Il mio caro Bovanne, di Toni Cade Bambara

Gorilla, amore mio è la raccolta di racconti di Toni Cade Bambara, un classico della narrativa afroamericana per la prima volta tradotto in Italia e pubblicato da SUR.

Proponiamo il primo racconto della raccolta, per gentile concessione dell'editore.


Fateci caso, i ciechi hanno il vizio che canticchiano a bocca chiusa. Che poi non ti sembra mica strano quando ne frequenti uno e t’accorgi di quello che con gli occhi non vedresti mai, la prima volta ti sfugge proprio, quel suono sembra uscire dal nulla e ti riporta in chiesa assieme alle signore con le tettone e a quei signori anziani che dalla gola gli sale un borbottio a ogni frase del reverendo. Gelatina s’ingrugna mentre io e Pelle di Pesca gli spieghiamo perché il pane di patate adesso sta a un dollaro e venticinque al posto di un dollaro come sempre e lui ah uhm ho capito, e poi attacca una specie di ronzio, una cantilena, che la senti appena ma ti piglia a tradimento se non te l’aspetti. Com’è capitato a me. Ma ormai c’ho fatto l’orecchio e l’unica volta che ho trovato da ridire è stata quando giocavamo a dama sugli scalini di casa e lui ha attaccato a canticchiare una cosa di chiesa m’è sembrato. Per cui gli ho detto: «Senti, Gelatina, se giochi insieme al Padreterno perdo a tavolino». E lui ha smesso.Per cui ecco perché l’ho invitato a ballare il mio caro Bovanne. Mica stiamo insieme, eh, è solo un bravo vecchio del quartiere che lo conosciamo perché aggiusta tutto e sta simpatico ai ragazzi. Cioè, gli stava simpatico prima, poi quelli del Potere Nero gli hanno fatto il lavaggio del cervello e adesso non sanno più dove sta di casa il rispetto per le persone anziane. Così siamo a ’sta festa di beneficenza per la cugina di mia nipote che si presenta alle elezioni con non so che partito dei neri. E io ballo appiccicata a Bovanne che è cieco, io canticchio e canticchia pure lui, è come una chiacchierata cuore a cuore. Mica gli schiaccio il seno addosso. Mica mi strofino. Sono vibrazioni. E lui lo capisce e mi chiede di che colore sono vestita e come sono pettinata e come me la cavo senza un uomo, ma gentile, mica per impicciarsi, e chi c’è alla festa, se i panini sono micragnosi o te li senti belli pieni in mano. Allegri e tranquilli, questo voglio dire. Chiacchiere leggere, come la mano su un tamburello o su un bongo.Ma subito arriva Joe Lee che ci guarda male perché balliamo troppo vicini. Mio figlio, che sa come sono affettuosa; a me gli uomini mi chiamano da fuori a notte fonda in cerca di conforto materno. Ma lui ci guarda male. E non è giusto, perché Bovanne non vede e non si può difendere. È solo un bravo vecchio che aggiusta tostapane e ferri da stiro scassati, biciclette e roba varia e mi cambia la serratura quando i miei amici maschi s’allargano un po’ troppo. Un brav’uomo. Ma mica l’hanno invitato per questo. Noi siamo le radici rurali, avete presente? Io, sorella Taylor, quella che fa le treccine da Mamie e il garzone del barbiere, siamo tutti qui in quanto radici rurali. Mai stata più a sud del Brooklyn Battery, l’unica campagna che ho visto è la fioriera sulla scala antincendio. Fino all’altroieri i miei figli mi dicevano di levarmi gli stracci da contadina che porto in testa ed essere più moderna. Adesso invece non gli sembro mai abbastanza nera per i loro gusti. Insomma tutti passano e dicono ehi Bovanne, vecchio mio. Capirai che sforzo, continuano a fare su e giù, manco un attimo si fermano a prendergli un bicchiere o uno di quei bei panini o a raccontargli le ultime novità. E lui lì col sorriso, metti che gli rivolgono la parola vuole stare pronto. Per cui ecco perché me lo trascino in pista e balliamo stretti fra i tavoli e le sedie e una montagna di cappotti con gli altri intorno che chiacchierano fitti fitti e se ne fregano del cieco che gli aggiustava i pattini e i monopattini a tutti quanti quando erano piccoli. Balliamo appiccicati e chiacchieriamo leggeri, canticchiamo. E lì m’arriva mia figlia che mi guarda schifata come quando dice che non ho una «coscienza politica», come se avessi la rogna e fossi un caso disperato. Ma io non me la filo e guardo solo il viso spento di Bovanne e gli dico che ha la pancia come un tamburo e lui ride. Ride a crepapelle. E lì m’arriva Task, mio figlio piccolo, mi bussa sul gomito come il capoclasse alle elementari quando sei in fila per l’appello e fai troppo casino.«Parlavamo solo di tamburi», spiego mentre mi trascinano in cucina. Magari i tamburi sono la difesa migliore. I tamburi ce li avranno presenti, fissati come sono con la storia delle radici. E poi la pancia di Bovanne fa proprio come il tamburo che m’ha regalato Task quand’è tornato dall’Africa. Basta che la sfiori e fa frr frrrm mmm. Per cui insisto con la storia del tamburo. «Di tamburi e basta».«Ma che vai dicendo, ma’?»«Ha bevuto troppo», dice Elo a Task, perché a me non mi parla quasi più dopo quella brutta discussione sulle mie parrucche.«Senti, mamma», dice Task, quello gentile. «Volevamo solo avvisarti che stai dando spettacolo a ballare così».
«Così come?»
Task si passa una mano sull’orecchio sinistro, preciso identico al padre e al nonno.
«Come una cagna in calore», dice Elo.
«Ecco, cioè, io direi più come una di quelle signore vogliose di una certa età che non fanno tanto le difficili. È chiaro il concetto?»
Non rispondo perché sennò mi metto a piangere. Terribile sentirsi parlare così dai propri figli. Mi trascinano via dalla festa e mi spingono dietro al bancone dentro una cucina di estranei, peggio d’un branco di poliziotti. E poi mica sono una vecchia. Posso ancora portare i vestiti sbracciati senza la ciccia che pende. Mi tengo pure aggiornata tramite i miei figli. Che non sono più bambini. Sentirsi parlare così. Resto ammutolita.
«Ballava con quel pecorone», dice Elo a Joe Lee, che sta appoggiato al congelatore di questa gente. «Che appena sente puzza di un bianco si mette a tappetino. E gli occhi, poi. Potrebbe pure avere un po’ di decenza e mettersi un ­paio d’occhiali scuri. Così ci risparmia la vista di quelle lampadine fulminate...»

