Segatura, di Chris Offutt

In libreria la raccolta Nelle terre di nessuno di Chris Offutt, pubblicata da Minimum Fax. Uno tra gli esordi più fulminanti degli ultimi decenni, che aggiunge alla grande tradizione del racconto americano un nuovo, potente capitolo. La traduzione è di Roberto Serrai.
Cattedrale pubblica il primo racconto della raccolta, ringraziando l'editore per la gentile concessione. 

 

Segatura

Sulla collina nessuno ha finito le superiori. Da queste parti ti giudicano da come ti comporti, non da quanto ti credono intelligente. Io non vado a caccia, non vado a pesca e nemmeno lavoro. I vicini dicono che penso troppo. Dicono che sono come mio padre, e Mamma ha paura che abbiano ragione. Quand’ero piccolo avevamo un cane da procione che si era incartato con una puzzola e poi era stato così sfacciato da infilarsi sotto la veranda. Stava lì al buio, uggiolava e non voleva uscire. Papà gli sparò. Questo non lo fece puzzare di meno, ma Papà si sentì meglio. Disse a Mamma che se non sapeva distinguere un procione da una puzzola meritava di essere ucciso. «Però l’hai lasciato sotto la veranda», disse Mamma. «Lo so», disse Papà. «Anch’io gli volevo bene a Tater. Non ce la faccio mica a sotterrarlo». Guardò me e mio fratello. «Non pensarci nemmeno a mandare i ragazzi sotto la veranda», esclamò Mamma. «Il cane è tuo e lo tiri fuori tu».
Sparì dietro la casa, turandosi il naso. Papà ci guardò di nuovo. «Voi sentite qualcosa?» Avevo le lacrime agli occhi, ma feci di no con la testa. «Io li odio gli animali morti», disse Warren. «Anche le mogli te le raccomando», disse Papà, e mi passò il fucile. «Prendi, Junior. Mettilo a posto e portami la canna col mulinello». Corsi in casa a prenderla. Quando tornai fuori Papà si era messo in ginocchio e puntava la torcia sotto la veranda. In fondo, in un angolo, c’era il vecchio Tater, morto stecchito. «Tocca lanciare alla cieca», disse Papà. «Magari mi diverto pure». Allargò le gambe, fece scattare il polso, mandò la lenza sotto la veranda e la recuperò. Aveva agganciato un vecchio straccio. Lanciò di nuovo e stavolta agganciò Tater, ma quando recuperò era rimasto solo un ciuffo di peli. Al terzo lancio gli si impigliò la lenza. Diede un bello strattone e la spezzò. La canna partì come una frusta e prese Warren in faccia. Quando lo sentì gridare Mamma arrivò di corsa. «E ora che hai fatto?», disse. «Ho spezzato la lenza», disse Papà. «Reggeva fino a quattro chili. E c’era pure un bel piombo». «Perché non fai un buco nel pavimento, come quando peschi sul ghiaccio?» «Non trovo più la sega». «E meno male, perché sennò l’avresti fatto davvero!» Prese Warren, salì i gradini di legno grigio e lo trascinò in casa. Papà si ruppe la canna da pesca sul ginocchio. «Era meglio che non li facevo, i figli», disse, e gettò i pezzi della canna nel campo. Una ghiandaia si alzò in volo strillando. Papà mi prese per le spalle e si chinò a guardarmi in faccia.
«Io volevo fare il veterinario e curare i cavalli», disse. «La sai una cosa, però?» Scossi la testa. Lui strinse più forte. «Dopo le elementari ho smesso di andare a scuola perché non avevo niente da mettermi. Come tutti i miei parenti. Tutti fino all’ultimo». Mi lasciò andare e guardai la sua schiena curva che spariva tra gli alberi. Le grandi foglie dei pioppi gli si chiusero dietro con un fruscio. Qualche anno dopo Papà diede via il fucile e cominciò ad andare in chiesa. Regalò a Warren un cucciolo che cadde dalla veranda e si ruppe una zampa. Papà pianse tutto il giorno. Mi faceva paura, Mamma però disse che se piangeva era segno che la testa aveva ricominciato a funzionargli, e che dovevo essere orgoglioso. La domenica, in chiesa, Papà salì in piedi sulla panca durante la messa. Pensai che il Signore l’avesse toccato e che si sarebbe messo a parlare in un’altra lingua. Il pastore interruppe il suo sermone. Papà si guardò intorno e giurò su Dio che avrebbe guarito la zampa rotta del cucciolo o sarebbe morto nel tentativo. Mamma lo fece rimettere a sedere e gli disse di chiudere la bocca. Mi fece di nuovo paura. Dopo la messa Papà portò il cucciolo sul crinale, vicino a un albero di noce, e cercò tutto il giorno di sistemargli la zampa. Ce l’aveva ancora con Dio, quando Mamma ci mandò a letto. Il mattino dopo lo trovò lei. Si era sfilato la cinta e si era impiccato. Per terra, ai suoi piedi, c’era il cucciolo con tutte e quattro le zampe rotte. Era ancora vivo.

