La casa di Silvio D'Arzo

Questo articolo è comparso nella rubrica Il Racconto dei racconti, in collaborazione con Minima&Moralia

Silvio D'Arzo
Casa d'altri

di Rossella Milone

 

Certo, Eugenio Montale definì Casa d’altri un «racconto perfetto» in quanto perfettamente compiuto e, nello stesso tempo, da compiersi solo attraverso, e grazie a, la partecipazione del lettore. E scrisse sul Corriere che si trattava di un testo fatto di aria, trasparente e pieno di vapori. E poi sì, sappiamo che piacque moltissimo anche al più giovane scrittore Pier Vittorio Tondelli, che praticò un’attenta operazione di recupero dell’opera di D’Arzo e di altri autori «eterodossi della tradizione» per lo più gravitanti intorno all’aerea emiliana-romagnola. È poi stato definito uno dei racconti più belli del Novecento. E va bene, questo testo è stato più volte preso come esempio per raccontare in che modo funzionano in narrativa certi meccanismi:
D’Arzo crea per quasi tutto il tempo del racconto una serie di suggestioni, incastrandole le una sulle altre fino a ottenere un effetto di accumulo. Ci parla delle condizioni climatiche (quasi sempre piovose, uggiose, invernali). Ci mostra delle atmosfere, uno dei pregi più visibili e preziosi del testo, attraverso cui fa emergere con lentezza i personaggi – come ombre che si scollano da un nulla. Sono atmosfere concrete, fatte di aria acqua terra e fuoco; come Georges Simenon le costruisce prima lungo i margini, da un orizzonte che piano piano si avvicina – i monti lontani, i latrati ovattati dei cani, le torce dei contadini che tornano dai campi di torba – per poi arrivare al centro di una nebbia sottile o sull’uscio di una porta da cui si affacciano gli occhi delle capre, o in un cielo viola che piomba sul personaggio, nel punto esatto dove si svolge l’azione.
L’azione è un altro meccanismo messo più volte in rilievo in questo testo: anzi, la non-azione. Nessun racconto è stato utilizzato tanto come esempio di ellissi quanto questo. “Un’assurda storia da un soldo” che può essere riassunta così: un vecchio prete di montagna, rassegnato e ormai abituato alla ordinaria vita di un paese in cui non accade mai nulla, incontra Zelinda, una sessantenne che lava i panni al fiume, che, esausta della sua vita, vuole suicidarsi e, in quanto credente, chiede a lui il permesso per farlo. Il prete allibito non la comprende, non sa cosa fare e dire («Le parole mi fanno vergona, ecco il fatto»), e lei si ammazza.
In questa storia non esiste intreccio; per amore di Čechov, non esiste la famigerata trama; non ci sono ganci narrativi che possano portare il lettore a incuriosirsi di una vicenda avvincente. In questo racconto ciò che vive, palpitante nel fondo come un incendio, è il mistero. E il mistero – specie in un racconto – lo si ottiene togliendo quasi tutto, scippando i fatti salienti, nascondendo agli occhi del lettore ciò che c’era prima e attorno al fatto principale (in questo caso il suicidio).
Accumulando suggestioni, costruendo le atmosfere, sottraendo, rendendo ellittici i meccanismi che portano la storia al finale, D’Arzo crea quel misterioso lato oscuro che un racconto deve avere; l’altra parte del cuore, quella che pure batte ma rivolta alla schiena, al buio e in silenzio.
Questa certosina operazione di nascondimento, è un tratto caratteriale dell’autore stesso, che si deve essere impresso nello sguardo dello scrittore perché appartiene prima ancora all’uomo. Silvio D’Arzo, infatti, è uno pseudonimo di Ezio Camparoni: un uomo ossessionato dall’anonimato, tanto da scrivere in un carteggio a Emilio Vallecchi:  “figuratevi che nessuno – dico nessuno – sa ch’io scrivo: il mio nome è solo uno pseudonimo… nessuno sa il mio nome, nessuno…”.  Una volontà di sottrarre se stesso al mondo e agli occhi del mondo, tanto elusiva e intransigente che nella scrittura diventa metodo, stile e senso.
