L’inquietante motivo della visita del reverendo, di G.K. Chesterton

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Dal 31 Maggio è in libreria per Lindau Il club dei mestieri stravaganti, di G.K Chesterton, tradotto da Federico Zaniboni; la prima raccolta dell'autore datata 1905, e accompagnata dalle illustrazioni dello stesso Chesterton. 
Vi proponiamo uno dei racconti contenuti nel testo.

 

L’inquietante motivo della visita del reverendo

La rivolta della materia contro l’uomo (a cui credo ferma- mente) si è ridotta, ormai, a una condizione singolare. Infatti, sono le piccole cose, piuttosto che le grandi, a muovere guerra contro di noi e, per dirla tutta, in molti  casi a sconfiggerci. Le ossa dell’ultimo mammut si sono decomposte tantissimo tempo fa, come un maestoso relitto; le tempeste non divorano più le nostre navi, le montagne dal cuore di fuoco non scatenano più l’inferno sopra le nostre città. Eppure, siamo coinvolti in una dura, eterna guerra con le piccole cose; principalmente contro i microbi e i bottoni dei colletti. Mentre ero immerso nelle suddette riflessioni, stavo proprio lottando (senza esclusione di colpi) con un bottone che non riuscivo a inserire nell’asola del colletto, quando a un tratto udii bussare alla porta.
Dapprima pensai che fosse Basil Grant, venuto a prendermi per uscire. Quella sera, infatti, io e lui eravamo stati invitati a una cena (per la quale, appunto, io mi stavo preparando) e forse gli era venuta l’idea di passare prima da me, anche se avevamo deciso di andare ognuno per conto suo. Si trattava di un ritrovo tra pochi intimi a casa di una sua vecchia conoscenza, una signora impegnata in politica, una donna perbene e anticonformista. Aveva invitato entrambi per farci conoscere il capitano Fraser che, a quanto pareva, si era fatto un nome ed era un’autorità in materia di scimpanzé. Poiché Basil era un vecchio amico della signora e io, personalmente, non l’avevo mai incontrata, pensai che (con la sua consueta sagacia in fatto di rapporti sociali) lui avesse deciso di accompagnarmi per rompere il ghiaccio. Come tutte le mie teorie, anche questa era fondata; ma la pratica era diversa: non era Basil alla porta.
Una mano mi porse un biglietto intestato «Rev. Ellis Shorter»; sotto, con grafia frettolosa che non riusciva a nascondere una poco allettante solennità aristocratica, era scritto: «Le chiedo la cortesia di accordarmi qualche minuto del suo tempo per discutere di una questione della massima urgenza».
Alla fine ero riuscito a sottomettere il bottone, proclamando così la supremazia dell’immagine di Dio sopra tutta la materia (una verità sempre preziosa) e, infilandomi in tutta fretta panciotto e cappotto, scesi in salotto. Al mio arrivo si alzò, dimenandosi come una foca; non saprei descriverlo diversamente. Faceva sventolare la mantellina scozzese che teneva sul braccio e un paio di patetici guanti neri; tutto il suo abbigliamento sbatteva di qua e di là; anzi, potrei dire, senza esagerare, che mentre si alzava in piedi sbatté perfino le palpebre al vedermi. Era un anziano reverendo, quasi senza sopracciglia, con capelli e favoriti bianchi, dall’aria goffa e trasandata. Disse: «Le porgo le mie scuse. Mi dispiace molto, mi dispiace enormemente. Sono venuto… posso solo dire, a mia difesa… che sono venuto… per una questione importante. La prego di perdonarmi».
Gli dissi che lo perdonavo senza problemi e aspettai.
«Quello che ho da dire» disse lui con voce rotta, «è così terribile, così terribile… Io ho sempre vissuto una vita tranquilla».
Fremevo per andarmene, perché dubitavo già di riuscire ad arrivare in tempo per cena. Ma in quell’uomo anziano c’era una tale sincera amarezza che mi sembrava rivelare una vita ben più intensa e tragica della mia.
Così dissi con gentilezza: «La prego, vada avanti».
E nondimeno l’anziano signore, ormai avanti con gli anni, notò la mia intima impazienza e parve ancora più confuso.
«Sono davvero desolato – disse umilmente. – Non sarei mai venuto da lei se… non me l’avesse consigliato un suo amico, il maggiore Brown».
«Il maggiore Brown!» ribattei, con un certo interesse.
«Esatto» disse il reverendo Shorter, sbatacchiando febbrilmente la mantellina scozzese. «Mi ha detto che lei l’ha aiutato in un momento di grande difficoltà… e il mio caso, signore, è questione di vita o di morte!».
Balzai in piedi, alquanto perplesso. «Ci vorrà molto, Mr Shorter? Perché dovrei andarmene subito, ho un invito per cena».
Si alzò anche lui, tremando dalla testa ai piedi; eppure, anche in quello stato di paralisi mentale, si alzò con tutta la dignità propria della sua età e del suo ruolo.
«Io non ho nessun diritto, Mr Swinburne… non ho proprio nessun diritto – disse. – Se lei deve uscire per cena vada pure ovviamente… ne ha ben donde. Ma quando tornerà… qualcuno sarà morto».
E poi si risedette, tremando come gelatina.
In quei minuti, la futilità della cena che mi attendeva finì presto per eclissarsi nella mia mente. Non mi interessava più andare a trovare una vedova impegnata in politica e un capitano che collezionava scimmie; volevo ascoltare ciò che quel caro, vecchio prete aveva da raccontarmi in merito a un pericolo imminente.