Io e Warren smettemmo di andare a scuola. Lui trovò un lavoro e cominciò a mettere da parte i soldi. Io andavo nel bosco a raccogliere funghi, ginseng e radici d’ogni genere. M’infilavo dappertutto, roba che nemmeno un coniglio. Lo scorso autunno Warren ha portato una roulotte in una valletta e ci è andato a vivere. Ha detto che se c’era una cosa che sapevo fare era occuparmi di Mamma. Due volte alla settimana andavo all’ufficio postale di Clay Creek, ai piedi della collina. Avevamo solo quello e la chiesa, l’uno accanto all’altra, tra il torrente e la strada. Quasi tutti li bazzicavano entrambi, io e Mamma ce li eravamo divisi. A me arrivava più posta, lei andava in chiesa anche per me, e per tutto il resto della contea. Ero abbonato a un sacco di riviste e leggevo tutto due volte, anche la posta dei lettori e i consigli per le casalinghe. A un certo punto non sono più arrivate perché non pagavo mai. A volte andavo all’ufficio presto e mi mettevo a guardare le fotografie dei delinquenti ricercati dal governo. Ce n’erano sessanta spillate insieme come il calendario di un negozio di mangimi, ed erano tutte facce di gente qualsiasi. Sotto c’era scritto l’elenco dei reati commessi dal tizio, se aveva delle cicatrici e se era bianco o nero. Mi sembrava strano mettere la fotografia di un uomo e poi scrivere di che colore aveva la pelle. Da queste parti ce l’abbiamo quasi tutti marrone. Io non avrei problemi a parlare con qualcuno che ce l’ha di un altro colore, ma quelli non vengono mai da queste parti. Qua non ci viene mai nessuno, casomai se ne vanno via. Un pomeriggio vidi un cartello all’ufficio postale su una cosa che si chiama ged. Chiunque poteva fare questo test in un centro in città gestito da volontari, e mi venne da pensare a quello che diceva Papà sullo smettere di andare a scuola. Lui aveva letto solo la King James e almeno un centinaio di carte geografiche. Le collezionava come tanta gente prende i cani: grandi e piccole, quelle che gli piacevano e quelle che teneva tanto per tenerle. Lo guardavo studiarle, seduto su un ceppo, anche col buio pesto. Voleva sapere dov’era il paese di Nod e quali erano i suoi abitanti. Il pastore gli aveva detto che era andato distrutto nel diluvio universale. Papà non era convinto. «Se è un posto, da qualche parte sarà», diceva sempre. Il ged mi tenne sulle spine per tre giorni, trascorsi passeggiando nel bosco. Stavo quasi per mettere un piede su un serpente corridore che prendeva il sole su un sasso. Ci guardammo per un po’, lui che tirava fuori la sua piccola lingua biforcuta, e io che non riuscivo a pensare ad altro che al test. Quasi tutti quando vedono un serpente scappano senza nemmeno chiedersi se è velenoso o anche solo se è vivo. Col ged era la stessa cosa. Se non lo passavo non succedeva niente, se lo passavo tutti sulla collina avrebbero saputo che non ero come credevano loro. Magari avrebbero cambiato idea anche su Papà. La mattina dopo feci l’autostop fino a Rocksalt e mi fermai sul marciapiede. La gente mi guardava dalle macchine. Avevo la mano sulla maniglia e grondavo di sudore. Aprii la porta. L’aria era fresca e le pareti bianche. Dietro una scrivania di metallo c’era una signora che si dipingeva le unghie di rosa. Mi guardò, poi tornò a concentrarsi sulle unghie. «Il barbiere è qui accanto», disse. «Non devo tagliarmi i capelli, signora. Magari ne ho bisogno, ma non è che sono venuto in città per questo». «Non è che», disse, come se volesse prendermi in giro. Parlava in fretta e si mangiava le parole. Chissà cosa l’aveva portata sulle colline. Eravamo messi proprio male, se la gente di città veniva a cercare lavoro qui. «Voglio fare il ged», dissi. «Chi ti ha mandato?»
«Nessuno». Mi guardò a lungo con gli occhi sgranati. Agitava la mano come per scacciare le mosche e quando lo smalto fu asciutto aprì un cassetto e mi diede un libro. Era grande come una rivista, con la copertina di plastica nera. «Torna quando sei pronto», disse. «Sono qui per aiutare quelli come te». Ci vollero cinque ore per tornare a casa e il caldo non lo sentii per niente. Quando arrivai, qualcuno mi aveva visto giù in città e lo aveva detto a un vicino, che lo aveva detto a Mamma all’incontro di preghiera. Da noi funziona così. Fai uno sternuto, e prima che torni a casa lo sanno tutti. «Dicono che ti dai un sacco di arie e vuoi farci passare da ignoranti», disse. «Visto che ci sei, potresti pure leggere la Bibbia». «Già fatto. Due volte». «Almeno non ho cresciuto un miscredente». Dopo cena mi buttai sugli esercizi. La lettura andava alla grande, ma la matematica era un disastro. Cioè, uno prende un casino di numeri e dice che è uguale a qualcos’altro. Magari è per questo che a certi gli piace la matematica, ma un mucchio di legna non è uguale a un albero. E la segatura? Dove la mettiamo la segatura? Tutti questi calcoli e poi niente che dimostri che hai lavorato, niente che devi pulire, niente da vedere. Una fila di numeri è come una cacca di gufo su un sentiero. Si capisce che è passato un uccello, ma non da che parte andava. Warren arrivò sul prato col pick-up a trazione integrale e suonò il clacson. Prima lavorava in città, poi hanno aperto uno stabilimento a Lexington. Ora tra andare e tornare si fa tre ore di macchina al giorno. Ha la parabola, il microonde e il videoregistratore.
Sentii i suoi stivali sulla veranda e la porta che sbatteva. Entrò nella nostra vecchia stanza. «E insomma, Junior? Tutto da solo. Avevi paura a dirlo?» Scossi la testa. Dopo la morte di Papà Warren aveva cercato in tutti modi di farsi accettare dagli altri. Io l’esatto contrario. «Ho sentito che hai beccato il virus dell’intelligenza», disse. «E fai quel test in città, quello della scuola». «Ci sto pensando». «Dovresti lasciar perdere e provare a lavorare. Allora potrai metterti stivali di coccodrillo come questi». Tirò su la gamba dei pantaloni. «Dove li hai presi?», dissi. «A Lex. C’è un centro commerciale grosso come due pascoli uno di seguito all’altro. Li ho visti in vetrina e li ho comprati. E ho pure pagato in contanti». «Ti hanno fregato, Warren. Sono quasi dieci anni che non fanno più niente coi coccodrilli. Il governo li protegge». «E tu come le sai, tutte queste cose?» «L’ho letto su una rivista». Warren mise il broncio. Lui dà retta solo alla tv. Quelli della pubblicità per lui sono persone vere. Sapevo che si stava arrabbiando perché aveva le vene del collo grosse come lombrichi. «Ora con questi stivali ti ci prendo a calci nel culo». «Restano comunque taroccati». «Ma almeno sono nuovi». Il calcio lo diede ai miei scarponi, che avevo comprato per posta sul catalogo Sears and Roebuck. «Per Dio, hai sempre questi cazzo di scarponi dal catalogo di Natale». «Warren!», strillò Mamma dalla cucina. Lei non si fa scrupoli con le parole, ma nominare il nome di Dio invano è troppo pure per lei. Papà glielo faceva apposta, per ripicca.
«Lo sai che significa ged?», disse Warren. «Grezzo E Deficiente». Uscì sbattendo i piedi, accese il motore, ingranò la marcia e diede gas. Si lasciò dietro una nuvola di polvere che sembrava fumo. Guardai la luna che saliva sopra Redbird Ridge. La notte arrivò strisciando nella conca. Uscii e andai a sedermi sul ceppo di Papà, quello delle carte geografiche. Tanto tempo fa avevo paura del buio, poi Papà mi disse che la notte era la stessa cosa del giorno, solo che l’aria aveva un colore diverso.