Incontrai questo racconto molto, molto tempo fa. Durante una lettura di gruppo in cui ognuno di noi si trovò in mano un centinaio di fogli fotocopiati e il nome di questo sconosciuto scritto a penna, in basso a destra. Qualcuno lo lesse ad alta voce, in un’aula distratta, rumorosa, con una serie di pensieri a portarmi lontano da lì. E io ricordo perfettamente di non averci capito nulla. Cioè, a fine lettura pensai: oddio, perché piace così tanto a tutti? Mi sono persa qualcosa.
A dirlo me ne vergogno un po’; però, in realtà, a ripensarci a distanza di anni, dopo averlo riletto, studiato e ristudiato, capisco perfettamente – ora – quel disorientamento dell’epoca.
Casa d’altri è un racconto che va letto da soli, in silenzio.
E non perché sia un racconto, come dicevamo, con un intreccio troppo difficile da seguire. E nemmeno perché possiede tutti quei bei meccanismi cari alla narrativa a cui abbiamo accennato.
Casa d’altri nasconde nel suo stomaco qualcosa che a me sta più a cuore, come lettrice e come narratrice. È qualcosa che ha a che fare con un’arte complicata e complessa, difficile da tradurre in scrittura, che appartiene a chi si avvicina alla letteratura più alta e ne conosce il segreto. È qualcosa che, oggi, mi pare di scorgere sempre meno, o, meglio, con minore attenzione, cura, dedizione e, soprattutto, capacità da parte di chi scrive.
È quella cosa che fa Alice quando attraversa lo specchio. La Alice di Attraverso lo specchio compie quel salto mortale che tutti gli scrittori fanno (o dovrebbero fare) quando si mettono a scrivere una storia. Immergersi in un mondo di ombre e demoni da cui uscire (se si riesce a uscire) non solo con la storia, ma anche con l’anima di quella storia.
All’inizio del racconto di Lewis Carroll, Alice è da un lato dello specchio: quello della vita reale, dove gioca col suo gatto. Mentre l’altra Alice, il suo riflesso, il suo doppio, il suo ‘Hyde’ è dall’altro lato, in un mondo altro e alternativo dove, forse, risiedono le storie.  Non è vero che Alice guarda i gatti, guarda gli specchi: da un lato la vita, dall’altro quello della vita inventata, quello della letteratura. Un lato guarda dentro e un lato guarda fuori.
Alice è una che non vuole distruggere gli specchi a favore di un lato o di un altro, allora che fa: ci passa attraverso. Si immerge nel mondo altro e invece di distruggere il suo doppio si unisce a lui. Crea un’Alice immaginata, irreale, fatta di invenzioni e di sogni, che vive in nessun posto se non nella fantasia. Quando la vera Alice ritorna nel lato della vita vera, porta con sé la storia che ha visto e vissuto dall’altra parte dello specchio, e la racconta al gatto.
Lo scrittore quando inventa una storia diventa Alice, e quando la scrive è il momento in cui passa attraverso lo specchio: la storia nasce da un doppio che s’immergere in un mondo non vero, che può interrompere il tempo e raccogliere infinite storie, riportarle a galla, e poi raccontarcele.
Scrivere una storia è l’incontro con un posto strano pieno di bagliori. In questo mondo si aggirano spettri, chimere, scheletri e fantasmi. È illuminato da luci e oscurato da ombre. Per andare lì, in quest’altro mondo, un narratore compie uno sforzo difficile, a volte doloroso, altre meno, ma sempre rischioso perché le storie nascono dal fondo limaccioso di quel mondo in cui tutto, ogni cosa, viene sepolta e poi ripescata. Lo scrittore che s’immerge in quel luogo, deve fare i conti con quel fondo torbido; deve fare i conti con tutti quegli spettri lì; parlarci, conoscerli, stringere con loro un rapporto, e poi riportarli su, in superficie dove vivono i vivi.
