Il ballo, di Pablo Simonetti

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«La prima volta che ho letto un suo racconto l’ho fatto per curiosità, e non ho potuto abbandonarlo fino alla fine. La tensione ti cattura in dall’inizio. Era da tempo che non leggevo racconti così ben narrati da uno scrittore cileno.» 

Roberto Bolaño


Il primo Marzo Lindau porta in libreria la raccolta Vite vulnerabili finora inedita in Italia dello scrittore Pablo Simonetti, uno degli scrittori cileni più autorevoli contemporanei. La traduzione è a cura di Francesco Verde.

Cattedrale ve ne da un'anteprima con uno dei racconti contenuti nella raccolta.

 

Il ballo


Era la vigilia di Capodanno. Io e Mariana eravamo stati invitati da alcuni amici a una festa nella loro casa al mare. Salutavamo Miguel, il nostro anfitrione, quando mi giunse alle orecchie una voce effeminata: «Miguelito, porto il pollo in tavola?». La voce sembrava mixata al sintetizzatore. Miguel non mostrò alcun fastidio per l’interruzione, né per il vezzeggiativo e lo sgradevole timbro di voce. Si fece di lato, e dietro la sua figura di pretore romano comparve un ometto alto quanto me, un metro e settanta o giù di lì, ma della metà del mio peso. Indossava una maglietta bianca, dalle cui maniche spuntavano due lunghe braccia rachitiche, e aveva un grembiule stretto in vita. «Cucho… Questi sono i nostri amici Esteban e Mariana». La voce professorale del padrone di casa contrastava tanto con quella del presunto domestico, che risultò non meno fastidiosa. L’informalità di quel loro scambio di battute mi mise a disagio, anche un po’ in imbarazzo, sebbene non ne capissi il perché. Mariana salutò con un cenno del capo. Io rimasi immobile. «Ciaooo…» salutò l’uomo in tono mellifluo, con lo sguardo rivolto al pavimento di cotto incerato ed entrambe le mani poggiate sul fianco destro. Aveva la pelle del viso molto avvizzita, a causa, suppongo, del sole e dell’aria salmastra; profonde rughe segnavano il contorno dei suoi occhi, neri come voragini. Il naso, affilato e aquilino, sembrava sul punto di gocciolare; la testa, calva e abbronzata, era costellata di lentiggini. «Allora, Miguel? Porto il pollo o no?» protestò l’ometto, torcendosi tutto come un bimbo capriccioso. La domanda suonò alquanto autoritaria, e posta con un tono di voce che mi parve eccessivamente alto per la circostanza: quasi gridando. Fu per questo, forse, che notai l’apparecchio acustico al suo orecchio sinistro. Senza rispondergli, Miguel si fece più vicino a noi e sussurrò: «Lavora per la mia famiglia da più di trent’anni». Da un gruppo di invitati uscì Inés, la padrona di casa. Onorava il suo innato buongusto con un sari viola e una coroncina di lustrini. Aveva gli splendidi capelli neri raccolti in una coda. Ci accolse con un sorriso smagliante e, prendendoci a braccetto, ci accompagnò in terrazza. La casa, illuminata da candelabri dal disegno orientale, profumava d’incenso; dal pergolato della terrazza pendevano strisce di stoffa rossa. Dopo averci lasciati con i nostri drink fra le mani, Inés chiamò il domestico con un gesto aggraziato. L’ometto la seguì tra la gente, camminando a passi corti e affrettati, come un fedele servitore cinese. All’esterno, il mormorio del mare fra gli scogli, ai piedi della casa, sovrastava il vocio degli invitati. Ci si fece incontro Tomasito, Tomás Urmeneta, nostro amico e membro di spicco della comunità balneare. Un corpulento, barbuto viveur. «Come vi sembra Cucho?» ci chiese a bruciapelo, con uno sguardo pieno di malizia. Senza attendere risposta, continuò: «È davvero un personaggio: nato a Puerto Saavedra e scampato al maremoto. Per uno come lui, finire a fare il custode di una casa vicina al mare è quasi uno scherzo del destino, non trovate?». Passammo a parlare d’altro, non ricordo di cosa. La mia mente rimaneva concentrata sulla strana figura del custode. Fu servita la cena, preparata proprio da Cucho, così mi dissero. Era un pollo tandoori, accompagnato con riso e frutta. Non ho una particolare predilezione per i piatti esotici, ma devo ammettere che quello era buonissimo. Il domestico girava in silenzio per la casa, pronto a soddisfare ogni necessità degli invitati, con insistenza quasi aggressiva. Non c’era piatto o bicchiere rimasto vuoto che sfuggisse al suo zelo. Constatarne l’abilità non mi rendeva meno incomprensibile, però, il fatto che un simile