Guy de Maupassant: un riferimento per la narrativa breve. Di Luca Ricci

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di Luca Ricci

Carote, navoni e cavoli

La scoperta di Maupassant è stata per me innanzitutto ortofrutticola. Quasi sedicenne, il primo racconto che mi capitò sottomano dello scrittore francese fu La nuit (Cauchemar), uno dei più suggestivi tra i suoi contes fantastiques. Su due piedi, con la voglia di avventura che è tipica dell’adolescenza (la cui domanda germinale si può facilmente riassumere in: e poi cosa succede?), si trattò di un mezzo fiasco. 

Mi sembrava che La nuit stentasse narrativamente, e che si trattasse al massimo di un bozzetto di vita parigina virato al nero. In effetti la mia sensibilità di ragazzo non era lontana dal vero. La nuit tratta di una sostituzione, la notte fisica viene a poco a poco fagocitata dalla notte psichica dell’io narrante, come su di una passerella in cui sfilino capi nero su nero. Nulla più. Che cosa c’era dunque di entusiasmante? Non certo il finale onirico, da cui il sottotitolo, né la trattazione del personaggio, un semplice flâneur come ne avevo già conosciuti, e di migliori, nelle pagine di Charles Baudelaire. Neanche la definizione di racconto fantastico, così come l’aveva postulata Todorov in un celebre saggio che conoscevo, mi pareva calzante per quell’esile raccontino. Non si trattava di una sospensione tra una spiegazione razionale o irrazionale degli eventi, tutto si riduceva a un memoir un tantino logorroico di un personaggio che aspirava così tanto alla pazzia da raggiungerla nel giro di qualche paginetta. Perfino la sviolinata iniziale sui pregi della notte, contrapposti ai valori conformisti delle ore diurne, mi suonò troppo telefonata, e tutto sommato fuori tempo massimo, per un lettore novecentesco quale ero io a sedici anni. Quindi? Maupassant venne salvato dalle carrette del mercato.

 

“Avanzavano lentamente, cariche di carote, di navoni e di cavoli. Davanti a ciascuna luce del marciapiede le carote s’illuminavano in rosso, i navoni s’illuminavano in bianco, i cavoli s’illuminavano in verde; e passavano una dietro l’altra, quelle carrette rosso  d’un rosso fuoco,
bianche d’un bianco argento, verdi d’un verde smeraldo.”

 

In questo brano c’è tutto Maupassant, o almeno quello che conta. Una sensuale e soprattutto sensoriale esplosione di colori, e la percezione netta del movimento: si ha proprio l’impressione di vederli sfilare, quei carretti della frutta. Accendersi in ragione di una notte che diviene incredibilmente buia, anti-naturalistica (con buona pace di Zola e delle serate di Médan).  Non c’è un briciolo di pensiero nel Maupassant che conta, ma solo una stupefacente vigoria artistica.

Ricordo di aver rinfacciato a Maupassant la mancanza di cultura. In qualche modo, non ero troppo dissimile a Edmond de Goncourt che nel suo Journal annotava con stizza impotente: “Maupassant non ha mai messo nei suoi libri una frase che possa essere citata”. Avevo l’età in cui si è attratti dal riferimento dotto, dal rimando intelligente, dai libri che richiamano, o vorrebbero richiamare, altri libri. Eppure non smettevo di leggere i racconti di Maupassant. Avevo trovato l’Autore, ma non sapevo ancora vedere la paradossale qualità della sua scrittura.

Alberto Savinio lo scrisse senza mezzi termini: “arrivare: scopo dei racconti di Maupassant”. Unico esempio d’opera in cui la frettolosità è un elemento decisivo nella composizione, Maupassant scrisse circa trecento racconti in poco più di dieci anni- dall’esordio con Boule de suif nel 1880 fino al 1891-92. Incalzato dal deterioramento inesorabile dei nervi, di cui era perfettamente consapevole, Maupassant non cincischia, non allunga il brodo, non si perde in giri di parole. Maupassat tira via, ed è questo che fa della sua scrittura uno stile. Ad ogni riga sembra ribadire un’evidenza che è lo spauracchio di molti scrittori: si è capaci o non si è capaci di scrivere. E le sue pagine risultano vive proprio perché non godono della revisione accanita, oggigiorno si direbbe dell’editing a oltranza, della pippa da scuola di scrittura-creativa. L’imperfezione di molti suoi passaggi convince più di tanta prosa dei nostri giorni, ordinata e, mediocramente, anestetizzata.

Quando diventai grande abbastanza per gettare uno sguardo retrospettivo sulla mia adolescenza, mi accorsi che non esisteva autore che avessi (ri)letto più di Maupassant. Il grezzo Maupassant. Maupassant il sempliciotto. Cercai di studiarlo (avevo capito che volevo diventare uno scrittore), sbagliando ancora. In Maupassant non c’è niente oltre la pagina: nessun trucco. Al di là della guerra, delle differenze di classe, della Storia, che pure ha saputo rendere in poche pennellate, Maupassant riesce sempre a scollinare. Dall’altra parte c’è l’uomo nudo. L’esatto contrario della letteratura-documento che veniva propugnata dalla sua epoca. E più che fantastici, i suoi sono racconti horror. Orrore verso se stessi, chiaro.