Grace Paley, un racconto

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Edizioni Sur propone i quarantacinque racconti che rappresentano l’intera opera narrativa di Grace Paley: un corpus a prima vista esiguo ma di enorme rilevanza, che la consegna alla storia della letteratura come una maestra della short story americana del Novecento. Il libro sarà in libreria il 22 Novembre 2018. La traduzione è di Isabella Zani.

Cattedrale propone uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.


VIVERE
Enormi cambiamenti all’ultimo minuto (1974)

Due settimane prima di Natale Ellen mi chiamò e mi disse: «Faith, sto morendo». Quella settimana stavo morendo anch’io. Dopo averle parlato mi sentii peggio. Lasciai soli i bambini e corsi giù all’angolo per bermi una cosa al volo tra creature vive. Ma Julie’s e tutti gli altri bar erano pieni di uomini e donne che buttavano giù un whisky caldo e se ne andavano in fretta a far l’amore. La gente ha bisogno di farsi forza prima degli atti della vita. Allora mi feci un rosso californiano qualunque a casa e pensai – perché no – che ovunque ti giri c’è qualcuno che grida datemi la libertà o io vi darò la morte. Ci sono vicini pieni di buonsenso, proprietari di cose, timorati di chiesa, che si mettono le mani sulle orecchie al fischio di una sirena per impedire che le ripercussioni gli danneggino gli organi interni. Bisogna essere strabici per amare, e ciechi per mettersi a guardare fuori dalla finestra la propria via fredda come il ghiaccio. Io stavo morendo davvero. Sanguinavo. Il dottore aveva detto: «Non puoi sanguinare per sempre. O finisci il sangue o smetti. Nessuno sanguina per sempre». E invece sembrava che io avrei sanguinato per sempre. Quando Ellen mi chiamò per dirmi che stava morendo, le dissi limpidamente: «Ti prego! Anch’io sto morendo, Ellen». Allora lei disse: «Oh, Faithy, non lo sapevo». E proseguì: «Faith, come facciamo? Coi bambini. Chi ci baderà? Ho troppa paura a pensarci». Avevo paura anch’io, ma volevo solo che i bambini stessero fuori dal bagno. Non mi preoccupavo per loro. Mi preoccupavo per me. Erano chiassosi. Tornavano a casa da scuola troppo presto. Facevano un macello assurdo. «Mi restano un paio di mesi al massimo», riprese Ellen. «Dice il dottore che non ha mai visto nessuno con così poca voglia di vivere. Pensa che non ho voglia di vivere. Invece io ce l’ho, Faithy, ce l’ho. È solo che ho paura». Io riuscivo a stento a togliermi dalla testa quel sangue. La fretta con cui voleva andarsene da me mi drenava il rosso da sotto le palpebre e la scottatura dalle guance. Mi saliva tutto dai piedi gelati per trovare l’uscita più rapida. «La vita non è poi ’sto granché, Ellen», dissi. «Abbiamo avuto solo giornate da schifo e uomini da schifo e niente soldi e sempre al verde e scarafaggi e niente da fare la domenica se non portare i bambini a Central Park e remare su quel laghetto lurido. Che c’è di tanto bello, Ellen? Dov’è ’sta gran perdita? Vivi un altro paio d’anni. Vedrai i bambini e tutto questo schifo di posto, tutti i buchi in questo groviera di mondo inceneriti dall’onda di calore delle bombe atomiche...»
«Voglio vedere tutto», disse Ellen. Io sentii un grosso grumo che faceva la sua vertiginosa uscita. «Non posso parlare», dissi. «Sto svenendo». Verso la stagione dell’agrifoglio cominciai ad asciugarmi. Mia sorella si prese i bambini per un po’ così io potevo stare a casa tranquilla a fabbricare emoglobina, globuli rossi eccetera senza interruzioni. A Capodanno ero in forma così smagliante che per poco non mi faccio rimettere incinta. I miei maschietti tornarono a casa. Erano alti e bellissimi. Tre settimane dopo Natale Ellen morì. Al suo funerale, in quella bella chiesetta sulla Bowery, suo figlio si prese un minuto di pausa dal pianto per dirmi: «Non preoccuparti, Faith, la mamma si è accertata di tutto. Mi ha sistemato dal posto di lavoro. È venuto quel signore a dirmelo». «Ah. Ma non è meglio che ti adotto comunque?», domandai, chiedendomi, se lui avesse detto sì, dove avrei trovato i soldi, la stanza, altri dieci minuti di buonanotti. Era un po’ più grandicello dei miei figli. Presto avrebbe avuto bisogno di una buona enciclopedia e di un piccolo chimico. «Ascolta, Billy, dimmi la verità: che faccio, ti adotto?» Lui smise del tutto di piangere. «Ma dai, grazie. Comunque no. Ho uno zio a Springfield. Vado da lui. Andrà tutto bene. È in campagna. Ci sono anche dei cugini». «Bene», dissi io, sollevata. «Ti voglio tanto bene, Billy. Sei meraviglioso. Ellen è senz’altro fierissima di te». Lui fece un passo indietro e disse: «Non è più niente di nessuno, Faith». Poi se ne andò a Springfield. Non credo che lo rivedrò mai. Spesso però avrei voglia di parlare con Ellen, insieme alla quale, tutto sommato, in questi anni privati e spaventosi ho fatto un milione di cose. Abbiamo portato i bambini su ogni stramaledetto sasso di Central Park. La domenica di Pasqua appiccicavamo colombe bianche su manifesti azzurri e pregavamo sull’Ottava Strada per la pace. Poi eravamo stanche e urlavamo coi bambini. Erano ancora piccoli. Per ridere ci siamo spillate le loro tutine da sci alle gonne e in un furore di schiavitù abbiamo marciato ogni sabato per settimane sui ponti che collegano Manhattan al resto del mondo. Abbiamo condiviso appartamenti, lavori e stalloni spocchiosi. E poi, due settimane prima dell’ultimo Natale, stavamo morendo.


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