Dopo una settimana avevo fatto tutti gli esercizi due volte ed ero pronto a impegnarmi sul serio. Sulla collina lo sapevano tutti. Il pastore garantì a mia madre un bel posto in paradiso per questa croce che doveva portare sulla terra. Disse che ero troppo testardo per cavarne qualcosa di buono. Ci pensavo mentre ero nel bosco e decisi che forse non era poi così male. Non sono uno che coglie i fiori di campo e li porta in casa, dove muoiono quasi subito. E non taglierei mai un albero che fa ombra d’estate per bruciarlo in inverno. Col ged era la prima volta che mi intestardivo a fare qualcosa, invece che a non farla. Ecco in cosa eravamo diversi, io e Papà. Anche lui era testardo, ma solo quando la sua opinione non contava niente. La mattina scesi dalla collina ed ero già a metà strada per la città quando trovai un passaggio fino in centro. La signora fu sorpresa di vedermi. Scrisse il mio nome su un modulo e mi chiese quindici dollari per il test. Io non dissi niente. «Lo sai che ci vogliono quindici dollari?», domandò. «Non ce li ho». «Un lavoro ce l’hai?»
«No». «Vivi con la tua famiglia?» «Con Mamma». «E lei lavora?» «No». «Lo prendete il sussidio?» «No, signora». «E come tirate avanti tu e tua madre?» «In silenzio, più che altro». Strinse le labbra e scosse la testa. Parlava lentamente e a voce alta, come se fossi sordo. «Dove li trovate i soldi, tu e tua madre?» «Non ne abbiamo un gran bisogno». «E per mangiare?» «Abbiamo l’orto». La signora posò la matita e si sporse per guardare qualcosa. Sul muro alle sue spalle c’era il ritratto del governatore, con la cravatta. Guardai dalla finestra il negozio di ferramenta sul marciapiede di fronte. Papà era morto che doveva ancora finire di pagare la nuova catena per la motosega. Dopo il funerale ci arrivò il conto e Mamma, per pagare il debito, vendette una trapunta che aveva fatto la sua prozia. Mi misi d’impegno, ma non mi venne in mente granché. Non avevo niente da vendere. Warren me li avrebbe anche dati, i quindici dollari, ma non sarei mai riuscito a chiederglieli. Mi voltai e feci per andarmene. «Junior», disse la signora. «Puoi comunque fare il test». «Non ho bisogno del suo aiuto». «È gratis, quando si è poveri». «Ve li devo», dissi. «Pagherò prima che cominci a nevicare».
Mi accompagnò per una porta in una stanzetta senza finestre. Mi infilai in un banco di scuola e lei mi diede quattro matite gialle e i fogli del test. Quando ebbi finito mi disse di tornare dopo un mese, per vedere se l’avevo passato. Mi disse, a voce bassa, che potevo fare il test tutte le volte che serviva. Feci cenno di sì, e uscii dalla città per tornare a casa. Non pensavo né sentivo niente. Camminare però mi faceva bene.