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«Sarebbe questo il conflitto generazionale?», dico.
«Il conflitto generazionale», sbotta Elo, come se avessi proposto di mettere l’olio di ricino e il ragù d’opossum nei frullati. «È un concetto dei bianchi che riguarda solo i bianchi. Il conflitto generazionale non esiste nel popolo nero. Noi siamo una coll...»
«Vabbè, fa niente», dice Joe Lee. «Insomma, mamma... è questione d’amor proprio. Quel modo di ballare ci ha messo in imbarazzo, sia te che noi».
«Io mica mi vergognavo». Non parla più nessuno. Eccoli lì, tutti in ghingheri col bicchiere in mano, a mettermi in mezzo, a farmi il terzo grado, e intanto io non ho assaggiato manco un’oliva. Al commissariato, mi pare di stare.
«Innanzitutto», dice Task e conta i reati sulle dita della mano, «il vestito. È troppo corto, mamma, e troppo scollato per una della tua età. Stasera Tamu tiene un discorso per lanciare la campagna e ti vuole presentare, conta su di te per organizzare il consiglio degli anziani...»
«Su di me? Nessuno m’ha interpellato. Parli di Nisi? Ha cambiato nome?»
«Ecco, in effetti ti doveva informare Norton. Nisi ti vuole presentare e poi incoraggiare gli anziani a formare un consiglio che si occuperebbe di...»
«Invece eccoti qua con le tette al vento, la parrucca in testa e l’orlo a fior di culo. E la gente dirà: “Ma quella non è l’assatanata che si strusciava addosso al cieco?”»
«Calma un attimo, Elo», dice Task, alzando il secondo dito. «E poi bevi troppo. Lo sai che non devi bere, mamma, sennò ridi e diventi sguaiata», e la sguaiataggine la conta sul terzo dito. «E poi che modo di ballare. Ti sei fatta quattro lenti incollata a quello e non ti sei scollata manco per gli svelti. Che figura ci fai, alla tua età?»
«Quale sarebbe la mia età?»
«Eh?»
«È una domanda facile. State a farmi la lezione su come deve comportarsi una della mia età. Allora, rispondete un po’, quanti anni ho io?»
Joe Lee chiude gli occhi di scatto e strizza la faccia per fare il calcolo. Task si passa una mano sull’orecchio e fissa il bicchiere come se la risposta gli dovesse venire dai cubetti di ghiaccio. Elo invece mi guarda la parrucca come se tra un po’ dovesse prendere e strapparmela.
«Porti le treccine sotto? E levatela, no? Sei sempre stata brava a fare le treccine».
«Ah certo», perché mi torna in mente quando correva a sciogliersi le sue perché facevano troppo paesana. Ma il problema è un altro. «Allora, quanti anni ho?»
«Sessantuno o...»
«Ma quanto sei bugiardo, Joe Lee Peoples».
«E quindi mettici pure questo», continua Task alzando un altro dito.
«Andatevene tutti a quel paese», dico mentre mi alzo e mi liscio il vestito.
«Dai, mamma», dice Elo, e mi posa una mano sulla spalla, è da quando è andata via di casa che non lo fa, e la mano è leggera e mica tanto sicura di stare al posto giusto. Mi si spezza il cuore. Perché è stata la figlia della felicità prima che morisse il signor Peoples. E l’ho portata attaccata al petto finché non aveva quasi due anni. Questo per dire che eravamo legatissime. Perché lei mi somigliava più degli altri. Anche dopo che è nato Task, era a lei che rimboccavo le coperte di notte, era per lei che piangevo senza motivo, magari solo perché era cicciottella come me e non tanto carina, ma era una bambina affettuosa. Come ci siamo arrivate a ’sto punto, che non mi può posare tranquillamente una mano sulla spalla e dire mamma ti vogliamo bene e ci teniamo a te e hai diritto di divertirti perché sei una brava donna?
«E poi c’è il reverendo Trent», dice Task, e lancia un’occhiata da sinistra a destra come se avessero organizzato un complotto e mi ci volessero tirare dentro.
«Stasera ci dovevi parlare, mamma, gli dovevi chiedere di prestarci lo scantinato per la sede della campagna...»
«A me nessuno m’ha detto niente. Se radici rurali significa che non devo sapere niente allora chi se ne frega. Chi se ne strafrega. E comunque il reverendo Trent è un imbecille visto come ha trattato quel vedovo di Edgecomb, non s’è voluto occupare dei tre figli di quel poveraccio che era tutto scombussolato con la moglie ancora calda nella tomba...»
«Senti», dice Task. «Qui ci vuole una riunione di famiglia, così chiariamo tutto senza stare a girarci intorno. Intanto però è meglio che torniamo di là e ci diamo da fare. E tu, mamma, cerca di parlare col reverendo Trent e...»
«Vuoi che mi struscio addosso al reverendo, ho capito bene?»
«E che palle!», dice Elo uscendo dalla porta a vento.
«Ne riparliamo a cena. Va bene domani sera, Joe Lee?» Mentre Joe Lee si dà le arie io mi domando chi cucinerà, come mai nessuno m’ha chiesto se sono libera, me lo porteranno un mazzo di fiori, cose così. Poi Joe fa segno che va bene ed esce dalla porta a vento e dall’altra sala arriva un po’ di cagnara. Poi Task fa il suo solito sorriso, è proprio tutto suo padre, e se ne va. Ed eccomi sola in questa cucina di estranei, che è proprio un porcile, io mai lascerei la cucina ridotta così. T’avveleni già solo a guardare i tegami. Poi la porta sventola dall’altra parte ed è il mio caro Bovanne che chiama Miss Hazel ma si rivolge alla friggitrice e poi al tavolo bagnomaria e si stupisce quando gli arrivo dalla parte opposta e lo porto fuori dalla cucina. Passiamo davanti a quelli che spingono verso il palco perché Nisi e gli altri stanno per prendere la parola, a quelli che vanno a mangiarsi gli ultimi panini e a farsi un goccetto prima di mettersi da una parte ad ascoltare bene. Vorrei dire a Bovanne che Nisi sta proprio bene col vestito lungo e gli orecchini e i capelli tirati su a crocchia, che tra poco ci racconteranno che lo stiamo prendendo in quel posto e che bisogna fondare un partito nostro, e che tutti guardano e non si perdono una virgola. Invece lo porto via, e Joe Lee e la moglie mi guardano come se fossi la pietra dello scandalo, fatto sta che non gli hanno ancora rivolto la parola. Perché è cieco e vecchio e non serve più a nessuno tanto ormai sono grandi e non devono più farsi aggiustare i pattini.
«Dove andiamo, Miss Hazel?» Ma lo sa già.
«Prima andiamo a comprarti un paio di occhiali scuri. Poi vieni con me al supermercato così faccio la spesa per la cena di domani, che sarà una cosa in grande e tu sei invitato. E poi andiamo a casa mia».
«Benone. Mi piacerebbe proprio riposarmi i piedi». Vuole essere carino, ma agli uomini un po’ di teatrino bisogna lasciarglielo fare, ciechi o non ciechi. Così mi racconta che è stanco morto e quanto gli fa piacere che sono così premurosa. E io penso che intanto gli chiederò di cambiarmi la serratura. Poi gli faccio un bel bagno caldo con le foglie di gelsomino nell’acqua e un po’ di sali Epsom sulla spugna per strofinargli la schiena. Dopodiché, una bella frizione con acqua di rose e olio d’oliva. Poi una tazza di tè al limone con un goccetto di roba forte. Un po’ di talco, quello costoso che ha mandato la madre di Nisi a Natale. E poi un massaggio, un bel massaggio facciale, sulla fronte soprattutto, che è il punto critico. Perché bisogna occuparsi degli anziani. Ricordargli che abbiamo ancora bisogno di loro per far funzionare il ciclostile e pulire le candele e aggiustare la cassetta della posta alla gente che potrebbe aiutarci a impiantare la mensa dei poveri, l’asilo per i bambini e la campagna elettorale. Perché i vecchi sono il cuore della nazione. Così ha detto Nisi e io voglio fare la mia parte.
«Mi sa che lei, Miss Hazel, è proprio una bella donna».
«Ci puoi giurare», dico facendo la sfacciata, come mi ripete sempre mia figlia.

Acqua d'oro, di Altaf Tyrewala

ACQUA D'ORO

un racconto di Altaf Tyrewala tratto dalla raccolta KARMA CLOWN

edita da Racconti edizioni.

 

Ho mal di pancia da ieri notte. Gorgoglia di continuo. Adesso mi fa male anche la spalla sinistra, ma devo andare lo stesso. La signora mi farebbe lavorare anche senza braccia e senza gambe, anche se dovessi strisciare come un bruco. In più, a peggiorare la situazione, non c’è acqua per lavarsi. Stamattina ho perso così tanto tempo per fare i miei bisogni sui binari che quando mi sono messa in coda la cisterna era a secco e rimarrà così fino a domani. La signora del sesto piano direbbe subito: «Chhee, puzzi come un maiale!». Cosa dovrei fare? Pulita o sporca, mi tocca andare al lavoro subito. Meno male che i bambini dormono. Se fossero stati svegli avrebbero voluto l’acqua per lavarsi e per bere. Mi avrebbero fatto una testa così, tutti e cinque. Come se fossi una schiava, devo sempre pensare a tutto. Chhya! Che si tengano la sete, si arrangino. Metto il tiffin* in fondo alla sacca e, sopra, ben dritta, la bottiglia d’acqua. Luccica come un diamante. Spero che la signora del sesto piano me la lasci mettere in frigo, sarebbe bello bere acqua fresca con il pranzo. Mi aggiusto il sari davanti allo specchio e, prima di uscire, mi fermo un attimo sulla porta della baracca per godermi la vista dei miei cinque figli che dormono beati.