«Gradirebbe un sigaro?» chiesi.
«No, grazie» disse, con un imbarazzo indescrivibile, come se non fumare sigari fosse un peccato imperdonabile.
«Forse un bicchiere di vino?».
«No, grazie, grazie; adesso no» ripeté con quella sorta di ansia isterica con cui le persone che non bevono mai cercano di lasciare intendere che, se solo fosse un altro giorno, passerebbero volentieri tutta la serata a bere punch al rum. «Adesso no, grazie».
«Non c’è nient’altro che le posso offrire?» chiesi, provando una stretta al cuore per quel poveretto così umile e beneducato. «Una tazza di tè?».
Vidi che era molto combattuto, avevo vinto io. Quando arrivò la tazza di tè, la bevve come un dipsomane si avventa sul brandy. Poi si lasciò ricadere e disse: «Ho passato momenti terribili, Mr Swinburne. Non sono abituato a simili strapazzi. In qualità di vicario di Chuntsey, nell’Essex – e pronunciò queste parole con l’indescrivibile disinvoltura della vanità – non ho mai creduto potesse succedermi niente di simile».
«Di cosa sta parlando?» chiesi.
Si raddrizzò di colpo, in un sussulto d’orgoglio.
«In qualità di vicario di Chuntsey, nell’Essex – disse – nessuno mi aveva mai costretto a vestirmi da vecchietta e a prendere parte a un crimine così conciato. Mai. La mia esperienza sarà anche limitata, forse insufficiente, ma non mi era mai accaduto prima».
«Non sapevo – dissi – che questo rientrasse tra i compiti di un pastore. Ma non me ne intendo di cose ecclesiastiche. Mi scusi, forse non ho ben capito cosa ha detto… Travestito da cosa?».
«Da vecchietta» rispose solennemente il reverendo «da anziana signora».
Dentro di me pensai che trasformare quell’uomo in vecchietta non richiedesse poi tanta fatica, ma poiché la cosa appariva ben più tragica che comica, chiesi rispettosamente:
«Posso chiederle com’è successo?».
«Comincerò dall’inizio – disse Mr Shorter – e racconterò la mia storia con la massima precisione possibile. Stamattina, alle undici e diciassette minuti, sono uscito dalla canonica perché avevo qualche appuntamento e qualche visita da fare in paese. La mia prima visita è stata a Mr Jervis, il tesoriere della nostra Lega di Divertimenti Cristiani, con il quale dovevo discutere a proposito di una richiesta di Mr Parker, il giardiniere, sulla manutenzione del nostro campo da tennis. Poi sono andato da Mrs Arnett, una donna molto devota che purtroppo si trova costretta permanentemente a letto. È autrice di diversi libretti sulla fede e di una raccolta di poesie intitolata, se la memoria non mi inganna, Eglantine».
Il reverendo disse tutto questo con grande cautela, o per meglio dire – senza temere di cadere in contraddizione – con cautela impaziente. Penso che nella sua testa avesse qualche vago ricordo delle storie dei detective, che richiedono sempre la massima precisione nei dettagli.
«Poi mi sono recato da Mr Carr» proseguì con la stessa irritante coscienziosità, «si badi, non Mr James Carr, bensì Mr Robert Carr, che assiste temporaneamente il nostro organista, e dopo essermi consultato con lui (a proposito di un ragazzino del coro accusato, non so se a torto o ragione, di aver fatto dei buchi nelle canne dell’organo), alla fine ho fatto una scappata a una riunione delle Dame di Carità a casa di Miss Brett. Le riunioni si tengono solitamente in canonica, ma poiché mia moglie è indisposta, Miss Brett, da poco trasferitasi in paese e molto attiva nelle iniziative della chiesa, si è offerta gentilmente di ospitarle. L’associazione delle Dame di Carità è di regola gestita interamente da mia moglie, e tranne Miss Brett, che come ho detto è molto attiva, conosco a malapena le altre signore. Ma avevo promesso di passare da loro, e così ho fatto.
«Quando sono arrivato, insieme a Miss Brett c’erano soltanto quattro signorine, tutte intente a cucire. Naturalmente, è molto difficile per chiunque ricordare e riferire una conversazione nei dettagli, anche per chi è spinto dalle circostanze a fare un’esposizione chiara ed esaustiva dei fatti, e soprattutto una conversazione che – sebbene ispirata dal grande zelo con cui le donne stavano lavorando – sul momento non colpisce particolarmente l’ascoltatore; infatti si parlava principalmente di calze. Tuttavia, ricordo distintamente che una delle signori- ne (una donna esile con uno scialle di lana, che pareva avere freddo e che sono quasi sicuro mi sia stata presentata come Miss Jane) ha detto che il tempo era molto variabile. Poi Miss Brett mi ha offerto una tazza di tè, che ho accettato, pur non ricordandomi con quali parole. Miss Brett è una signora robusta e tracagnotta, coi capelli bianchi. L’unica altra persona del gruppo che ha attirato la mia attenzione era una tale Miss Mowbray, una piccola e distinta signora dai modi aristocratici, i capelli argentei, il colorito roseo e la voce squillante. Era la più carismatica del gruppo, e le sue opinioni sui grembiuli, benché espresse con naturale deferenza nei miei confronti, erano decise e moderne. Non posso negare che in confronto a lei – pur essendo tutte e cinque vestite semplicemente di nero – le altre sembravano, come direste voi, gente di mondo, un po’ sciatte.
