? Voleva dirle: “Guardalo, guarda il cazzo”? Voleva forse metterle una mano sulla nuca e, forzando la sua debole resistenza, farla chinare e arrivare a pochi centimetri dal cazzo? Le avrebbe detto, a quel punto: “So che lo vuoi, su, fai la brava”? E lei che cosa voleva? Voleva che lui lo facesse? Alla sua età, voleva piegarsi su un uomo e prendere in bocca la sua carne palpitante? Voleva sentirsi dire come un tempo, come in luna di miele, in quella tarda primavera del 1969, quando a Capri suo marito le aveva spinto la testa allo stesso modo, sul letto, di notte, e le aveva detto “Su, fai la brava” e a lei era piaciuto anche se non aveva trovato il coraggio di ammetterlo, nemmeno a se stessa?
Ma cosa le veniva in mente!
A furia di farsi domande, di ascoltare il respiro dell’uomo, Giuliana si ritrovò a veder salire i titoli di coda.
Il film era finito. Non era successo niente. Le luci si accesero e i primi spettatori dello spettacolo successivo – numerosi, rassicuranti – cominciarono a entrare.
La persona accanto si girò e le disse: “Amore, scusa se prima ci ho messo un po’, ma proprio non trovavo parcheggio. Ti è piaciuto? Sembravi così assente".

Naufragio con quadro, di Daniele Del Giudice

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Il racconto Naufragio con quadro è tratto dalla raccolta I Racconti di Daniele Del Giudice, pubblicati da Einaudi. Ringraziamo l'autore e l'editore per la gentile cessione.

Non è autorizzata la cessione dei diritti di tale racconto a terzi.


Potevo sapere che era un quadro? E anche se l’avessi capito lí per lí, non era certo il momento di fare considerazioni. Galleggiava, ecco tutto, galleggiava come tanti altri frammenti, tra una cesta di vimini e una cappelliera, e cosa ci facesse a filo del mare livido una cappelliera coperta da vapori di nebbia sull’acqua piatta non era piú sorprendente di cosa potesse farci un quadro, solo che la cappelliera non mi avrebbe sorretto e il quadro sí, cosí lungo e stretto poteva andare bene, vi appoggiai le mani e lui affondò un poco, mi ci rotolai sopra e lui, anche se un po’ sommerso, mi sostenne a galla. Non sapevo che fosse un quadro, né poteva importarmi di meno in quel momento, sapevo solo che non c’era piú niente intorno a me: non la nave, non gli amici, e nemmeno piú la notte. Il cielo si aprí poco alla volta, anche la nebbia diradò, passavano nuvole basse e imponenti. L’acqua gelida m’intirizziva la schiena, mi rigirai sfiorando con la guancia la superficie su cui ero disteso, bianca porosa e tralucente. L’occhio era cosí vicino alla materia che seguivo i profili della ruvidezza, crateri e rilievi e canali profondi che il movimento del mare riempiva ad ogni onda di goccioline scivolanti fino all’occhio, lacrime in entrata. Restai cosí non so piú quanto, almeno il tempo di riprendere le forze, poi mi sollevai sulle braccia tese, come talvolta ci si solleva su un’amante per guardarla tutta. Non c’era dubbio, era proprio un quadro. Non bianco però, non tutto bianco come m’era parso; da sotto il bianco affioravano striature marroni e arancio e macchie gialle come muschio. Da quanto tempo ero in acqua? Che il quadro si fosse arrugginito? Forse quei colori non affioravano alla superficie, erano invece le profondità del quadro, il suo passato invecchiato nel bianco, incanutito.