Bene, il treno è arrivato e le mie amiche pure. Facciamo le pulizie in un quartiere di Byculla, tutte quante. Alcune di noi lavorano nelle stesse case da venticinque anni: pulire pavimenti, strofinare pentole, lavare vestiti. Andiamo a lavorare insieme, mangiamo insieme e torniamo a casa insieme. Ma a me non piace viaggiare sulla Harbour Line; è sempre affollata e i treni sono sempre in ritardo. Dalla puzza mi pare che anche Gangu non sia riuscita a lavarsi stamattina. Mentre ci accovacciamo per terra nello scompartimento femminile, le chiedo: «Gangu, ma tuo marito non lava i vestiti dei ricchi?» Mi tappo il naso e aggiungo: «Perché non ti butta nel mucchio del bucato e ti batte un po’ finché non sei pulita?» Gangu guarda le altre, Shanta, Kamala e Sushila; poi punta gli occhi su di me e dice: «Stai zitta Nanda, stupida vedova puzzolente!» Mi chiamo Nanda. Scoppiamo a ridere. Ci assomigliamo tutte: facce scavate, corpi magri, pelle scura e grossi denti neri. Quando la nostra fermata si avvicina mi rendo conto che il mio stomaco non borbotta più. Ma adesso mi sento debole. Non importa, il lavoro mi farà passare tutto.

Appena le porte si aprono grido: «Svelta, svelta!». Shanta e io ci tuffiamo nell’ascensore. Le altre donne lavorano in altri palazzi della zona. Questo ascensore mi terrorizza, le porte si aprono e si chiudono da sole. «Ehi ehi, mica siamo al villaggio, niente casino!» dice l’addetto all’ascensore. Preme i bottoni del secondo e del sesto piano e tocca il bordo del sari di Shanta: «Ooh, che morbido, come seta» ansima. Quando scende al secondo piano, Shanta va a sbattere contro l’addetto. «Bastardo, adesso lo dico alla padrona, che non mi lasci in pace.» Shanta è di Jalgaon, e le donne di quella zona sono tutte proprio come lei, lingua lunga e voce sempre alta. Invece noi konkani, della costa sud, veniamo educate più severamente. Con me nessuno si sogna di comportarsi così. Quelli del sesto piano sono un po’ rimbambiti. Si sono trasferiti qui un anno fa. La padrona si chiama Sakkar, una vecchia con i capelli bianchi e il naso affilato. Quasi tutte le mattine devo suonare il campanello per un sacco di tempo prima che lei o suo marito decidano di svegliarsi. Il mio primo giorno pensavo che non ci fosse a casa nessuno e sono andata a sedermi sotto, in giardino. Sakkar ha mandato il tizio dell’ascensore a chiamarmi. Che litigata! Lei mi ha detto che ero una scansafatiche, una disonesta. Io le ho risposto di pulirsi le orecchie, così avrebbe sentito il campanello. Sakkar apre la porta. «Chhee! Non ti sei lavata oggi? Puzzi come un maiale!» grida mentre la supero per andare in bagno. Suo marito arriva borbottando come un gufo: «Chi? Chi? Chi è che puzza come un maiale?» Sakkar glielo dice e il vecchio mi chiede, con quel suo sorriso viscido: «Ti sei alzata tardi, Nanda?». Mi do una pacca sulla fronte e continuo a fare le mie cose. Mentre sono accovacciata in bagno a battere i vestiti insaponati, mi accorgo che c’è qualcuno alle mie spalle. Mi volto. È il vecchio che mi guarda il didietro. Non mi lascio spaventare. Continuo a guardarlo e sbatto i vestiti con più violenza. Bam bam bam. Si allontana impaurito. Sakkar arriva di corsa. «Aye, vuoi rovinarmi i vestiti o cosa?». Ridacchio e rallento. Sakkar si accuccia fuori dal bagno. «Ho degli avanzi da ieri sera» dice, «riso e curry di montone.» Mi volto per risponderle, ma una fitta di dolore al braccio sinistro mi toglie il fiato. «Cos’hai?» chiede Sakkar. «Il braccio, mi fa male» rispondo. «Aspetta, ti do un Crocin.» Si appoggia alla mia spalla per alzarsi. Pesa almeno una tonnellata. Quando ho steso il bucato e pulito il bagno, Sakkar mi chiama per il tè. Mi siedo per terra in cucina. Mi dà una pastiglia e una tazza di tè. Incominciamo subito a spettegolare della signora del settimo piano, quella che è stata abbandonata dal marito. «Si è trovato un’altra donna?» chiede Sakkar. «No, no!» dico. «L’ha lasciata per diventare un sadhu.* Ho visto che si era rasato i capelli quando se ne è andato.»«Se fossi in lui, l’avrei lasciata anch’io una così» dice Sakkar. In corridoio squilla il telefono. «Nanda, è per te!» grida il vecchio. Lascio cadere tazza e piattino e mi metto a piagnucolare. «Cosa succede?!» grida Sakkar. «Il telefono… oh Dio, no!» Le lacrime mi accecano. Sakkar butta uno straccio sul tè versato e mi dice di andare a sentire cosa c’è prima di fare scenate. Mi alzo con le ginocchia che tremano. Vado in corridoio stringendomi il petto, in singhiozzi. È da vent’anni che lavoro in questo palazzo e ho ricevuto soltanto una telefonata – sette anni fa, lavoravo dalla signora al terzo piano. Mio figlio mi aveva chiamato per dirmi che mio marito era morto: beveva troppo, liquori da due soldi. Come avevo pianto. Il marito di Sakkar mi passa il ricevitore. «Halla?» dico. «Sei tu mamma?» chiede mio figlio, il maggiore. Ha ventisette anni ed è sputato suo padre: non lavora, beve tutto il giorno, è già alla seconda moglie. «Sì Ashok, sono io» dico, e mi rimetto a piangere. «Cosa c’è? Perché piangi?» chiede mio figlio. «Chi, chi è morto?» grido. Il vecchio mi carezza la schiena per consolarmi. Strillo ancora di più. «Smettila di piangere, mamma! Perché non hai riempito il contenitore dell’acqua oggi?» chiede mio figlio. «Che acqua?» balbetto. «Mamma, stupida, non c’è acqua in casa!» urla. «Aye, brutto verme!» grido. Il vecchio ritrae la mano. Smetto di piangere. «Mi chiami al lavoro per una cosa del genere? Se vuoi dell’acqua vai a casa di tua moglie! Non sono la tua serva!» Abbasso il ricevitore. Maledetto. La prima moglie è morta di itterizia. Adesso vive a casa della seconda, che lo sbatte fuori tutte le sere. Sakkar mi chiede cos’è successo. Glielo racconto e lei fa le moine per consolarmi. Estraggo la bottiglia d’acqua dalla borsa e, asciugandomi le lacrime, convinta di averla intenerita, le chiedo: «Signora, posso tenerla nel suo frigo per un po’?». Mi domanda cosa c’è nella bottiglia. Solo acqua, rispondo. «Oh oh! E adesso vuoi anche l’acqua fresca con il pranzo, eh?» dice. Le chiedo solo un piccolo spazio in frigo. «Non ce n’è bisogno. Pulisci il pavimento, prendi gli avanzi e sparisci!»