Ogni sera Mamma diceva di essere preoccupata, che per superbia disprezzavo le mie origini. Warren non mi parlava più. Andavo in giro per le colline, pensavo alle cose che avevo imparato sul bosco. So riconoscere un uccello dal nido e un albero dalla corteccia. L’odore di cetriolo vuol dire che vicino c’è un serpente mocassino. Le more più dolci sono quelle più vicine a terra e i migliori pali per i recinti si fanno con la robinia. Trovavo divertente che avessi dovuto fare un test per scoprire che ero povero. Forse è perché lo sapeva, che Papà alla fine aveva mollato. Quando morì, Mamma bruciò tutte le sue carte geografiche, ma io tenni quella del Kentucky. Il posto dove abitiamo noi non c’è. Rimasi nel bosco tre settimane di fila. Quando alla fine andai all’ufficio postale, la posta non era ancora arrivata. Era il primo del mese e un sacco di gente aspettava il sussidio. I più anziani erano seduti dentro, per ripararsi dal sole, e tutti noialtri eravamo all’ombra dei salici lungo il torrente. Un ragazzo, uno dei Monroe, diede una gomitata al fratello e mi indicò. «Guarda il Dottore», disse, «che si prende una pausa dai libri». «Ehi Dottore, vuoi diventare ricco e intelligente?» «Sicuro», disse il fratello. «Aprirà un bordello e lo manderà avanti con una mano sola».
Risero tutti, anche un paio di vecchie con due crocchie grosse come pigne. Decisi di lasciar perdere la posta e tornare a casa. Poi quel ragazzino mi fece incazzare. «Il mio cucciolo sta male, Dottore. Lei è bravo com’era suo padre?» Per come funziona qui da noi, picchiare qualcuno a volte non basta. A volte si sta buoni un anno, prima di sparare a un cane per vendicarsi del padrone, ma così, davanti a tutti, non potevo andarmene e basta. Andai al loro pick-up e con un calcio spaccai un fanale. Il più piccolo dei Monroe arrivò di corsa ma lo feci inciampare e rotolò nella polvere. L’altro mi saltò sulla schiena e mi prese un orecchio tra i denti. Mi stringeva con le gambe e non riuscivo a levarmelo di dosso. Continuava a colpirmi sul lato della testa. Caddi all’indietro sul cofano del pick-up e allora mi lasciò andare. Due vecchi trattenevano l’altro ragazzo. Attraversai il torrente e salii sulla collina ripida fino a casa, sputando sangue per tutto il tragitto. Mamma non disse una parola, quando seppe il motivo della rissa. La sera dopo arrivò Warren. «Li ho presi uno al torrente e l’altro in cima a Bobcat Holler», disse. «Non diranno più certe cose». «Gliele hai suonate?» «Beh, diciamo che se ne sono accorti». Warren aveva preso un paio di cazzotti sulla mascella, e le vene del collo gli si erano gonfiate di nuovo. Non lo buttavi a terra nemmeno con una traversina. «Lo fai lo stesso il ged?», disse. «Venerdì escono i risultati». «Mi voglio comprare una tv a batterie». «Per far che?»
«Per sedermi e guardarla». «Anch’io, Warren. Anch’io». Si toccò un bubbone sotto allo zigomo. Abbassò le spalle. «Farei sempre a botte per te, Junior. E anche per Papà. Ma non ho mai capito che cosa avete in testa, nessuno dei due». Uscì, e aprì lo sportello del pick-up coi pollici. Si era ferito alle nocche di entrambe le mani, e se piegava le dita gli si staccavano le croste. Una già perdeva un po’ di sangue. Accese il motore in seconda, per non dover cambiare, e si allontanò guidando col palmo. Lo guardai finché la polvere della strada non tornò a posarsi.