Come dice la Sibilla Cumana a Enea che le chiede come fare a intraprendere il suo viaggio,
…facile la discesa all’Averno: notte e giorno la porta del nero Dite sta aperta: ma riportare su il passo, uscire all’aria di sopra, questo è l’impegno, qui è la fatica. 
lo scrittore deve prendersi l’impegno di affrontare questo tipo di sforzo. Andare a fondo. Scavare.
Per scrivere una storia si deve riportare all’aria di sopra ciò che non esiste, ciò che è mortifero e pauroso anche solo perché ignoto, regalarlo ai vivi, farlo ri-vivere.
Solo affrontando questa discesa la storia riceverà un’anima e una forza emotiva tale da farla sopravvivere al tempo.
Ecco, Silvio D’Arzo passa attraverso lo specchio. Va a fondo. S’immerge nel fango. Scava.
Casa d’altri possiede la carica emotiva di chi ha conosciuto gli spettri e traduce quel rapporto sulla pagina. È questo ciò che amo di più di questo racconto – aldilà di tutti gli aspetti tecnici o dei motivi che spieghino la sua perfezione. Perché è un racconto che non ha paura di ferire, di colpire il lettore in faccia con uno strofinaccio bagnato, costringerlo a spostarsi di qualche metro dalla sua solita posizione confortevole e domandarsi: come mi sento adesso?
Sono pochi gli scrittori capaci di incanalare nelle proprie storie tale terremoto. D’Arzo possiede uno sguardo che sa coglierne le vibrazioni, accoglierne gli smottamentiper poi trasformarli in parole. Anche se era uno che non amava spostarsi dalla sua provincia, è un esploratore di antri umidi e scuri, in cui va a raccogliere le anime per raccontarle.
Oltre a questo suo sguardo particolarissimo, tale magia può avvenire soprattutto attraverso lo stile della scrittura. Suggestiva, piena di atmosfere, capace di controllare gli artifici narrativi – come abbiamo detto. Ma soprattutto è grazie a un particolare modo di combinare lirismo e prosa a uno sguardo visionario e sognante, che quel mondo misterioso può svelarsi lentamente agli occhi del lettore.
Le parole, rigorose e precise, vengono sfruttate per costruire immagini astratte e vaporose; frasi che in una sola riga evocano mondi realistici e nello stesso tempo mondi nascosti, come segreti da andare a svelare. È nel linguaggio che D’Arzo realizza il suo doppio. Un lirismo concreto – che si artiglia al reale rendendolo ancora più crudo e più credibile – che s’inabissa in un’atmosfera immaginifica, quasi fiabesca. È quel suo modo visionario di guardare agli oggetti, alla natura leopardiana, alle persone che gli permettono di avere sempre un occhio rivolto all’indietro, verso quel lato dello specchio dove sogno, finzione, allucinazione tratteggiano i tratti più onirici della sua narrazione. Oscillando tra questi due registri, D’Arzo costringe ogni lettore a mettersi da solo in una stanza, piegarsi sul libro e interrogarsi sulla sua privata umanità.

Mi guardai un po’ d’intorno. Stava per venire la morta stagione, gli sterpi secchi, le passere uccise dal freddo, la notte che arriva alle sei, i fossi ghiacciati, i vecchi che se ne muoiono in fila e la Melide li cuce dentro il lenzuolo e io li porto al cimitero di monte, e i bambini che per l’intera stagione se ne stanno dentro le stalle a scaldarsi col fiato dei muli… Un inverno di cinque o sei mesi.
E lei cosa avrebbe fatto, la vecchia?
Nelle ossa sentivo l’inverno vicino. Guardai un momento le nuvole che adesso erano più grandi di un prato, e poi mi avviai alla parrocchia. Le nuvole mi venivano dietro. Sempre dietro, come se qualcosa sapessero. Vengono delle idee, certe volte. Ma che altro potevo fare, mi dite?