Per terra abbiamo messo tiffin pieni di riso, roti avvolte in carta da giornale, avanzi di verdure cotte e, in mezzo, il curry di montone che mi ha dato la signora del sesto piano. Kamala, Sushila, Shanta, Gangu, Savita e io siamo sedute in cerchio in giardino. Pausa pranzo. Siamo così stanche che rimaniamo lì a fissare il cibo. «Mangiamo, no?» dice Sushila. «Sembri una cagna affamata» borbotta Kamala. Ridiamo. Shanta spezza una roti e la affonda nel curry di montone. «Aye, aye, vacci piano, vogliamo assaggiarlo tutte» le dice Kamala. «Avete le mani paralizzate o cosa? Mangiate anche voi se volete» replica Shanta. Ci buttiamo sul cibo e nel giro di pochi minuti è finito tutto. Il venticello spazza via i cartocci di giornale, il resto verrà ripulito da cani e corvi. Infilo la mano nella mia sacca e tiro fuori la bottiglia dell’acqua. «Aprimela, per favore» dico, passandola a Gangu. Tutte la fissano con gli occhi sgranati. «E dove l’hai presa questa?» chiede Gangu, toccandosi il mento. «Se non la vuoi aprire dalla a Sushila» dico, sospirando. Sushila strappa la bottiglia di mano a Gangu e la esamina. «Oh Dio, questa è acqua pura. Guarda guarda, non è neanche stata aperta» dice Sushila, mostrando la bottiglia a Kamala. «Ehi vedova, non puoi dirci dove hai preso questa bottiglia?» chiede Sushila, strappando il sigillo di plastica. Mi riprendo la mia bottiglia e finalmente riesco ad aprire il tappo. «Sui binari, stamattina» dico. «Agga! E perché eri lì stamattina?» chiede Shanta. «A vedere gli uomini che fanno i loro bisogni?» Tutte scoppiano a ridere. «Chiudi la bocca, zoccola» le dico, «dovevo andare. Avevo mal di pancia.» «Allora questa bottiglia l’hai trovata per terra o cosa?» mi stuzzica Shanta. Mi verso l’acqua in bocca e deglutisco rumorosamente come un piccione. «No» dico. «Non era per terra. Un bastardo me l’ha tirata dal treno.» «Che bastardo, che treno?» chiede Kamala. «Quante domande!» sbotto. «Ero lì accovacciata. Arriva un treno e si ferma proprio davanti a me. Mi nascondo la faccia col sari e le parti basse con le mani, ma qualcuno mi tira addosso la bottiglia per scacciarmi. Mi ha colpito sulla spalla, meno male che non si è aperta.» «Figlio di puttana! E perché poi, una donna non può fare i suoi bisogni?» grida Kamala, a nessuno in particolare. Savita mi implora. «Per favore Nanda, dammi un sorso, dai. Solo un sorso.» Poi persino Sushila chiede un sorso. «Cosa vi siete messe in testa? Che lascio finire la mia acqua a voi straccione?» Infilo la bottiglia nella sacca e mi alzo. «Maledetta vedova» borbotta Sushila alle mie spalle e tutte le altre ridacchiano. Quelle asine sanno bene che il liquido nella bottiglia è ancora più prezioso del sangue.  Mentre salgo al nono piano, il tizio dell’ascensore mi fa un sorriso viscido. Shanta non mi piace, ma certe volte è utilissimo averla intorno. Mentre saliamo, l’uomo si mette a cantare: «Che c’è dietro il corpetto? Che c’è dietro il corpetto? E sotto il sari? E sotto il sari?». Lo fulmino con lo sguardo come l’idolo Khandoba, quello con gli occhi grossi come piattini da caffè. Era nel tempio di Gholvad, dietro la casa dove abitavo da piccola. Mio fratello vive ancora lì, con la quinta moglie e i sette figli. Appena la signora del nono piano apre la porta si mette a blaterare: «Ti avevo detto di venire prima, no? Adesso il mio sonnellino del pomeriggio è rovinato. Dovrei abbassarti lo stipendio, così te ne ricorderesti». Prima le mie amiche che mi fanno il terzo grado, poi l’addetto all’ascensore con le sue canzoncine sconce e adesso questa. «Voi donne delle pulizie lo fate apposta per tormentarci. Come potete essere felici se non fate felici gli altri?» Inara, si chiama così, non la smette più. A un certo punto non riesco a trattenermi e urlo: «Ochei ochei, baaasta!». Inara rimane impietrita, mi fissa. «Sono qui, no? Non mi faccia perdere tempo con le chiacchiere. Mi lasci finire il lavoro che poi me ne vado.» Lei continua a fissarmi sconvolta mentre io incomincio a spazzare l’entrata. L’ho vista dire «ochei ochei baaasta» a suo marito quando la stuzzica troppo: appena pronuncia quelle parole lui si placa, come un pappagallo muto. Quando vado a pulire in camera, trovo la figlia che gioca per terra. È piccola, avrà due anni. La prendo in braccio e la porto in corridoio. Mi afferra il corpetto e non molla la presa, nemmeno quando la metto giù. Devo aprirle le dita a forza. «Latte, dammi.» mi dice. Cosa devo fare? Queste riccone smettono di allattare così presto. È come cucinare la cena quando è avanzato ancora il pranzo. Ma alla bambina manca. Chiede tutto quello che le manca. I miei figli si sono mai attaccati al corpetto di una sconosciuta a chiedere il latte? Mai. Li ho allattati tutti finché non avevano la pancia piena. Quando ho finito di spazzare e lavare la camera da letto passo alla cucina, poi trascino il secchio in corridoio. Che mi venga un colpo. «Piccola bastarda!» La bambina ha sfilato la bottiglia d’acqua dalla mia borsa. Ride e spruzza l’acqua per terra, come se non valesse niente. Mi abbasso e le strappo la bottiglia di mano. È come se il macellaio mi stesse facendo il cuore a fettine. La bambina si mette a piangere. «Come osi chiamare così mia figlia!» urla Inara arrivando di corsa dalla cucina con il biberon. Mi chino a terra per cercare il tappo della bottiglia. «La bambina… la bambina stava buttando via la mia acqua» dico, con le lacrime agli occhi. «Fai piangere la piccola per una stupida bottiglia d’acqua? Vattene di qui, sei pazza!» grida Inara, sollevando da terra la figlia. La bambina ha versato più di mezza bottiglia. C’è una pozzanghera luccicante sulle piastrelle. Mi guardo intorno in cerca di un modo per recuperare l’acqua versata. Non posso sprecarla così. Non puzza di fogna, non ci sono dentro i vermi come nello slum. Brilla come un diamante. Per quest’acqua ho sopportato una botta sul braccio e una gran figuraccia davanti a un treno pieno di uomini. Quest’acqua non mi farà sentire come al solito, come se bevessi veleno. Non mi farà venire il mal di pancia, né le chiazze sulla pelle. Quest’acqua mi darà la vita, non la morte. Non posso sprecarla. Mi inginocchio e comincio a leccare l’acqua da terra. «Shee!» urla Inara. «Shee, shee, shee! Sei una donna o un cane? Esci subito da casa mia! Subito!» Non posso sprecare quest’acqua. Mi finiscono in bocca granelli di polvere e ciocche di peli. Continuo a berla finché non la finisco. «Basta! Smettila con questo schifo! Cagna!» urla Inara, spingendomi sulla schiena con la punta delle dita. Mi alzo. «Mi dia lo stipendio» dico. La bambina continua a piangere. «Ti do una sberla se non te ne vai subito» grida Inara. «Ti pago a fine mese. Adesso esci e non tornare più!» Infilo la bottiglia nella sacca e mi pulisco il viso con il sari. Mi bruciano gli occhi, vedo tutto sfocato. Inara mi spinge verso la porta, come se fossi un’ubriacona. «Via!» Sputo un capello ed esco barcollando.

I morticini, di Nadia Terranova

Nella notte fra il primo e il due novembre nelle case messinesi, come in molte altre case del mondo, i morti della famiglia vanno a trovare i bambini. A Messina, in cambio di un po’ di pane e un po’ di latte, lasciano loro soldi e regali e due tipi di dolci: la frutta marturana e i “morticini”, biscotti di mandorle a forma di ossa e teschi. Ho scritto questo testo su invito di Giusi Cataldo, che ogni anno in quei giorni cura a Palermo “Notte di zucchero. Festa di morti pupi e grattugie” affinché la tradizione non vada perduta. È andato in scena al teatro Biondo interpretato da Sebastiana Eriu. 