Il venerdì andai in città seguendo la cresta, sopra al torrente. Rocksalt si trova in un’ampia vallata tra le colline. Non l’avevo mai vista dall’alto e sembrava davvero piccola, niente di cui aver paura. Scesi giù, attraversai il torrente e arrivai sul marciapiede. Rimasi a lungo davanti al centro dove avevo fatto il test. Potevo andarmene, e non sapere mai se lo avevo passato o no. Entrambe le cose mi facevano paura. Aprii la porta e misi la testa dentro. «Congratulazioni», disse la signora. Mi diede un certificato dello Stato che diceva che avevo il diploma delle superiori. Il mio nome era scritto con l’inchiostro nero. Sotto c’erano un sigillo dorato e la firma del governatore. «Ho i moduli per cercare lavoro», disse. «Non ti prometto niente, ma adesso hai tutto quello che serve. Se vuoi andartene da qui, il prossimo passo è trovare un lavoro». «Mi basta questo certificato». «Non lo vuoi un lavoro?» «No, signora».
Sospirò e guardò per terra, stropicciandosi gli occhi. Si appoggiò allo stipite della porta. «A volte non so che ci sto a fare qui», disse. «Non lo sa nessuno», risposi. «Qui quasi tutti aspettano di morire e basta». «Non è divertente, Junior». «No, ma la cosa divertente è che tutti si alzano comunque con le galline». «A me piace dormire fino a tardi», disse lei. Sorrideva ancora quando mi chiusi la porta alle spalle. Non potevo arrivare più vicino di così a finire la scuola, e non era una brutta sensazione. Prima di uscire dalla città mi voltai a guardare la fila di edifici a due piani. Papà diceva sempre che un uomo intelligente la città la lascia perdere, ma adesso so che si sbagliava. Ci possono andare tutti, ogni volta che vogliono. La città è solo un gruppo di persone che vivono insieme nell’unico punto dove c’è abbastanza spazio tra le colline. Lasciai la strada e attraversai l’erba alta fino alla sponda del torrente. Era un buon modo per trovare bottiglie vuote, e dovevo ancora restituire quindici dollari. 

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