«Dopo circa dieci minuti di conversazione, mi sono alzato per congedarmi, e mentre me ne stavo andando ho udito qualcosa che… non riesco a descrivere… qualcosa che sembrava… davvero, non trovo le parole per descriverlo».
«Che cosa ha sentito?» chiesi con una certa impazienza.
«Ho sentito» disse il reverendo solennemente, «ho sentito Miss Mowbray (la signora coi capelli argentei) dire a Miss James (quella dallo scialle di lana) le seguenti, incredibili parole. Me le sono impresse subito nella memoria, e appena le circostanze me l’hanno permesso le ho annotate su un pezzo di carta. Dovrei averlo qui con me».
Si mise a frugare nella tasca interna del cappotto, tirando fuori taccuini, circolari e programmi di concerti del villaggio.
«Ho sentito Miss Mowbray dire a Miss James le seguenti parole: “Ora tocca a te, Bill”».
Dopo aver fatto la sua dichiarazione, mi fissò negli occhi per qualche secondo, con aria grave e risoluta, come fosse pienamente consapevole della situazione, senza alcun turbamento. Poi riprese a parlare, voltando la testa calva ancora di più verso il camino.
«Mi è parsa subito una cosa notevole, non riuscivo a capire. In primo luogo, mi sembrava davvero straordinario che un’anziana signorina si rivolgesse a un’altra anziana signorina chiamandola “Bill”. Come ho detto, forse la mia esperienza è limitata; forse nei circoli riservati alle zitelle ci sono usanze più strambe di quanto pensassi. Eppure mi sembrava strano, e potrei giurare – ma la prego di non fraintendere le mie parole – che in quel momento ero sicuro che quella frase, “Ora tocca a te, Bill”, non fosse stata affatto pronunciata col tono aristocratico che, come ho già detto, era caratteristico del modo di parlare di Miss Mowbray. Infatti, le parole “Ora tocca a te, Bill” sarebbero apparse inopportune, se pronunciate con quel tono.
«Quella frase, quindi, mi aveva molto colpito. Ma la mia sorpresa è stata ancora maggiore quando, guardandomi attorno sconcertato, col cappello e l’ombrello in mano, ho visto l’esile signora con lo scialle appoggiata alla porta da cui sarei dovuto uscire. Stava continuando a cucire, così ho immaginato che quella  posizione  eretta contro  la porta fosse solo  una
stravaganza da zitelle, e che la signorina avesse dimenticato la mia intenzione di andarmene.
«Le ho detto, in tono gioviale: “Mi dispiace molto disturbarla, Miss James, ma devo proprio andare. Devo… ” e lì mi sono interrotto, perché ciò che lei mi ha detto in risposta, seppur stranamente breve e pronunciato con noncuranza, era tale da rendere, credo, la mia interruzione più che scusabile. Ho annotato anche queste parole. Non avevo la più pallida idea di cosa significassero, così mi sono limitato a trascriverle. Mi ha detto…»
Mr Shorter sbirciò il foglietto.
«Mi ha detto: “Chiudi il becco, ciccione”, aggiungendo qualcosa che suonava come “fregato” o forse “beccato”. È stata l’ultima goccia, o ero impazzito io o era impazzito l’universo intero. La mia stimata amica e aiutante, Miss Brett, appoggiata alla mensola del caminetto, ha detto: “Ficca questo vecchio ciccione in un sacco, Sam, e legalo bene prima di spifferare tutto. Un giorno o l’altro sarete voi a farvi beccare, a forza di combinare ‘ste mascherate”.
«La testa mi girava. Forse, come avevo immaginato un attimo prima, queste signore nubili facevano davvero parte  di una pericolosa cricca segreta? Mi sono tornati alla mente vaghi ricordi della mia formazione classica (all’epoca ero un vero studioso, adesso, ahimè, sono un po’ arrugginito), la storia misteriosa della Bona Dea, quell’oscura loggia femminile. Ho pensato perfino ai sabba delle streghe… stordito e confuso com’ero, stavo addirittura cercando di ricordarmi un verso sulle ninfe di Diana, quando Miss Mowbray mi prese alle spalle. Appena ho sentito il suo braccio su di me, mi sono accorto subito che non era il braccio di una donna.
«Miss Brett – o colui che chiamavo Miss Brett – adesso era davanti a me con una grossa rivoltella in mano e un ghigno impressionante dipinto sul volto. Miss James era sempre ap- poggiata contro la porta, ma aveva cambiato completamente atteggiamento, adottandone uno così poco femminile da lasciare di stucco. Batteva i tacchi sul pavimento, teneva le mani in tasca e la cuffia di lato. Era un uomo. Voglio dire, era una don… cioè, invece di essere una donna era… insomma, era un uomo».
Mr Shorter si agitò terribilmente, dimenandosi tutto mentre si sforzava di mettere ordine in quella confusione di generi, nonché di tenere a posto la sua mantellina scozzese. Riprese a parlare in tono ancora più concitato: «Quanto a Miss Mowbray, lei… lui mi stringeva come in una morsa… il suo braccio attorno al suo collo… ehm, il mio collo… non potevo gridare. Miss Brett – anzi Mr Brett o Mr qualcosa, ma non certo Miss Brett – teneva la pistola puntata contro di me. Le altre due signorine… ehm, gli altri due signori stavano armeggiando con un sacco in fondo alla stanza. Ormai era tutto chiaro: erano criminali travestiti da donna, erano lì per rapirmi! Ra- pire il vicario di Chuntsey, nell’Essex. Ma per quale motivo? Per fare i sovversivi?