Mezzo panino all’olio, il bicchiere mezzo pieno di latte e per non lasciare briciole sul tavolo il tovagliolo rosso avanzato dal compleanno – è rossissimo e brilla, quando ho fatto nove anni abbiamo fatto una festa anche se nei capelli avevo sempre il cerchietto nero del lutto, è venuta pure la mia amica Gloria che è grande, abita di fronte e prima non mi degnava mai, invece da un po’ di tempo manco finisce i compiti che mi viene a chiamare.
Nonna dice che è perché con quello che mi è successo con papà sono molto maturata. Tipo la frutta.
Questa notte arrivano i morticini e bisogna che trovano da mangiare.
Il pane, il latte, il tovagliolo, un altro tovagliolo se si devono pulire il muso e non manca più niente. Vai a letto, dice mamma. È stanca. Mi guarda, ma non mi vede. A casa devono venire i morti, ma la morta sembra lei.
Verso il latte nel bicchiere azzurro, il bicchiere di tutti i giorni, azzurro con le righine che sembra che il latte ha le onde.
Mezzo panino all’olio sul tovagliolo intero, l’ho tagliato apposta col coltello mentre mamma non guardava, sennò grida ferma che ti tagli come quando ero piccola. Ho nove anni, non tre. L’anno scorso mi ha detto che potevo usare il coltello da sola e ho cominciato a tagliare le cotolette davanti a tutti. Le tagliavo anche prima, però di nascosto, mi aveva insegnato mio padre.
- Mamma non vuole che taglio le cose col coltello.
- E noi non glielo diciamo.
Ritagli che avevo imparato a fare: i pezzi piccoli e i pezzi grandi, i triangolini e i bocconi quadrati. A cena ho tagliato metà della mia cotoletta e me la sono messa in tasca.
- Hai finito?
Mia madre mi fa le domande senza guardarmi.
E allora ho apparecchiato la tavola per i morticini.
Vengono, mangiano pane e bevono latte, si puliscono il muso con il tovagliolo, mi lasciano i regali e i dolci, la frutta marturana e i dolci di mandorla duri che ti scoppiano i denti, duri, durissimi e bianchi, a forma di ossa di scheletro, e se ne vanno. Vengono in cucina appena ci addormentiamo, se non dormiamo non vengono, “se vedono la luce accesa scappano” mi ha detto una volta mamma perché stavo impazzendo di gioia, mi pizzicavo i piedi, i polpacci, le guance per non dormire, l’anno prima mi avevano portato la pista con le macchinine anche se non era un regalo per femmine.
- Tuo nonno era anticonformista –, mi aveva spiegato mio padre. – Pure da morto se ne fotte di quello che pensano gli altri.
Anticonformista è una bella parola, è un morticino che ti porta i regali giusti. Quella mattina avevo trovato il bicchiere bevuto, il pane mangiato, il tovagliolo con tutte le briciole a posto, e questo pacco enorme con la pista a tre piani, l’autolavaggio, i camion che trasportano la merce, perché in Sicilia non arriva tutto e bisogna farsi arrivare certe cose da Milano, tipo i vestiti che piacciono alla mamma, però è vero anche il contrario perché qui abbiamo tutto e non ci manca niente e la maggior parte delle cose importanti siamo noi che le mandiamo a Milano, tipo i pomodori e le melanzane. Infatti, i camion sull’autostrada io li spingo tutti a uscire, attraversano lo Stretto e portano da mangiare al nord.
Soprattutto le cotolette.
A me le verdure fanno schifo, quando ero a Milano da mio padre mi ha detto che lì fanno la cotoletta più famosa del mondo e me l’ha fatta portare. Era alta gialla e grossa, di carne dura, non la cotoletta sottile e scura che fa la nonna, anche mamma la fa buona.
- La nostra è meglio – ho detto a papà, e lui si è messo a ridere. – Parla piano che ci prendono per terroni.
Mio padre da Milano non è tornato vivo e mamma dice che l’ha ammazzato l’aria. Dunque, io ho paura dell’aria. Vai a Milano, respiri e muori. Quando ero a Milano ho respirato e non mi è successo niente, mamma dice perché sono piccola.
Nonna dice:
- Non sentire le minchiate di tua madre pazza, tuo padre l’ha ucciso il vizio visto che fumava preciso a tuo nonno, buonanime di tutti e due, non te lo ricordi quando sei nata, manco la tutina ti potevo cambiare che dopo un minuto puzzava di sigaretta, si sono intossicati padre e figlio, e tua madre ancora che fuma.
Mamma dice:
- Non sentire le minchiate di tua nonna terrorista dello Stato, parla come le scritte sui pacchi di sigarette, a tuo padre l’enfisema è venuto quando si è messo in testa che doveva andarsene lassopra a cucinare, non ho capito perché non se ne poteva stare qua con te e con me che eravamo la sua famiglia, è che tua nonna è una rompicoglioni e se n’è scappato da lei, con quella come si fa a campare.
Ho la mezza cotoletta in tasca. A mio padre morticino la volevo lasciare tutta, ma è troppo buona, metà non ce l’ho fatta a resistere. Quest’altra metà però è tutta sua.
- Avanti, hai finito – fa mia madre con la faccia stanca, anche la voce è stanca, è stanca pure la vestaglia che non si cambia da una settimana. – Forza, che sennò i morticini non vengono.
Mi fa segno che devo andare a dormire.
Ma devo lasciare la cotoletta per papà, l’ho tagliata col coltello apposta e se non si gira non posso fare la mia mossa magica, sfilarla dalla tasca e avvolgerla in un altro tovagliolo rosso, così papà quando viene trova la sua mezza cotoletta e si ricorda di quello che gli ho detto a Milano e capisce che sono sempre io, sua figlia, e magari mi porta un’altra pista delle macchinine ma a dirla tutta quel gioco non mi piace più, vorrei tutt’altre cose adesso, tipo Gloria mi ha detto che suo padre le ha regalato il primo completino col reggiseno, ma Gloria ha undici anni, devo aspettare ancora molto. Solo che il problema da ora in avanti è sempre questo: che mio padre i regali verrà a farmeli solo una notte l’anno, e non è che posso chiedergliene uno così quando mi pare, oppure quando mi vengono le mestruazioni che lui me lo aveva sempre detto “quando diventi signorina poi ti faccio il regalo”, però sono sicura che se mi concentro divento signorina il due di novembre, sarebbe bello, ma devo essermi distratta perché stringo la cotoletta in tasca e la sbriciolo ed è con la mano unta che devo correre da mia mamma e fermarla, perché piange e urla all’improvviso e ha strappato tutti i tovaglioli rossi, ha buttato il bicchiere per terra, sta rovinando il pane con le unghie e dice parolacce ai morticini, dice bastardo a mio padre che ci ha lasciate sole, i morti sono morti e ci mancava solo questa festa di superstizione che la bambina non vuole neanche dormire, dopo che noi la morte in casa ce l’abbiamo tutti i giorni, sono quattro mesi che non dorme, sta spaccando tutto, e il reggiseno chi me lo porta?
Io questa cosa di diventare grande non la voglio fare da sola. Calma mamma, non piangere, non fare la bambina, vai a dormire, sì spengo la luce, vai, vai ti ho detto ma quale tradizione, hai ragione, scusa, buonanotte.
Ecco. Ho spento tutto.
Papà?
Mi senti?
Qui c’è mezza cotoletta per te.


Nadia Terranova (1978) è nata a Messina e vive a Roma. Tra i suoi libri, Bruno. Il bambino che imparò a volare(Orecchio Acerbo 2012, illustrazioni di Ofra Amit) che ha vinto il Premio Napoli e il Premio Laura Orvieto ed è stato tradotto in Spagna. Collabora con «IL Magazine» e «pagina99». Gli anni al contrario (Einaudi Stile Libero 2015, Super ET 2016) è il suo primo romanzo.