Si trattava di un bianco apparente, di un bianco terminale; nelle sue profondità, come nelle profondità del mare che mi manteneva in superficie, era nascosto un fatto, un fatto di colore, via via scolorito dal bianco della velatura. Ma quale fatto? E perché mai in una situazione molto precaria e con tutt’altro a cui pensare, mi interessavo cosí tanto di quel bianco, che poi bianco non era? Oscuramente avevo l’impressione che se fossi riuscito a decifrare la storia di quel bianco avrei capito anche chi ero e come mai ero lí. Poiché per quanto il quadro fosse importante, anzi l’unico mezzo di sopravvivenza di cui disponevo, restava da chiarire che cosa ci facessi in mare sopra un quadro e soprattutto come ne sarei uscito vivo. Avevo orrore di guardare l’orizzonte di quel mare torvo. Ricominciai daccapo: la velatura, in realtà, non copriva quanto c’era sotto, non si trattava di un mistero né velato né svelato, quel bianco era piuttosto un risultato, era il punto d’arrivo di un attraversamento dei colori, raccontava un viaggio pieno di scorie e di pigmenti dove i colori nel loro svolgimento s’impastavano l’un l’altro, arrivando finalmente al bianco. Cosí non esisteva profondità e nemmeno superficie, né prima né dopo, o meglio erano la stessa cosa, coesistendo perfettamente nella loro storia. In fondo anche la luce è fatta cosí, risulta dalla sovrapposizione di onde variamente colorate che l’occhio non scompone, ma percepisce unitariamente come bianco, un bianco caldo impastato di colori. Quale luce, quali onde? La luce e le onde intorno a me erano un unico grigiume livido e malaugurante, meglio non guardare, meglio tenermi al quadro, che teneva me. Mi rivoltai sulla schiena, nel cielo tra le nuvole ce n’era una col fumaiolo e i ponti e la prua ben disegnata, forse era quella la mia nave, ma perché era finita cosí in alto, e perché proseguiva senza di me in salita lungo il cielo, in quel gran traffico di navi nubi grigie, nubi da guerra? Chiusi gli occhi, pensai al bianco che avvertivo sotto la schiena impastato col salso e l’umidore dei vestiti, il bianco aveva sempre rappresentato il principio fondativo della luce a cospetto delle tenebre, fin dall’antichità, ma la luce non esiste che per il fuoco, per via del fuoco, e su questa base il simbolismo antico ammetteva due soli colori primigenii, il bianco e il rosso, da cui gli altri scaturivano, rosso era l’amore della divinità, bianco la divina saggezza, la divinità era dunque anche colore, e da questi due colori, bianco e rosso, emanava la creazione, e combinandosi tra loro emanavano i colori secondari; ma il bianco era l’unità divina, e poi bianco era il sapere, perciò anche il sapere era a colori, in molte lingue bianco e sapere avevano identica radice, io stesso dicevo weiss per bianco e wissen per sapere (ma come mai sapevo il tedesco?), e bianco ancora era stato per molti l’arredo della morte, non la morte come fine, la morte come trasformazione, passaggio ad altro stato, e certo sarei passato anch’io, oh come sarei passato velocemente se non mi davo subito da fare! Di scatto mi sollevai a sedere: perché sapevo queste cose della luce? Forse ero un elettricista? No, non ero un elettricista, e poi sapevo piú del bianco che della luce, ma come mai sapevo tutte quelle cose sul bianco? Mi rivoltai carponi sul quadro che s’imbarcò di lato, e poco mancò che scivolassi in acqua, mi afferrai ai suoi bordi e fu come se afferrassi me stesso, quella cosa veniva da me, mi era legata e di colpo io la riconobbi, sapevo del bianco perché quel bianco era mio, con tutte le intenzioni e le ossessioni, quel bianco l’avevo pensato e dipinto io, io ero uno che pensava e produceva colori come certi animali secernono filamenti impastati di saliva, mio era il quadro ed io ero il pittore. Ero un pittore sperduto in acque di tenebra a cavalcioni di un suo quadro. Mi ricordai allora di un’altra acqua, una città d’acqua dov’ero cresciuto, acqua con case e anche la mia tra quelle, era lí che vivevo e lavoravo, ma possibile che fossi naufragato tornando dallo studio verso casa, naufragato in un canale di Venezia? O che qualcuno avesse tolto il tappo, sicuramente Venezia aveva un tappo; ed io e i quadri e tutta la città fossimo stati risucchiati nel gorgo, inghiottiti dallo scarico e spurgati in mare? Magari. No, non ero vicino a casa, da casa ero partito per davvero, tutto era terribilmente vero, ricordai la nave e il viaggio intrapreso, andavo per una mostra in Sudamerica, avevo caricato i quadri nella stiva, ricordai la notte e gli amici e un gran botto, ecco perché ero lí. Provai ad alzarmi in piedi, con le ginocchia piegate e una mano a filo dell’acqua per non cadere, meno elegante di un surfista nel ventre di un’onda; poco distanti, tra una cassa di bottiglie vuote e un lampadario, vidi galleggiare le altre mie tele, erano un po’ piú piccole e nell’urto non si erano rovinate, andavano nella mia stessa direzione portate dalla corrente, io ero sulla piú grande, ero in piedi sull’ammiraglia della mia flotta di quadri, cercavo con lo sguardo la linea dell’orizzonte. In fondo si trattava solo di arrivare a Buenos Aires.