«A un certo punto il bruto appoggiato contro la porta ha urlato: “Datti una mossa, Harry. Spiega al vecchio come funziona il gioco e tagliamo la corda”. “Maledizione!” ha esclamato Miss Brett – voglio dire l’uomo con la rivoltella – “per- ché dobbiamo spiegargli il gioco?”.
«“Stammi a sentire” ha detto l’uomo sulla porta, che chiamavano Bill. “Un uomo che sa quello che fa è dieci volte meglio di uno che non lo sa, anche se è un vecchio parroco scemo”.
«“Bill ha ragione” ha detto con voce roca l’uomo che mi teneva stretto (e che era stato Miss Mowbray). “Tira fuori la foto, Harry”.
«L’uomo con la rivoltella è andato verso le altre due donne – voglio dire uomini – che stavano rovistando in una valigia. Ha chiesto qualcosa e loro gliel’hanno dato, poi è tornato verso di me e me l’ha fatto vedere. Rispetto alla sorpresa che ho provato in quel momento, tutte le sorprese precedenti di questa orribile giornata sono svanite di colpo.
«Era un mio ritratto. Il fatto che una simile fotografia fosse nelle mani di furfanti come quelli poteva sì sorprendere, ma non più di tanto. Quello che ho provato in quel momento non era semplice sorpresa. La somiglianza era estremamente credibile, ottenute grazie a tutti gli accessori dei moderni studi fotografici. Nella foto appoggiavo la testa al palmo della mano e dietro di me c’era un fondale boschivo dipinto. Palesemente non si trattava di un’istantanea, anzi era chiaro che io avessi posato. Ma la verità è che io non ho mai posato per una foto simile. È una fotografia che non ho mai fatto.
«Continuavo a fissarla. Mi sembrava alquanto ritoccata, e inoltre era incorniciata sotto vetro, e non si riusciva a distinguere bene i particolari. Ma non c’erano dubbi, quelli erano la mia faccia, i miei occhi, il mio naso, la mia bocca, la mia testa nel palmo della mano, ero io in posa nello studio di un fotografo. Ma io non ho mai posato per nessun fotografo.
«“Visto che bel miracolo?” ha detto l’uomo con la rivoltella, nel suo tono spiritoso così inopportuno. “Caro pastore, preparati a incontrare il Creatore”. E così dicendo estrasse la fotografia dalla cornice. Una volta tolto il vetro, ho visto che una parte dell’immagine era stata dipinta col bianco di zinco, per la precisione un paio di favoriti bianchi e il collarino da prete. Sotto c’era il ritratto di una vecchia signora con un semplice abito nero, che teneva la testa appoggiata alla mano, sullo sfondo boschivo. Io e l’anziana signora ci assomigliavamo come due gocce d’acqua. Era bastato aggiungere i favoriti e il collarino per farla diventare come me, tale e quale.
«“Divertente, vero?” ha detto l’uomo chiamato Harry, men- tre rimetteva a posto il vetro. “Una somiglianza davvero notevole, reverendo. Sta bene alla signora, sta bene a te. E devo dire che sta bene anche a noi, perché ci farà guadagnare un bel gruzzolo. Conosci il colonnello Hawker, no? Quello che è venuto a vivere da queste parti”. Io ho annuito.
«“Bene”, ha detto l’uomo chiamato Harry, indicando la foto, “quella è sua madre. Chi è che gli cambiava il pannolino? Proprio lei”, e puntava col dito quella figura che mi assomigliava perfettamente.
«“Di’ al vecchio che cosa deve fare e finiscila”, ha sbottato Bill dall’altro lato della stanza. “Tranquillo, reverendo Shorter, non ti faremo del male. Anzi, magari ti daremo anche qualco- sina per il disturbo, se vuoi. Quanto ai vestiti della vecchietta, non ti preoccupare, ti staranno benissimo”.
«“Proprio non ci sai fare con le spiegazioni, Bill” ha detto l’uomo alle mie spalle. “Mr Shorter, stia a sentire. Stasera dobbiamo andare da questo tizio, il colonnello Hawker. Forse quando ci vede ci abbraccerà tutti e ci offrirà il migliore champagne. O forse no. Forse sarà morto stecchito quando noi ce ne andremo. O forse no. Ma dobbiamo andare da lui a tutti i costi. Ora, come saprà anche lei, è un tipo che si barrica in casa e non apre mai la porta a nessuno; forse lei non sa perché, ma noi sì. L’unica che può entrare da lui è sua madre. E, dannazione, è una coincidenza davvero incredibile” disse, accentando l’ultima sillaba, “proprio una fortuna sfacciata che lei sia sua madre!”.
«“Quando ho visto quella foto” ha detto Bill, scuotendo la testa con l’aria di rimuginare qualcosa “quando l’ho vista ho detto subito: ‘Il vecchio Shorter’. Proprio così, ho detto: ‘Il vec- chio Shorter!’”.
«“Che cosa intendete fare, pazzi farabutti? – ansimavo. – Che cosa dovrei fare io?”.