La lenta apnea, di Alessandra Sarchi

- Gli occhi ti diventano più azzurri quando guardi l’acqua. - Gliel’aveva detto sua moglie, Laura, poco dopo che si erano conosciuti, quando ancora non erano sposati ed era venuta a vedere una partita di domenica, standosene seduta per tutto il pomeriggio sui gradoni della piscina scoperta. Lo aveva aspettato fuori dagli spogliatoi, da dove era uscito coi capelli bagnati, gocce che scorrevano sul collo insieme alle endorfine della vittoria. Laura glielo aveva detto così, dandogli un bacio obliquo sulle labbra.
Non suonava come un complimento stravagante, piuttosto l’intuizione di ciò che lo rendeva felice. Non le aveva mai rivelato che, spesso, nei secondi prima di addormentarsi, ciò che lui vedeva era un indistinto ondeggiare azzurro, uno smagliarsi del colore che andava verso il basso o si dilatava, e non sapeva se fosse l’ultima immagine della piscina registrata dalla retina o solo un’allucinazione cromatica, come altre ne aveva, a volte premendo le palpebre sopra il cuscino, quando dormiva di pancia.
Un anno dopo essersi conosciuti si erano sposati e sistemati: lei aveva avuto una cattedra alla scuola media, lui era stato assunto in banca. Quando era arrivato il contratto su carta intestata con il simbolo dei tre massi racchiusi dentro l’ovale, e il suo nome stampato sopra più volte, Nicola Cordelli aveva pensato che la pietra era più solida dell’acqua, che due stagioni in Nazionale erano state un’enorme soddisfazione ma alla soglia dei trent’anni era meglio costruire qualcosa di duraturo. La passione si poteva trasferire, dentro un ufficio bancario, dentro un matrimonio.
Gli anni che erano seguiti parevano avergli dato ragione.
Lo avevano assegnato all’ufficio di Padova, da lunedì a venerdì era lontano da casa e all’inizio c’era stata qualche difficoltà. Laura si era lamentata della solitudine durante la settimana e spesso anche Nicola trovava tristi le sue cene nel monolocale di via Beato Pellegrino, anche se la fame dopo due ore di piscina - non aveva smesso infatti di allenarsi - gli dava una determinazione fisiologica sufficiente a non immalinconirsi troppo e, ora che aveva sparecchiato, la stanchezza aveva già fatto il resto.
Laura cominciò a venire a Padova, sfruttando il giorno libero. Prendeva il treno la sera prima, così dormivano insieme, pranzavamo insieme il giorno dopo, in un ristorante vicino all’ufficio e affacciato sul Brenta, qualche volta riuscivano a fare una breve passeggiata prima che lui la riaccompagnasse a prendere il treno.
Marco doveva essere stato concepito nella passione compressa e per questo più concentrata di quella notte alla settimana che passavano insieme nel monolocale di Padova, o durante un fine settimana quando Nicola tornava nella villetta a schiera con giardino, comprata con mutuo ventennale, e c’erano cene con amici e musica ad aspettarlo, poi il vuoto potenziale del tempo libero il sabato mattina, mentre preparava la sacca con costume occhialini e accappatoio per andare a nuotare. Non aveva perso del tutto il giro della squadra. Dopo la piscina andava a fare la spesa al supermercato, con la lista per la settimana compilata insieme a Laura. Quel che seguiva era un dolce scivolare verso l’ora della domenica sera in cui avrebbe ripreso un treno. Lì iniziava la sua immersione, la lenta apnea che sarebbe durata i successivi cinque giorni.
In banca si occupava di polizze assicurative legate ai mutui, da quando era nato Marco la stipula di mutui aveva progredito costantemente, era un settore che chiedeva coordinazione. C’era chi procacciava il cliente e verificava la solidità della sua posizione economica, chi istruiva la pratica per il mutuo e chi, come lui, gliel’assicurava alla vita, alla casa, per cementare meglio un intrico che doveva valere tutte le ore di lavoro, i sacrifici, le rinunce, forse qualcosa in più.
Quando era in banca Nicola sentiva una forma di rigidità, estesa fra il bacino e la nuca. La sentiva più forte quando altri impiegati si avvicinavano a lui, quando si creavano gli inevitabili momenti di tensione di ogni posto di lavoro. Un formicolio sotto la testa che scendeva lungo la colonna. Anche alle cene fra colleghi, anche nelle occasioni in cui si allentavano i nodi alle cravatte e si facevano discorsi su sport e passatempi, Nicola non riusciva mai lasciarsi andare.
Il mondo della banca rimaneva quello della squadra avversaria di una partita di pallanuoto, solo che intorno non aveva più i compagni della sua, non aveva chi gli copriva le spalle e tagliava l’acqua. Gli sembrava poco credibile che lui e gli altri vestiti in completi blu o grigi dovessero condividere un obiettivo, anziché essere l’uno contro l’altro come lui sentiva che erano. Eppure, nei cosiddetti incontri motivazionali, la metafora del ‘fare squadra’ era una delle più ricorrenti.
I trentatré metri di acqua clorata da macinare con le gambe, da solcare con le braccia, da schiacciare con la palla galleggiavano sempre sotto le sue palpebre nel dormiveglia, insieme alle piastrelle che si sfaldavano nei riflessi della luce filtrata della piscina, la rilassatezza sboccata degli spogliatoi, l’ossigeno rubato all’aria, all’acqua.
Tutto quell’ossigeno che gli riempiva i polmoni, il cervello, le vene, i corpi cavernosi.

Quando Marco aveva tre anni, Nicola era stato trasferito nella sede centrale, a Siena.
Una promozione, in pratica una complicazione: non poteva più spostarsi in treno, ci voleva troppo tempo, ora usava un’auto, interamente scaricabile e detraibile dalle tasse, e non era che uno degli innumerevoli vantaggi economici; avrebbero presto saldato il mutuo e forse comprato una casa più grande con quel che guadagnava ora.
Anche a Siena Nicola aveva preso un piccolo appartamento, in un edificio fuori le mura, località Acquacalda, vicino alla piscina comunale. Anche a Siena era la banca a pagarglielo. Non aveva stretto legami, non ne aveva il tempo. L’unica persona fuori dalla banca che aveva conosciuto era il proprietario dell’edicola davanti al condominio dove dormiva, Giuseppe.
 Anche lui era un appassionato di pallanuoto, conosceva la formazione della nazionale degli ultimi trent’anni, allenatori e punteggi di partite. Nicola aveva fatto in modo che i giornali del proprio ufficio arrivassero dall’edicola di Giuseppe, d’altronde qualsiasi dirigente a Siena aveva il suo edicolante, il suo pasticcere, il suo barista, il suo calzolaio.
Aveva cominciato a portare Marco in piscina con sé più o meno in quel periodo, al sabato mattina, poi lo aveva inscritto ai corsi. A cinque anni Marco sapeva già nuotare e fare una perfetta respirazione con il crawl. A sette anni lo aveva preso con sé nell’attraversata della baia dei conigli a Lampedusa, nonostante le proteste di Laura. L’allenatore della piscina diceva che aveva la stoffa dell’agonista, lo aveva già selezionato per le gare regionali dei piccolissimi.