personaggio potesse lavorare in casa dei nostri amici. Più tardi, mentre fumavamo una sigaretta, Tomasito mi disse: «Visto come cucina lo stronzetto? È un fenomeno». Parlava con accento argentino: gli piaceva presentarsi come un uomo di mondo. «E sapessi la vita che fa. A volte me ne parla al telefono». Fece una pausa, tirò una boccata di fumo e si guardò intorno, per accertarsi che nessuno stesse ascoltando. A voce bassa, stavolta senza accento, aggiunse: «C’è un tipo che gli piace, ma quello lo tratta male. Non sai come ci soffre. Quando s’incontrano in paese, nemmeno lo saluta. Tira dritto, si ubriaca e poi se ne torna a casa. Il poverino è innamorato, ma il tipo non ne vuole sapere». Tomasito adorava raccontare storielle scabrose, ma quella mi turbò più di qualsiasi altra avessi mai ascoltata da lui. «Potresti scriverci su un articolo» commentò in tono ironico, quasi di sfida. «Sì, forse potrei» dissi. Sembrava compiaciuto del mio turbamento. Per un po’ non riuscii a pensare ad altro che al custode. Lo immaginai in un giorno d’inverno, chiuso nel suo capanno maleodorante, con i cani che avevo visto gironzolare intorno alla nostra auto, all’arrivo; seduto accanto alla finestra, aspettando con ansia e timore la visita del tipo. Provai a scacciare l’immagine dalla mia testa, senza riuscirci. Una musica si diffuse in tutta la casa, con ritmi prima orientaleggianti, poi decisamente più occidentali. La reazione dei presenti non si lasciò attendere. Subito, una ventina di invitati presero a ballare in terrazza. Era quasi mezzanotte. Io e Mariana scambiavamo cenni d’intesa con Miguel e Inés, che ballavano accanto a noi. Ebbi la sensazione di far parte di un gruppo di formiche eccitate attorno a una goccia di miele. Un’occhiata maliziosa di Tomasito, sommata a un certo tramestio alle mie spalle, mi fece capire che stava accadendo qualcosa di strano. Mi voltai e mi trovai davanti il custode. Ballava ancheggiando, a non più di un metro di distanza. Teneva lo sguardo basso, ma capii che il motivo di quel dimenarsi ero io. Mi girai verso Mariana e vidi sul suo volto un sorriso congelato, quasi una smorfia. Con gli occhi, cercai subito Miguel. Il mio sconcerto era palese e in qualche modo chiedevo aiuto. Miguel mi lanciò uno sguardo solidale. «Quando beve, gli viene da ballare» mi disse, divertito. «Non preoccuparti, è inoffensivo». Pensai che quello doveva essere lo stesso tono di voce che usava per tranquillizzare i suoi pazienti. «Evidentemente gli piaci» azzardò Inés, ridendo e facendo ondeggiare il suo sari. «Balla un po’ con lui. Lo renderai felice». «Sarà meglio che balli con me, invece» intervenne Mariana, afferrandomi per i fianchi. Continuai a ballare con lei, sebbene non riuscissi a non tener conto della presenza del domestico. Mariana fingeva di non accorgersene. Tutti i miei sensi erano concentrati su quanto avveniva un metro dietro di me. Il ballo del domestico aveva evidentemente catturato l’interesse degli invitati; e anch’io, di riflesso, avevo stuzzicato la loro curiosità. All’inizio pensai di protestare per la spiacevole situazione, ma la disinvolta cordialità dei padroni di casa mi frenò. Non riuscivo a spiegarmi perché Miguel non ordinasse al domestico di smettere di ballare e di tornarsene in cucina. In quel momento, una mano mi sfiorò la schiena. Mi girai di scatto, deciso ad affrontare il mio molestatore. Ebbi l’impulso irrefrenabile di colpirlo. Tuttavia, qualcosa nei suoi movimenti mi fece supporre che mi avesse toccato senza volerlo, o così volli credere. Accanto a me, Miguel osservava la scena, ridendo di gusto e applaudendo alle piroette del domestico. Incrociai lo sguardo del custode: innocente, timido, ansioso, ma con una luce di speranza ravvivata dall’alcol. Il suo modo di muoversi e di gesticolare aveva qualcosa di infantile, come quello di un bambino che invita un altro bambino a partecipare a un gioco che ha appena inventato. D’improvviso non seppi più se ciò che sentivo era rabbia o compassione. Me ne stavo lì, quasi immobile, ma nel segreto del mio cuore ballavo con lui. Ricordo di avere contato a voce alta gli ultimi dieci secondi dell’anno vecchio. Abbracciai Mariana e poi Cucho. Dovevo essermi emozionato, poiché mi ci volle un momento per riprendere fiato e dirgli, accostando le labbra al suo apparecchio acustico: «Buon anno, Cucho».

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