«“È presto detto, sua vecchiezza”, ha detto l’uomo con la rivoltella, con aria da buontempone, “si deve mettere quei vestiti” e ha indicato una cuffia da donna e un mucchietto di abiti femminili buttati in un angolo.
«Non mi dilungherò, Mr Swinburne, sui dettagli di ciò che è seguito. Non avevo scelta. Non potevo lottare contro cinque uomini, per non parlare della rivoltella. Nel giro di cinque minuti, signore, il vicario di Chuntsey è stato travestito da vecchietta… o da madre di qualcun altro, se preferisce… ed è stato trascinato fuori da quella casa per commettere un crimine.
«Era già tardo pomeriggio, e la notte invernale stava scendendo rapida. Lungo una strada buia, nel vento che fischiava, ci siamo avviati verso la dimora solitaria del colonnello Hawker; eravamo forse il corteo più strampalato che abbia mai percorso quella o qualsiasi altra strada. A un qualunque osservatore esterno saremmo sembrate sei rispettabili e modeste vecchiette, coi nostri abiti scuri e le cuffie un po’ antiquate; in realtà eravamo cinque criminali incalliti e un povero reverendo.
«La farò breve. In testa avevo un turbinio di pensieri, mentre camminavo cercando un modo per scappare. Mettersi a gridare, dato che eravamo così lontani dalle case, sarebbe stato un atto suicida, perché quelle canaglie avrebbero potuto accoltellarmi o imbavagliarmi e gettarmi in un fosso. D’altra parte, tentare di fermare un estraneo e spiegargli la situazione era altrettanto impossibile, vista la follia della situazione stessa. E poi, ben prima che io fossi riuscito a convincere un postino o carrettiere di passaggio con la mia assurda storia, i miei compagni se la sarebbero certamente svignata, con ogni probabilità tirandosi dietro anche me, come una loro amica che aveva la sventura di essere pazza o di aver bevuto un bicchierino di troppo. Alla fine, però, ho avuto l’ispirazione; anche se era un pensiero terribile. Eravamo dunque a questo punto? Il vicario di Chuntsey doveva fingersi pazzo o ubriaco? Ebbene sì, era l’unica possibilità.
«Continuavo a camminare insieme agli altri lungo la strada deserta, cercando, per quanto potevo, di imitare e tenere il loro passo, rapido eppure simile a quello delle vecchiette, quando in lontananza ho visto un lampione e un poliziotto che vi stazionava sotto. Ormai avevo deciso. Ci avvicinavamo svelti e silenziosi. Ma non appena abbiamo raggiunto il poliziotto, io mi sono lanciato contro la cancellata urlando: “Urrà! Urrà! Viva la Bretagna! Tagliati i capelli! Oplà! Bum!”. Era una situazione a dir poco inedita per un uomo come me.
«L’agente ha puntato  subito  la sua lanterna verso di me,  o meglio verso l’arruffata e allegra vecchietta che fingevo di essere. “Ma insomma, nonnina!”, ha esordito, burbero.
«“Non aprire bocca o ti rovino” mi sibilava all’orecchio la voce roca di Sam. “Vedi di piantarla o ti faccio a fettine”. Era spaventoso sentire quelle parole provenire da vecchie e distinte zitelle, tutte imbacuccate.
«Ma io continuavo a gridare e a strepitare, ormai non potevo più tirarmi indietro. Cantavo a squarciagola certi volgari ritornelli che, mio malgrado, avevo sentito intonare dai giovani ai concerti del villaggio; barcollavo avanti e indietro come un birillo.
«“Se non riuscite a far stare zitta la vostra amica, signorine” ha detto il poliziotto “dovrò portarla via io. È ubriaca e molesta più che a sufficienza”.
«Allora ho raddoppiato i miei sforzi. Non ero certo preparato ad affrontare una cosa simile, ma penso di aver superato me stesso. Parole che non conoscevo o che non avevo mai sentito uscivano a valanga dalla mia bocca e io non facevo niente per frenarle.
«“Dopo facciamo i conti” mi sussurrava Bill “e vedrai che urlerai ancora più forte; strillerai ancora di più quando ti bruceremo i piedi”.
«Terrorizzato com’ero, cantavo a squarciagola allegri stornelli. Neanche nei peggiori incubi può esistere qualcosa di così orribile e raccapricciante come le facce di quei cinque uomini che spuntavano da sotto le cuffie; autentici demoni nei panni di amabili vecchiette di campagna. Non penso che all’inferno possa esistere qualcosa di più sconvolgente.
«Per un istante tremendo pensai che le affannose premure dei miei compagni e la rispettabilità dei nostri abiti avrebbero convinto il poliziotto a lasciarci passare. Ma l’agente esitava, per quanto possa esitare un agente di polizia. Io continuavo a barcollare, e a un tratto sono finito con la testa contro il suo petto, gridando – se non ricordo male: “Oh accidenti a te, Bill”. E in quel momento mi sono ricordato di essere il vicario di Chuntsey, nell’Essex.
«Quel gesto disperato è stato la mia salvezza. Il poliziotto mi teneva stretto per la collottola. “Tu adesso vieni con me”, ha detto, ma Bill si è fatto avanti con la sua perfetta imitazione della vocina da zitella.
«“Oh, sia gentile, agente, non si disturbi per la nostra po- vera amica. Adesso la portiamo a casa. Forse a volte beve un bicchierino di troppo, è vero, ma è una signora perbene… solo un po’ eccentrica”.
«“Ma mi ha colpito allo stomaco” ha detto l’agente. “È una delle sue stravaganze” ha replicato Sam, candidamente.