La mattina di gennaio in cui arrivano i finanzieri, Nicola è entrato da pochi minuti dentro la rocca Salimbeni, sono le otto di mattina, non è riuscito nemmeno a salire al proprio ufficio, è stato bloccato sulle scale da un ufficiale con l’ordine tassativo di non aprire il computer, di non fare niente, di aspettare. Da quando lavora lì è già successo in un’altra occasione, anche se gli sembra che il numero degli ufficiali in divisa color canna di fucile, visti mentre entrava, sia di gran lunga superiore alla volta precedente. Pensa che nell’attesa leggerà il giornale, Giuseppe fa sempre in modo che i quotidiani siano consegnati prima che lui arrivi.
In cima al pianerottolo incontra un suo collega, che lo guarda come si guarda un complice, con un lieve tremito della testa, senza dire niente. In mano ha il bicchierino di plastica del caffé del distributore automatico.
Nicola entra nel proprio ufficio e si siede dietro la sedia girevole, in effetti i giornali sono sul tavolo. Dalla porta lasciata aperta vede passare altri finanzieri, si accosta un giornale e ne guarda i titoli di prima pagina, ma non riesce veramente a leggerlo. Un numero gli scorre davanti, come un orario sullo schermo digitale di una stazione o di un aeroporto, quei 10 e rotti miliardi con cui MPS ha comprato Antonveneta, un prezzo che è quasi il doppio di quello che la banca valeva in realtà. Lo sanno tutti, ma è una di quelle cose di cui non si parla perché dirle vorrebbe chiedersi che ci stanno a fare tutti quanti lì dentro giorno dopo giorno, coi loro lauti stipendi, i benefits, e la diciassettesima.
Però adesso ci sono i finanzieri, i computer bloccati, l’arrivo dei colleghi ai quali viene impartito il medesimo ordine: non toccate niente, tutti fermi. E quel numero li farà saltare per aria, Nicola ne è certo.
A un certo punto si alza e va in corridoio, l’ufficio del numero Uno è sotto perquisizione, a seguire gli uffici del numero Due e del numero Tre, che è il suo diretto superiore. Alle 10,30 viene comunicato che alcuni di loro possono andare a casa. Altri no, dovranno restare. Nicola è fra quelli che dovranno restare. Vengono ordinati panini per tutti all’ora di pranzo, non si può nemmeno uscire dalla banca. Nicola vorrebbe sapere che cosa cercano di preciso, ma non può parlare con il suo capo, per il semplice fatto che ormai sta chiuso con tre ufficiali da diverse ore nel suo quartier generale. Solo la segretaria si è affacciata e con il volto alterato, un alone di sudore sotto le ascelle, gli ha bisbigliato sulla porta: si sta mettendo molto male, per tutti quanti.
Nell’attesa del suo turno, Nicola si sente soffocare, il corpo è indolenzito, i muscoli delle gambe rigidi. Sale le scale verso il terzo piano, tanto per sgranchirsi. Al pianerottolo si ferma, qualche anno prima hanno aperto una porta finestra che dà sulle scale antincendio, si appoggia con tutto il corpo al vetro, potrebbe anche aprire, ma scatterebbe l’allarme.
Fuori il cielo è chiaro e fermo, anche le nuvole hanno l’immobilità perfetta delle basse temperature, fa freddo, lì non ci sono radiatori e il gelo penetra attraverso la finestra. Nicola lascia che invada ogni sua parte. Lo sente prima sulle mani e sul volto col naso schiacciato sul vetro, poi scendere dal collo al petto, coperto solo dalla camicia, fino ai fianchi, dove prima si allarga, poi si restringe in un’unico punto. Come l’aria nei polmoni quando si risale da un’immersione. Nicola si appiattisce ancora di più col bacino fino a sentirla, incredibile e forte, la sua erezione contro il vetro. E tutto si sradica veloce. Con una mano cerca in tasca le chiavi dell’appartamento e il badge che gli consente di entrare in Rocca Salimbeni, li stringe fino a farsi male alle dita.
La segretaria arriva alle sue spalle e gli dice che lo stanno cercando. Nicola si volta e rimane fermo per un momento, appeso all’attesa della segretaria che lo guarda e dice, come se lo notasse per la prima volta e come se fosse un’osservazione pertinente: lei ha gli occhi così azzurri.
Poi Nicola scende nel suo ufficio, sostiene una specie di interrogatorio che si svolge senza troppe sorprese, con urbanità. I finanzieri fanno una copia di tutto quello che si trova sul suo computer, sigillano i cassetti e lo pregano di tenersi a disposizione.
Quando esce dalla Rocca Salimbeni, sono le quattro e mezza del pomeriggio, sta già facendo buio. Entra in una tabaccheria, prende una busta imbottita e francobolli, poi va in un bar si siede a un tavolo e ordina succo di pomodoro. Compila un breve biglietto di dimissioni, chiude dentro la busta le chiavi e il badge e infila tutto nella prima cassetta della posta all’uscita del bar.
Poi passa dall’appartamento dove ritira un paio di libri, un cambio di biancheria, la sacca del nuoto. Si ferma a salutare Giuseppe, e parte per tornare a casa.
Non tornerà mai più a Siena.

Marco ha dodici anni e fa agonismo, ottimi tempi a dorso. Nicola lo ha portato a vedere le partite della nazionale di pallanuoto, gli ha insegnato i principali passaggi, gli riesce un buon tiro a sciarpa. Al mare spesso hanno giocato insieme, ma Marco non ha mai manifestato la volontà di far parte di una squadra. Nicola lo accompagna alle gare e lo osserva sul trampolino al tuffo, prima della partenza: le narici che vibravano, la fronte tirata, prima del tuffo, poi lui sa che il respiro si sincronizza a ogni fibra per ingoiare cinquanta metri, e poi altri cinquanta per quattro volte. Questa è la sua misura. Non l’attenzione spasmodica ai minimi movimenti degli altri, alle distanze d’acqua da accorciare per arrivare in buca, ai colpi da evitare, al centroboa da aiutare, all’ellissi di sette da mantenere in equilibrio, quella cosa miracolosa che è il gioco di squadra.
No: cinquanta metri secchi e poi altri cinquanta, per quattro volte, andando semplicemente più forte degli altri, da solo.


Alessandra Sarchi ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e a Ca’ Foscari a Venezia, ha una formazione di storica e critica d’arte, nel 2008 ha pubblicato la raccolta di racconti Segni sottili e clandestini con l’editore Diabasis. Nel 2012 e uscito con Einaudi Stile Libero il suo primo romanzo Violazione, vincitore del premio Paolo Volponi, in memoria di Stefano Tassinari, opera prima. Nel 2014 ha pubblicato, sempre con Einaudi Stile Libero, il romanzo L’amore normale, vincitore della XIX edizione del premio internazionale Scrivere per amore. Il suo ultimo libro, La notte ha la mia voce, ha vinto il premio Mondello 2017, ed è finalista al premio Campiello 2017.  Collabora con le pagine culturali di diversi quotidiani e scrive per i blog leparoleelecose.itdoppiozero.com. e La ricerca.it .

L'annuncio, di Luca Ricci

1


Nella sera che andava rinfrescandosi, la carovana procedeva a fatica. A ogni tornante la macchina di testa suonava il clacson per avvisare quelli della corsia opposta della nostra presenza. Qualcuno scese e prese a vomitare l’aperitivo. Mia moglie si sporse dal finestrino ma non riuscì a capire di chi si trattasse. Seguirono una serie di commenti, battute, schiamazzi. Ci eravamo fermati, adesso. Ma quella pausa non sarebbe durata a lungo.
Mia moglie rimise la testa dentro l’abitacolo: - Con tutta questa umidità addio messa in piega.
- Eppure è solo il primo di settembre.
- Siamo pur sempre su un monte.
Picchiettavo le dita sul volante. Mia moglie contorceva il manico della borsetta. C’era qualcosa, nell’aria. Qualcosa che somigliava all’eco del clacson prima di venire inghiottito dalla vallata, debole eppure persistente.
- Quando vuoi dirlo?- domandai.
- Non saprei.
- Il dessert è il momento giusto.
Mia moglie parve rifletterci un istante: - Potremmo dirlo anche subito, tanto tutti si aspettano quello.
- Dici prima dell’arrivo dei menù?
Mia moglie annuì ma senza troppa convinzione.
Allora buttai lì la mia proposta: - Lo diremo quando ci va, d’accordo? All’inizio, o al dessert, o anche nel corso della cena se ci gira.
A quel punto le altre macchine cominciarono a muoversi. Tolsi il freno a mano e partii anch’io. Mi concentrai esclusivamente sulla strada. Un tornante, un colpo di clacson della macchina in cima alla carovana e così via, fino al parcheggio del ristorante.
Una ragazzina ci fece accomodare al tavolo. I lumi erano maculati dalle ultime farfalle estive. Certe se ne stavano immobili, incollate al vetro, altre tentavano un’inutile ribellione al fascio di calore e luce che le teneva prigioniere: un guizzo patetico, prima di tornare a incollarsi al vetro.
Il tavolo l’avevo prenotato io stesso, con largo anticipo.
- All’aperto, se possibile,- avevo detto.
La voce del padrone, all’altro capo del filo, era suonata bassa e riguardosa: - Non si preoccupi, chiamando adesso posso darglielo che si affaccia sul belvedere, ma la maggior parte chiama troppo tardi.

