Il dolce veleno della cattiva Signorina. Uno sguardo su Amalia Guglielminetti

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Tipi bizzarri, pubblicato per la prima volta nel 1931 da Arnoldo Mondadori, fa parte di quel genere di produzione narrativa d’intrattenimento, in cui le scrittrici italiane trovarono sempre più spazio per far sentire la propria voce riguardo la questione femminile e il ruolo della donna nella società. Ma ciò che rende ancora oggi questa raccolta veramente rivoluzionaria e di forte attualità è la volontà dell’autrice di presentare la lotta femminile per affermare una piena autonomia, la presa di coscienza del proprio essere e la spinta di emancipazione dai canoni tradizionali che caratterizzarono le prime due decadi del Novecento. Sono proprio questi elementi che accomunano tutti i racconti e ci portano alla scoperta di quella carrellata di personaggi che la Guglielminetti presenta.

Cattedrale vi propone la prefazione al libro, recentemente ripubblicato da Rina Edizionei.

Arabeschi del disinganno
Il dolce veleno della cattiva Signorina

di Silvio Raffo

Il genere della novella al femminile nel panorama letterario del primo Novecento italiano, tranne per qualche caso isolato come la gotica Carolina Invernizio o la cupa e sempre spinosa Deledda, reca l’impronta del raffinato modello, non sempre raggiungibile, di Katherine Mansfield: una struttura all’apparenza esile, uno stile accurato teso a un sottile o a volte approssimativo cesello psicologico, e quanto ai contenuti figure di giovinette in filigrana, spesso costrette a fronteggiare ostacoli e situazioni difficili (le cosiddette damsels in distress) o eroine perseguitate da una sorte avversa – tradimenti, violenze di vario genere – o votate a qualche nobile causa. Leggere le limpide prose più o meno autobiografiche di Ada Negri o le mirabolanti avventure sentimentali di Carola Prosperi dona al lettore (o per meglio dire, alla lettrice) un’intensa emozione e quasi sempre un finale conforto allo sciogliersi del nodo drammatico. Neera, la Contessa Lara e Annie Vivanti, con i loro intrecci appassionanti e le loro vicende di amori più o meno proibiti, preparano la strada al mélo a volte decorosamente contenuto a volte corrivo e pedissequo delle Mura, delle Peverelli, della più compassata e lungimirante Liala, tutte voci che costruiranno le solide impalcature, oltre che della novella, del romanzo femminile.

Il caso di Amalia Guglielminetti è decisamente unico. Proprio come lei che ama definirsi, a pieno diritto, «quella che va sola».

Ci troviamo di fronte a una donna che non scrive «dalla parte delle donne», che non è minimamente corrosa dal tarlo della sensiblerie romantique, che è, e resta, fedele a un solo credo, quello di un’intelligenza radicale, lucida, livida e perfino spietata; nello stile, alla sprezzatura di ascendenza classica filtrata dal più decadente estetismo ma in direzione antidannunziana, proprio come il suo doppio maschile Guido Gozzano. La demitizzazione di tutte le formule e gli stereotipi in voga negli anni Venti e Trenta è il primo elemento che balza all’occhio del lettore: nessuna concessione ai «buoni sentimenti» e alla morale conformista, ma neanche all’anticonformismo di maniera, quello da suffragette o pasionarie. Il suo referente più immediato sembra quello della pirotecnica american bad girl Dorothy Parker, ospitata tra l’altro nelle pagine della rivista che Amalia dirige con esemplare perizia, «Le seduzioni»: ad accomunarle è il gusto del ritratto minuzioso, di un’icastica vividezza, della battuta sarcastica e graffiante, ma soprattutto quell’amarezza di fondo che contamina i loro personaggi, condannati irrimediabilmente alla solitudine e al disinganno, che lo ordiscano ai danni altrui o ne siano vittime.

Il disinganno è ovviamente fratello del disincanto. All’illusione non può che seguire una delusione, ma ciò in cui Amalia supera Dorothy è l’escamotage dell’elusione, un’arma di difesa che diviene una costante per così dire catartica, forse l’unico antidoto efficace alla persistente minaccia della catastrofe e della débacle.