«“La prego, lasci che la portiamo a casa” ripeteva Bill, immedesimatosi di nuovo nel ruolo di Miss James.
«“Ha bisogno di qualcuno che la aiuti”. “Sicuro. – fa il poliziotto. – Me ne occuperò io”.
«“No, no” ha esclamato Bill ansioso, “ha bisogno delle sue amiche. Le serve una particolare medicina che abbiamo noi”.
«“È vero” si è affrettata a ribadire Miss Mowbray, “nessun’altra medicina le fa effetto, signor agente. Ha un disturbo raro”.
«“Io sto benissimo. Oppalè, oppalà!” ha replicato, con sua eterna vergogna, il vicario di Chuntsey.
«“Care signore, statemi a sentire” ha detto il poliziotto in tono severo. “Non mi piacciono le stravaganze della vostra amica, non mi piacciono le sue canzoni e nemmeno che mi si colpisca allo stomaco. E adesso che ci penso, non mi piacciono neanche le vostre facce, ne ho vista di gente conciata come voi che poi ne ha combinate di tutti i colori. Chi siete?”.
«“Non abbiamo con noi i biglietti da visita” ha replicato Miss Mowbray con incredibile sussiego. “E non vedo nemmeno perché dovremmo farci insultare da un piedipiatti qualsiasi che si diverte a essere sgarbato con le signore, quando invece sarebbe pagato per proteggerle. Se vuole approfittare della debolezza della nostra povera amica, legalmente ha il diritto di portarla via. Ma se crede di avere il diritto di offenderci, mi lasci dire che ha sbagliato persone”.
«La precisione e la dignità di questo discorso hanno spiazzato il poliziotto. Approfittando dell’occasione, i miei persecutori hanno rivolto verso di me i loro volti allucinati e poi si sono dileguati nelle tenebre. Quando l’agente, insospettito, ha puntato la lanterna verso di loro, ho capito in un attimo dai loro sguardi che l’unica cosa da fare ormai era darsela a gambe.
«In quel momento mi sono lentamente afflosciato sul marciapiede, cercando di riflettere. Finché quei farabutti erano con me non avevo osato abbandonare il ruolo dell’ubriacona, perché se avessi cominciato a parlare in maniera assennata e a spiegare tutta la faccenda, l’agente avrebbe potuto credere semplicemente che mi fossi ripreso e mi avrebbe affidato alle cure dei miei amici. Ora invece, volendo, avrei potuto rivelargli la verità.
«Devo confessare, però, che non lo feci. Le vie del signore sono infinite, e può capitare che un reverendo della Chiesa d’Inghilterra, lungo le strade tortuose del suo dovere, debba far finta di essere una vecchietta ubriaca; ma simili circostanze sono sufficientemente rare da apparire a molti, suppongo, del tutto improbabili. Si immagini se fosse girata voce che io fingevo di essere ubriaco, e si immagini se la gente non avesse creduto che era tutta una finzione! 
«Così barcollando, con l’agente che mi teneva ben stretto e quasi mi sollevava da terra, mi sono trascinato in silenzio per un centinaio di iarde. Evidentemente, l’agente pensava che io fossi troppo assonnato e confuso per provare a scappare, e ha cominciato a mollare un po’ la presa. Abbiamo svoltato una, due, tre, quattro volte, e lui continuava a trascinarmi con sé, lento, claudicante e refrattario com’ero. Alla quarta svolta, di colpo mi sono liberato dalla sua mano e sono sfrecciato via di corsa come un cavallo imbizzarrito. Lui non se l’aspettava, era di corporatura pesante ed era buio pesto. Io correvo, correvo a più non posso, e dopo cinque minuti mi sono reso conto di averlo seminato. Mezz’ora dopo mi trovavo in mezzo ai campi, sotto le sacre stelle lucenti; mi sono strappato via quel maledetto scialle e la cuffia e li ho sepolti sotto terra».

L’anziano reverendo aveva terminato la sua storia e appoggiò la testa allo schienale della poltrona. Tanto il contenuto quanto il suo modo di raccontare mi avevano, a poco a poco, colpito favorevolmente. Sì, era un vecchietto goffo e pedante, ma prima di tutto era un uomo di campagna e una persona perbene, che aveva dimostrato coraggio e anche una certa agilità nel momento della disperazione. Aveva raccontato la sua storia indulgendo in tante piccole e inutili formalità, ma anche con realismo assai convincente.
«E adesso?» accennai.
«Adesso…» disse Mr Shorter sporgendosi di nuovo in avanti, con una specie di servile energia, «adesso, Mr Swinburne, che ne sarà di quel pover’uomo, Mr Hawker? Non so che cosa intendessero fare quegli uomini, né se facessero sul serio. Ma di sicuro quell’uomo è in pericolo. Io non posso andare alla polizia, per ragioni che lei comprenderà. E, tra l’altro, non mi crederanno mai. Cosa dobbiamo fare, secondo lei?».
Estrassi l’orologio dal taschino. Era già mezzanotte e mezza.
«Il mio amico Basil Grant – dissi – è la persona migliore a cui rivolgersi. Dovevamo andare insieme a una cena stasera; ma a quest’ora dovrebbe essere già tornato. Ha qualcosa in contrario a prendere una carrozza?».
«Nient’affatto» replicò il pastore, alzandosi con decisione e raccogliendo l’assurda mantellina scozzese.