2

Mi accesi la seconda sigaretta, spegnendola dopo qualche boccata. Mangiucchiai tutti i grissini della confezione e bevvi un sorso d’acqua. La ragazzina venne a portare i menù. Una ventata improvvisa rovinò definitivamente la messa in piega di mia moglie.
- Ho quasi freddo,- disse. - Mi andresti a prendere il maglione?
Annuii e mi diressi verso l’uscita. Restai in contemplazione della distesa di ghiaia molto più a lungo di quanto si faccia di solito nel parcheggio di un ristorante. Le pietruzze erano talmente colorate da sembrare un tappeto persiano. Alzai una scarpa e provai a togliere quelle che si erano conficcate nella gomma della suola.
Mi corse incontro il mio migliore amico: - Come mai le donne sono così freddolose?
- Stasera ho freddo anch’io.
In macchina recuperai il maglione e mi venne da ridere. Quella mattina ero entrato in uno di quei vecchi cinema porno in cui non va più nessuno. All’interno avevo pagato il biglietto e avevo scostato un’enorme tenda che puzzava di sporco: nessuno aveva avuto niente da ridire, nessuno mi aveva guardato storto. Ero rimasto in sala solo per qualche minuto. Mi erano rimasti impressi i gemiti della pellicola, e il viavai dei vecchietti per il bagno. Non ero mai andato in un cinema a luci rosse, neanche da ragazzino. 
Mentre tornavamo dentro il mio migliore amico mi offrì una sigaretta.
 - Allora ti sei deciso,- disse.  
- Lo saprai soltanto dopo il dolce.
- Ormai è fatta, sono scattate le manette eh?
- O forse dopo il caffè.
Il mio migliore amico scoppiò in un’energica risata e accelerò il passo: - O dopo l’ammazzacaffè?

3

Masticai una tartina e fumai una sigaretta fino al filtro. La bocca sapeva d’un impasto di caviale e nicotina. A quel punto la ragazzina portò i primi. Mia moglie appena seduta aveva parlato con le altre coppie del tavolo, adesso invece sembrava assente. Le detti un pizzicotto sulla guancia per riscuoterla da quella catatonia: - Hai ancora freddo?
Mentre glielo chiedevo un filo di cenere passò a pochi metri dalla tavolata.
Mia moglie guardò il profilo dei monti in lontananza: - Sbaglio o quest’estate hanno preso fuoco?
- Laggiù,- risposi, indicando un punto in cui c’era un lembo di vegetazione ancora riarsa.
- Impressionante.
Restammo ancora un po’ a guardare, come se avessimo potuto individuare il punto esatto da cui proveniva lo sciame di cenere.
I primi furono scalzati dai secondi e i secondi dal dolce, e ancora nessuno dei due prese l’iniziativa. Poggiai il tovagliolo accanto al piatto e andai in bagno.
Buttai la carta igienica nel water e azionai lo sciacquone. Infilai l’indice tra una mattonella e l’altra. Erano piccoli esagoni. Seguii i bordi come se fossero da ritagliare. Tornai al water. Alzai il coperchio della cassetta e controllai l’acqua. Il tubo di riempimento, l’asta del galleggiante e il galleggiante. Poi mi specchiai con i pantaloni abbassati. Strinsi le gambe, in modo che si vedesse soltanto il pelo pubico. Riconsiderai la vita da un punto di vista femminile. Immaginai di diventare un ermafrodito, o qualcosa di simile. Qualcosa che aveva a che fare, o pensavo avesse a che fare, con un’estrema libertà.
Mia madre mi chiamò al cellulare proprio in quel momento.
- Che c’è?- domandai.
- Come che c’è? Come sta andando?
- Tutto bene, mamma.
- L’avete fatto l’annuncio?
- Non ancora.
Sentii mio padre lì accanto borbottare qualcosa d’incomprensibile. Mia madre lo zittì. Mi chiesi se dopo i figli rimaneva solo la voglia di sapere chi era riuscito a mettere sotto l’altro. Chi aveva vinto, e chi aveva perso. Chi aveva avuto la personalità più forte, chi era riuscito a convincere chi.
Poi mia madre tornò all’attacco: - Cosa aspettate a dirlo? Non vi sentite pronti?
Ridacchiai: - Ci sentiamo pronti, dopo sette anni, credo proprio di sì.
Mia madre sbuffò, o sospirò, o semplicemente si sbarazzò di una quantità eccessiva d’ossigeno dai polmoni: - Era proprio l’ora.

4

- Lo prendiamo tutti,- disse un po’ sbrigativamente il portavoce della tavolata.
- Allora dodici?- chiese conferma la ragazzina.
Si levarono delle voci di dissenso: alcuni non lo volevano, altri lo gradivano decaffeinato.
La ragazzina ascoltava con la penna biro poggiata sulle labbra: - Okay, chi lo prende normale?
Contò le mani alzate, e appuntò rapidamente sul taccuino il numero esatto dei caffè. Indossava un paio di jeans a vita bassa, e una canottiera bianca. L’ombelico rimaneva di fuori. Un’unica treccia bionda le passava in mezzo alle scapole, fermandosi appena sopra l’orlo della canottiera. Nonostante le scarpette da tennis, si slanciava con grazia fra i tavoli. Mi chiesi per quanto tempo ancora sarei potuto essere appetibile per una ragazzina del genere. Notai che la osservava anche mia moglie: forse pensava che i loro visi non fossero poi così diversi, o forse tutto il contrario. Ci guardammo, io e mia moglie. I nostri occhi, che fino a quel momento si erano per lo più evitati, s’incrociarono di sfuggita. Non sapevo neanche perché la chiamassi già così: moglie.
Qualcuno, quasi con stizza, si sbracciò per attirare la nostra attenzione:- Perché non iniziamo a farci portare lo spumante e i bicchieri?
Quello era il momento, in effetti. Stavo per prendere la parola quando irruppe sul tavolo un dirigibile gonfiabile. Per un secondo tutto il resto passò in secondo piano. Il dirigibile era nero, curato fin nei minimi dettagli. Apparteneva al bambino del tavolo accanto. Continuava a dire che da grande voleva fare il pilota. Doveva ancora allenarsi, evidentemente.
- Ma non dovevate dirci una cosa?- ci pungolò qualcun altro.
Ancora una volta incrociai lo sguardo di mia moglie, ma le bocche rimasero chiuse. Lasciammo arrivare le bottiglie di spumante, lasciammo che i tappi saltassero.
E qualcuno, alla fine, dette l'annuncio al posto nostro.


Luca Ricci ha vinto due importanti premi dedicati al racconto: con Il piede nel letto (Alacran, 2005) il Cocito Montà d’Alba, con L’amore e altre forme d’odio (Einaudi, 2006) il Premio Chiara. Ha pubblicato racconti su Il Caffè illustrato, Nuovi Argomenti, Nazione Indiana e minima&moralia. Ha scritto racconti per RadioRai3 e per il Messaggero. Ha portato in giro per l’Italia “I dieci comandamenti del racconto breve” e il reading spettacolo “Nessuna enfasi: cinque racconti letti e illuminati”. Ha tenuto per la scuola Holden il corso “Scrivere un racconto che piacerebbe al New Yorker”. Ha pubblicato singoli racconti in digitale: L’acciambellato (I Corsivi del Corriere della Sera, 2013) e Ferragosto addio! (Quanti Einaudi, 2013). Il suo ultimo libro di racconti è appena uscito: Fantasmi dell’aldiquà (La scuola di Pitagora, 2014). Nell’antologia “Narratori degli anno zero” (L’orma editore, 2010), Andrea Cortellessa lo definisce ‘il virtuoso più consumato della tecnica del racconto oggi in Italia'.