Le vicende di questa raccolta, tratteggiate con briosa eleganza e precisione quasi anatomica di dettaglio, rivelano la più inguaribile refrattarietà al «lieto fine» di stampo tradizionale. L’amore è sempre una chimera o un inganno, nel caso in cui si realizzi, vi si irride subito perfidamente stroncando qualsiasi speranza della lettrice benpensante (cfr. in Le distrazioni di Mimì: «E la felicità del nostro amore?» / «Non crederci. È una bella menzogna che ti farà orrore entro un mese»); i personaggi non sono mai del tutto positivi o negativi: che si tratti di bellimbusti azzimati della ricca e ipocrita borghesia, di aristocratici albagiosi e inconsistenti, di vergini candide ansiose di emozionanti esperienze piuttosto che zitelle petulanti e intellettuali, sono tutte maschere della stessa tremenda impotenza: non solo quella pirandelliana di un’identità negata (il non poter essere se stessi), ma ancor più crudelmente quella di «non-essere» tout court: vittime degli equivoci della volontà (voluttà), marionette azionate dal burattinaio delle convenzioni (o convinzioni presunte), caricature di «cosi con due gambe» e nessuna chiaroveggenza che si ritrovano di continuo a ingannare se stessi e gli altri in una sarabanda senza senso se non quello dell’etichetta che va comunque sempre rispettata: prigionieri di un meccanismo che di fatto non funziona, ma the show must go on, anche se non si sa perché (per pura inerzia, probabilmente).

Nessuno è felice in questi arabeschi del disinganno. Nessuno potrà mai essere felice, ma nemmeno una vera e profonda infelicità visita gli attori di quest’assurda pantomima. Non c’è vera soufferance, ma solo la rappresentazione dell’effimero dell’umana commedia, o per meglio dire farsa. L’amore, la passione, sono simulacri dell’inconsistenza: nei casi in cui sembrano giungere a un traguardo, si dissolvono in brevissimo tempo e l’amore può mutarsi in odio (cfr. La moglie timida); quando ci si crede lo smacco e la beffa sopraffanno l’ingenuo apprendista (cfr. La preda), quando lo rifiuti ti si ripresenta ma non t’interessa più (cfr. Le distrazioni di Mimì); anche l’amicizia più fedele soggiace alle stesse oscillazioni e tradimenti (cfr. Il custode della virtù).

Se volessimo condensare il succo essenziale di questi racconti (un gioco che ad Amalia piacerebbe) in brani musicali degli anni immediatamente successivi alla loro composizione, potremmo scegliere «Veleno» («Veleno… se mi baci ti do il mio veleno»), «Fumo negli occhi» («…fumo e nulla più…») e soprattutto «La vita è un paradiso di bugie» («quelle tue, quelle mie…»).

Occorre precisare che il trionfo del cinismo e del nichilismo non è mai celebrato in toni altisonanti e seriosi né paludato in lugubri gramaglie, poiché Amalia predilige in ogni caso l’aerea vacuità del volo delle piume, una leggerezza che ha qualcosa di vertiginoso: l’acre veleno delle clausole è somministrato con ieratica grazia e fulminea, sorridente perfidia («E le tese la mano al gesto di commiato», in Tipi bizzarri; «…ondeggiante, profumatissima, entrò», in La preda; «E sparve», in La moglie timida; «Diresse in faccia a sua moglie… il metallico scintillio del suo sguardo sarcastico», in La coppia invidiabile).

Il linguaggio della Guglielminetti rivela la non lunga ma sapiente e doviziosa pratica della poesia, che fu la consolazione più grande di questa geniale e incorreggibile outsider assediata di continuo dalla consapevolezza dell’«infinita vanità del tutto». Il lessico della sua prosa è, come quello delle poesie, di un’accuratezza addirittura spasmodica (senza mai cadere nel lenocinio retorico sempre in agguato nella scrittura delle sue colleghe); la scelta di lemmi rari ed esotici ottiene il (voluto) effetto di kitsch grottesco e quasi disorientante (i paraventi sono decorati di «musmè», la protagonista de Il sacro anello indù ha i capelli tagliati «alla Titus» e indossa un «trotteur grigio», la compagna della capricciosa Mimì è una scimmia «uistinì» e così via); l’aggettivazione sempre sofisticata si compiace di accostamenti preziosi anche sul piano fonetico («deserte e deterse»).

Non sappiamo se Amalia abbia letto lo scintillante e camaleontico Ronald Firbank, i cui racconti – e il cui stile – possono ricordare spesso i suoi (Vanagloria, Fiori calpestati, Capriccio, Derelitto splendore); di certo, la nostra «cattiva Signorina» assomiglia molto al suo quasi contemporaneo dandy inglese, creatore di figure altrettanto vanesie e stravaganti. Un altro autore che richiama qua e là anche citandolo, (è quasi superfluo dirlo) resta il suo meraviglioso e più fragile compagno di viaggio, l’«ingannatore-monello giocondo» Guido Gozzano. È soprattutto grazie a lui, forse, che Amalia si mantiene e si consacra «quella che va sola»: nella letteratura del suo tempo così come nella vita.

 

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