Qualche scossone di vettura ed eccoci ai piedi di quelle lugubri pile di appartamenti popolari in cui abitava Basil Grant; una ripida scala di legno ci portò all’ingresso della sua soffitta. Appena messo piede sulle assi sconnesse dell’inter- no, il bagliore dello sparato di Basil e la lucentezza del suo cappotto di pelliccia abbandonata su una panca mi saltarono subito agli occhi. Stava bevendo un bicchiere di vino prima di andare a letto. Avevo ragione, era appena tornato dalla cena.
Ascoltò la storia del reverendo Ellis Shorter con la mode- stia e il rispetto che non aveva mai mancato di mostrare nei confronti di un altro essere umano. Terminato il racconto, disse semplicemente: «Lei conosce, per caso, un certo capitano Fraser?».
Rimasi completamente spiazzato di fronte a questa frase, che faceva inspiegabilmente riferimento all’illustre collezionista di scimpanzé col quale avrei dovuto cenare quella sera stessa, e lanciai a Grant un’occhiata severa. Così facendo, non potei guardare la reazione di Mr Shorter. Lo sentii solo rispondere di no, con tono alquanto infastidito.
Basil, invece, sembrava trovare interessante la risposta e il contegno del pastore, tanto che continuò a tenere i suoi grandi occhi azzurri fissi su di lui, sempre più sgranati per lo stupore.
«È davvero sicuro, Mr Shorter – ripeté – di non conoscere il capitano Fraser?».
«Certo» rispose il vicario, e io rimasi perplesso al vederlo di nuovo così intimidito, per non dire demoralizzato, com’era giunto a casa mia ore prima.
Basil scattò in piedi.
«Ma allora mi sembra chiaro – disse – che lei è ancora in alto mare, Mr Shorter. La prima cosa da fare è andare tutti insieme dal capitano Fraser».
«E… quando?» balbettò il pastore.
«Adesso» rispose Basil, afferrando il cappotto di pelliccia. L’anziano reverendo balzò in piedi tutto tremante.
«Non credo proprio che sia necessario» disse.
Basil lasciò il cappotto, lo lanciò nuovamente sulla panca e si mise le mani in tasca. 
«Oh» disse con una certa enfasi. «Oh, lei non crede che sia necessario… in tal caso…» e aggiunse con grande chiarezza e decisione: «In tal caso, Mr Ellis Shorter, tutto quello che posso dire è che vorrei vederla senza i favoriti».
All’udire queste parole anch’io balzai in piedi, temendo che fosse giunto il momento del collasso finale. Per quanto fosse meravigliosa e avvincente la vita a stretto contatto con una mente come quella di Basil, avevo sempre avuto il sentore che fosse sempre sull’orlo della follia. La sua vita era sempre accompagnata da quella visione capace di penetrare l’essenza delle cose e, alla fin fine, di far perdere la ragione agli uomini. E io presagivo lo scoppio di questa sua pazzia come si presagisce la morte di un amico malato di cuore. Può accadere dovunque, in un campo, in una carrozza, di fronte a un tramonto, o fumando una sigaretta. Era accaduto ora. Proprio al momento di esprimere un giudizio che poteva salvare un’altra creatura, Basil Grant era definitivamente impazzito.
«I favoriti!», esclamò, facendosi avanti con occhi fiammeggianti. «Mi dia i suoi favoriti. E anche la calvizie».
L’anziano reverendo, naturalmente, indietreggiò di qualche passo. Io mi frapposi tra i due.
«Si sieda, Basil – lo implorai –, si sente un po’ frastornato.
Finisca di bere il suo vino».
«Favoriti!» ripeté con tono sempre più severo «favoriti!».
E così dicendo fece uno scatto verso l’anziano signore,  che tentò di sfuggire verso la porta ma venne fermato. Ed ecco che, prima che potessi rendermene conto, nella stanza silenziosa si scatenò un pandemonio. Le sedie volavano e si schiantavano sul pavimento, i tavoli venivano ribaltati con fragore di tuono, i paraventi furono distrutti, le stoviglie fatte a pezzi, e in tutto ciò Basil Grant continuava a correre dietro al reverendo Shorter, mugghiando.
In quel momento iniziai a percepire qualcosa di nuovo, che aggiunse un ultimo tocco balordo al mio sbigottimento: il reverendo Ellis Shorter, da Chuntsey, nell’Essex, non si stava affatto comportando come in precedenza, o come, considerata la sua età e la sua posizione, mi sarei aspettato che si comportasse. La sua agilità nel saltare, nello schivare i colpi e nel lottare sarebbe stata notevole in un ragazzo di diciassette anni; in quel barcollante vecchio pastore aveva qualcosa di farsesco o di favoloso. Inoltre, non sembrava così allibito come pensavo. Nei suoi occhi c’era quasi un lampo di divertimento, così come in quelli di Basil. Anzi, bisogna dire la verità, per quanto incomprensibile: stavano entrambi ridendo.
Alla fine, Shorter fu messo all’angolo.
«Andiamo, Mr Grant – ansimava –, lei non mi può fare niente. È tutto perfettamente legale. E non fa del male a nessuno. È solo una messinscena, un’opera della nostra complessa società».
«Io non la biasimo, vecchio mio» disse Basil con voce tranquilla. «Ma voglio i suoi favoriti. E la sua calvizie. Sono del capitano Fraser?».
«Che diavolo significa tutto questo?!» esclamai, quasi urlando. «In che razza di incubo siamo finiti? Perché mai la calvizie di Mr Shorter dovrebbe essere del capitano Fraser? Com’è pos- sibile? Che diavolo c’entra il capitano Fraser con questa storia? Qual è il problema? Ha cenato con lui, Basil».
«No – disse Grant – non è così».
«Non è andato alla cena da Mrs Thornton?» chiesi, sgranando gli occhi.
«Be’» rispose Basil con un lento e strano sorriso «il fatto è che sono stato trattenuto da un ospite. Si trova, in camera mia, in realtà».
«In camera tua?» ripetei; ma ormai la mia immaginazione aveva raggiunto il punto in cui, se avesse detto nella carbonaia o nella tasca del panciotto, sarebbe stato lo stesso.
Grant si diresse verso la porta della camera, la spalancò ed entrò. Poco dopo ne uscì di nuovo, insieme all’ultimo dei prodigi in carne e ossa di quell’assurda serata: con un’aria come se volesse scusarsi, spingeva davanti a sé, tenendolo per la collottola, un vecchio reverendo zoppicante, calvo, coi favoriti bianchi e una mantellina scozzese.
«Sedetevi, signori» disse Grant, battendo le mani con vigore. «Sedetevi tutti e prendete un bicchiere di vino. Come ha detto lei, questa cosa non fa del male a nessuno, e se solo il capitano Fraser mi avesse accennato qualcosa, forse gli avrei impedito di buttare via una discreta somma. Non che vi sarebbe dispiaciuto, dico bene?».
I due pastori gemelli, intenti a sorseggiare il loro Borgogna con la stessa smorfia compiaciuta, scoppiarono a ridere, e uno di loro, come se niente fosse, si staccò i favoriti dal viso per posarli sul tavolo.
«Basil – dissi – se mi vuole bene mi salvi, che cosa significa tutto questo?».
Lui rise di nuovo.
«È solo l’ultima trovata da aggiungere alla sua collezione di mestieri stravaganti, Cherubino. Questi due signori, alla cui salute ho ora il piacere di brindare, sono due “trattenitori di professione”».
«E che diavolo vuol dire?» chiesi.
«È davvero molto semplice, Mr Swinburne» cominciò colui che era stato il reverendo Ellis Shorter di Chuntsey, nell’Essex; e fu per me uno shock indescrivibile sentire come da quella figura solenne e ormai familiare non giungesse più la voce altrettanto solenne e familiare, ma il tono vivace e un po’ brusco di un giovane uomo di città. «Davvero, non è niente di speciale. Noi siamo pagati dai nostri clienti per trattenere in conversazione, con un innocuo pretesto qualsiasi, le persone che vogliono tenere fuori dai piedi per qualche ora. E il capitano Fraser…» e qui esitò, sorridendo.
Anche Basil sorrise. Poi intervenne: «Il fatto è che il capitano Fraser, che è uno dei miei migliori amici, ci voleva entrambi fuori dai piedi. Parte stasera per l’Africa Orientale, e la signora con cui dovevamo cenare è… ehm, colei che si potrebbe definire “l’amore della sua vita”. Voleva passare quel paio d’ore solo con lei, e così ha assoldato questi due reverendi per trattenerci a casa, in modo da avere campo libero».
«E ovviamente» disse l’ex Mr Shorter con tono di scusa nei miei confronti «dovendo trattenere un gentiluomo dall’andare a cena da una signora, dovevo inventarmi qualcosa di misterioso e intrigante, qualcosa di serio, che non fosse per nulla banale».
«Oh – dissi – se è così la assolvo dal peccato di banalità».
«Grazie, signore» disse l’uomo rispettosamente «le sarò sempre grato per ogni raccomandazione».
Intanto l’altro si levò svogliatamente la sua calvizie artificiale, rivelando una capigliatura rossastra, e attaccò a parlare con aria sognante, forse ispirato dal Borgogna di Basil.
«È incredibile quanto siamo richiesti, signori. Il nostro ufficio è pieno di lavoro dal mattino alla sera. Non ho dubbi che ci abbiate già incontrati in precedenza. Badate bene, quando uno scapolo si dilunga con voi raccontando noiose storie di caccia mentre state fremendo per conoscere una certa persona, state certi che viene dal nostro ufficio. Quando si presenta da voi una signora pia e attacca a parlare della parrocchia, proprio mentre dovete andare dai Robinson, potete stare altrettanto certi che c’è il nostro zampino. Oppure quello dei Robinson».
«Solo una cosa non mi è chiara – dissi. – Come mai siete tutti e due reverendi?».
Un’ombra passò sulla fronte dell’improvvisato vicario di Chuntsey, nell’Essex.
«Forse c’è stato un errore – disse – ma non è colpa nostra. È stata la munificenza del capitano Fraser. Ha preteso che usassimo tutti i nostri mezzi e le nostre doti, pagando la tariffa più alta, per trattenere voi due, gentili signori. Ora, la tariffa più alta della nostra agenzia è quella riservata a chi impersona reverendi e vicari, essendo i personaggi più rispettabili e più impegnativi. Ci pagano cinque ghinee a visita. La buona sorte ci aiutato a portare a termine il nostro lavoro, con grande soddisfazione dell’agenzia; e d’ora in poi saremo vicari per sempre. Prima siamo stati colonnelli per due anni, che è il secondo ruolo meglio pagato: costa quattro ghinee».

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